Il Fontanone Visconteo – il più grande serbatoio di Città Alta da oltre 700 anni – e la nascita dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti

“Da ragazzino, insieme ai compagni ci infilavamo dentro, facevamo gli speleologi perlustrando le vasche. E’ immensa, passa sotto la basilica di Santa Maria Maggiore, a berla sapeva di pane” (Domenico Lucchetti in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, 28/04/2002)

Il Fontanone, stupendo manufatto a conci bicromi, bianchi e neri, sorge nel 1342 nella vicinia di Antescolis, nel cuore della Città Alta di Bergamo, tra l’abside della basilica di Santa Maria Maggiore e l’antica Cattedrale di San Vincenzo (Duomo dal IX secolo). E’ sormontato dalla mole della ex sede dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, eretto nel 1768

Nei sotterranei dell’ex Ateneo, in piazza Reginaldo Giuliani, si cela un grandioso serbatoio d’acqua, scavato nella viva roccia. E’ quello che chiamiamo “il Fontanone”, realizzato (o forse ripristinato) nel 1342 da Luchino Visconti – che governava Bergamo anche a nome del fratello arcivescovo Giovanni – nel centro politico, religioso e commerciale della città, oggetto in quegli anni di un grande fervore costruttivo.

La piazza, anticamente occupata dal Foro romano e divenuta nel medioevo “platea magna Sancti Vincentii”, ebbe fin dagli albori del Comune soprattutto vocazione commerciale.

La piazzetta antistante il Fontanone nell’incisione di Giuseppe Berlendis (1830). Sovrasta il Fontanone la sede dell’Ateneo. A lato è visibile la Basilica mentre a sinistra fa capolino la lanterna della Chiesa della Carità, indagata da Tosca Rossi in “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”

Il Fontanone si inserì nel centro monumentale urbano, a sottolineare la presenza dei nuovi signori. Vi si trovava una fontana citata come fontana “berlina”, forse perché nei suoi pressi si trovava la berlina, luogo di pena che esponeva al pubblico disprezzo i colpevoli di reati che erano di danno alla cittadinanza. C’era inoltre una struttura porticata, citata in alcuni documenti come “porticus pelipariorum” (portico dei pellicciai), e la cisterna inglobò ovviamente sia la fontana che il “porticus” preesistenti (1) e venne protetta da un riparo (2).

Donato Calvi nelle Effemeridi (Vol. I, pag. 324) dà la notizia di essere il volume d’acqua contenuto di tremila seicento cinquanta carri d’acqua, pari a 43.800 brente bergamasche (1200 mc.)

Capace di circa ventiduemila ettolitri d’acqua (secondo le testimonianze di allora tremilaseicentocinquanta carra, pari a 43.800 brente bergamasche), la cisterna era alimentata dall’antica conduttura dei Vasi proveniente da Castagneta, acquedotto di origine romana che, dopo secoli di abbandono e i danni causati dalle invasioni barbariche, i Visconti avevano provveduto a ripristinare per poter intervenire al meglio sull’impianto urbanistico, con la definizione di alcune piazze del centro storico: Mercato del Fieno, delle Scarpe, delle Biade, della Carne, del Pesce, differenziate per mercanzia allo scopo di agevolare la tassazione.

L’antico acquedotto dei Vasi proveniente da Castagneta, sui colli a nord della città, venne ripristinato in età viscontea rimediando ai danni delle invasioni barbariche, come recita la lapide presente in località Gallina, inserita in un bel tratto di muro medioevale. Il testo ricorda che nel 1339, sotto il podestà Beccaro Beccaris, l’acquedotto fu interamente ripulito (“Sguratum”) fino al Saliente (partitore finale o Castellum acquae), situato nei pressi dell’antica porta medioevale di S. Alessandro, distrutto con l’edificazione delle Mura veneziane

Nelle intenzioni della Signoria Viscontea, che dominò Bergamo dal 1331 e al 1428, la cisterna doveva, per misura di capacità, superare di gran lunga le camere di serbatoio delle altre fonti della città, che era già provvista di tre pozzi pubblici (3) e di 17 fontane vicinali.

La realizzazione della nuova cisterna (Fontanone) non aveva fatto eliminare la fontana di Antescolis unita alla basilica

E ciò non tanto, come asserivano i Visconti, per assicurare il rifornimento idrico ai poveri bergamaschi, quanto piuttosto per garantirlo ai militi viscontei, in quei difficili anni gravati da guerre, carestie e pestilenze, nell’eventualità di un lungo assedio da parte dei nemici.

Il fonte doveva perciò servire solo per attingere acqua: non vi dovevano essere né vasche per lavare, né abbeveratoi per i cavalli. come esistevano presso le fontane del Vagine, del Lantro, della Boccola, del Corno alla Fara, per le quali gli statuti della città, riassunti nel volume del 1727 (coll. VIII, cap. 75-78), imponevano ai guardiani misure di pulizia e di ordine: “custodes teneantur mundare et sgurare lavanderia et lavellos in quibus bibunt equi”.

Cisterna del Fontanone Visconteo. Recenti studi assicurano che prima di versarsi nella cisterna, l’acqua confluiva in una piccola vasca di decantazione posta sul lato occidentale verso la basilica; dalla parte opposta c’era la zona di aspirazione con il pescaggio nella parte inferiore (ora interrato e nascosto)

L’ACQUEDOTTO MAGISTRAE E IL PARTITORE DEL VESCOVADO

Con la costruzione delle Mura veneziane e la conseguente distruzione dell’antico serbatoio del Saliente in Colle Aperto, da cui si diramavano i canali per servire le diverse fontane, il Fontanone venne alimentato dall’Acquedotto Magistrale, il cui condotto prendeva origine dal punto di unione dell’Acquedotto dei Vasi con l’Acquedotto di Sudorno, all’interno del baluardo di S. Alessandro.

Snodandosi all’interno di Città Alta, tramite partitori delle acque e canalizzazioni minori, tale condotto distribuiva acqua alle fontane, cisterne ed utenze private che avevano la concessione per l’estrazione.

Le acque giungevano al Fontanone tramite il “Partitore del Vescovado”, il più importante fra i tre partitori delle acque costruiti lungo l’acquedotto, posizionato al di sotto del giardino della della Curia Vescovile. Da qui si dipartivano le canalizzazioni per alcune utenze interne alla Curia stessa, per la fontana di San Michele dell’Arco, la fontana di Antescolis o di Santa Maria Maggiore, il palazzo della Mia in via Arena, il Fontanone e il partitore successivo di piazza Mercato del Pesce.

Partitore del Vescovado. Provenendo da dietro la Cittadella, l’acquedotto magistrale raggiungeva il Vescovado, da dove un partitore distribuiva l’acqua in più parti della città E’ indicato il canale maggiore e le diramazioni per la fontana di S. Maria Maggiore (Antescolis) per il Fontanone e per la fontana di S. Michele (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole)

GLI ANTICHI CONDOTTI

Fondamentali tra le diramazioni del partitore del Vescovado due canali che passavano in senso longitudinale sotto la basilica di Santa Maria Maggiore. Uno di essi, in parte ancora esistente, attraversava un ambiente ipogeo di forma circolare e con soffitto a volta in cotto, ubicato sotto la sacrestia nuova. Il condotto proseguiva andando quindi ad alimentare la grande cisterna del Fontanone.

A riprova dell’esistenza di un preesistente sistema di canalizzazione, all’interno del suddetto ambiente ipogeo il Gruppo Speleologico Bergamasco Le Nottole ha individuato una struttura muraria più antica fornita di un tubo circolare in bronzo che doveva assicurare l’approvvigionamento idrico al sito. Ciò non deve stupire in quanto strutture come gli acquedotti dovevano seguire determinati percorsi, rispettando quote e livelli.

E’ da ritenere quindi che tra il condotto che assicurava l’acqua alla città romana e medievale, e poi a quella del ‘600, non vi fossero molte differenze, dovendo giocoforza attestarsi su alcune emergenze fondamentali come il colle di S. Giovanni e quello di S. Salvatore.

Vano ipogeo a pianta circolare con soffitto a volta in cotto esistente sotto la sagrestia di Santa Maria Maggiore. Era attraversato dall’acquedotto che, provenendo dal partitore del Vescovado, correva longitudinalmente sotto il pavimento della Basilica per poi alimentare la cisterna del Fontanone Visconteo (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole)

 

L’Acquedotto Magistrale rimase in funzione sino al 1892, quando venne costruito un nuovo impianto che rispondesse alle nuove esigenze, con la costruzione di nuovi lavatoi quello in via della Boccola, in Borgo canale e il lavatoio in via Mario Lupo, in fotografia

LA SIGLA AQ

La presenza dell’antico Acquedotto è segnalata dalla sigla AQ, incisa su un muro a lato del Fontanone, accanto allo scalone posto fra l’Ateneo e Santa Maria Maggiore e vicino a una porticina di legno, antico uschiolo di ispezione.

L’iscrizione AQ incisa su un muro a lato del Fontanone, accanto a una porticina in legno cui accedevano i fontanari per ispezionare la cisterna viscontea

 

La sigla AQ presso il Fontanone

Un tempo questa sigla, insieme alle lettere “A” o “AQM” si notava un po’ ovunque in Città Alta e sui colli, incisa sui muri di alcune case o su appositi cippi di arenaria. Era così che, nel ‘700, gli addetti alla manutenzione e alla pulizia della rete idrica (i cosiddetti “fontanari”) indicavano i punti in cui passavano i tracciati dell’acquedotto, altrimenti impossibili da individuare.

E dal momento che la rete idrica sotterranea si diramava per oltre sei chilometri, si presume che in passato tali sigle fossero numerose. Ancor oggi sopravvivono alcune tracce, ad esempio su un cippo di via Sudorno, su pietre del muro di sostegno in via San Vigilio o lungo il percorso dei Vasi (vie Castagneta, Ramera, Beltrami.

IL CARTIGLIO TRECENTESCO E LE BOCCHE DELL’ANTICA FONTANA

Al di sotto del doppio scalone un arco inquadra le bocche dell’antica fontana e un grande cartiglio trecentesco in marmo grigio, inciso in latino e in caratteri gotici.

L’epigrafe riporta il 1342 come data di edificazione del Fontanone ed oltre a ricordare i fratelli Giovanni e Luchino Visconti, riporta i nomi del podestà cittadino, Gabrio Pozzobonelli, e del tesoriere, Bondirolo de’ Zerbi, milanesi, nonché nomi dei costruttori, Giovanni da Corteregia e Giacomo da Correggio, forse scultori comacini che, all’epoca della costruzione, avevano da poco ultimato, sotto la direzione di Ugo e Giovanni da Campione, la ricca decorazione ornamentale del Battistero, ora affacciato sulla Piazza del Duomo di fronte alla Cattedrale.

Il pregevole cartiglio trecentesco

Il dominio di Luchino e Giovanni Visconti è visualizzato non solo nei nomi ma da tre interessanti riquadri araldici scolpiti nella parte superiore, con a sinistra lo stemma della città con sei strisce, vermiglie e gialle, disposte “a palo”; al centro la targa con l’aquila (pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero) allusiva a Giovanni Arcivescovo di Milano e, alla destra, come emblema del fratello minore Luchino, la raffigurazione in parte consunta di un aquilotto che artiglia un animale (lupo o cinghiale).

Gian Galeazzo Visconti, già vicario imperiale e signore della capitale lombarda, aveva ottenuto il titolo di Duca di Milano l’11 maggio 1395 mediante diploma imperiale da Venceslao di Lussemburgo. Con un secondo documento datato 13 ottobre 1396 i poteri ducali furono estesi a tutti i domini viscontei e nei centri più significativi del ducato. Gian Galeazzo ottenne la patente per inquartare il biscione visconteo con l’Aquila imperiale – pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero – nella nuova bandiera ducale. Il nome dei Visconti deriva infatti dal latino vice comitis, che significa “vice conti”, vice – colui che fa le veci e conti – comites (con-te) indicava colui che stava con qualcuno, cioè con l’imperatore: per i Visconti con l’imperatore del Sacro Romano Impero. La famiglia dei Visconti era quindi colei che in Italia rappresentava l’Impero, tanto da agognare allo status di primi Principi italiani, che a fatica Gian Galeazzo ottenne nel 1402

Nella parte inferiore, i due mascheroni a rilievo e a testa di moro posti a lato della bocchetta sono modellati con gusto secentesco, rivelando l’aggiunta di elementi in epoca molto più tarda.

In alternativa alla bocche dell’antica fontana c’era una bocchetta, ancora visibile sul lato breve che volge verso via Mario Lupo, che tramite una pompa prelevava l’acqua dal serbatoio, presente sino a pochi decenni or sono

Il Fontanone intorno al 1915 e la bocchetta ancora presente sul lato breve che volge verso via Mario Lupo (Raccolta D. Lucchetti)

 

1948: un bambino aziona la pompa per prelevare l’acqua del Fontanone

 

Una delle due finestrelle aperte ai lati più corti della struttura, attraverso la quale è possibile osservare la cisterna. La pompa e la bocchetta verso via Mario Lupo sono ancora presenti

IL PORTICO E LA NASCITA DEL MUSEO LAPIDARIO

La costruzione del Fontanone permise la realizzazione di un sovrastante piazza rettangolare sulla quale fu successivamente costruito un piccolo edificio, che compare nella cosiddetta veduta di Bergamo a volo d’uccello di Alvise Cima, dove è indicato come una minuscola struttura. Il prospetto sud, murato, è provvisto di tre piccole porte; molto probabilmente il fronte nord, non visibile nella rappresentazione, era aperto e scandito da colonne.  Poteva trattarsi o di un deposito di armi in disuso (4).

La freccia indica, di fronte alla chiesa di S. Vincenzo (attuale Duomo) il Fontanone visconteo privo del sopralzo neoclassico del 1768, con il prospetto sud murato e provvisto di tre piccole aperture; si presume che il fronte nord, non visibile nella rappresentazione, fosse aperto e scandito da colonne (4) (Anonimo, Bergamo a volo d’uccello, eseguita verso la fine del XVI secolo e con modifiche apportate entro il 1662, Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo. Foto Dimitri Salvi. Dettaglio)

Nel 1743 il portico esistente sopra il Fontanone fu trasformato in un ambiente destinato ad ospitare la sede del nascente museo lapidario, voluto dalla municipalità per ospitare le lapidi antiche provenienti da materiale di scavo, disperse a Bergamo e nel territorio. Il progetto fu affidato all’architetto veronese Alessandro Pompei. I lavori iniziarono nel 1759 e terminarono nel 1768 con la posa della monumentale scalinata d’ingresso a rampe contrapposte. Non siamo a conoscenza del disegno originario, ma è possibile immaginare una struttura essenziale, presumibilmente un loggiato aperto, dove internamente erano collocate le antiche lapidi.

La divisione in moduli proporzionale al piede veronese del l’edificazione – circa 35 cm – è stata recentemente confermata. Questo ha condizionato negli aspetti metrici tutta la sua successiva funzionalità e modifiche stilistiche (la sequenza lesene-arcate ricalca quella rapporto 1:3 e la larghezza di ciascun pilastro è pari a due piedi).

DALLA LA NASCITA DELL’ATENEO AI GIORNI NOSTRI

Nel 1818 l’Imperial Regia Delegazione Provinciale dispose di dare come sede definitiva dell’ “Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti” il pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone, che venne quindi adattato, ovvero modificato, per divenire un ambiente chiuso.

Ed è appunto in seguito al 1818, che viene eretto, su progetto dell’architetto Raffaello Dalpino, l’attuale costruzione di gusto neoclassico.

L’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, istituito con decreto napoleonico il 25 dicembre 1810, è sorto dall’unificazione di due antichissime accademie: degli Eccitati e degli Arvali. L’Accademia degli Eccitati, fondata nel 1642 da un gruppo di eruditi, tra cui Bonifacio Agliardi, Clemente Rivola e Donato Calvi, ebbe attività prevalentemente letteraria; rinnovata nel 1749 ad opera soprattutto di Pierantonio Serassi e di Mario Lupo. Ebbe tra i suoi soci anche Lorenzo Mascheroni (un “Eccitato”) e Giovanni Maironi da Ponte (un “Arvale”). L’Accademia degli Arvali sorse nel 1769, dietro invito della Repubblica di Venezia, con lo scopo di introdurre sistemi innovativi nell’agricoltura e nell’economia in genere. Gli Arvali erano sacerdoti appartenenti a famiglie patrizie dell’antica Roma dediti al culto di Cerere, dea delle messi. Ecco perché questa accademia si occupava in particolar modo di agricoltura. Dapprima l’istituzione si intitolò Accademia d’Agricoltura o degli Arvali; quindi, a partire dal 1787 fu denominata Accademia Economico-Arvale; ad essa sono legati i nomi della nobiltà terriera bergamasca: Benaglia, Rivola, Tomini-Foresti, Mozzi, Brembati, Secco Suardo, Calepino. Con il decreto napoleonico del 25 dicembre 1810, che tendeva a riformare ed unificare gli istituti culturali, le due istituzioni furono fuse in un solo organismo con il nome di Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Bergamo. L’Ateneo trovò sede provvisoria nell’ex refettorio e in alcune stanze contigue del monastero di Rosate (nel luogo dell’attuale Liceo Classico Sarpi), trovando sede definitiva (1818) nel pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone, per risarcire il debito che la città aveva aperto nei confronti dell’istituzione accademica quando, nel 1796, chiese in prestito 4000 scudi per far fronte alle spese che la Municipalità doveva sostenere per l’alloggiamento delle truppe francesi (Maria Mencaroni Zoppetti).

Scartato il progetto di adattamento e di messa in sicurezza di Carlo Capitanio, architetto responsabile dell’ufficio tecnico della città, furono incaricati gli architetti Gian Francesco Lucchini e Giacomo Bianconi (membri di l’Ateneo che nel frattempo finanziava l’edificio) il cui progetto – oggi perduto – prevedeva la chiusura dei portici con finestre e la realizzazione di due grandi ambienti nelle due campate laterali opposte. Il primo per creare un ampio vestibolo con ingresso secondario e il secondo ad uso ufficio e biblioteca.

La distribuzione spaziale fu mantenuta dall’architetto Raffaello Dalpino (anch’egli socio), al quale dobbiamo un nuovo progetto che è stato realizzato e completato nel 1859.

Il progetto dell’architetto Raffaele Dalpino, 1854

Il progetto di Dalpino è un progetto colto e raffinato, con un sapiente uso degli ordini architettonici e un rigoroso rispetto dei moduli adeguati, nelle proporzioni, al sito e al contesto dato dagli edifici preesistenti (5).
Uno spazio apparentemente semplice e simmetrico che in realtà ha diversificato fortemente le due parti attraverso una diversa caratterizzazione degli arredi, delle funzioni e della disposizione delle lapidi (presenti solo nella parte sinistra). Una perfetta combinazione tra la funzione museale e il ruolo istituzionale della sede dell’Ateneo.

Questa configurazione rimase immutata per circa ottant’anni e cioè fino al 1933 quando l’edificio fu ceduto al locale gruppo fascista Garibaldi; furono poi rimosse le collezioni e sostituiti gli arredi.

L’Ateneo con le aperture ancora tamponate (foto non datata)

L’intensa attività culturale dell’Istituzione aveva cominciato ad essere compromessa quando tra il luglio del 1899 e il gennaio del 1900 la biblioteca e i manoscritti erano stati collocati in deposito presso la Biblioteca Civica A. Mai.

Nel 1905 la Società di Cultura di Bergamo si offrì per accogliere ciò che restava della biblioteca degli scambi con le altre Accademie . Nel 1917 la sede fu concessa al Comune per il Museo del Risorgimento (opere d’arte e libri dell’Ateneo vennero quindi trasferiti nella biblioteca Mai). Quando questo fu poi installato in Rocca, i soci dell’Ateneo non poterono rientrarvi, perché al posto dell’istituzione culturale si insediò un’organizzazione fascista.

La rinascita avvenne dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1952, quando l’Ateneo ottenne una nuova sede, in via Torquato Tasso, dove si trova oggi.

Nel quadro di Luigi Brignoli, datato 1934, la mole Ateneo volutamente non compare: la sala sopra il Fontanone è ritenuta ormai inutile, anche perché nel 1933 è stata modificata. In quell’anno l’Ateneo è stato scelto come locazione della sezione del Partito fascista di Città Alta (proprietà Ateneo di Scienze Lettere e Arti)

 

Luigi Brignoli, L’Ateneo e S. Maria Maggiore, 1934 (proprietà Ateneo di Scienze Lettere e Arti)

Dopo molti anni di inattività, il monumento fu restaurato alla fine del secolo scorso per essere adibito a spazio espositivo per mostre temporanee ed eventi pubblici.

Il progetto di restauro dell’architetto Bruno Cassinelli, 1997

 

Sala interna dell’Ex Ateneo oggi

Va detto che quando ancora era accademia, l’Ateneo, a tutt’oggi molto attivo, per lungo tempo ha rappresentato l’unica istituzione interamente dedicata alla cultura. Basti pensare che la Biblioteca Civica arrivò solo più tardi. La sua istituzione non costituì soltanto un cambiamento di tipo amministrativo, dalla fusione nacque un organismo moderno, adeguato ai tempi nuovi che si preparavano.

A duecento anni dall’intitolazione l’Ateneo continua a parlare di storia, con l’intento di far conoscere ai bergamaschi l’origine della società in cui viviamo, affinché ognuno possa orientarsi in questo mondo e capire quale direzione prendere in futuro.

Note

(1) Andreina Franco-Loiri Locatelli per Bergamosera, rivista on line non più esistente.

(2) G. Petrò fa invece riferimento a un “porticus longa” documentato dagli statuti del 1331. Si tratta di una struttura porticata che funge da parapetto al forte dislivello che si crea tra la strada e la platea magna Sancti Vincentii  (Gianmario Petrò, “Dalla Piazza di San Vincenzo alla Piazza Nuova”. I luoghi delle istituzioni tra l’età comunale e l’inizio della dominazione veneziana attraverso le carte dell’archivio notarile di Bergamo”. Bergamo, Sestante, 2008).

(3) Ronchetti, “Memorie storiche”, 1838 (Vol. V, pag. 83).

(4)The International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, Volume XLVIII-M-2-2023 29th CIPA Symposium “Documenting, Understanding, Preserving Cultural Heritage: Humanities and Digital Technologies for Shaping the Future”, 25–30 June 2023, Florence, Italy. THE PALAZZO DELL’ATENEO IN THE UPPER CITY OF BERGAMO (CITTÀ ALTA): NEW DOCUMENTATION AND CONSERVATION STUDIES. Alessio Cardaci , Antonella Versaci, Pietro Azzola.

(5) G. Colmuto Zanella, 2001  L’elegante e ben inteso Edifizio sopra il fontanone visconteo, in “L’Ateneo dall’età napoleonica all’unità d’Italia”, Edizioni dell’Ateneo, Bergamo, 249-276.

Riferimenti
Renato Ravanelli, “Palazzo dell’Ateneo”, Bergamo: una città e il suo fascino, Grafica e arte, Bergamo, 1977, pagg. da 174 a 175.

Luigi Angelini, “La costruzione trecentesca del Fontanone”, La Rivista di Bergamo già “Gazzetta di Bergamo”, Anno VII, n. 11, Edizioni della Rotonda, Bergamo, Novembre 1956, pagg. da 3 a 4.

“L’elegante e ben inteso edifizio…sopra il Fontanone Visconteo” – Andrea Pasta alla presentazione del nuovo Museo Lapidario, 1775.

The International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, Volume XLVIII-M-2-2023 29th CIPA Symposium “Documenting, Understanding, Preserving Cultural Heritage: Humanities and Digital Technologies for Shaping the Future”, 25–30 June 2023, Florence, Italy. THE PALAZZO DELL’ATENEO IN THE UPPER CITY OF BERGAMO (CITTÀ ALTA): NEW DOCUMENTATION AND CONSERVATION STUDIES. Alessio Cardaci , Antonella Versaci, Pietro Azzola.

L’Eco di Bergamo, 17 giugno 2010. Intervista a Maria Mencaroni Zoppetti. “La passione per la città nasce dalla necessità di capirla”.

La Fontana del Lantro (Latèr), un gioiello sotterraneo ancora “vivo”

La fontana del Lantro è situata in un vano ipogeo esistente sotto la chiesa di S. Lorenzo, all’inizio di via Boccola. È una grandiosa costruzione in pietra squadrata a vista, caratterizzata da ampie volte con archi a tutto sesto in pietra e a sesto
acuto poggianti su una colonna di forma quadrata posta al centro della grande cisterna, rinforzati lungo le linee di crociera da costoloni in pietra. E’ la terza delle fontane di via Boccola

Fra le sorgenti di Città Alta utilizzate sin dai tempi più antichi vi fu sicuramente quella del Lantro, che insieme a quelle della Boccola, del Vagine e del Corno costituì almeno sin dall’epoca romana la base su cui impostare l’intera rete idrica della nostra città; una rete fatta di tubature in mattone (realizzato con laterizio reperibile ai piedi del colle, ad esempio la piana di Petosino), piombo (reperibile in Valle Brembana) e calcare (chiamato impropriamente “marmo”) di Zandobbio.

Quando l’apporto delle sorgenti che sgorgavano in loco si rivelò insufficiente per soddisfare il fabbisogno idrico della popolazione, si passò alla ricerca di alternative a nord del sistema collinare, dove vennero realizzati rispettivamente gli acquedotti dei Vasi e di Sudorno, che restarono in uso fino alla prima metà dell’Ottocento, quando, con l’aumento delle necessità si andarono a sfruttare sorgenti fuori dal Comune.

Non meno antica della Fontana del Vagine, nascosta in un vano ipogeo esistente sotto la chiesa di S. Lorenzo, la Fontana del Lantro, o Latèr, si trova nel versante settentrionale del complesso fortificato di Bergamo Alta, ove sono presenti anche altre acque: le sorgenti della Boccola, del Vagine (entrambe lungo la via Boccola), del Corno (sul lato del Colle di S. Eufemia rivolto a settentrione, ora inglobata in una casa privata in via Alla Fara), delle Noche (in Colle Aperto) e gli acquedotti di Castagneta, nonché di Prato Baglioni

L’ORIGINE DEL NOME

Il documento più antico riguardante la Fontana del Lantro, o Latèr, è una pergamena dell’anno 928, scritta dal vescovo Adalberto (1), che recita “Ex parte civitatis a Laticis Antro, quod vulgo dicitur Lantrum”, da cui si deduce che Il termine con cui la sorgente veniva indicata anticamente era quello di Laticis Antro ossia Antro del Liquido quindi Antro dell’Acqua, lasciando intendere che l’acqua sgorgasse da un piccolo anfratto del terreno scorrendo liberamente lungo il pendio. Tuttavia la forma usata per indicare l’acqua con il termine Laticis induce anche ad avanzare l’ipotesi che tale dicitura potesse in qualche modo essere in relazione al colore bianco (spumeggiante) dell’acqua, dovuto alla pressione all’uscita della cavità: ancor oggi alcune grotte della montagna bergamasca sono chiamate Fiöm lat (Fiume-latte), come quella da cui ha origine il torrente Enna in Val Taleggio. Tale ipotesi sarebbe rafforzata dal fatto che al termine Lantro, già usato anticamente, si aggiunge la forma Latèr che richiama ancora una volta l’immagine del latte.

COME SI PRESENTA

L’ampio vano ipogeo è costituito da due vasche in pietra squadrata a vista: la grande vasca principale, capace di circa 400 metri cubi e con al centro una robusta colonna a sostegno delle volte, e una vasca minore, tangente la prima ma situata in posizione sopraelevata.

La grandiosa struttura, in pietra squadrata a vista è composta da una vasca principale alta 8 metri, lunga 10 metri e larga 8 metri, mentre la vasca minore, a forma di L, è profonda circa un metro e mezzo e larga due metri, occupando tutta la parete sinistra del complesso e parte di quella frontale. Una robusta colonna posta al centro della vasca principale, sostiene ampie volte con archi a tutto sesto e a sesto acuto, rinforzati lungo le linee di crociera da costoloni in pietra

LA FONTANA DELLE ORIGINI

Come doveva essere la fontana delle origini? Certamente l’aspetto del luogo era assai diverso: utilizzata in origine per lo scorrimento delle acque in un canaletto in blocchi di arenaria a cielo aperto, le sue acque scorrevano liberamente lungo la valletta disperdendosi verso Valverde.

Come attestato in un documento del XVII secolo, la sorgente che l’alimentava doveva sgorgare più in alto, nei pressi dell’antica porta-torre medievale di San Lorenzo, ancora rintracciabile a metà dell’omonima via: l’esistenza di una condotta che saliva verso l’alto fu accertata anni or sono dalle “Nottole”, ma ormai non è più esplorabile.

A metà di via San Lorenzo è ancora visibile l’attacco della porta medioevale (abbattuta nel 1829), all’altezza della quale sgorgava la sorgente che alimentava la Fontana del Lantro

 

La porta medievale di San Lorenzo in un disegno di Pietro Ronzoni

LA FONTANA NEL MEDIOEVO

Nel XIII secolo la Fontana entra a far parte della giurisdizione della vicinia di S. Lorenzo, già costituita nel 1263, nel periodo in cui vengono costruite le numerose fontane medioevali di Bergamo: lo statuto del 1248 descrive infatti la fontana come dotata di cisterna, cunicoli, abbeveratoi e lavelli, “assumendo quella caratteristica struttura che si è conservata fino ai giorni
nostri” (2) .

È scritto infatti nello Statuto:
“.. ad abili ed esperti magistrati fu fatto fare in modo che non potesse formarsi
putrefazione e che la stessa potesse versarsi nelle acque o nella cava, o piuttosto, nelle acque del cunicolo dei Lantro; e qui fu fatta apprestare e restaurare una lavanderia ed un abbeveratoio con lavelli di pietra tutto intorno, come erano soliti essere…” (2).

La piccola cavità naturale con la sorgente del Lantro, dietro la chiesa di San Lorenzo. Il cunicolo sfocia al centro del complesso alimentando la vasca minore sopraelevata, realizzata nel XVII secolo (Fotografia M. Glanzer – Archivio G.S.B. le Nottole)

 

Il condotto centrale della sorgente del Lantro è costituito da un cunicolo lungo circa m 40, alto cm 90 e largo cm 60‐70, la cui estremità esce all’esterno della costruzione terminando su alcuni gradini costruiti verso la fine del 1700. L’esplorazione del cunicolo ha consentito di individuare, nei pressi della fessura da cui sgorga la sorgente, una piccola vasca di decantazione dalla quale, attraverso tubi conici in cotto, l’acqua passava in una seconda e più ampia vasca di decantazione. Tra i due manufatti venne creato un sistema di canali deviatori utilizzati per la pulizia delle vasche ad opera dei fontanari. Dalla seconda vasca di decantazione l’acqua tracimava e scorreva nel canale ricoperto da grandi lastre di arenaria sino ad alimentare la vasca superiore (nell’immagine, Pianta e Sezione dei cunicoli di captazione dell’acqua delle sorgenti che alimentano le due cisterne)

In quei tempi l’acqua sgorgava abbondante e soddisfaceva il fabbisogno idrico dell’intera Vicinia di San Lorenzo. L’acqua della cisterna doveva essere attinta rigorosamente con secchi assicurati alla struttura per preservarne la purezza, sotto pena di gravissime sanzioni a “…chicchessia” non si attenesse a queste disposizioni.

LA RICOSTRUZIONE DELLA CHIESA DI SAN LORENZO E LA SCOPERTA DELLA SORGENTE DI S. FRANCESCO 

Originariamente doveva esistere un’unica cisterna che raccoglieva le acque del Lantro; ma nel XVII secolo, l’individuazione della sorgente di San Francesco (così chiamata perché scaturiva dal sottosuolo in prossimità dell’omonimo convento) contribuì – insieme all’erezione della chiesa di San Lorenzo – a stravolgere completamente l’aspetto dell’antica fontana.

La chiesa di S. Lorenzo, innalzata entro il 1600 nell’allora piazza dell’Olmo (attuale via Boccola) per sostituire la primitiva chiesa di San Lorenzo (già esistente nell’VIII secolo), che si trovava più a valle, demolita nel 1561 per far posto all’imponente cinta bastionata veneziana

La captazione della nuova sorgente, dalle acque più abbondanti e più pure di quelle del Lantro, indusse i responsabili a tenere separate le due acque. A tal fine, sotto l’arcone sul lato sinistro della fontana, venne costruita la vasca minore sopraelevata in cui furono fatte confluire le acque della sorgente del Lantro, mentre, per soddisfare le necessità degli abitanti del quartiere nella vasca maggiore vennero convogliate quelle della sorgente di San Francesco, ritenute di migliore qualità.

La vasca maggiore

Le caratteristiche strutturali del canale (cunicolo) inoltre rendevano quasi impossibile che l’acqua della sorgente del Lantro entrasse nella vasca maggiore mentre consentivano a quelle di San Francesco di potersi miscelare con la prima. Documenti secenteschi attestano che la sorgente di San Francesco venne “congiunta” al complesso della Fontana (3).

La vasca maggiore della fontana era alimentata dalla sorgente di San Francesco che tuttora penetra attraverso un condotto posto a sinistra dei complesso, mentre le acque della più antica sorgente del Lantro alimentavano la vasca minore da un condotto che sbocca al centro della parete frontale

 

Il cunicolo di captazione dell’acqua della sorgente di S. Francesco. L’esplorazione del cunicolo ha consentito di notare, a riprova della bontà di queste acque, la mancanza totale di vasche di decantazione e di depositi di calcare

Con la costruzione della chiesa, la sagrestia venne a trovarsi proprio sopra la Fontana del Lantro, distruggendone probabilmente le antiche strutture di superficie.

Il Lantro dopo gli interventi del XVII secolo (Disegno di Luca dell’Olio)

All’interno del complesso venne dunque realizzata la crociera di rinforzo sul soffitto, che sovrasta la vasca maggiore, dove ancora si notano le otto aperture, ora tamponate con mattoni, da cui penzolavano le catene con i secchi in ferro che servivano per attingere l’acqua dall’alto, da impiegare per usi domestici.

La Fontana continuò a svolgere un’importante funzione pubblica per la comunità e, data la grande riserva e la posizione isolata, vi erano consentite alcune operazioni che non erano possibili dentro l’abitato. Come la pulizia dei panni, il lavarvi le pelli per la concia e il prelievo d’acqua per usi non domestici.

L’ANTICO LAVATOIO DI SAN LORENZO E IL LAVATOIO “MODERNO”

Le acque della sorgente del Lantro, dalla vasca minore defluivano verso l’esterno attraverso tubi conici in cotto per alimentare l’abbeveratoio dei cavalli (che troviamo citato in un documento del ‘600) e una grande vasca di pietra, ancora visibile negli anni Trenta, utilizzata come Lavatoio. Tali strutture erano poste tre metri più in basso rispetto alla vasca minore.

Fine Ottocento, Lavatoio di San Lorenzo, con l’antica vasca comune in pietra

La Fontana fornì acqua alla popolazione fino a che, nell’Ottocento, entrò in funzione il nuovo acquedotto municipale, che garantiva un servizio più capillare ed igienico.
Ma il Lantro continuò ad essere utilizzato come Lavatoio, che restò in funzione fino agli anni Trenta, quando, smantellata l’antica vasca comune in pietra, vi furono collocate vasche individuali, alle quali l’acqua giungeva all’acquedotto cittadino.

Il Lavatoio del Lantro (Raccolta Gaffuri)

 

Le vasche in graniglia che, negli anni Trenta hanno sostituito la vasca originale, restando in uso fino al 1950. Il lavatoio aveva il piano di calpestio di circa 3 metri inferiore a quello stradale. I lavatoi erano disposti in doppia fila nel centro e ad una fila addossati alle pareti lunghe. Nel muro a sud v’era un’apertura rettangolare e tre piccole mensole. Nel muro ad est v’era un ampio arco a tutto sesto parzialmente cieco, che adduceva all’antica cisterna della fonte. I lavatoi erano di graniglia, di colore rosso vinato ed erano sette per ogni fila. Le file erano quattro. Le murature perimetrali erano in conci di pietra squadrati, in parte intonacati, ed in parte con faccia a vista a spacco di cava (Fotografia di Gianni Gelmini)

 

Il “nuovo” lavatoio dall’alto in un’immagine d’epoca

 

Lavatoio vecchio e nuovo a confronto

IL RECUPERO DELLA FONTANA

Col mutare delle condizioni di vita dei tempi moderni, anche il Lavatoio cessò di essere usato e negli anni Settanta non si trovò di meglio che approfittare del fatto che la fontana-lavatoio si trovasse molto al di sotto del piano stradale per trasformarla in discarica.

Sommerso da materiali di riporto, cessò di essere presente anche nella memoria di molti.

Nel 1975 l’architetto Angelini propose di liberare l’area e restaurare le strutture antiche per realizzare un campo da gioco per bambini. Ma mentre il lavatoio ancora giace, sepolto da un cumulo di terra, lo spazio antistante l’accesso alla vasca sotterranea è stato liberato e reso agibile grazie all’intervento del Gruppo Speleologico “Le Nottole”, che a partire dal 1992 si è adoperato per recuperare il manufatto, riportandolo allo stato iniziale mediante opere di pulizia e restauro.

Lo spazio antistante l’accesso alla vasca sotterranea, dalla seconda metà del 1900, era stato utilizzato come discarica per materiali inerti, che sono stati rimossi. E’ stata quindi creata una comoda discesa verso la porta di ingresso alla cisterna. Successivamente è stato ripulito l’interno del complesso idrico (vasca superiore ed inferiore) dal fango e materiale vario accumulatosi nel corso degli anni

 

Dove un tempo esisteva un Lavatoio

 

A sinistra, la porticina d’accesso alla Fontana del Lantro

Grazie al lavoro volontario delle “Nottole”, stimolate anche dall’interesse e dalla sensibilità che l’Amministrazione Comunale ha dimostrato per il recupero del complesso, il Lantro, vero gioiello di architettura e di ingegneria idraulica, è stato così riconsegnato alla cittadinanza il giorno 6 giugno 1992.

NOTE

(1) Nel documento, il vescovo Adalberto concede le decime del ricavato di un ampio territorio che si estende dalla sorgente del Lantro fino a Sorisole ed Almenno al prevosto della Cattedrale di S. Alessandro obbligandolo, tra l’altro, a mantenere acceso un cero notte e giorno davanti al corpo di S. Alessandro a suffragio dell’anima sua e dei suoi parenti. Altre citazioni della sorgente del Lantro si trovano in documenti del 1032, del 1042 e del XIII secolo, quando entra a far parte della giurisdizione della vicinia di S. Lorenzo, già costituita nel 1263.

(2) Biblioteca Gavazzeni. Le “Schede del Mercantico”.

(3) Della fontana del Lantro abbiamo due interessanti descrizioni, la prima in un documento del XVII secolo (“Per le usurpazioni dell’acqua delle fontane” in: Acque processi, Civica Biblioteca A. Mai) e la seconda nella relazione del fontanaro Carlo Milani (“Memoria et visione del Acquedotto dentro le Mura…” 1728, Civica Biblioteca A. Mai).
In entrambe le descrizioni è fatto cenno a due sorgenti che alimentano la cisterna, i cui condotti sono tuttora esistenti nell’interno del complesso e in particolare, nella descrizione del documento del XVII secolo, è specificato che la sorgente che ha origine sotto il convento di S. Francesco “è stata congiunta” al complesso della Fontana.
Testo del documento del XVII secolo
“La fontana del Lantro con conserva capacissima, lavatori et guarrator da cavalli, è appresso et acontigua alla chiesa di Santo Lorenzo. Ha origine sotto le cave verso la torre e porta vecchia di Borgo S. Lorenzo con condotti et vasi sotterranei murati; con la suddetta è congiunta un’altra fontana nascente sotto il convento di San Francesco”.
Testo della relazione del Fontanaro Carlo Milani (1728).
“Il vaso del Lantro detto Latter, questo è un recipiente vastosissimo, a celtro, che forma quattro nave, e nel mezzo un pilastro solo ha la cisterna per tutto il terreno del sagrato di San Lorenzo, qui entra una sortiva che nasce sotto la casa Carminati, che ora gode il Sig. Gaetano Pezolo, questa è una sortiva abondantissima e vi si entra con facilità a netarla.
Altra sortiva nasce sotto il convento di San Francesco e qui vi si entra con un poco di difficoltà e l’acqua è migliore dell’altra”.

Riferimento principale

La Fontana del Lantro. In: Biblioteca Gavazzeni. Le “Schede del Mercantico”.

La curiosa storia della meridiana sotto il portico del Palazzo della Ragione

 

La rara meridiana marmorea che ancor oggi fa bella vista di sé sotto il porticato del Palazzo della Ragione, è una presenza ineludibile e ricca di significati della nostra città.

La meridiana pavimentale detta “a camera oscura” sotto il porticato del Palazzo della Ragione, nel cuore della Città Alta di Bergamo

A differenza della classica meridiana, come quella di piazza Angelini, in cui l’ombra dell’assicella (gnomone) è proiettata sulla scala numerica disegnata sulla parete, in quella di Piazza Vecchia la posizione del sole rispetto alla Terra è indicata non dall’ombra ma da un raggio di luce che penetra in un ambiente buio attraverso un foro ricavato in una lastra collocata in alto rispetto al pavimento cui giunge il raggio solare, e proprio per questo motivo, questo tipo di meridiana è chiamata  “a camera oscura”.

In alto a destra, sopra la volta della loggia, la lastra forata (gnomone) attraverso cui filtra il raggio di luce destinato a proiettarsi sulla meridiana a pavimento

Realizzata nel 1798, fu voluta dalla municipalità per emulare l’esempio recentissimo di Milano, dove un decennio prima, in una campata del Duomo era stata tracciata una meridiana.

Strumenti del genere esistevano da tempo nelle principali città, generalmente collocati nell’interno di grandi cattedrali, dove servivano anche a determinare il giorno dell’equinozio di Primavera, data fondamentale per il calcolo della Pasqua e di tutto il calendario ecclesiastico. Sono ben note le meridiane di Santa Maria del Fiore di Firenze (1460), quella di S. Petronio in Bologna (1575), ritratta in fotografia, quella di Roma tracciata in Santa Maria degli Angeli (1702), quella di St. Suplice a Parigi (1744) e quella realizzata dagli astronomi di Brera nella prima campata del Duomo di Milano

Bergamo era a quel tempo il capoluogo del Dipartimento del Serio nell’ambito della Repubblica Cisalpina, anch’essa soggetta all’influenza dei “lumi”, e al geniale abate Giovanni Albrici, matematico e fisico insigne nonché figlio di un pittore della Valle di Scalve, fu dunque ordinato di ideare una una meridiana pubblica, che egli volle di ragguardevole precisione perché a quei tempi le meridiane svolgevano l’ufficio assolto oggi dai segnali orari della radio e televisione.

Ideata da Giovanni Albrici (o Alberici o Albricci), bergamasco, di origine scalvina, la meridiana fu collocata dal meccanico Giuseppe De Vecchi sul pavimento in pietra del porticato di Palazzo Vecchio

La meridiana doveva infatti servire a regolare gli orologi, strumenti di scarsa precisione, che necessitavano di frequenti messe a punto: se oggi il “secondo” è definito in base alla frequenza emessa dall’atomo di Cesio, a quei tempi il metro più rigoroso per la misura del tempo era il moto di rotazione della terra e l’esatta determinazione del mezzodì.

Come luogo del suo strumento l’Albrici scelse il portico del Palazzo Vecchio, sia perché questo era il fulcro della città e perché avendo a quel tempo il fianco occidentale chiuso da mura offriva una zona discretamente ombreggiata quindi adatta a raccogliere l’immagine del Sole prodotta dallo gnomone, che fu collocato fin dall’inizio sopra la volta della loggia.

L’esistenza dei suddetti muri è ampiamente documentata: un acquarello dell’ottocento mostra il passaggio che congiunge Piazza Duomo e Piazza Vecchia, occupato da un corpo di guardia austriaco e delimitato da cancelli e pareti erette a chiusura degli archi del Palazzo. All’interno di queste pareti furono appesi nel 1799 i quadri di un’esposizione e dietro di esse nella cattiva stagione si riparavano dal freddo i cittadini e in particolare i notai, che sotto il portico tenevano i loro banchi

Per evidenziare maggiormente l’immagine del Sole, il costruttore innalzò a parziale chiusura dell’arcata mediana meridionale un grande schermo che consisteva in una grande lastra metallica, munita di una finestrella alla sommità per lo gnomone, poi decorata su entrambi i lati con motivi goticheggianti da Giuseppe Vecchi, meccanico e pittore collaboratore dell’Albrici. I più anziani ancora la ricordano e di essa esistono numerose immagini e fotografie.

Sotto l’arcata, protetto alla vista dallo schermo in lamiera, era stato fissato il sistema gnomonico, in pratica una lastra orizzontale di ferro con il classico forellino che avrebbe dovuto formare sul pavimento del porticato lo “spettro solare” ovverosia il sole.

Il dipinto di Luigi Crosio (1835-1915), “Preparativi per la festa di S. Alessandro”, mostra l’aspetto dell’apparato metallico della meridiana settecentesca

 

Il settecentesco apparato gnomonico della meridiana, posta sotto del Palazzo della Ragione, verso Piazza Duomo (da “Bergamo nelle vecchie cartoline”, Domenico Lucchetti)

Non si trattava di una meridiana, quei quadranti dipinti su molte ville ed edifici pubblici come la già citata di piazza Angelini, utili per una approssimativa indicazione dell’ora o più esattamente definibili “orologi solari”, ma di un ordigno perfetto, che indica il mezzogiorno astronomico, le stagioni e i segni zodiacali: un autentico datario, che consentiva a mezzogiorno di sapere che giorno fosse e di quale anno, ma anche di tenere traccia dei movimenti delle costellazioni astrologiche e di leggere i segni zodiacali.

La linea meridiana fu pertanto incisa su lastre di marmo e a lato furono scolpiti i segni zodiacali nonché le ore del sorgere e del tramontar del Sole riferite al mezzogiorno locale vero, visto che alla fine del diciottesimo secolo non si parlava ancora di “tempo medio”. Prima ancora le ore si contavano dal tramonto secondo il sistema detto all’italiana.

Ad un anno dalla sua costruzione lo gnomone, considerato il simbolo del progresso di portato dai Francesi, fu fatto segno di una fitta sassaiola. L’episodio deve essere accaduto 14 aprile 1799 quando, caduta la Cisalpina ed entrati in Italia gli Austro-russi giunse a Bergamo un drappello di Cosacchi che, messi in fuga i Francesi, spogliò e saccheggiò ovunque, tranne che il Borgo di Santa Caterina stando a quanto afferma un dipinto votivo di Marco Gozzi (1759-1839) tuttora visibile nel santuario della Beata Vergine: un fatto miracoloso, attribuito all’intervento della Madonna Addolorata venerata nel Santuario, dipinta in alto tra nuvole ed angeli.

Ex-voto di Marco Gozzi rappresentante l’ingresso nel borgo di S. Caterina, il 14 aprile 1799, di un distaccamento austro-russo che insegue truppe francesi. I soldati vi pernottarono “ma niuno vi soffrì un minimo disturbo”, come recita la didascalia dipinta sulla tela. Il dipinto è vivissimo nel rappresentare la colonna, il Santuario con il suo campanile, le case con i balconi e le finestre da cui si affacciano figure incuriosite ma non spaventate, mentre in primo piano soldati e cavalleggeri sostano e si intrattengono con alcuni borghigiani

E’ probabile che in quell’occasione, quando la reazione popolare si era scatenata contro i simboli dell’odiata tirannia francese, sia stata bersagliata anche la meridiana. La vicenda preoccupò l’Albrici il quale, temendo che il suo strumento fosse stato danneggiato, ne sollecitò la verifica, che si fece però solo nel 1806 ad opera di Giuseppe Bravi – professore di fisica al seminario -, il quale concluse che lo strumento era rimasto esattissimo.

Grazie al Bravi nacque l’idea di scolpire nel bianco lastricato  le linee orarie delle 11 e 45 e delle 12 e 15. Il lavoro che facilitava il controllo degli orologi.

Nel 1819 il Consiglio Comunale decretò l’abbattimento delle mura che chiudevano il fianco occidentale del Palazzo apportando ombra sotto il porticato, con notevole svantaggio per la lettura della meridiana, soprattutto nel periodo vicino al solstizio d’inverno.

Nelle immagini riferibili alla metà del secolo, infatti, gli archi appaiono liberi, come si vede ad esempio nel dipinto di Costantino Rosa custodito nel Palazzo Comunale e sicuramente databile fra il 1815 ed il 1860, dato che sul palazzo si vede il fregio con l’aquila bicipite della dominazione austriaca e non il cartiglio di intitolazione della Biblioteca di Città.

“Piazza Vecchia”. Olio su tela – mm. 710 X h 550. Bergamo – Palazzo del Comune

La biblioteca venne, in effetti, trasferita dalle sale della Capitolare, poste sopra la sacrestia del Duomo, al Palazzo Vecchio nel 1843 ad opera dell’ingegnere comunale Francesco Valsecchi; ma i suoi lavori, che appesantirono eccessivamente le strutture e provocarono col tempo serie lesioni ai pilastri, furono duramente criticati e giudicati “temerari” da Ciro Caversazzi.

Il Palazzo della Ragione, sede della biblioteca della città dal 1843 al 1928, anno in cui viene trasferita nella sede attuale

 

Il Palazzo della Ragione è puntellato in quanto l’enorme peso dei volumi della biblioteca ha compromesso la stabilità delle arcate

Fu comunque lo stesso ing. Valsecchi che nel 1857 ebbe l’incarico di restaurare la meridiana dall’avara amministrazione austriaca, decisasi finalmente alla sostituzione dei marmi, ormai spezzati e consunti.

In occasione dei lavori di restauro fu tracciata per la prima volta la curva lemniscata del tempo medio(a forma di otto allungato) e fu collocata una lastra quadrata in marmo che reca una Rosa dei Venti, dove l’Albrici aveva semplicemente indicato “Punto Verticale”.

Inciso sulla pietra, l’otto allungato formato dalla curva lemniscata

 

La Rosa dei Venti 

 

La linea, lunga oltre 20 metri, inizia a Sud con un quadrato sul quale è incisa la Rosa dei Venti, il cui centro è detto “punto verticale” perché è il piede della perpendicolare calata dallo gnomone

 

Lo gnomone attuale è stato realizzato praticando un foro in un artistico disco di bronzo che raffigura un volto solare e che sovrasta il punto verticale dell’altezza di metri 7,64

Fra la Rosa dei Venti e il solstizio d’estate vennero apposte nuove iscrizioni: le coordinate del punto (Longitudine 27° 29′, Latitudine 45° 43′) e l’altezza sul livello del mare Adriatico (metri 360 e 85) nonché una targa in bronzo che indicava che  l’orologio esatto segna sempre 12 ore quando lo spettro solare (il sole) è sulla curva (la lemniscata, a forma di otto), dimostrando come fosse stato ormai abbandonato il tempo dell’Italia e fosse venuto in uso il “tempo medio locale”(Europa Centrale).

Al mezzogiorno locale medio del 30 agosto l’imago cade sull’analemma. Al mezzogiorno solare vero del 30 agosto l’imago cade sulla linea meridiana

Lungo la linea meridiana vennero di nuovo incise da un lato ore e minuti del Sorgere del Sole (dalle IV e 13 alle VII e 41) e dall’altro ore e minuti del tramonto (dalle VII e 49 alle IV e 19), ma queste, come in origine, con riferimento al mezzogiorno vero. Tali incisioni erano ancora visibili, se pur con difficoltà, verso la fine del secolo (e il cui rilievo fu riportato sulla Rivista di Bergamo nel 1937).

Nei primi anni venti del Novecento, nel novero dei restauri voluti e diretti da Ciro Caversazzi, che diedero rinnovata stabilità e decoro al Palazzo della Ragione e ad altri monumenti del centro cittadino, venne asportato lo schermo d’ombra collocato dall’Albrici (lo si deduce dall’esame delle fotografie di Piazza Vecchia prese prima e dopo i suddetti lavori)

Caversazzi riteneva infatti che l’apparato metallico della meridiana settecentesca nascondesse e deformasse l’estradosso dell’arco della loggia, cui era fissato, togliendo inoltre da chi veniva dalla piazza la vista della facciata di Santa Maria Maggiore.

I restauri erano iniziati con la rimozione del monumento a Garibaldi dal centro della piazza, sostituito dalla fontana del Contarini.

Posto in Piazza Vecchia nel 1885, il monumento fu oggetto di aspre polemiche da parte di chi gli preferiva la fontana del Contarini

 

La vignetta, del 1901, ci fa capire quanti anni ci vollero per convincere le autorità allo spostamento del monumento alla Rotonda dei Mille: si dovette aspettare il 1922 per il “trasloco”

 

La statua di Garibaldi trasferita alla Rotonda dei Mille, ancora priva degli edifici che attualmente la circondano

Nel 1928 la Civica Biblioteca fu trasferita nel Palazzo Nuovo, adattato internamente e completato all’esterno con la costruzione della facciata scamozziana.

Cinque anni più tardi, a completare la fisionomia veneta della piazza, un nuovo Leone di San Marco dono della Serenissima, fu murato sul Palazzo della Ragione.

Comunque, dal momento che lo gnomone rimase in sito, l’asportazione del lastrone di ferro settecentesco non mutilò lo strumento nella sua essenza e funzionalità, ma certamente non giovò alla lettura delle sue segnalazioni, data la scarsità dell’ombra prodotta dallo gnomone ormai privo del suo schermo d’ombra, ed anche i tentativi successivi di ricollocarlo, non ebbero buon esito, “per ragioni di tutela artistica”.

“Portici della Biblioteca”. Questa definizione suggerisce che questa cartolina è anteriore al 1928, anno di trasferimento della biblioteca. Sulla destra in alto è visibile lo “gnomone” (ora perduto) della meridiana (foto e didascalia da “Bergamo nelle vecchie cartoline”, Domenico Lucchetti)

Intorno al 1970 la Rosa dei Venti e il Solstizio d’Inverno erano, in un insieme cancellato dal tempo, le sole segnalazioni nettamente leggibili, forse grazie ad interventi eseguiti grazie al precedente interessamento di Luigi Angelini.

Fu allora che lo studioso Diego Bonata cominciò ad interessarsi del monumento astronomico bergamasco; attratto dalla sua arcana bellezza ne fece uno studio preliminare e si propose di richiamarlo a nuova vita, rifacendo o rinnovando le antiche incisioni sulle lastre marmoree e sostituendo la macchina dell’Albrici con un disco solare fiammeggiante.

Nel dicembre del 1980, nel rispetto della precisione dello strumento l’antico gnomone è stato sostituito dal Sole di bronzo di Sandro Angelini armoniosamente incastonato nell’arco della loggia. E’ stato collocato al vertice dell’arco del loggiato e la sua ombra permette una buona lettura dello spettro solare anche in prossimità del Solstizio d’Inverno.

Raffigurazione bronzea del sole, predisposta da Sandro Angelini

 

Il nuovo gnomone, disegnato da Sandro Angelini

Due anni dopo, ad opera della Ditta Remuzzi, è stata reincisa la linea e, sulla base dei calcoli e disegni effettuati da Diego Bonata, in luogo delle ore dell’alba e del tramonto sono state riportate le divisioni del calendario, che consentono, all’istante del mezzogiorno vero, di leggere la data. Nuovo rilievo hanno acquistato anche i segni zodiacali e le iscrizioni relative alle coordinate geografiche, i cui valori sono stati corretti secondo i moderni riferimenti.

A distanza di oltre due secoli, il portentoso congegno escogitato dall’Albrici continua a indicare ai bergamaschi e ai turisti il fecondo cammino del Sole, nello scorrere uguale e immutabile del tempo.

 

Nota

Notizie tratte da: Studio storico-architettonico della Meridiana del Palazzo della Ragione a cura di Diego Bonata per gentile concessione dell’arch. Gianfranco Alessandretti.

Il ponte sulla Morla in Borgo Palazzo, la statua di San Giovanni Nepomuceno e le “macchiette”

Il ponte che ancor oggi regge validamente il traffico di via Borgo Palazzo fu costruito nel 1550, ma la presenza di un ponte sulla Morla, proprio là dove oggi sorge l’attuale, è sicuramente antichissima. Lasciamo stare la solita storiella di chi lo volle innalzato su ordine di Carlo Magno: quella di voler nobilitare edifici e monumenti attribuendoli a grandi personaggi del passato, era un’abitudine piuttosto diffusa.

In realtà, il ponte cinquecentesco fu rifatto al posto di un altro che aveva un livello più basso. L’ing. Fornoni nelle sue “Vicinie” precisa che, sul finire dell’Ottocento, in occasione dello scavo per una fognatura, ad oltre un metro al di sotto del piano attuale venne trovato il lastricato della strada antica: l’antico ponte era piantato a filo della casa sull’angolo con la via Madonna della Neve, per cui la strada era tutta letto del torrente.

La statua collocata sulla spalletta orientale del ponte risale al 1747 e rappresenta San Giovanni Nepomuceno, il santo polacco che, torturato e buttato nella Moldava dal celebre ponte Carlo IV di Praga, venne eletto patrono e protettore non solo (o non tanto) dei ponti, come si crede, bensì di tutte le persone in pericolo di annegamento. In seguito la sua protezione venne estesa anche ai confessori (il perché lo scoprirete leggendo la didascalia sottostante, che dobbiamo a Tosca Rossi).

Il ponte sul torrente Morla in Borgo Palazzo e la sua statua. San Giovanni Nepomuceno (Jan di Nemopuk, località presso Pilsen in Boemia) era il vicario generale dell’arcidiocesi di Praga e al contempo canonico della cattedrale di Praga, nonché predicatore alla corte di re Venceslao IV e confessore della regina Giovanna di Baviera. Visse nella seconda metà del XIV secolo e venne martirizzato nel 1393 per volontà dello stesso re, a cui rifiutò di svelare quanto detto dalla consorte durante la Penitenza. Il suo corpo venne gettato dal ponte Carlo IV di Praga nel fiume Moldova e secondo le diverse versioni riemerse il giorno successivo esibendo per alcuni una lingua dorata, a riprova della sua fedeltà nel rispettare i termini del sacro sacramento, per altri recando una corona di stelle attorno al capo. Da allora la sua protezione è rivolta a tutte le persone in pericolo di annegamento e successivamente estesa anche ai confessori

La sua storia così come il modo in cui venne martirizzato giustificano quindi la consuetudine di collocare una statua che lo ritrae sopra i ponti fluviali, intento ad adorare il Cristo crocifisso, messo bene in vista per la devozione di chiunque si trovasse a transitare in quei luoghi: oltre al ponte sul torrente Morla, a Bergamo e provincia molte sono le sue presenze, tra cui ad esempio sul ponte di Gorle o a Trescore Balneario.

Il nostro, realizzato in Pietra di Zandobbio ed elevato su un alto piedistallo, è privo di aureola ma calza il copricapo distintivo; è vestito dell’abito talare, della cotta e dell’almuzia impreziosita da un’alta fascia in pizzo, aperta sul petto e alzata alle estremità dal gesto che porta all’orazione visiva e mentale del Cristo.

La scolpì Giovanni Antonio Sanz (lo stesso che ritrasse le allegorie delle quattro stagioni e delle Arti Maggiori di Palazzo Terzi in Bergamo Alta) per esaudire il desiderio di un nobile residente nel borgo, il conte Gerolamo Albani (tenente maresciallo e cameriere della Chiave d’Oro di sua Maestà Imperiale), il quale, morto il 20 agosto 1747, lasciò per testamento che si ponesse una statua di San Nepomuceno, lasciando l’incarico al fratello Carlo.

La statua fu realizzata quello stesso anno, includendo il nome del conte nella specchiatura affacciata sulla via, recando la scritta seguente: PER TESTAMENTO / DEI CONTI / GIROLAMO ALBANI / I MARESCIALLO / CESAREO / MDCCXLVII.

IL PONTE E LE SUE “MACCHIETTE”, ANIME DEL BORGO

Borgo Palazzo ebbe i suoi personaggi e anche le sue macchiette. Figure pittoresche, che hanno lasciato una traccia nella cronaca spicciola e in qualche racconto. Una di queste, celebre nei primi decenni del Novecento, sia nel borgo che in tutta Bergamo, fu Giovanni Servalli detto “ol Barba”, “il principe delle macchiette bergamasche, principe lustrascarpe”, come definito dal giornalista Giovanni Banfi in un opuscolo del 1920. Anche il poeta Guerrino Masserini, “Ol Girù”, si è occupato del Servalli. Ma è il ritratto delicato di Geo Renato Crippa, a restituire a Servalli, al di là di ogni faciloneria, la dignità che gli spetta, quella cioè di un uomo sensibile e sfortunato.

Descritto come pazzoide e accattone dignitoso, con una gran barba profetica, il lustrascarpe ed attacchino Servalli era un oratore spassoso, incarnando a meraviglia la parodia oratoria. Con il suo berrettone calato sulla fronte e l’ampia palandrana, soleva intrattenere gli avventori nel recinto della vecchia Fiera, dove innalzava una tribuna improvvisata convinto di rivolgersi “al colto pubblico”, cui proclamava la propria nobiltà.

Giovanni Servalli presso la chiesa di S. Bartolomeo nella caricatura del talentuoso  Alfredo Faino, disegnatore alla Daumier nonché scultore. Del Servalli, la cosa più importante, consisteva nel suo vestiario. Dal cappelluccio con l’aletta corta, sino a certi calzari di tipo “biblico”, tutto era uno sfavillio di stagnole argentee o dorate, tali da farlo sembrare un cavaliere dell’era medievale che camminasse dopo una battaglia. Trovava queste carte presso drogherie e pasticceri, dalle suore di istituti educativi e conventini, dopo le feste dedicate alle loro fondatrici. Dopo le festività natalizie o pasquali, i negozianti lo rifornivano con ciò che, nelle vetrine, aveva sfavillato per una o due settimane. Qualcuno regalava persino qualche nastro colorato mandandolo in estasi, togliendogli, dalla gioia, il respiro che, in ultimo, aveva pesante

Sosteneva di essere un figlio bastardo della “gloriosa casa Giovanelli di Venezia” e di essere giunto in città da una grossa borgata di montagna, dove quella famiglia, un tempo di famosi commercianti s’era talmente avvantaggiata, in mercature nell’Oriente, da richiedere alla Serenissima titoli nobiliari e cavallereschi. Vantando l’appartenenza al lignaggio principesco, finiva col parlare di tutto, stralunando ogni tanto gli occhi e volgendosi impietosito al cielo, gesticolando con solennità, come un patriarca.

“Ol Serval” invita la popolazione a visitare la mostra di Alfredo Faino

I suoi discorsetti pomposi erano per lo più un caotico aggrovigliamento di idee d’ogni sorta, buttate fuori alla brava, con parole in lingua italiana non certo ossequienti ai precetti della Crusca. Non si potevano ascoltare alcune delle sue frasi senza abbandonarsi ad una irrefrenabile ilarità, scatenata dalla sua potenza comica e dalle inflessioni della voce, Il Servalli continuava allora il suo proclama sottolineando la serietà degli argomenti ed esclamando “L’è roba internazionale!”.

Agghindato di stagnole e nastrini, girava l’intera città rullando su un tamburello che gli era stato donato dai componenti della fanfara degli alpini. Circa gli itinerari da percorrere non sbagliava giorno ed ora: alla periferia di dedicava il mattino, ai borghi il pomeriggio, al tramonto raggiungeva il centro cittadino picchiando a più non posso il suo strumento. Di tanto in tanto emetteva una parola di saluto e se incontrava persone di sua conoscenza, ma molto rispettate e riverite, il rullio del tamburo prendeva tono solenne, seguito da silenzi ritmati durante i quali, da fermo, pronunciava cenni d’ossequio ripetuti con calma dignitosa. Possedeva, il Servalli, regole di galateo di sua invenzione, sostenute con toni tra il religioso e il melodrammatico.

Giovanni Servalli s’incammina verso il ponte della Morla con la lampada votiva. La caricatura è di Alfredo Faino, che ha eternato “Ol Barba” in gustosissimi bozzetti, in sapide caricature anche in creta e nei piccoli bronzi

Appena faceva buio, se ne tornava in Borgo Palazzo, suo dominio incontrastato, e all’imbrunire si recava al ponte della Morla reggendo una scala pioli, che saliva per accendere una lampada ad olio innanzi alla statua di San Giovanni Nepomuceno, protettore dei ponti e delle acque.

Giovanni Servalli è ricordato dalle cronache anche per la consuetudine di accendere ogni sera una lampada votiva ai piedi della statua del suo santo protettore, quella di San Giovanni Nepomuceno, sul ponte della Morla, in Borgo Palazzo. Chi narra che “ol Servàl” fosse devoto al santo dei ponti perché proteggeva la sua nobile miseria e chi attribuisce tale consuetudine al ricordo di un miracolo, ottenuto in passato, a favore della sola donna, “amata in purezza, poi, dopo un lustro, morta consunta in una corsia d’opedale, invocando il nome di quegli che fu il suo sogno incantato”. Gli fosse stato possibile, il Servalli avrebbe ornato quel luogo – dove negli anniversari recava qualche fiore – di ori e di gemme (caricatura di Alfredo Faino)

Soddisfatto della sua buona azione quotidiana, rincasava con la scala a spalla; la sua stamberga era luogo di abituale convegno di topi e di gatti, educati – diceva egli stesso – ad un fraterno vicendevole amore. Si seppe poi, allorché egli passò a miglior vita, come la sua povera dimora, che era accanto ad una stalla, fosse pulita ed in ordine, il giaciglio tenuto con cura, le casse e le cassette per riporre la sua roba, linde e divise con accuratezza, giornali e cartoni ammucchiati con esattezza in un angolo. Lo stanzone era illuminato da una finestra che dava su un’ortaglia e la porta aperta sul retro di un “cortilone” d’osteria, con gioco delle bocce, usato nel passato per radunare greggi e mandrie di passaggio. Il silenzio non veniva rotto che la domenica, le sere d’estate e nei giorni di mercato. Appeso a un chiodo pendeva il tamburo. Accanto un tascapane zeppo di libriccini e foglietti che celavano poesie e canzoni che il Servalli cantava nei giorni di sagra, sugli sterrati dei paesini o sui sagrati delle chiese. Dopo lo strazio subito da suo cuore, di pretesti amorosi egli non volle mai saperne: bastavano le storie di re e regine, principi e principesse, marchesi e conti, castelli, foreste, ruscelli, fonti, uccelli variopinti. Fiabe leggere leggere, oneste, dense di umanità, umili, trasognate e innocue. Di lui si conserva ancora un vivido ricordo.

Più modesto un altro personaggio, “ol Fioruna”, che percorreva il borgo e lo stradale di Seriate tutto infagottato con un cappellaccio a piuma, sempre scuotendo un campanello. “Trin trin ‘l passa ol Fioruna, che quando ‘l viasa al suna”.

Anche lui raggiungeva il ponte della Morla ma, mentre il “Barba” Servalli vi si attardava con la sua barba profetica per accendere il lume sulla statua del santo, il Fioruna, che viveva di carità e si sborniava di frequente, utilizzava il ponte, o meglio, uno dei suoi archi, per passarvi la notte. Morì nel vicino manicomio.

All’incrocio tra via Camozzi e l’asse Pignolo/Borgo Palazzo alla fine degli anni Cinquanta. L’edificio in primo piano sulla destra fu adibito tra il 1919 e il 1955 a Dormitorio pubblico. Successivamente venne impiegato anche come Asilo degli Ebbri, ovvero ricovero per gli amanti di Bacco, i quali, dopo essere stati raccolti per le vie della città dalle forze dell’ordine, venivano messi a letto dopo una doccia gelata…. I nuovi edifici, tra cui il supermercato PAM, sono sorti intorno al 1967

E poi c’era “ol Roco de Borg Palass”, che aveva una propria dimora all’Albergo popolare. Era sempre infagottato in vestiti più grandi di lui, con certe calzature scalcagnate. Lo si vedeva sempre correre borbottando frasi, certo, nell’intenzione di erudire i passanti sui fasti o insuccessi della sua grande Atalanta; poi via di corsa svettando a destra e a sinistra, stralunando gli occhi. Si accontentava di qualche pezzo di pane, che condiva con l’immancabile “repubblica” che otteneva facilmente e con larghezza dai bottegai della città. Non si lamentava mai di questa sua vita grama. Gli bastava essere libero di borbottare le sue preferenze atalantine.

Rocco girava trascinando le gambe, sempre malmesso, con un lungo pastrano anche in estate e si appoggiava a un bastone. Fuori dal suo borgo, la zona prediletta era quella dei giardini Donizetti. Fu ricoverato alla casa di riposo “Clementina” a spese del Comune e gli fu riservato un trattamento speciale. Gli fu anche assegnato un letto col televisore a fronte; e quando era in programma una partita dell’Atalanta, il vecchio Rocco tirava fuori un bandierone e lo sventolava a mo’ di sudario sul proprio letto

 

Il pittore Jannucci ha immortalato in questa caricatura le sembianze del Rocco, ai suoi tempi definito il più popolare tifoso dell’Atalanta. L’ultima macchietta cittadina, con lo smunto berretto da agente daziario, i vecchi giornali su braccio e le cianfrusaglie in saccoccia, il passo caracollante e il vociare sgraziato. Anche la sua figura appartiene ormai al mondo dei ricordi di casa nostra

Ultimo di questi singolari personaggi che si addentravano dalla periferia nei borghi, ma raramente per giungere fino in centro, fu il “Gioanì de Tor”. Doveva risiedere a Torre Boldone, o esservi nato, ma nessuno lo seppe mai con precisione. Era un ometto che portava anche d’estate un cappotto sdrucito e un largo cappello. Più alto di lui, un grosso bastone intagliato gli conferiva come una statura diversa. Scomparve improvvisamente. Un giorno nessuno lo vide più. Forse era più vecchio di quanto non si credesse ed era finito in qualche ricovero. O forse non gli era riuscito di superare qualche malanno dell’ultimo inverno. Oggi per lui, sull’asfalto, nel traffico, nella periferia senza più orti e pollai, non ci sarebbe più posto.

L’ex chiesa di S. Antonio in foris in Borgo Palazzo

All’inizio di Borgo Palazzo, poco oltre lo splendido palazzo Camozzi si apre a sinistra un piccolo slargo – dove un tempo funzionava la pesa pubblica -, sul quale si affaccia un edificio che vanta oltre ottocento anni di storia ma che la nuova destinazione d’uso risalente al Settecento ha fatto dimenticare: quella che un tempo fu la chiesetta di S. Antonio in foris, risalente all’anno 1208, sorta per desiderio del “dominus” Giovanni Gatussi di Parre, personaggio che aveva una certo appoggio politico cittadino (1).

L’edificio della chiesetta di S. Antonio in foris esiste ancora, ma trasformato in negozio

Il piccolo edificio, pressoché sconosciuto, è di misure tanto modeste da non essere notato: bisogna andarlo a cercare di proposito, tanto più che nulla, nemmeno un cartello, ricorda al passante la presenza della chiesetta – con il portale più antico rimasto della città -, sopravvissuta a tutti i mutamenti e alle demolizioni (2).

Portale laterale della chiesa con la lunetta affrescata

Era posta fuori dall’antica porta del borgo S. Antonio, nel suburbio di Mugazzone (termine che appare già nel 928, con il quale si indicava l’antico nome di Pignolo), quartiere al tempo poco abitato ma posto in prossimità di due corsi d’acqua: la Morla a sud e il canale Roggia Serio a nord, che favoriva il “forte insediamento di attività tessili, tra cui tintorie, folli, purghi e mulini” (3) all’estremità meridionale del borgo S. Antonio.

Nella veduta di Alvise Cima la chiesetta di Sant’Antonio Abate in foris è posta fuori l’antica porta di S. Antonio, aperta nelle Muraine, all’imbocco di Borgo Palazzo e in angolo con la strada che conduceva al monastero degli Umiliati del Galgario, anch’esso lambito dalla Roggia Serio a nord e non molto distante dal torrente Morla a sud. Proprio questo tratto, compreso dall’imbocco della via – dal lato di via Frizzoni – fino al ponte della Morla, corrisponde alla parte più antica del borgo ed è detto contrada della Rocchetta, con evidente riferimento ad un fortilizio. Un toponimo, questo, che si aggiunge a quello di S. Antonio, che però fa riferimento anche ad un’area esterna a borgo Palazzo

Nonostante la sua posizione apparentemente marginale, assunse ben presto una certa importanza, confermata in particolare da un documento del 1263, citato da Angelo Mazzi, in cui lo statuto della città creava una nuova vicinia staccata da quella di Mugazone, intorno alla chiesa sorta da pochi decenni (4): fatto che denota quanto il borgo stesse crescendo e acquisendo una sua autonomia rispetto a quello di Pignolo.  

Fu dunque grazie alla presenza della chiesa di S. Antonio in foris, che la zona oggi designata come Pignolo bassa assunse la nuova titolazione di vicinia di S. Antonio, cui faceva capo anche il convento di Santo Spirito. Il toponimo S. Antonio coincide dunque con la parte più antica di Borgo Palazzo, ma fa anche riferimento ad un’area esterna allo stesso, fino a comprendere l’attuale piazzetta Santo Spirito.

La porzione di Borgo Pignolo che noi tradizionalmente chiamiamo basso in passato era un Borgo dalla propria identità, per l’appunto Borgo Sant’Antonio. Fino alla metà del XIII secolo, la parte bassa di Borgo Pignolo (futuro Borgo S. Antonio) faceva parte della vicinia di S. Andrea (Via Porta Dipinta) e i suoi confini al piano correvano a ridosso delle antiche Muraine medioevali, dalla Porta di Santa Caterina, posta all’imbocco del borgo omonimo, fino al Borgo di San Leonardo, transitando quindi lungo l’attuale asse urbano di Via San Giovanni-Frizzoni-Camozzi. Fu la presenza della chiesa di Sant’Antonio in foris e dell’annesso ospedaletto, eretti nel 1208 all’estremità meridionale del borgo di Mugazone (l’antico nome di Pignolo) a giustificare la sua autonomia e la sua nuova titolazione. La vicinia di S. Antonio si estendeva dalla stongarda esistente al Maglio del Rame (allora del Vegete) fino a S. Spirito e da qui fino ad una colonna al prato di S. Alessandro

 

Insieme alla chiesa di S. Antonio in foris, la chiesa di S. Spirito faceva capo alla vicinia di S. Antonio, sorta nel 1263  (piazza S. Spirito nel 1909, Raccolta Gaffuri)

E’ difficile comprendere oggi l’area su cui si estendeva in passato questo toponimo, soprattutto quando esisteva l’omonima vicinia: la topografia del luogo è molto mutata, non solo per la scomparsa delle Muraine, della porta di S. Antonio e per la copertura della Roggia Serio, ma anche perché le vicinie in un certo senso costituivano anche dei confini fisici, coincidendo questi con recinzioni, muri di edifici, portoni (5).

La porta daziaria di S. Antonio, posta in corrispondenza del limite meridionale dell’attuale via Pignolo (Gaudenzi, 1885-1900)

 

Come si presentava la porta di S. Antonio alla fine Ottocento (Raccolta Gaffuri)

 

Il canale Roggia Serio all’altezza della torre del Galgario (attuale via Frizzoni), a pochi passi dall’ex monastero degli Umiliati del Galgario e sulla strada per la chiesa di S. Antonio in foris

La chiesa era detta “in foris” (fuori) proprio per distinguerla dalla chiesa di Sant’Antonio Abate (o di Vienne o dell’Ospedale), che sorgeva entro le Muraine, sul prato di Sant’Alessandro, demolita nell’Ottocento per l’erezione del palazzo Frizzoni (attuale Municipio).

Era affiancata da un ospedale (oggi difficilmente individuabile), il cui giuspatronato rimase alla famiglia Gatussi di Parre fino al XV secolo e fino a quel momento il piccolo ospizio duecentesco rivestì una certa importanza, e cioè fino a quando, nel 1458, venne assorbito dal nuovo e centralissimo Ospedale Grande di S. Marco insieme ad altri dieci disseminati in varie località della città (6).

Così come stava accadendo in altre città, anche a Bergamo verso la metà del Quattrocento si deliberò l’accorpamento di 11 ospedaletti sparsi tra il colle e il piano in un unico grande organismo (l’Ospedale Grande di S. Marco), al fine di ottimizzare i servizi e creare un’unica dirigenza, esercitando così un maggior controllo. Nell’Ospedale Grande di S. Marco confluì anche quello di S. Antonio Abate in foris, istituito nel 1208 sulla strada che conduceva a Seriate. Dopo cinque secoli di vita, l’Ospedale Grande venne chiuso e quasi interamente  demolito nel 1937, con l’erezione dell’ospedale Maggiore e sulla sua area fu innalzata la Casa del Fascio, che caduto il fascismo venne ribattezzata come Palazzo della Libertà

Nonostante la ex-chiesa sia ormai da tempo priva del suo campaniletto, osservando con attenzione possiamo ancora rintracciarne l’antica foggia: nel tetto spiovente (un tempo a falde in vista), nella facciata a capanna attigua al portale con stipiti in pietra che immette nella corte interna, nell’oculo sovrastante la facciata e nel piccolo portale romanico posto sul fianco, sovrastato dalla lunetta affrescata: l’unico, tra i tanti affreschi rinvenuti nella chiesa, conservatosi in loco.

Nella veduta di Alvise Cima (tela della Biblioteca), la chiesa si affaccia su una piccola rientranza di via Borgo Palazzo “Un praticello avanti le s’appiana”, scriveva l’abate Angelini). Si nota il campanile, oggi non più visibile, il tetto a spiovente e la facciata a capanna, a cavallo del portone che immette alla corte interna. L’ospedale non compare nelle didascalie e forse, suppone Tosca Rossi, neppure rappresentato: “forse rimandi del vecchio nosocomio sono rintracciabili in pianta in fronte all’attuale palazzo Camozzi e in angolo con l’attuale via Frizzoni, dove si contano tre caseggiati addossati tra loro”

Nella corte, sopra lo spazio in cui viene raccolta l’immondizia dello stabile, resta la traccia di un grande affresco devozionale. All’interno, la semplice aula unica della chiesa è ancor oggi scandita in tre campate da due arconi ogivali in pietra impostati su semipilastri (7).

Portale d’ingresso alla corte interna

 

Particolare dello stemma scalpellato sulla chiave di volta

 

Scorcio della corte interna, con il semplice portale con stipiti in pietra, oggi tamponato. In alto si intravede l’oculo

Secondo Luigi Angelini l’antico ospedale duecentesco, demolito nel Settecento, doveva trovarsi negli edifici attuali che recingono il cortile interno. In quell’epoca fu distrutto anche il campanile, per edificare i nuovi condomini che sorgono tutt’intorno (8).

La chiesetta continuò a funzionare “col nome di S. Antonio in foris, officiata fino al 1806, finché, sconsacrata nell’Ottocento (9), diverrà officina per un fabbro, poi un anonimo ambiente di magazzeno, ridotto poi ad ufficio e negozio, subendo lavori di sistemazione interna che ne hanno in parte snaturato le forme suddividendola in due piani.

Le cronache riferiscono che la chiesa non fosse molto curata e che venisse utilizzata solo per celebrare la messa quotidiana da parte dei Padri Zoccolanti del vicino convento delle Grazie, remunerati dall’Ospedale Grande di San Marco (10).

Con il tempo la chiesa finì con l’essere del tutto abbandonata. L’ultimo suo destino era la demolizione, che si voleva porre in atto nel 1937 secondo un progetto di totale rifacimento dello stabile. Demolizione che non avvenne grazie alla scoperta, da parte di don Angelo Rota, degli affreschi che l’ornavano quasi interamente (11) e al successivo intervento di Luigi Angelini (a quei tempi ispettore onorario della Soprintendenza ai monumenti), che riconobbe l’importanza della chiesetta, alla quale venne posto il vincolo.

Fu proprio in quella occasione che, scrostando l’intonaco, in corrispondenza di una traccia di porta nell’antico ingresso laterale della chiesa, affiorò la lunetta affrescata che sovrasta l’architrave del portale romanico, portato alla luce ed ancor oggi visibile sulla via, dove, scrutando con attenzione, si possono ancora notare le tracce dell’affresco duecentesco, tra i più antichi del territorio, raffigurante Madonna in trono col Bambino affiancati da sant’Antonio Abate e un santo vescovo, che malgrado lo stato di degrado è stato identificato in base ad antiche foto in san Tommaso di Canterbury; l’affresco è posto sotto un arco in pietra sui cui conci sono affrescate una serie di teste entro tondi.

Sulla lunetta del portale laterale della ex-chiesa di S. Antonio in foris, seppure sbiadita è ancora visibile la decorazione ed affresco rappresentante una Madonna in trono col Bimbo, affiancata dai santi Antonio abate e Tommaso di Canterbury. Tutt’intorno, suIl’arco di pietra intonacato che chiude Ia Iunetta, appare un motivo decorativo formato da quindicl tondi accostati l’uno accanto all’altro, racchiudenti teste di Santi di tono grigio roseo, in parte consunti e in parte anche mancanti. Ritenuti da Angelini di pregio non comune sia in senso artistico che per la loro rarità. L’affresco è stato assegnato da L. Angelini alla scuola bergamasca deII’inizio del XIII secolo, ritenendolo eseguito subito dopo il 1208, anno in cui un documento attesta Ia scelta del Iuogo di edificazione della chiesetta e deIl’ospedaIe di S. Antonio: “Le tre figure bizantineggianti aureolate (…) denotano nella Ioro ieratica rigidità il carattere tipico della pittura duecentesca”. Angelini trovava conferma alla antichità del dipinto nella vicinanza stilistica ad affreschi, anch’essi frammentari, nella cripta di S. Michele al Pozzo Bianco, nei riquadri deIl’arcone della Curia antistante alla facciata di S. Maria Maggiore e nelle figure di Santi nella bifora dipinta dell’aula della Curia

GLI AFFRESCHI DELLA CHIESA DI S. ANTONIO IN FORIS, ESPOSTI AL MUSEO DELL’AFFRESCO IN BERGAMO ALTA

I pregevoli affreschi che rivestivano quasi interamente le pareti interne della chiesa furono eseguiti tra il XIII e il XVI secolo e risultano essere tra le testimonianze più antiche del nostro territorio insieme a quelli della chiesa di San Michele al pozzo bianco di via Porta Dipinta, della Vecchia Cattedrale e della chiesa a di San Giorgio ad Almenno San Salvatore.

Le ritroviamo oggi nel cuore di Bergamo Alta in piazza Vecchia all’interno del Palazzo della Ragione, dove riaffiorano dalle pareti settentrionali della Sala delle Capriate, allestita a sede museale dagli anni Novanta del secolo scorso, divenendo Museo dell’Affresco di Bergamo, cui è possibile accedere in occasione di mostre ed eventi.

I numerosi strappi provenienti dalla chiesa di Sant’Antonio in foris di Borgo Palazzo, sono i più antichi esposti nel Museo dell’Affresco nella Sala delle Capriate al Palazzo della Ragione e sono tra i più antichi presenti nel territorio bergamasco, insieme a quelli della chiesa di San Michele al pozzo bianco di via Porta Dipinta, del Museo della Cattedrale in Piazza Vecchia e della chiesa a di San Giorgio ad Almenno San Salvatore nel parco del Romanico

 

La Vergine con S. Giuseppe e il Bambino esposta al Museo dell’Affresco di Bergamo proveniente dalla chiesa di S. Antonio in foris. E’ assegnata all’inizio del XIII secolo da L. Angelini, che lo considera coevo a quello della lunetta, risultando più arcaico del dipinto iconograficamente affine deII’aula della Curia

Proprio in quest’antica sede, si conservano molti altri lacerti o porzioni smunte e sbiadite dallo scorrere del tempo, provenienti da edifici sacri e profani della nostra città (come il monastero di S. Marta): gli affreschi della chiesetta di Sant’Antonio in foris fanno capo al secondo e terzo gruppo affisso alla parete nord del palazzo, paradossalmente il comparto più numeroso considerando la minima superficie della chiesetta da cui provengono, e ci restituiscono numerose immagini di Sant’Antonio abate, della Vergine con Bimbo, apostoli e Santi vari tra cui Bartolomeo. Giacomo e Giovanni Battista.

 Note

(1) La chiesa fu fondata nel 1208 dal vescovo di Bergamo Lanfranco (successore di Guala), per desiderio del “dominus” Giovanni Gatussi de Parre, la cui famiglia doveva risalire a quella dei conti di Parre, paese dell’alta val Seriana. Già nel 1156 un “filius Iohannis de Parre” risulta essere inserito nell’elenco dei “mille homines” che giurarono dopo la Battaglia di Palosco la pace con Brescia, mentre nel 1176 è citato un canonico della basilica alessandrina che godeva di un certo prestigio. Giovanni Gatussi de Parre aveva una certo appoggio politico cittadino. Viveva in prossimità di una fonte che viene indicata come fontana coperta nella vicinia di San Lorenzo (prossima a quella di San Pancrazio), considerata di pregio per le importanti famiglie cittadine che la abitavano. La famiglia raggiunse una certa stabilità economica acquisendo beni fondiari alla fine del XII secolo tra cui il terreno dove poi sorse la chiesa, che venne venduto nel 1208 a Giovanni dal console dalla vicinia di San Pancrazio, proveniente dalla famiglia molto vicina a quella guelfa dei Rivola (Maria Teresa Brolis, LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995). L’importanza del personaggio e i legami con le più importanti famiglie sotto l’aspetto sia politico che religioso di Bergamo (come i del Zoppo, i Rivola, i Sorlasco, i de Foro, gli Albertoni) motivano la presenza di tutte queste famiglie alla fondazione dell’ospedale con il vescovo Lanfranco e i canonici della chiesa di San Vincenzo che tre mesi dopo si presentarono per la consacrazione della prima pietra della chiesa. L’atto di consacrazione è del 28 giugno 1208 eseguita con le disposizioni canoniche della “ecclesiae hospitalis”. Fu quindi accolta la domanda di fondare una chiesa e il vescovo Lanfranco impose al Gatussi di provvedere alla custodia e alla illuminazione degli edifici, cosa che ebbe risposta affermativa indicando la protezione della chiesa alla canonica di San Vincenzo alla quale doveva versare una libra di cera annua, quale segno di sottomissione al clero, che però non poteva aggiungere altri tributi dovendo essere la chiesa e l’ospedale libero come indicato dall’atto poi perduto: “de protectione et municione et securitate ipsius hospitalis” (Maria Teresa Brolis, LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995). Il Fornoni (“Le vicinie cittadine”) precisa che “La concessione di piantare la croce, in segno di edificazione della chiesa, porta la data 13 giugno 1208 ed è rilasciata dal vescovo Lanfranco, alla presenza e col consenso di Algisio da Credario arciprete della chiesa di Bergamo, di Lanfranco arciprete di Clusone e dei canonici di S. Vincenzo”. Alla sua morte Gatussi dotò l’ospedale di vari beni, tra cui una casa situata in Città Alta, nei pressi del Mercato del Fieno (Pino Capellini e Renato Ravanelli, “I borghi di Bergamo”. Grafica & Arte, 1984).

(2) Eppure l’Angelini una targa l’aveva preparata: QUESTA CHIESETTA MEDIOEVALE/ERETTA INTORNO AL 1210/COL PORTALE AFFRESCATO/IL PIU’ ANTICO RIMASTO DELLA CITTA’. Ma la lapide non fu mai applicata (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966).

(3) Tosca Rossi, “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”. Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012.

(4) L’importanza della chiesa è confermata da documenti citati dal Mazzi: uno del 1249, per un atto steso “in burgo de Mugatione” “in claustro hospitalis Sancti Antonii” e un altro del 1263, in cui lo statuto della città creava una nuova vicinia staccata da quella di Mugazone intorno alla chiesa sorta da pochi decenni: “vicinancia nova quae dicitur vicinia S. Antonii” (“Note suburbane” di Angelo Mazzi, Bergamo, 1892, pag. 230).

(5) Vanni Zanella “Bergamo Città”. Edito nel 1971 dall’Azienda di turismo di Bergamo.

(6) Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

(7) Luigi Angelini, “La lunetta duecentesca della chiesetta di Sant’Antonio in Foris”. In: “Cose belle di casa nostra”, Bergamo, Stamperie Corti, 1955.

(8) Secondo Angelini l’ospedale venne demolito e trasformato nel Settecento in edificio civile (Luigi Angelini, Op, Cit.).

(9) “Per il Maironi è il 1806 (…). Nella Pianta della città e borghi esterni di Bergamo dell’architetto Giuseppe Manzini del 1816 non è più presente” (Tosca Rossi. Op. Cit., pag. 219). Riferisce Luigi Pelandi che “La chiesetta ed i locali del modesto ospedale…vennero ceduti dal Demanio al sig. Pesenti di Alzano, poi alla famiglia Zanchi (commercianti in latticini), che avevano negozio sull’angolo della via Rocchetta con l’attuale via Frizzoni, allora via Muraine sulla Circonvallazione, ove esiste tutt’ora una trattoria, quella denominata S. Antonio” (della famiglia Zanchi faceva parte il sottotenente Gioachino Zanchi, nato in Borgo Palazzo il 25 maggio 1909, “che nella guerra d’Africa immolò la sua vita in un fatto di arme glorioso”. Alla sua memoria venne concessa la medaglia d’oro al valor militare). La chiesetta “fino a pochi decenni or sono, venne passata alla ditta Agostino Moretti, che già conduceva un negozio di cesterie, sedie e scope sull’angolo di via Camozzi (n. 1). Intorno al 1955 subentrava il negozio di calzature Sperani. Fu in quel tempo che vennero asportati gli affreschi…Pare che nel frattempo i locali fossero stati invasi dai ‘barboni’, i disgraziati senza tetto dei dintorni che non trovavano posto al Dormitorio pubblico, o non volevano sottostare alle abluzioni obbligatorie del dott. Favari, nè tanto meno al ‘cordial Favari’” (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”, Op. Cit.).

(10) La trascuratezza della chiesa è confermata da padre Donato Calvi nelle “Effemeridi” (pubblicate nel 1676), dove informa che sotto la data del 17 dicembre 1530 la chiesa, “ridotta a cattivo stato”, correva il pericolo di cadere. Per questo “l’Ospital Maggiore a cui detta chiesa è unita diede hoggi l’ordine per il risarcimento, come infatti seguì a primo opportuno tempo”. La chiesa, aggiungeva padre Donato Calvi, ha un solo altare, “ove continuamente si celebra, e le feste si convoca per l’esercitio della Dottrina Christiana” L’intervento dell’ospedale non dovette bastare perché la chiesa, prima dipendente dalla parrocchia di S. Alessandro della Croce e poi dalla parrocchiale di S. Anna, finì con l’essere del tutto abbandonata. Fu soppressa nel 1806. L’ultimo suo destino, dopo essere servita come officina per un fabbro, era la demolizione (Pino Capellini, Renato Ravanelli. Op. Cit.), che si voleva porre in atto nel 1937 secondo un progetto di totale rifacimento dello stabile.

(11) Per gli affreschi, si veda la missiva di Don Angelo Rota pervenuta a Luigi Pelandi, il quale cita anche quelli desunti da una nota di Luigi Angelini: Madonna col Bambino e S. Giuseppe (sec. XIII); Madonna col Bambino e S. Antonio (sec. XV); Madonna con Bambino; frammenti vari; teste di santi; figura di S. Antonio (Luigi Pelandi, Op. Cit.).  Nel 1954 Angelini rinvenne poi un affresco nella sacrestia: una Natività attribuita al XIII secolo (strappata nel ’55 da Allegretti o da Arrigoni, forse sotto la direzione di Pelliccioli) e alcuni affreschi frammentari (Laura Marini, “Affreschi trecenteschi: S. Marta e S. Antonio in Foris”, Osservatorio delle arti: rivista semestrale dell’Accademia Carrara, n. 1, Lubrina, Bergamo, 1988, pagg. Da 30 a 37).

Riferimenti bibliografici

Luigi Angelini, “La lunetta duecentesca della chiesetta di Sant’Antonio in Foris”. In: “Cose belle di casa nostra”, Bergamo, Stamperie Corti, 1955.

Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966.

Tosca Rossi, “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012.

Maria Teresa Brolis, “LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995.

Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

Pino Capellini e Renato Ravanelli, “I borghi di Bergamo”. Grafica & Arte, 1984.

Francesco Rossi, “Accademia Carrara-Gli affreschi a Palazzo della Ragione”, Accademia Carrara, 1995.

Laura Marini, “Affreschi trecenteschi: S. Marta e S. Antonio in Foris”, Osservatorio delle arti: rivista semestrale dell’Accademia Carrara, n. 1, Lubrina, Bergamo, 1988, pagg. Da 30 a 37.