La Fontana di Sant’Agata e quel che c’era intorno: un percorso lungo due millenni

Fontana di S. Agata – Foto Giuseppe Preianò

Per lungo tempo la Fontana vicinale di Sant’Agata ha zampillato lungo la via, accogliendo gli avventori desiderosi di rinfrescarsi all’ombra del suo grande arcone, fino a quando i lavori di recupero effettuati nel 2009 ne hanno riportato alla luce l’assetto primitivo, rimasto per anni nascosto all’interno della volta murata.

Fino a una quindicina d’anni fa, e cioè prima dei lavori di ripristino, la fontana mostrava un muro posticcio, aggiunto nell’Ottocento, al centro del quale campeggiava un mascherone in arenaria consunto dal tempo, da cui usciva un semplice bocchettone per l’acqua. Della facciata originaria si intravedevano solo delle pietre disposte a formare un arco nella parte superiore, unica parte visibile della grande volta a tutto sesto, un tempo aperta sulla strada ed ora celata alla vista dei passanti.

La Fontana di S. Agata prima dei lavori di recupero effettuati nel 2009

 

La Fontana oggi

 

Oltre l’arcone della Fontana di S. Agata

Il suo aspetto originario non è dissimile a quello di tante altre fontane medioevali della città antica, come quella di Antescolis a fianco di S. Maria Maggiore, la Fontana secca in piazza Mercato delle Scarpe, la fontana del Corno alla Fara e quelle delle vie Porta Dipinta, Osmano, Solata, S. Giacomo, Donizetti, Pignolo, e Vagine, realizzate tutte presumibilmente nel corso del XIII secolo, come si deduce dall’uniformità dell’impianto, volta ad assicurare all’intera città una uguale fornitura d’acqua.

Pianta ricostruttiva della Bergamo medioevale (XIII secolo), secondo la ricostruzione di S. Angelini (1950)

L’evidente finalità di pubblica utilità è leggibile nell’aspetto sobrio ed essenziale, con la parte anteriore aperta al pubblico sormontata da un imponente volta e sul retro una cisterna, alla quale era possibile accedere attraverso uno sportello per i periodici spurghi e per le riparazioni.

Fontana vicinale di via Solata

Dagli statuti cittadini risulta che la manutenzione e la custodia delle fontane era affidata alle vicinie (associazioni di abitanti dello stesso quartiere che si riunivano per tutelare gli interessi comuni), allo stesso modo con cui alle stesse era fatto obbligo di provvedere ai portici, alle pizze e ad altre strutture utilizzate dagli abitanti in ogni singola vicinia; al Comune restava il compito di provvedere al buon funzionamento dell’acquedotto, sia fuori che dentro le mura: una consuetudine che si prolungò fino all’Ottocento.

La Fontana vicinale di S. Agata è citata nello Statuto del 1248 insieme alla Fontes Lux Morum di via Pignolo, e alle fontane del Vagine, del Cornus (via Fara), del Later (via Boccola), dove si ordina alle rispettive vicinie di provvedere alla loro custodia e di osservare la regolamentazione dell’uso delle acque.

La chiesa di S. Agata, documentata dal 908 ma forse presente anche nel secolo antecedente (1) divenne ben presto vicinale. A Bergamo l’organizzazione della città in vicinie è documentata dagli statuti cittadini che ne riferiscono i nomi e ne tracciano i confini a partire dal 1263 (giuntoci nella trascrizione del successivo statuto del 1331). Nel 1251, come risulta nella stesura di un trattato di pace tra Bergamo e Brescia, la città era divisa in diciassette vicinie e la vicinia di S. Agata comprendeva anche quella di Arena, che sarebbe diventata autonoma prima del 1263 mantenendo “intatti i diritti sulla chiesa di S. Agata e sul suo cimitero” (2)

LA BERGAMO ROMANA, MEDIOEVALE E RINASCIMENTALE 

L’intervento di rimozione delle strutture sovrapposte è stato guidato dalle testimonianze storiche sulla Fontana e dalle cognizioni sul sistema delle acque in quest’area della città: se da un lato il suo recupero ci ha privati delle sue preziose acque, dall’altro ha restituito alla cittadinanza un piccolo, ma significativo spaccato che abbraccia duemila anni di storia: oltre all’intero sistema idrico della fontana medioevale, anche i resti di un ambiente domestico d’epoca romana e il trigramma di San Bernardino, risalente al Rinascimento, affrescato sulla volta a botte che copre la Fontana. Il tutto oggi visibile all’interno di un esercizio commerciale, nel cuore antico della città, dove le case romane si impreziosivano di mosaici unici, le donne medievali attingevano alla Fontana e il trigramma celebrava la pace e le speranze all’alba del Rinascimento.

Del medioevale impianto idrico della Fontana di S. Agata sono stati recuperati il bacino di raccolta dell’acqua, il locale cisterna e i resti di una vasca di decantazione, nonché una canaletta di scarico di epoca romana.

Quest’ultimo ritrovamento, stimola ulteriori considerazioni sul perché, secoli dopo, proprio in questo luogo sia stata collocata una fontana: in via Salvecchio 12, durante i lavori di sistemazione di un edificio è tornato alla luce un tratto di acquedotto romano in maiolica, un calcare compatto (3) formato da nove setti in ghiera ad incastro, saldati con malta, ciascuno dei quali riporta la sigla del costruttore e i numeri romani per rispettarne la sequenza. Le caratteristiche della condotta, facente parte di un sistema finale di distribuzione dell’acqua, fanno ritenere che fosse in relazione con un edificio di notevole importanza.

Il tratto di acquedotto romano, risalente alla seconda metà del I secolo d.C. e perfettamente conservato, rinvenuto nel 1985 in un edificio privato di via Salvecchio e ritenuto raro anche in relazione agli insediamenti romani sul territorio lombardo. I setti, lunghi ciascuno 70-80 centimetri e dal diametro interno di 18, sono saldati con malta, mentre la conduttura era protetta da uno strato d’argilla, che ne aumentava l’impermeabilità. L’acquedotto romano era collegato con il con il Saliente di Castagneta, un’antica cisterna di raccolta delle acque (foto da Pino Capellini, “Acqua e acquedotti nella storia di Bergamo”. Ed. Ferruccio Arnoldi, Bergamo, 1990)

Dallo scavo è emerso che lungo lo stesso asse della conduttura idrica romana di via Salvecchio correva sia l’acquedotto medioevale che quello cinquecentesco, ancor oggi quasi interamente conservati (4). Per essere distribuita dentro la città, l’acqua doveva essere fatta passare per quei medesimi livelli che i Romani avevano sicuramente individuato e utilizzato, seguendo quindi un tracciato ben preciso, codificato dalle quote dello stesso abitato (5): nelle vicinanze passava infatti l’acquedotto Magistrale, che nel Medioevo andava ad alimentare 16 fontane, quante erano le vicinie, presentando una diramazione anche lungo la via Salvecchio, in direzione appunto della Fontana di Sant’Agata.

Dal Medioevo e fin verso la fine dell’Ottocento, l’impianto della Fontana di Sant’Agata fu dunque alimentato dall’acquedotto Magistrale: in un disegno del 1806 si individuano due collettori provenienti dal colle di S. Giovanni che si incrociano in via Salvecchio, uno dei quali prosegue nel vicolo S. Agata e l’altro raggiunge sulla destra la cisterna, interrompendosi con due fuoruscite nel vano della Fontana (6).

L’immagine riproduce lo schema di distribuzione delle acque nella città antica desunto da un disegno dell’ing. Elia Fornoni. All’altezza di Colle Aperto, gli acquedotti dei Vasi e di Sudorno confluivano in un’unica condotta, o acquedotto Magistrale, il cui percorso dentro la città seguiva un tracciato ben preciso. Per la distribuzione tra le varie fontane esistevano tre “partitori”, o vasche dalle quali si “dipartivano” dei canali più piccoli. Il primo partitore era situato nell’orto degli Albani, all’estremità nord-ovest della Cittadella. Rami minori portavano l’acqua dentro la Cittadella e al Mercato del Lino; più avanti un canale scendeva per via Salvecchio, tenendosi sul lato sinistro, fino alla fontana di S. Agata, mentre un altro provvedeva ad alimentare il monastero di S. Grata (schema di distribuzione delle acque nella città antica desunto da un disegno dell’ing. Elia Fornoni (fine ‘800) che si conserva presso la Civica Biblioteca di Bergamo – Diramazione degli antichi canali nella città di Bergamo – manoscritti AB-77 -, tratto da “Gli antichi acquedotti di Bergamo”, Nevio Basezzi, Bruno Signorelli. Comune di Bergamo, Assessorato all’urbanistica, 1992

DUE PAROLE SULLA BERGAMO ROMANA

Con la costituzione di Bergamo a municipium civium romanorum nel 49 a.C., si costituisce il centro politico, amministrativo, religioso e residenziale della Bergamo romana, con la creazione della cinta muraria, della rete idrica e fognaria, delle necropoli, dell’area forense, degli edifici da spettacolo, dei monumenti pubblici, delle domus e del sistema viario, che ha lasciato una forte eredità in termini urbanistici, influenzando notevolmente anche le successive fasi di sviluppo.

La Bergamo romana secondo l’ipotesi Angelini (1974)

È proprio all’incrocio tra le due principali arterie ortogonali (decumano massimo e cardine massimo) che è stato localizzato il Foro, cuore pulsante della città, esteso lungo un quadrilatero compreso tra Piazza Vecchia e Piazza Duomo-Ateneo  e via Bartolomeo Colleoni.

L’intersezione tra il decumano maximus (asse via Colleoni – via Gombito) e il cardine maximus (asse via S. Lorenzo-via Mario Lupo), si colloca in prossimità della torre di Gombito, costruita nell’antico punto di incontro tra le due vie romane principali, il cardo e il decumano. Il nome Gombito discende dal latino compitum, perché da quell’incrocio si cominciavano a contare le strade secondarie

La centralità del luogo, rispondeva all’intento di creare effetti monumentali e scenografici, tipici dell’architettura romana di quel periodo (età tardo-repubblicana e di prima età augustea), favoriti dall’essere Bergomum una città d’altura: il suo disegno dovette essere concepito secondo una “prospettiva dinamica”, perché fosse ben visibile dal basso e dall’esterno, facendo in modo che nei luoghi emergenti spiccassero gli edifici più emblematici o monumentali.

La città alta di Bergamo osservata dal torrente Morla nella zona di via Suardi. Sin dall’età romana, il modello canonico di pianificazione regolare dell’impianto urbano, tipico delle aree di pianura, è declinato alle caratteristiche topografiche e morfologiche di Bergamo Alta, che han dato luogo a un impianto caratterizzato da una particolare disposizione dell’abitato su piani inclinati, con isolati di forma irregolare. La “prospettiva dinamica” ne favorisce la visione dal basso e dall’esterno, esaltando nei luoghi emergenti gli edifici più emblematici o monumentali, come quelli oggi affastellati lungo le vie S. Giacomo e Porta Dipinta e sul cocuzzolo le chiese principali della città antica, a formare lo skyline di Bergamo

Sulla piazza circondata da portici, si affacciavano i più importanti edifici della città: i luoghi di culto (templi), la Curia dove si riuniva il Senato, la Basilica dove si celebravano i processi, il Tabularium (archivio), le botteghe, e i gabinetti pubblici.

Ne rintracciamo i resti in alcune domus, come quelle rinvenute sotto la Cattedrale di S. Alessandro, nel Museo degli scavi e del tesoro del Duomo e alla base della Torre del Campanone, dove lungo una grande parete del I secolo d.C., estesa per oltre trenta metri, si sarebbero allineate le tabernae dei commercianti, che segnano la delimitazione del Foro sul lato meridionale: via Colleoni confinava con il lato nord della piazza del foro, delimitata da un portico colonnato, di cui si è rinvenuto un blocco di architrave nel Teatro Sociale.

Porzione meridionale del Foro romano nei locali del Palazzo del Podestà (Hospitium Comunis Pergami), ai piedi della Torre civica (Campanone)

 

Porzione meridionale del Foro romano nei locali del Palazzo del Podestà (Hospitium Comunis Pergami) di Bergamo, ai piedi della Torre civica (Campanone)

È in quest’area nevralgica della città, che dovevano trovarsi anche le abitazioni più significative del tempo: non solo ricche domus provviste di pozzi (7), ma anche importanti edifici monumentali, come testimonia il recente ritrovamento davanti alla settecentesca facciata dell’ex chiesa di Sant’Agata,  al limitare del giardino oggi sede della Cooperativa Città Alta (Circolino): un poderoso muro – lungo una decina di metri e largo sino a un metro e sessanta centimetri – e frammenti di intonaci affrescati con frutti e fogliame dai colori vividi, resti di pavimenti in marmo policromo, tracce di stucchi a rilievo ed elementi decorativi in terracotta che ornavano il tetto dell’edificio: l’ennesima testimoninza dell’importanza rivestita da Bergamo in epoca romana, che rafforza l’ipotesi di un esteso e prospero insediamento urbano, posto nel punto di raccordo tra le montagne e la pianura.

I resti di un imponente edificio pubblico, venuti alla luce nel corso dei lavori di restauro dell’ex monastero di S. Agata, davanti alla facciata della ex chiesa, confinante col giardino. La struttura (muro) indica chiaramente la presenza di un grande ed importante edificio pubblico. scoperta rilevante per la storia della città

Le ragguardevoli dimensioni del muro, posto al centro degli scavi, e i resti degli elementi architettonici e ornamentali rinvenuti, suggeriscono la presenza di un imponente palazzo, affacciato sul decumano massimo – odierna via Colleoni -, nel quale si svolgevano funzioni pubbliche (8).

Fanno da quinta al sito archeologico una fila di sepolture e un muro con archi di epoca medievale: tutto materiale ancora allo studio degli esperti, e che altro racconterà della storia antica di Bergamo

Un altro edificio importante d’epoca romana è attestato dai resti rinvenuti all’interno del ristorante “Da Mimmo”, al civico 17d (9), pertinenti a un tempio oppure a un propileo o ad un ingresso monumentale (10), inseriti, come vedremo, in un contesto di epoca medioevale e rinascimentale.

Nei locali del ristorante “Da Mimmo”, in via Colleoni 17d, si è rinvenuta, a un metro e 70 dal piano stradale, una base attica di colonna in maiolica, inquadrabile nel II sec. d.C. La base poggiava su un parallelepipedo di pietre spesso 30 cm pertinente a una struttura d’età imperiale che si estendeva per circa 7 metri (ma probabilmente anche oltre) sotto le case che costeggiano la via. Si tratta probabilmente di quanto resta di un edificio di grande importanza, dato che le relative colonne dovevano avere un’altezza di 8 o 9 metri: probabilmente un tempio, oppure poteva far parte di una costruzione aperta come un propileo o un ingresso monumentale

La strada doveva essere lastricata, come dimostrano i tratti rinvenuti in via Colleoni/angolo via Salvecchio (11) e quello, notevole, formato da lastre in pietra arenaria delle cave di Castagneta, rinvenuto presso le case Pesenti,  dove già si erano rinvenuti preziosissimi cimeli e resti architettonici d’epoca romana (12), tornati alla luce nel corso dei lavori di demolizione di un vecchio edificio, abbattuto per dar aria e luce all’abitazione dei Secco Suardo: frammenti di un arco di marmo ed un frontone, chiari indizi di un edificio importante, una ben conservata aquila di bronzo, l’insegna della legione romana (13), e una tavola bronzea con iscrizione, che rappresenta un decreto onorario per M. Sempronius Fuscus, prefetto della coorte Betica (14).

In via Colleoni, dove oggi sorge il giardino di casa Tresoldi, nel 1871 sono tornate in luce  parecchie monete, una delle quali portante l’effigie di Trajano; i cocci di una grande anfora, alcuni tratti di un pavimento a mosaico e qualche grossa scaglia di marmo ornato di fregi (14). Inoltre, un’aquila di bronzo (metà del I secolo d.C./fine del II secolo d.C. ), che, con le ali spiegate, stringe tra gli artigli un globo e molti frammenti di una sottile tavola di bronzo rettangolare, fittamente incisa a caratteri alfabetici, rappresentante un decreto onorario per M. Sempronius Fuscus, prefetto della coorte Betica, disposto sotto la magistratura dei duoviri di una colonia non identificabile. Il personaggio in questione, evidentemente di rango equestre, si rese meritevole di questo onore per la moderazione nello svolgimento delle funzioni militari e per la liberalità nell’assolvere i debiti della colonia, alla pari di un concittadino. I duoviri esprimono la speranza che il successore sia simile a lui e intendono inviare due legati dell’ordine senatorio all’imperatore per rendere nota la sua ottima condotta e raccomandarlo. Per la datazione della tavoletta, l’ipotesi più accreditata la fa risalire al II secolo d.C., dall’età di Adriano in poi (15)

 

La tavola di bronzo rinvenuta nel 1871  nella gola di un pozzo, in corrispondenza dell’attuale giardino di casa Tresoldi, in via Colleoni

IL MOSAICO D’EPOCA ROMANA NEL SITO DELLA FONTANA DI S. AGATA

Ed e qui, a pochi passi dal centro della vita pubblica di Bergomum, che si trova ciò che resta di un ambiente domestico, rinvenuto al di sotto della Fontana di S. Agata. Si tratta di un pavimento a mosaico di grande superficie (mt. 2,30×2,40), realizzato con piccoli motivi cruciformi bianchi e tessere nere al centro e il cui motivo decorativo è attestato tra il I sec a.C. e il Il secolo d.C., collocandosi proprio nel periodo di consolidamento e strutturazione della città e delle istituzioni romane. Anche questo mosaico rappresenta un’ulteriore importante scoperta, costituendo un piccolo ma significativo tassello che arricchisce il quadro della Bergamo romana.

Fontana di S. Agata – Interno

 

Il pavimento a mosaico d’epoca romana rinvenuto nei locali della Fontana di S. Agata. Grazie ritrovamenti archeologici, sappiamo che in quest’area la strada era lastricata ed era posta a quota -1,80 m. rispetto all’attuale Corsarola

DALL’ALTOMEDIOEVO AL MEDIOEVO: VERSO LA NASCITA DELLE FONTANE VICINALI

Con la caduta dell’Impero Romano, a Bergamo come in altre città, ci furono mutamenti radicali nella ripartizione degli spazi urbani, nella destinazione e nella struttura degli edifici: già dalla fine del IV e soprattutto nel corso del V secolo, alcuni edifici della porzione centrale della città vennero abbandonati e, nel secolo successivo, spoliati allo scopo di recuperare materiali utili per nuove fabbriche.

Il complesso forense, edificato tra l’età tardo repubblicana e la prima età augustea, rimase in uso anche tra il II e il IV secolo d.C., con qualche modifica e ristrutturazione, ma alla fine del IV secolo fu abbandonato e subì opere di spoliazione di materiali edili da reimpiegare in nuove costruzioni. Nell’insula poco più ad est del foro, occupata da ricche domus, fu eretta nel V secolo una maestosa cattedrale a tre navate, con colonnati e pavimenti a mosaico, i cui resti sono oggi visibili al di sotto della cattedrale di Sant’Alessandro. La scelta del luogo è indicativa delle importanti trasformazioni religiose e civili avvenute in Bergamo e si pone come l’elemento maggiormente innovativo, sia urbanisticamente che socialmente. In questo settore si edificherà anche il complesso episcopale. Ulteriori mutamenti avverranno tra la tarda antichità e l’Altomedioevo.

Nell’area sottostante la Cattedrale di S. Alessandro, a seguito del disuso e dell’abbandono di domus di età romana che costituivano un complesso residenziale molto vicino al foro, viene fondata nel V secolo l’ecclesia della città, una basilica di grandi proporzioni, a tre navate, in cui sono riutilizzate basi di colonne romane, forse provenienti dal foro. Questo edificio rimane in uso fino alla realizzazione del grande complesso episcopale, che, tra la fine dell’XI e gli inizi del XII, sul medesimo luogo, porterà alla edificazione di una Cattedrale. D’altro lato, nell’area dell’Hospitium Comunis Pergami, in età altomedioevale l’area è divenuta luogo di sepoltura finché la ripresa dell’attività edilizia, diverrà assai più consistente tra XI e XIV secolo. Ed è in questo periodo che viene edificata la Torre Civica,  già attestata nel 1197

Nell’area sottostante la Cattedrale di S. Alessandro, a seguito del disuso e dell’abbandono di domus di età romana che costituivano un complesso residenziale molto vicino al foro, viene fondata nel V secolo l’ecclesia della città, una basilica di grandi proporzioni, a tre navate, in cui sono riutilizzate basi di colonne romane, forse provenienti dal foro. Questo edificio rimane in uso fino alla realizzazione del grande complesso episcopale che, tra la fine dell’XI e gli inizi del XII, sul medesimo luogo, porterà alla edificazione di una Cattedrale. D’altro lato, nell’area dell’Hospitium Comunis Pergami, in età altomedioevale l’area è divenuta luogo di sepoltura finché la ripresa dell’attività edilizia, diverrà assai più consistente tra XI e XIV secolo. In questo periodo viene edificata la Torre Civica, già attestata nel 1197.

Fontana di S. Agata – Foto Giuseppe Preianò

 

Fontana di S. Agata – Foto Giuseppe Preianò

 

Fontana di S. Agata – Foto Giuseppe Preianò

Nell’Altomedioevo, nei pressi della futura Fontana sorgeva, presso l’antica cinta muraria romana (ampliata all’inizio del X secolo), la chiesa di S. Agata, citata già nel 908 ma forse presente anche nel secolo antecedente: sappiamo che nel XII sec. la chiesa e il convento di S. Agata erano presieduti dall’ordine religioso degli Umiliati, dedito alla lavorazione e alla follatura della lana, per la quale era necessaria la vicinanza a un corso d’acqua o a una sorgente molto ricca di calcare, elemento indispensabile per l’infeltrimento (quindi la compattezza) del tessuto.

Il ristoro “Circolino” occupa la ex chiesa di S. Agata (l’ala sud del complesso monastico), uno spazio in origine a navata unica, chiuso a est da un presbiterio con abside semicircolare (oggi corrispondente alla cucina) e coperto da una volta a botte suddivisa in tre campate. L’antica navata corre parallela al bancone del locale

All’inizio del secondo millennio il governo cittadino avverte chiaramente la complementarietà della zona pianeggiante posta ai piedi del mons civitatis e l’esigenza di assorbirla, quale presupposto indispensabile del suo sviluppo: mentre la città sul colle si infittisce di torri, si articolano i borghi e si segna il territorio suburbano col tracciato di canali artificiali destinati ad incrementare le attività artigianali e gli insediamenti produttivi del Comune. Nel contempo, il vasto suburbio della città è oggetto di un preciso piano difensivo volto a creare un sistema fortificato costituito da porte-torri (come la stongarda di Longuelo), torri isolate e veri e propri castelli.

All’interno di questo sistema vi era anche il castello dell’Allegrezza nella valletta di Astino, disposto a formare con altre tre torri poste nei pressi un quadrilatero. Il castello dovrebbe corrispondere a quel castrum de Lungullo, posto tra il castello di Mozzo e Astino, che viene indicato per la prima volta nello statuto del 1353 come proprietà di Alberto Suardi e anteriormente dei La Crotta: un presidio fortificato inserito nel sistema difensivo del suburbio (Ph Claudia Roffeni)

All’interno delle mura, Bergamo si arricchisce di edifici, spazi commerciali, strutture di servizio per raccogliere e distribuire l’acqua. E’ a questo periodo, il XIII secolo, che risale la Fontana di Sant’Agata, sorta con la suddivisione della città in vicinie (quella di S. Agata è citata nello statuto del 1248), quando ogni quartiere viene dotato di fontane che svolgeranno un ruolo importante nella vita quotidiana della Bergamo medioevale.

Fontana di S. Agata – Vano cisterna.

 

Fontana di S. Agata – Vano cisterna. Sulla sinistra compare l’incisione del Sole delle Alpi, simbolo di età longobarda

Provvista di un vano aperto al pubblico e protetta da un arco a tutto sesto con retrostante cisterna, la fontana di S. Agata era situata a un livello inferiore rispetto al piano della strada, raggiungibile da una breve scalinata; le coperture dovevano essere sfalsate e a due falde ed era probabilmente isolata, cioè non inglobata in nessun edificio, come quella che appare ancor oggi in via Porta Dipinta, presso la chiesa del Pozzo Bianco.

Come la Fontana di via Porta Dipinta, presso la chiesa del Pozzo Bianco, anche la primitiva Fontana di S. Agata  era probabilmente isolata

Con il sorgere del Comune numerose torri si elevarono sul colle all’interno delle mura. Esse appartenevano ai feudatari inurbati che per affrancarsi dal regime feudale, sentivano il bisogno di porre la loro residenza turrita in città, dove volevano inserirsi nella vita sociale del Comune, sia pure con spiegabili pretese di egemonia militaresca. Costoro spesso mantenevano le proprietà fondiarie nella campagna e la loro torre urbana sottolineava la persistente autonomia e isolamento all’interno della cinta muraria (16).

Le torri, erette prevalentemente all’inizio del periodo comunale come segno di potenza e di distinzione, divennero gli strumenti principali di difesa e offesa solo sul finire del XII secolo, quando, cessata la minaccia del Barbarossa, che era stata motivo di concordia interna, con il subentro del regime podestarile si scatenarono le violente lotte civili. Le torri evidenziavano nel paesaggio urbano i vari nuclei di potere, divisi anche a Bergamo tra Guelfi e Ghibellini, capeggiati i primi dai Rivola, i secondi dai Suardi, che avevano residenze fortificate nelle vicinie di S. Agata, di S. Matteo e di S. Pancrazio. Una torre dei Suardi dominava la zona centrale e più importante della città, e proprio per questa sua posizione baricentrica dovette essere ceduta nel XIII secolo al Comune e diventò espressione stessa del regime comunale. A differenza delle altre torri, molte delle quali vennero mozzate o mutarono proprietario, la torre civica si elevò ulteriormente, aprendosi a loggia per accogliere le campane del Comune (AA.VV., “Le Mura di Bergamo”. Azienda Autonoma del Turismo di Bergamo. 1977)

Nel corso del XIII secolo la Fontana di S. Agata venne inglobata in un’ampia costruzione che comprendeva probabilmente anche una TORRE ritenuta dei Suardi, impostata proprio sulle strutture della Fontana e ancora riconoscibile osservando la struttura muraria su vicolo S. Agata (17). A pochi passi,  la vicina chiesa di S. Agata era presieduta dai frati Militi Gaudenti, incaricati di garantire la pace fra le fazioni cittadine.

La fontana posta al piede della torre dei Suardi (parzialmente conservata). Le fronti sul vicolo delle Carceri hanno aperture di diverso tipo, con tracce di antiche aperture ora murate (18) – (AA.VV., “Le Mura di Bergamo”, cit.)

Il nuovo edificio avanzò di circa due bracci verso l’attuale via Colleoni, coprendo la scalinata di accesso della Fontana. Nel frattempo il livello stradale si era notevolmente alzato per la rimanenza il loco di macerie provenienti da demolizioni di costruzioni, che al tempo, date le estreme difficoltà di trasporto, rimanevano sul posto (19). Ciò rendeva il prelievo dell’acqua molto più scomodo.

Apprendiamo che l’edificio sovrastante la fontana, intorno al 1263 doveva ospitare la “Canova” ossia il magazzino comunale del sale. La “Canova” mutò sede nel corso dei secoli, e si suppone che la vicina via Salvecchio possa aver preso il nome da un precedente vecchio deposito.

L’edificio all’angolo tra via Colleoni e vicolo S. Agata (civico 13 di via Colleoni) dovette essere, nel XIII secolo, un deposito del sale, ingrediente preziosissimo allora utilizzato anche per la conservazione degli alimenti e da sempre soggetto a monopolio governativo. Il compito di ripartire la gabella sul sale era demandato alle vicinie. Si legge in un articolo on line redatto da Andreina Franco Loiri Locatelli per Bergamosera (non più reperibile) che il Comune dava in cessione la riscossione del dazio ad una compagnia di appaltatori verso i quali le singole vicinie risultavano solidalmente responsabili. Ogni vicinia, ricevuta la quantità di sale che ad essa spettava e che veniva conservata in uno “stacium” attrezzato, la ripartiva fra le famiglie “in una ragione composta dei loro averi e dei membri che le componevano”. Ma a partire dall’inizio del Trecento l’acquisto del sale, a Bergamo come in molte altre città, divenne un obbligo. Anzi alla tassa sul “sale vivo”, cioè effettivamente acquistato, si aggiunse quella sul “sale morto”, non distribuito. Si trattava di una tassa aggiuntiva il cui importo era determinato dalla quantità di “sale vivo” assegnato a ciascuna famiglia. E al “sale morto” si fece ricorso con sempre maggiore frequenza in occasione di impreviste spese di guerra

Da quanto rimane delle attrezzature idrauliche si può ipotizzare che l’acqua proveniente dalla conduttura di via Salvecchio raggiungesse la cisterna per poi diramarsi nei caseggiati circostanti, tra cui troviamo la Casazza (in origine dei Suardi, oggi ristorante “Da Mimmo” e risalente alla prima fase del Trecento/1357), il Luogo Pio Colleoni (voluto da Bartolomeo Colleoni nel 1466, sorto nelle case un tempo appartenenti a Baldo e Giovanni Suardi) e il convento di S. Agata (iniziato a costruire nella prima metà XVIII secolo, ma preceduto, dalla prima metà del XIV secolo, da alcune domus ecclesiae S. Agathae collocate a ridosso dell’abside). Dal serbatoio l’acqua, attraverso un bocchello entrava nel vano della fontana pubblica da dove poteva essere prelevata (20).

La Casazza, dimora fortificata, in parte in conci squadrati di pietra arenaria di Sarnico, oggi occupata dai locali de ristorante “Da Mimmo”, presenta al piano terra una lapide che riporta la descrizione utilizzata nel tardo Medioevo per descrivere l’edificio: “QUESTO EDIFICIO DETTO ‘LA CASAZZA’/COSTRUITO DA BALDINO SUARDI NEL 1357/RITENUTO ALLORA IL PIU’ FASTOSO/PALAZZO PRIVATO DELLA CITTA’/FU SEDE DEL SERVIZIO POSTALE VENETO/ACA 1951”. Secondo un recente articolo pare invece che l’edificio risalga alla prima fase del Trecento, quando il ghibellino Baldino Suardi decise di acquistarlo e renderlo dimora del proprio casato, ubicato in posizione strategica nei pressi della Cittadella voluta da Bernabò Visconti, con il quale Baldino si era imparentato tramite il matrimonio fra i rispettivi figli. Con l’avvento della Repubblica di Venezia, la casata fu costretta a cedere lo stabile ai Veneziani, che decisero di destinarlo al deposito del sale e al servizio postale della Serenissima. La Casazza fu nuovamente acquistata dai Suardi prima nel 1509 e poi nel 1598 prima di cederla definitivamente nei decenni successivi ai Benaglio. Le aperture architravate del pianterreno conservano l’aspetto tipico delle botteghe medioevali

IL RINASCIMENTO E IL TRIGRAMMA DI SAN BERNARDINO SULLA VOLTA A BOTTE CHE SOVRASTA LA FONTANA

Sulla volta a botte che copre la fontana è venuto alla luce un antico affresco con il trigramma di San Bernardino, databile tra il XV ed il XVI secolo. diffuso da San Bernardino da Siena dopo la sua venuta a Bergamo tra il 1411 e il 1419 per predicare la concordia tra i Guelfi ed i Ghibellini della città: è il simbolo legato alla presenza del santo a Bergamo, in cui realizzò un nuovo convento francescano dove ora sorge la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Porta Nuova.

Il trigramma è iscritto in un sole raggiato giallo oro su campo bianco stellato, databile tra il XV e il XVI secolo. La sigla IHS (in greco IHZ) indica per alcuni il nome IHZOYZ (cioè “lesous’: Gesù); per altri il motto costantiniano “ln Hoc Signo (Vinces), “Con questo segno vincerai”.

Il trigramma fu ideato e disegnato da San Bernardino stesso (considerato non a caso patrono dei pubblicitari), che diede ad ogni elemento del simbolo un significato: il sole centrale è chiara allusione a Cristo che dà la vita e suggerisce l’idea dell’irradiarsi della Carità. I dodici raggi serpeggianti sono i dodici Apostoli; gli otto raggi diretti rappresentano le beatitudini; la fascia che circonda il sole rappresenta la felicità infinita dei beati, il celeste dello sfondo è simbolo della fede; l’oro dell’amore.

Il trigramma di S. Bernardino da Siena affrescato sulla volta a botte che copre la fontana ed iscritto in un sole raggiato giallo oro su campo bianco stellato. La sigla IHS indica le prime tre lettere del nome “Iesous” (Gesù). le lettere H e S erano rispettivamente una eta e una sigma dell’alfabeto greco; ma si sono date anche altre spiegazioni, come l’abbreviazione di “In Hoc Signo (vinces)”, il motto costantiniano, [“in questo segno vincerai”] oppure Iesus Hominum Salvator [“Gesù salvatore degli uomini”]. Il significato mistico dei raggi serpeggianti era espresso in una litania: rifugio dei penitenti; vessillo dei combattenti; rimedio degli infermi; conforto dei sofferenti; onore dei credenti; gioia dei predicanti; merito degli operanti; aiuto dei deficienti; sospiro dei meditanti; suffragio degli oranti; gusto dei contemplanti; gloria dei trionfanti
Il Rinascimento fu per Bergamo un’epoca di profondi cambiamenti. La città doveva essere meglio difesa, essere un valido bastione verso Milano e tenere aperti i valichi preziosi verso i Grigioni e il centro Europa. Pur tenendo attive alcune parti della cinta muraria medievale, furono costruiti nuovi bastioni e nuove piattaforme ed infine l’intero impianto fu rivisto e ridisegnato.

All’interno delle mura, intanto, avvenivano analoghi mutamenti nelle costruzioni, negli stili, nel modo di vivere. Se da una parte infatti una parte della popolazione fu costretta a reinsediarsi nella citta bassa a causa delle demolizioni operate per la costruzione delle Mura e dei controlli che danneggiavano i mercanti non particolarmente ricchi, un’altra porzione di popolazione risalì il colle alla ricerca di un alloggio all’interno del fitto tessuto di case, perlopiù medioevali, costituite da uno o due piani, oltre al piano terra occupato da botteghe o laboratori e con le aree libere interne agli isolati.

Condizionati dall’anello delle Mura e costretti a cercare spazio, gli edifici vennero innalzati con sopralzi di uno o due piani, superandosi l’uno sull’altro alla ricerca di luce e di sole. Venne poi costruita una seconda linea di case, interna al fronte affacciato su strada, inserendo nella fascia intermedia diversi corpi trasversali intervallati da cortili. Ad infittirsi fu soprattutto l’asse principale della città che corre lungo le attuali vie Gombito e Colleoni.

Fontana di S. Agata – Foto Giuseppe Preianò

LA FONTANA TRA SETTE E OTTOCENTO

Sappiamo che la torre dei Suardi, posta a fianco della fontana, fu inglobata in un edificio del XVIII secolo (21), inserita cioè nel palazzo Secco Suardo, tra le famiglie della nobiltà bergamasca che potevano vantare origini più antiche: uno dei rami, insieme a quello dei Suardi e dei Suardo, provenienti da un unico ceppo risalente al XIII secolo, precisamente da un Lanfranco del secolo XIII. “I vari rami del casato hanno legato il loro nome a quattro edifici, in Bergamo: l’antica “Domus Suardorim” di Piazza Vecchia, sede del Podestà dopo il 1216; quello successivamente passato alla Funicolare, quello dei Secco Suardo in via S. Salvatore, 7; infine quello di via Pignolo” (22).

L’edificio Tresoldi risale al XIII secolo (torre) con trasformazioni nel Settecento e nell’Ottocento e restauri parziali nel 1941. Al primo piano volte a padiglione con affreschi, al pt locali con volte a botte e a crociera (23 ) Nell’inventario dei beni culturali il palazzo è indicato al civico 13-13A-B-C-D (Foto Giuseppe Preianò)

In effetti, nel 1758 l’area in cui sorge la fontana risulta di proprietà Secchi-Suardi (24), che da queste parti dovevano possederne altre, in quanto già nel 1686, di fronte al palazzo esisteva un vero e proprio teatro privato di estrazione nobiliare, costruito su iniziativa del conte Giuseppe Secco Suardo, nel suo palazzo sito in contrada di Sant’Agata (25).

Nelle adiacenze della Fontana, vi era inoltre un pons Suardorum, che compare ancora nella mappa catastale del 1811, ma che viene demolito nel 1825 (26).

Ad ogni modo, nella mappa catastale del 1876 (che mostra i mappali del teatro secentesco) l’edificio oltre il vicolo con n. di mappa 410 risulta in proprietà alla Partita 3814 dei fratelli Scotti nobile Giovanni e sacerdote Carlo. L’ edificio che occupava l’area dell’attuale giardino Tresoldi risultava in proprietà dei fratelli Conti Secco Suardo Bartolomeo e Giulio (27).

Palazzo Secco Suardo (413, 415) nella mappa castastale di Bergamo (1876). Il teatro Secco Suardo, un un vero e proprio teatro privato di estrazione nobiliare, fu costruito nella seconda metà del 1686 (attivo fino al 1695) su iniziativa del conte Giuseppe Secco Suardo, nel suo palazzo sito in contrada di Sant’Agata (ASBg, Catasto lombardo veneto, mappe) – (da Francesca Fantappiè, «Per teatri non è Bergamo sito». La società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ’600 e ’700. Copyright © 2010 by Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo)

L’accesso alla fontana fu possibile fino all’Ottocento, quando ancora il prelievo avveniva in sottoquota, ma a causa delle continue lamentele dei residenti, per agevolare il prelievo dell’acqua nel 1884 (28) il fronte venne chiuso da un muro di tamponamento e il punto di prelievo spostato in avanti ed innalzato al livello della via, grazie all’installazione di una pompa meccanica ad azionamento manuale; nel contempo il collegamento dei due vani ne raddoppiò la capacità (29): si poterono così evitare “tutti gli otto o dieci gradini che prima bisognava fare per attingere l’acqua e che costituivano un pericolo grave” (30).

Un articolo de L’Eco di Bergamo informa che sopra la fontana vi era un vecchio tabernacolo consacrato alla Madonna Addolorata, che dietro insistenza degli abitanti venne ricollocato al suo posto alla fine dei lavori. Grazie a una raccolta di fondi intrapresa da un gruppo di operai, il vecchio quadro della Madonna fu fatto pulire, ornato di una nuova cornice e collocato “in una nicchia difesa da un forte graticcio di ferro e adorna di un bel lanternino” (31).

Intorno al 1928 fa la fontana era stata risistemata dagli ing. Luigi Angelini e Cesare Selvelli e sul muro di fondo (32), tra l’arco e la volta vi era un bassorilievo in ceramica colorata di tipo robbiano rappresentante l’Annunciazione (33).

Fontana di S. Agata – Foto Giuseppe Preianò

L’impianto della Fontana di Sant’Agata fu alimentato dall’acquedotto Magistrale fin verso la fine dell’Ottocento e nel 1889 entrò in funzione un nuovo acquedotto municipale, con l’acqua che veniva pompata dal serbatoio di S. Agostino a quello sul colle del Seminario, mentre una condotta per i colli entrò in esercizio nel 1892 (34).

Nel 1920 la Fontana fu restaurata da Ciro Caversazzi che, probabilmente, fece collocare il mascherone da cui sgorga l’acqua (35). Dopo questa data, in un periodo imprecisato l’immobile risulta di proprietà Donadoni, per essere acquistato dalla Famiglia Tresoldi nel 1953 (36).

Negli ultimi anni i due vani collegati erano stati utilizzati come cisterna per la nafta al servizio dell’impianto per la panificazione e solo con la metanizzazione i vani erano stati liberati e utilizzati a ripostiglio (37), fino all’intervento di recupero promosso dalla proprietà dello stabile effettuato nel 2009, che, come detto, ha riportato alla luce, oltre all’intero sistema idrico medioevale – con il suo bacino di raccolta dell’acqua, il locale dove attingerla e i resti di una vasca di decantazione -, anche un affresco d’epoca rinascimentale sulla volta della fontana e i resti di un ambiente domestico d’epoca romana, con annessa canaletta di scarico: un tassello piccolo ma prezioso nel quale si concentrano due millenni di storia di Bergamo.

Come beffardo contrappasso al posto della fontana era sorta un’enoteca, in seguito sostituita da un altro esercizio commerciale.

Note

(1) A. Mazzi, “Alcune indicazioni per servire…” pag. 20. La chiesa di S. Agata fu presieduta dapprima dall’ordine religioso degli Umiliati, poi dai frati Militi Gaudenti, incaricati di garantire la pace fra le fazioni cittadine e, a partire dal 1357, dai Padri Carmelitani, che la ampliarono nel 1450. Insieme alla sua consacrazione nel 1489, il Vescovo Lorenzo Gabrieli ne ufficializzò l’investitura parrocchiale, considerato che la vicinia contava ormai un congruo numero di abitanti. Per le vicende degli Umiliati, si veda: Maria Teresa Brolis, “Gli Umiliati a Bergamo nei secoli XIII e XIV”. Casa editrice: Vita e Pensiero, 1991.

(2) Fornoni 1905, p.70.

(3) Stefania Casini, Maria Fortunati (a cura di), “Bergomum. Un colle che divenne città”. Catalogo della mostra (Bergamo, 16 febbraio-19 maggio 2019). Lubrina Bramani Editore, 2019.

(4) Raffaella Poggiani Keller, Maria Fortunati Zuccàla, Il caso di Bergamo. In “La Città nell’Italia settentrionale in età romana. Morfologia, strutture e funzionamento dei centri urbani delle Regiones X e XI”. Atti del convegno di Trieste (13-15 marzo 1987).

(5) Pino Capellini, “Acqua e acquedotti nella storia di Bergamo”. Ed. Ferruccio Arnoldi, Bergamo, 1990.

(6) Il documento in questione è una copia in scala 1/2 del disegno topografico delle acque sotterranee nell’interno della Città di Bergamo dell’ing. Andrea P. Respino redatta dall’ Arch. Carlo Capitanio e risalente al 1806 (copia visibile presso il restauratore Leonida Stefanoni di Bergamo). A quella data il Fontanaro risultava certo Bortolo Beretta. Dal disegno si evince che a quella data il vano della Fontana era ancora perfettamente agibile e funzionante, essendo individuabili due collettori provenienti dal Colle S. Giovanni che si incrociano in via Salvecchio, di cui uno prosegue nel vicolo S. Agata e l’altro raggiunge sulla destra la cisterna, interrompendosi con due fuoruscite nel vano della Fontana. Il numero dell’ utenza risulta il 234 (Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata. Bergamo 1995).

(7) In via Colleoni si sono ritrovati una domus al civico 30, un pozzo (i pozzi erano generalmente collegati a cisterne) e resti di struttura (Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana. Catalogo della Mostra tenuta a Bergamo nel 1986. Comune di Bergamo, Assessorato alla cultura, Civico museo archeologico. Giampietro Brogiolo. Panini, Modena, 1986).

(8) L’Eco di Bergamo, sabato 20 Aprile 2024, “Sant’Agata svela la Bergamo romana”.

(9) Il numero civico è precisato in Stefania Casini, Maria Fortunati (a cura di), “Bergomum. Un colle che divenne città” (op. cit.), che indica per i n. civici 23-24 un’altra base di colonna.

(10) Notizia rintracciata in Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana”, op. cit. e nell’Inventario dei Beni Culturali, Ambientali e Archeologici del Comune di Bergamo.

(11) Stefania Casini, Maria Fortunati (a cura di), “Bergomum. Un colle che divenne città” (op. cit.).

(12) Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana”, op. cit.

(13) In via Colleoni, in corrispondenza del civico 69, c’era una vecchia casupola un tempo appartenuta a Bartolomeo Colleoni e da questi donata nel 1468 al Luogo Pio della Pietà, acquistata dal conte Alessandro Secco Suardo e da questi demolita nel 1871 per dar aria e luce all’attigua abitazione. Durante la demolizione, fu trovata in un pozzo una tavola bronzea con iscrizione, insieme ad oggetti fittili e di metallo, tra cui monete imperiali, un’aquila di bronzo che, con le ali spiegate, stringe tra gli artigli un globo: nell’Ottocento, nella bergamasca se ne trovò una simile anche a Cicola sul colle Roccoli e da confronti effettuati, potrebbe risalire a un periodo compreso tra la metà del I secolo d.C. e la fine del II secolo d.C. (Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana”, op. cit.).

(14) Le condizioni del rinvenimento sono descritte da Paolo Vimercati Sozzi nel manoscritto dal titolo Raccolta di iscrizioni di vari tempi e luoghi della città e provincia. In: Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana”, op. cit.

(15) Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana”, op. cit.

(16)  AA.VV. “Le mura di Bergamo”. Azienda Autonoma del Turismo di Bergamo. Anno 1977.

(17) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.

(18) Inventario dei Beni Culturali, Ambientali e Archeologici del Comune di Bergamo.

(19) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.

(20) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.

(21) Arnaldo Gualandris, La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta.  U.C.A.I., 2008.

(22) Bascapè Giacomo C., Perogalli Carlo (a cura di), “Palazzi privati di Lombardia”. Milano, Electa Editrice per Banco Ambrosiano, 1964. Altrove si legge che nel 1517 ebbe origine il casato dei Secco Suardo, a partire da Maria Secco Suardo, figlia di Socino Secco e data in sposa a Lodovico Suardi. Il doppio cognome era dovuto a questioni di eredità che Socino Secco lasciò, a patto che il suo cognome fosse tramandato in aggiunta a quello del genero (Andreina Franco Loiri Locatelli, La casa della Misericordia, La Rivista di Bergamo, p. 81). Di questo casato si ricordano Giovanni noto restauratore, e Paolina Secco Suardo, meglio conosciuta con lo pseudonimo di Lesbia Cidonia nei suoi componimenti risalenti al XVIII secolo.

(23) Bascapè Giacomo C., Perogalli Carlo (a cura di), “Palazzi privati di Lombardia”, op. cit.

(24) Nel 1758, “nell’Inventario dei Beni della Città dell’agrimensore Gio. Tomaso Botelli non risulta alcuna proprietà pubblica della Fontana, ma, se si riferisce alla zona il cabreo di pagina 10, di 11 botteghe e abitazioni nelle adiacenze, mentre l’area della Fontana sarebbe indicata di proprietà Secchi-Suardi” (Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.).

(25) Francesca Fantappiè, “Per teatri non è Bergamo sito”. La società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ’600 e ’700. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

(26) Nella mappa catastale del 1811 “la Fontana è individuata nella sua estensione e compare ancora il Pons Suardorum nelle adiacenze”, demolito nel 1825 (Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.).

(27) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit., dove si aggiunge che l’ingombro della Fontana non compare.

(28) Arnaldo Gualandris, “La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta”, op. cit., che trae la notizia da un articolo de L’Eco di Bergamo datato 22 febbraio 1884.

(29) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.

(30) Arnaldo Gualandris, “La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta”, op. cit., che trae la notizia da un articolo de L’Eco di Bergamo datato 22 febbraio 1884.

(31) Arnaldo Gualandris, “La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta”, op. cit., che trae la notizia da un articolo de L’Eco di Bergamo datato 22 febbraio 1884.

(32) Arnaldo Gualandris, “La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta”, op. cit.

(33) Inventario dei Beni Culturali, Ambientali e Archeologici del Comune di Bergamo.

(34) Nevio Besezzi, Bruno Signorelli, “Gli antichi acquedotti di Bergamo”. Stamperia Stefanoni, Bergamo, 1992.

(35) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit., dove si precisa che la notizia non è accertata.

(36) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.

(37) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.

Riferimenti

Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata. Bergamo 1995.

Raffaella Poggiani Keller, Maria Fortunati Zuccàla, Il caso di Bergamo. In “La Città nell’Italia settentrionale in étà romana. Morfologia, strutture e funzionamento dei centri urbani delle Regiones X e XI”. Atti del convegno di Trieste (13-15 marzo 1987).

Pino Capellini, “Acqua e acquedotti nella storia di Bergamo”. Ed. Ferruccio Arnoldi, Bergamo, 1990.

Stefania Casini, Maria Fortunati (a cura di), “Bergomum. Un colle che divenne città”. Catalogo della mostra (Bergamo, 16 febbraio-19 maggio 2019). Lubrina Bramani Editore, 2019.

Nevio Besezzi, Bruno Signorelli, “Gli antichi acquedotti di Bergamo”. Stamperia Stefanoni, Bergamo, 1992.

Arnaldo Gualandris, La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta.  U.C.A.I., 2008.

L’Eco di Bergamo, sabato 20 APRILE 2024, “Sant’Agata svela la Bergamo romana”.

Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana. Catalogo della Mostra tenuta a Bergamo nel 1986. Comune di Bergamo, Assessorato alla cultura, Civico museo archeologico. Giampietro Brogiolo. Panini, Modena, 1986.

Bascapè Giacomo C., Perogalli Carlo (a cura di), “Palazzi privati di Lombardia”. Milano, Electa Editrice per Banco Ambrosiano, 1964.

Francesca Fantappiè, “Per teatri non è Bergamo sito”. La società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ’600 e ’700. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

La salita al monte Ubione e al suo Castello: una piccola cima ricca di sorprese

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini

Posto all’estremo sud delle Prealpi orobiche il monte Ubione è la prima cima che si incontra salendo la Val Brembana, segnando il confine tra questa e la Valle Imagna, di cui rappresenta la “porta d’ingresso”. Nonostante la modesta altitudine (895 metri), la cima offre uno spettacolare panorama sulle valli Imagna e Brembana e verso le pianure. Lungo il suo percorso, che si diparte dall’abitato di Clanezzo, si intersecano due itinerari:  il percorso ciclo-pedonale del Chitò, che si snoda lungo il sedime di un canale che trasportava le acque dell’Imagna alla Centrale elettrica di Clanezzo, e termina nei pressi di Capizzone (ne abbiamo parlato qui e qui), e un percorso escursionistico, il Sentiero del Partigiano “Angelo Gotti”, che inizialmente ricalca il sentiero per il monte Ubione.

Presso l’agriturismo Belvedì, compare un pannello informativo sul Sentiero del Partigiano Angelo Gotti,  che ricalca inizialmente il tracciato per la vetta dell’Ubione e che si abbandonerà una volta raggiunto un bivio (segnalato). Il sentiero è dedicato al giovane partigiano appartenente alla formazione “Val Brembo”, banda partigiana inquadrata tra le fila della brigata Fiamme Verdi “Primo Maggio”, catturato nei pressi del comando tattico Cascina Como, sul monte Ubione, e ucciso il 23 novembre 1944 (Fotografia di Maurizio Scalvini)

La modesta quota non toglie nulla al fascino di cui si gode da questa cima, che oltre ad ospitare un bivacco e comode attrezzature per rifocillarsi in plein air, offre all’escursionista la possibilità di  osservare da vicino i resti della leggendaria rocca risalente al X secolo, disposti sul pianoro che ospita la croce di vetta.

Inserito in un sistema difensivo che comprendeva anche il Castello di Clanezzo, il fortilizio fu fatto edificare da Attone di Guiberto, ultimo dei Conti di Lecco a possedere la Corte di Almenno, per contrastare qualunque assalto dalla pianura o dalle montagne e assicurarsi il controllo di tutta la zona: nel contempo, il millenario ponte di Clanezzo avrebbe consentito una via di comunicazione privilegiata con le fortezze di Clanezzo e del monte Ubione.

Il monte Ubione con il Santuario della Madonna del Castello, ad Almenno S. Salvatore, sede dell’antica Corte Regia di Lemine. Sulla vetta, osservatorio ottimale sulla pianura e sulle valli, il conte Attone di Guiberto fece edificare (X sec.) una rocca provvista di torricella, che col tempo assunse una grande importanza per il controllo del territorio, per divenire nel corso del ‘300 l’avamposto dei temuti ghibellini della Val Brembilla (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Ampliata successivamente, divenne nel ‘300 il covo dei temuti ghibellini della Val Brembilla capitanati dai Dalmasoni di Clanezzo e dai Carminati di Ubiale, che, fedeli ai ghibellini Visconti e ostili alla guelfa Venezia, da “questo nido di umani avvoltoi” scendevano a valle a depredare i paesi di fede guelfa, compiendo le più crudeli rappresaglie. Per porre fine alle angherie compiute nei confronti della popolazione locale, tutte le case e le fortezze della Val Brembilla, compresa quella sul monte Ubione, vennero rase al suolo dai Veneziani nel gennaio del 1443, nel corso della campagna militare contro i ribelli Brembillesi, che vennero cacciati dalle loro terre e confinati oltre l’Adda. Da allora il bosco coprì tutta la montagna; sulla vetta, scomparse le vestigia dell’antico passato, non salirono che cacciatori e boscaioli.

Nel 1819 sulle pendici del monte se ne vedevano ancora le rovine, ammassate e rotolate a valle, mentre – si dice -, gli scavi eseguiti nel 1841, portarono alla luce armi (verrettoni, pugnali, e picche, e chiovi a larghe capocchie), che vennero portate al Castello di Clanezzo, di cui a quei tempi Paolo Beltrami era il signore (1).

Pochi decenni or sono, i lavori compiuti per ospitare la croce di vetta hanno portato alla luce alcuni reperti e i resti delle antiche strutture che creano oggi una sorta di museo a cielo aperto, a disposizione di chiunque lo voglia visitare.

IL PERCORSO PER IL MONTE UBIONE

Il percorso,  che  si sviluppa quasi completamente nel bosco, è sicuro e ben segnalato, richiedendo un certo sforzo solo nel tratto ripido in prossimità della cima. La salita richiede circa un’oretta e mezza di cammino, presentando un dislivello di 550 metri. E’ ideale per escursioni durante tutto il corso dell’anno, grazie alla felice esposizione del sentiero, che si sviluppa lungo il versante meridionale del monte.

La partenza avviene da Clanezzo, dove vi sono numerosi parcheggi liberi (inizio di via Belvedere o in prossimità del cimitero). Seguendo la strada asfaltata dietro il Castello, si imbocca la via Belvedere ed in breve si raggiunge l’agriturismo Cascina Belvedì, da cui si intraprende il sentiero CAI 571 noto anche come “Periplo della Valle Imagna”: un tracciato che sale gradualmente fra i boschi di castagno e che inizialmente ricalca il Sentiero del Partigiano “Angelo Gotti”, che si abbandona una volta giunti al bivio piegando a destra.

Indicazioni CAI all’uscita di Clanezzo (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Agriturismo Cascina Belvedì (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

 

Il bivio tra il Sentiero Partigiano Angelo Gotti (a sinistra), e CAI 571 per il monte Ubione (a destra) – (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Si affronta quindi la prima parte della ripida ascesa che conduce alla vetta, tra boschi di castagni, carpini neri e rare betulle, fino a raggiungere in circa mezz’ora il pianoro situato a metà costa del monte Ubione, che consente  all’escursionista di riprendere fiato prima di raggiungere il Passo della Regina (744 metri) e intraprendere l’ultimo strappo.

Da quest’ampia radura, lo sguardo può vagare in lontananza, godendo di un primo panorama verso Val Brembana, con bella vista sull’Arera, e verso il Canto Alto, dove si nota  il solco della Valle del Giongo: grazie all’ampia veduta offerta da questa cima, anche qui sorgeva un’antica torre presidiaria edificata ai tempi delle lotte tra guelfi e ghibellini, dalla quale si scrutava ogni spostamento di armati, che veniva prontamente segnalato con fuochi e fumate alle scolte alleate sul monte Ubione e di Cà Eminente. Sui resti della bastia in legno, arsa durante un assalto, fu eretto un maniero ghibellino, detto di Pizzidente, che fu assalito e raso al suolo dai guelfi di Sorisole e di Ponteranica nel 1404. Attorno a questa zona, nel periodo delle lotte di fazione facevano parte di un sistema fortificato anche un castello ghibellino a Petosino (dove tuttora esiste una località “Castello”), e un munitissimo fortilizio guelfo a Ponteranica, attorno alle mura della Moretta, che fu teatro degli scontri nel 1437 con Nicolò Piccinino, che, al soldo dei milanesi, tentò di strappare Bergamo a Venezia. Oltre ovviamente ai fortilizi della Val Brembilla, cui apparteneva anche quello eretto sul monte Ubione (come già osservato qui).

Il Canto Alto (antico Pizzidente) osservato dalla radura situata a metà costa del monte Ubione, all’altezza delle strutture dell’ex bacino idrico ENEL. Nel 1978, durante i lavori per la posa della nuova croce, gli alpini rinvennero i resti di un’antica torre presidiaria edificata ai tempi delle lotte tra guelfi e ghibellini (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Il pianoro ospita i ruderi delle strutture dell’ex bacino idrico ENEL (due grandi vasche semi-interrate e un edificio ancora in buono stato), costruite all’inizio del ‘900 a servizio della Centrale di Clanezzo, posta sul sottostante fiume Brembo e da tempo in disuso: la prima vera e propria centrale della Valle Brembana ed una delle prime in Italia a sfruttare il sistema di generazione e pompaggio (2): il dislivello di ben 400 metri tra i bacini e la Centrale e la notevole capacità dei bacini (10.000 metri cubi) facevano sì che durante la notte, quando il consumo di energia elettrica è minimo, si potesse pompare fin lassù con l’energia elettrica in esubero l’acqua usata di giorno e raccolta in un bacino accanto alla centrale. Da questo grande invaso l’acqua per caduta poteva di nuovo essere sfruttata il giorno dopo o nei periodi di magra del Brembo. In pratica era il primo esempio di energia rinnovabile quasi totalmente e a basso costo.

La Centrale Schuckert a Clanezzo poco prima del 1915. Fu una delle prime, in Italia, a sfruttare il sistema di generazione e pompaggio, cioè quello che permetteva di avere una scorta d’acqua (10.000 mc) sempre a portata di turbina. Venne costruita tra il 1897 e il 1900, in posizione strategica tra l’ultima stretta del Brembo e il capoluogo, con l’obiettivo di produrre energia su vasta scala per venderla poi alle utenze private che stavano aumentando sempre di più; occorsero infatti molti anni prima che gli abitanti della zona potessero beneficiare dell’energia elettrica

 

Il Monte Ubione negli anni ‘60. Sul contrafforte del monte si nota molto bene la condotta forzata che dal bacino idrico posto a mezza costa scendeva alla Centrale elettrica sul Brembo, permettendo di accumulare e riutilizzare più volte la stessa acqua. Alle spalle del bacino si nota anche la cascina al Passo della Regina e il suo ampio pascolo, ora scomparso (fotografia di proprietà di Roberto Carminati, titolare della Carminati Stampatore di Almè, contenuta nel calendario del 2018 edito dal Comune di Almè)

Questo invaso tuttavia non poté essere costruito subito per alcuni contrasti col comune di Ubiale-Clanezzo legati anche all’apparente pericolosità di questo lago artificiale posto quasi in cima a un monte, per cui fu completato solo nel 1903. L’invaso, concepito sin dall’inizio, testimonia la lungimiranza economica e strategica dei fondatori di questa azienda (3).

Sulle pendici del monte Ubione è visibile quel che resta dei due bacini idrici artificiali e dell’edificio che serviva al loro controllo, costruiti a servizio della dismessa Centrale idroelettrica di Clanezzo. Dall’edificio sulla destra, l’unico ancora integro, veniva comandata la condotta forzata che portava l’acqua alla centrale sul Brembo. Sull’architrave di una finestra si può leggere scolpito nella pietra  l’anno di costruzione del casello: il 1908 (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

I ruderi presso i bacini di raccolta, lungo le pendici del monte Ubione (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Il Bacino più grande, con il massiccio terrapieno a sostegno della vasca, lungo le pendici del monte Ubione. Sullo sfondo fa capolino la vetta (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Il bacino grande (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Il bacino grande (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Dopo aver attraversato un folto “tunnel” di agrifogli, si raggiunge un altro dosso panoramico proteso verso la vetta e culminante nel Passo della Regina, che anticipa lo strappo finale.

La vetta in lontananza (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Il nome della Regina fa riferimento alla regina longobarda Teotperga o Teuperga, moglie ripudiata di Lotari, e ricorre frequentemente in questi luoghi intrecciandosi con la leggenda: il ponte romano ad Almenno, la strada della Regina, la via militare romana in prossimità del ponte, Castel Regina e, da queste parti, una fonte “sana” di cui non si è rinvenuto nessun documento; è però vero che lungo le pendici del monte Ubione, a quota 750 metri, c’è un’antica sorgente che ancor oggi gli abitanti di Strozza chiamano “fontana della regina”: la permanenza della regina sul monte Ubione non è suffragata da riscontri oggettivi. E’ inevitabile allora chiedersi se sul monte vi fosse un eremo: può darsi, ma è difficile immaginarlo.

Bivio al Passo della Regina: proseguendo verso destra si intraprende un sentiero meno ripido che in breve conduce alla vetta, evitando la faticosa salita dal versante sud (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Il Passo della Regina in realtà non scollina da nessuna parte, ma presenta un bivio che permette andando a destra di tagliare quasi in piano verso i roccoli della Passata (valico dove convergono numerosi itinerari, tra cui il sentiero Angelo Gotti): a metà di questo traverso ecco staccarsi il sentiero meno ripido che porta sull’Ubione dal versante est, aggirando dunque la ripida e faticosa “direttissima” dal versante sud.

Al Passo della Regina vi sono i ruderi delle due cascine che un tempo presidiavano un grande pascolo ormai scomparso, che abbiamo osservato nella vecchia foto in cui compariva la condotta della Centrale.

Passo della Regina (744 metri), con retrostanti ruderi di vecchie cascine e quel poco che resta di un pascolo da tempo abbandonato (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Dal Passo della Regina si intraprende l’ultimo strappo che nel volgere di un quarto d’ora consente di raggiungere la cima,  dove è posta la grande croce che svetta sopra i comuni di Ubiale-Clanezzo e Strozza, offrendo alla vista un panorama a 360° verso Bergamo e la pianura, la bassa Val Brembana e la Valle Imagna.

La poderosa croce è stata realizzata nel 1972 dal Gruppo Alpini di Clanezzo-Ubiale e da altri Ubialesi riuniti in seguito nel “Gruppo Amici Monte Ubione” (G.A.M.U.), a ricordo dei Caduti di tutte le guerre. Il pesante braccio orizzontale, lungo 9 metri, è stato trasportato a spalle fin sulla vetta, in un sol pezzo.

La croce del monte Ubione, realizzata nel 1972 dai futuri componenti del “Gruppo Amici Monte Ubione”, è alta 23 metri, ha un braccio di 9 metri e pesa 17 quintali. Venne realizzata con il supporto del parroco don Giuseppe Valvassori e del sindaco Gino Capelli In occasione delle feste natalizie, nelle ore notturne la grande croce risplende di luce (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

La vasta spianata di vetta ospitante la croce cela sotto i suoi piedi i resti dell’antico Castello dei Carminati, distrutto alle fondamenta dai Veneziani nel 1443, nel corso della campagna militare contro i ribelli Brembillesi, che terminò con la loro cacciata. Dell’originaria struttura a forma di quadrilatero con l’alta torre, non ne rimangono che rovine. Con la “Cacciata dei Brembillesi” gli abitanti originari si sparsero soprattutto nel milanese, dove si diffusero in gran numero i cognomi Brembilla, poi Brambilla (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Il G.A.M.U., “Gruppo Amici Monte Ubione” durante i lavori di sistemazione della sommità del monte, eseguiti negli anni 1972/’73. Il sodalizio, opera sulla vetta e nella comunità, animato dall’amore per la montagna e la natura. Nel 1993 i signori Rota di Clanezzo (tragicamente scomparsi nell’incidente aereo di Linate nell’ottobre 2001) hanno donato al G.A.M.U. il terreno del Monte Ubione, che il gruppo ha successivamente donato al comune di Ubiale insieme a tutte le opere che negli anni vi sono state realizzate. L’amministrazione ha quindi deciso di frazionarlo e si è riservata esclusivamente la cima, che ora è di sua proprietà, insieme a tutto quanto realizzato. Contestualmente ne ha affidato al G.A.M.U. la gestione e la custodia (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000)

Per rendere più fruibile il sito, sulla sommità del monte i componenti del G.A.M.U. hanno creato un pianoro che si presenta come una grande ed accogliente balconata, e costruito un accogliente bivacco, dove poter cucinare e ripararsi dal maltempo, arricchendo il luogo con tavoli e panche per accogliere gli amici escursionisti che salgono in occasione di ricorrenze e feste locali (ricordiamo che la prima domenica di agosto vi si svolge la tradizionale festa della montagna, che attira sulla vetta centinaia di appassionati). Il tutto è ben gestito dal Gruppo Amici Monte Ubione.

La vetta dell’Ubione, con il bivacco e tutte le strutture realizzate dal G.A.M.U. Compare anche il locale ospitante gli apparati della teleferica, realizzata alcuni anni or sono (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

La cima del monte Ubione è ben attrezzata con un accogliente bivacco, realizzato e gestito dal G.A.M.U., e attorniato da tavoli e panche per accogliere gli amici escursionisti (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Interno del bivacco, aperto al pubblico solo in occasioni particolari (Fotografia di Maurizio Scalvini)

ALLA RICERCA DEI RESTI DEL CASTELLO

Prima dei lavori del 1972/’73 la vetta era un sottile crinale di roccette, una sorta di muretto composto da grossi sassi: ciò che restava di un muro perimetrale del Castello. Osservando l’immagine sottostante, alla base del terrapieno della grande spianata di vetta, verso nord, si vede infatti fuoriuscire un frammento di muro medioevale.

Un tratto di muratura medioevale, in posizione originale alla base della spianata di vetta, verso nord (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Ai tempi dell’aspra contesa tra guelfi e ghibellini, l’antica rocca sull’Ubione era ormai divenuta un imponente maniero, di proprietà della potente famiglia ghibellina dei Carminati, che da questo luogo terrorizzava i guelfi dei vicini paesi. Isolato e minaccioso sul culmine del monte, a cavaliere delle due valli, appariva a chi lo contemplava da lontano come un inviolabile nido di umani avvoltoi, dal quale gli armigeri piombavano inaspettati e in cui riparavano con la preda. Nelle “Effemeridi” del Calvi, al 31 gennaio del 1360 si ricorda che Bernabò Visconti vi manteneva un castellano, diciassette soldati e due cani, mentre le cronache del 1395 narrano l’uccisione di un balestriere ad opera dei guelfi d’Imagna.

Ma com’era il  Castello? Era un massiccio quadrato irregolare con il vertice merlato. Sul lato orientale si sollevava una torre di una solidità straordinaria, come dimostrano le muraglie grosse sei piedi. Sulla facciata nord-est si apriva l’ingresso chiuso a saracinesca con un ponte levatoio, e – si dice – era così sicuro che solo le donne sarebbero state sufficienti a difenderlo e a tener fuori un grande e numeroso esercito.

Qua e là, intorno al vasto pianoro che ospita la croce e le moderne strutture, ne affiorano porzioni di muro, e per facilitare l’individuazione dei resti, visibili e non, il G.A.M.U. ha posizionato sotto la tettoia  un pannello raffigurante la planimetria della spianata di vetta, con indicata la posizione dei diversi manufatti medioevali rinvenuti negli scavi del 1973. Ha inoltre reso percorribili dei passaggi che permettono di visitare i punti di interesse, corredando il tutto di apposite targhette esplicative.

La tettoia sulla spianata di vetta, con il pannello informativo che indica la posizione dei diversi manufatti medioevali del Castello (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Sotto la tettoia della foto precedente, nella parte inferiore del muretto, un tratto di muro del Castello in posizione originale (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Dettaglio della foto precedente (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Esternamente ed internamente al magazzino, sono presenti murature in pietra posate con malta a base di calce. Lo spessore notevole, circa 1.40 mt, fa supporre siano i resti delle fondamenta di una costruzione alta, probabilmente una torre di avvistamento.

Basamento della torre in posizione originale (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Dettaglio (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Come ogni castello che si rispetti, anche quello sul monte Ubione aveva un bel portale, di cui si è rinvenuta, seppur fuori contesto, la chiave di chiusura scalpellata ad arte. E’ stata posta a fianco del bivacco.

La chiave di chiusura del portale del Castello, portale di cui sono documentati lavori nel 1430, ai tempi in cui il castellano era Veneto (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Nell’angolo, la chiave di chiusura del portale del Castello (non in posizione originale) – (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Vi era inoltre una cisterna di raccolta dell’acqua piovana sulle cui rovine (ancora visibili), è stata costruita la cantina-deposito del G.A.M.U. L’acqua della cisterna, capace di 15 mc, era l’unica risorsa possibile per la guarnigione del Castello, dato che la “fontana della Regina” era un po’ troppo lontana e inutilizzabile in caso di assedio.

La cisterna, che si trova a una decina di metri dalla vetta, raccoglieva le acque provenienti dalle coperture poste a monte tramite una condotta sotterranea, di cui si è rinvenuto un tratto composto da pietre disposte a formare una canaletta. 

Sulle rovine della cisterna del Castello, attorniata dalle pietre originali, è stata costruita la cantina-deposito del G.A.M.U., il gruppo che ha realizzato la croce e attrezzato il luogo. La cisterna era composta a monte da pareti in pietra naturale e a valle da muratura di pietrame, completamente intonacate con malta di calce (Fotografia di Maurizio Scalvini)

A fianco della cantina, che anche esternamente mostra le tracce dell’antica cisterna, corre il muro perimetrale del Castello.

Tra i gradini e il muro della cantina ecco affiorare il muro medioevale della cisterna, mentre a lato corre il muro perimetrale del Castello (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Muro perimetrale del Castello addossato alla cantina ricavata dalla cisterna medioevale (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Muro perimetrale del Castello addossato all’antica cisterna, oggi cantina del G.A.M.U. (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Contestualmente, si sono rinvenuti alcuni oggetti tra cui resti di vasi in ceramica, punte di frecce di balestra e proiettili in pietra e ferro ora conservati presso il Museo della Valle di Zogno.

Resti di ceramica rinvenuti tra i ruderi dell’antico Castello del monte Ubione, conservati presso il Museo della Valle di Zogno (Foto U. Gamba, op. cit.)

Doveva esistere almeno un locale sotterraneo, in quanto il plinto di fondazione per l’ancoraggio della croce metallica è stato ricavato in un locale preesistente, interrato rispetto alla quota di sommità, dunque non visibile.

Il plinto di fondazione per l’ancoraggio della croce, poggia su un ambiente sotterraneo del Castello (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Sotto il basamento su cui poggia la croce è stato individuato un locale sotterraneo del Castello (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Più a valle della spianata di vetta, a sud-est della cisterna vi erano probabilmente la fornace e la fossa per produrre la calce spenta dalle pietre calcaree locali, mentre a sud, poco più a valle, probabilmente vi era la cava per l’estrazione delle pietre da costruzione.

§ § §

Sappiamo che in epoca Veneta, dopo la costruzione della Strada Priula alla fine del Cinquecento, la cima del monte Ubione continuò a svolgere l’importante funzione di controllo all’imbocco della Val Brembana, allo scopo di proteggere la più importante delle vie mercantili della Bergamo veneziana.

La Strada, tracciata sul fondovalle per ottimizzare i traffici da Bergamo a Mezzoldo, doveva garantire attraverso il passo di S. Marco un passaggio comodo e sicuro verso la Valtellina e i Grigioni Svizzeri, porta d’accesso ai mercati centro-europei, con cui Venezia intratteneva intensi scambi commerciali, compensando degnamente le perdite subite nel Levante.

La sicurezza di questa importante strada mercantile era garantita da una capillare rete difensiva, che dalle postazioni di Ca’ S. Marco e del monte Ubione controllava l’accesso nemico dalle valli, potendo contare anche sul sostegno amico dei Grigioni Svizzeri, serbatoi di truppe mercenarie pronte a dar man forte in caso di assalto degli Spagnoli, che minacciavano i nostri confini meridionali e occidentali.

Ma questa è un’altra affascinante storia (e la racconteremo).

Note

(1) Giovan Battista Bazzoni nell’ottobre del 1883 visitò Clanezzo, vi rimase ospite per qualche tempo e con ogni probabilità vi concepì il romanzo “I Guelfi d’Imagna o Il Castello di Clanezzo”, un libro che conteneva poca verità e molta fantasia, a detta di Bortolo Belotti. Tuttavia ebbe successo, cosa che non dovette dispiacere ai coniugi Beltrami, che in quegli anni, in cui erano divenute famose le Terme di San Pellegrino, vedevano arrivare a Clanezzo molte persone desiderose di visitare i luoghi descritti nel libro e di trascorrervi qualche momento sereno. Giunti alle chiavi della Botta scendevano dalla carrozza e, affascinati dalla visione di Clanezzo attraversavano il Brembo sulla passerella e andavano a visitare i Beltrami. Scrive il Bazzoni all’inizio del suo libro che i visitatori, dall’altra parte del fiume scrutavano il bel poggio con un amenissimo giardino attorniato da alberi pittorescamente aggruppati, con fiori, viottoli, un elegante belvedere e, al di là, un’ampia casa (il Castello). Nel giardino, “dove un tempo vi era il gheffo per le scolte sorge ora un grazioso caffehaus: chi lo eresse, amatore della natura e della storia, vi depose verrettoni, pugnali, e picche, e chiovi a larghe capocchie, ch’egli stesso raccolse tra le rovine dell’antica rocca d’Ubione, di cui sull’alta vetta del monte tutte scoprì le fondamenta”. Probabilmente Bazzoni si riferisce a Paolo Beltrami (1792-1853) – (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000).

(2) Per realizzare questo progetto fu costruito a partire dal 1897 dalla società tedesca Schuckert un grande canale, lungo circa quattro chilometri, sulla destra orografica del Brembo la cui origine era poco a valle dei cosidetti Ponti di Sedrina con lo scopo di raccogliere tutta l’acqua proveniente da Zogno ma anche tutta l’acqua, non trascurabile, della valle di Brembilla. Questi lavori finirono nel 1900 e la nuova centrale idroelettrica, la prima in Valle Brembana che potesse definirsi correttamente in questo modo, dotata di 5 gruppi (insieme di turbina e alternatore) da 600 HP ciascuno della tedesca Siemens, entrò in funzione agli inizi del 1901 (a cura del Centro Storico Culturale Valle Brembana, “Il sogno Brembano”. Corponove editrice, 2006).

(3) Per comprendere quanto fosse fondamentale in quegli anni non sprecare alcuna goccia di acqua che potesse trasformarsi in energia elettrica basterà ricordare che dopo poco tempo, essendo stata distrutta la presa d’acqua del canale di Clanezzo poco a valle dei Ponti di Sedrina da una forte piena del Brembo, la stessa diga fu ricostruita più a monte in corrispondenza delle Grotte delle Meraviglie in territorio di Zogno. Le acque della valle di Brembilla, non potendo più essere raccolte in modo naturale, furono allora recuperate per mezzo di una piccola presa, ancora oggi visibile, nei pressi dell’antico ponte a schiena di mulo che collegava Ubiale con Zogno. Da questo luogo attraverso un canale sotterraneo interamente scavato nella roccia le acque della Brembilla furono riversate nel nuovo tratto di canale per Clanezzo che scorreva e scorre ad una quota più alta rispetto a prima. (Il sogno Brembano, op. cit.)

Il maglio di Clanezzo, tra passato, presente e suggestioni

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini

Gli abitanti di Clanezzo la chiamavano la “Fucina del Diavolo” per via dei bagliori infernali sprigionati dalla fucina annerita dalla fuliggine e per il tonfo cupo del martello che colpiva ritmicamente il metallo, che venne utilizzato anche per forgiare armi destinate alla Repubblica di Venezia.

Immagine affascinante dell’interno della fucina di Clanezzo, colta in un’atmosfera d’altri tempi, nella quale si scorgono il pesante maglio e gli utensili anneriti (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Più recentemente la fucina era tenuta attiva da numerosi “maestri” artigiani che si dedicavano alla produzione di attrezzi agricoli come vanghe, pale ed altro ancora.

Lavorazione di una vanga al maglio (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

 

Al lavoro nel maglio (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

fino a qualche decennio fa capitava ancora di sentir rimbombare nella valle il ritmato rumore del maglio. Il signor Giuseppe Personeni, ultimo magliaro, ogni tanto tornava, per passione, nei luoghi dove aveva trascorso una vita e dove aveva sapientemente lavorato il ferro, dando alla luce gli ormai ultimi attrezzi di una lunga e proficua serie.

Artigiano con le vanghe (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Mastro Personeni portò avanti l’attività fino alla metà degli anni ’80 e della sua fucina è rimasta testimonianza nel film datato 1965 “E venne un uomo”, dedicato alla vita di Papa Giovanni XXIII, del famoso regista bergamasco Ermanno Olmi che qui girò alcune scene, probabilmente affascinato dalla bellezza e dalla “integrità storica” del luogo, rimasto quasi inalterato nei secoli.

Tenaglie e vanghe (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Grazie alle riprese di questo film, ma anche grazie ad alcune foto d’epoca, possiamo ancora oggi fare un tuffo nel passato e vedere come si lavorava nella fucina di Clanezzo nel cuore degli anni Sessanta (1).

Trasporto di vanghe (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Anche se oggi non c’è più il rumore del maglio e le grandi ruote sono a pezzi, la suggestione del luogo è immutata, benché sia estremamente pericoloso anche solo avvicinarsi all’edificio, ormai cadente e pericolante.

Quando il maglio ancora era in funzione, all’ultima curva del sentiero l’incanto veniva rotto dallo stridore delle mole e dal cupo battito del maglio: un rumore antico, interrotto dal battito sonoro di un martello sull’incudine.

Veduta del maglio dal greto del torrente Imagna: una pesante e antica costruzione al di là dell’Imagna, costruita con grosse pietre, con un ampio lucernario nel tetto, grandi ruote e cascatelle d’acqua (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

L’ultimo ostacolo, il fiume, veniva superato su un secolare passaggio elastico, incerto, dall’aria provvisoria: quattro cavi d’acciaio, sui quali erano gettate piccole assi, la metà delle quali rotte o addirittura mancanti.

Per raggiungere il maglio bisognava superare il torrente su una traballante e assai precaria passerella, e poi scendere lungo un ripido sentiero acciottolato e a gradini irregolari (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Effettuato il pericolante passaggio, al rumore che aveva segnalato la presenza dell’officina si aggiungeva quello delle acque impiegate per muovere le grandi ruote, sistemate sul lato lungo della costruzione. L’acqua dell’Imagna, guidata da canaletti e scivoli, veniva adoperata dall’officina e restituita al fiume, poco più avanti.

Canalizzazione all’esterno del maglio (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

L’interno sembrava la fucina di Vulcano: stretto, piccolo, basso e nero l’ingresso. Poi, una stanza adibita a magazzino e poi ancora il camerone e cioè la fucina, dove trionfava il nero del carbone accumulatosi da sempre. Alta fino al soffitto, con un lucernario e due alte finestrelle, invasa da ogni sorta di macchine, con un ballatoio che percorreva tre lati della costruzione.

Scorcio dell’interno nel 1984 (fotografia di Mario Fojadelli)

I raggi del sole che penetrano dalle aperture scoprivano angoli che avevano dell’incredibile e particolari della meccanica senza età, che sembravano nati con il ferro, come se fra quelle pietre il tempo non fosse passato e l’acqua fosse il solo motore possibile.

Ogni macchina riceveva energia dall’acqua attraverso due grandi ruote a pale, una collegata ai ruotismi delle mole e di una sega circolare, la seconda ad un enorme maglio.

Una delle due grandi ruote a pale collocata all’esterno dell’edificio e ancora presente nel 1984 (fotografia di Mario Fojadelli)

 

Particolare della grande ruota a pale collocata all’esterno dell’edificio (fotografia di Mario Fojadelli, 1984)

Un terzo impianto idrico con un complicato quanto semplice principio a sifone forniva un violento soffio d’aria per alimentare la forgia, che in antico serviva anche per fondere i materiali ferrosi provenienti da Valnegra.

Attizzare la fornace (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Il pezzo forte era senz’altro il maglio, che la leggenda fa risalire a tempi lontanissimi. Si componeva di un forte albero di grosso fusto, lungo circa due metri, che a un terzo della lunghezza portava un anello “claudicante” con due perni che la Bibbia descrive fedelmente chiamandolo “boga”.

Il maglio (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Nella parte anteriore il blocco di ferro, dalla caratteristica forma a testa d’asino, che batteva su un piedistallo anch’esso in ferro. Dietro il maglio terminava in una rastrematura che in posizione di riposo appoggiava su delle sporgenze metalliche infisse in un grosso albero posto trasversalmente, direttamente collegato con la ruota ad acqua. Quando questo secondo albero cominciava a ruotare le sporgenze sollevavano la testa del maglio lasciandola poi sfuggire. A seconda della quantità d’acqua che veniva rovesciata sulle pale della ruota si determinava la velocità di battuta del maglio, non la potenza, che era sempre uguale.

Al lavoro nel maglio (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

 

Al lavoro nel maglio (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Il cupo e rapido battito del pesante maglio era un suono caratteristico e inimitabile. Ad ogni colpo le vecchie pietre vibravano (2).

Come si presentava l’interno del vecchio maglio nel 2018 (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Come si presentava l’interno del vecchio maglio nel 2018 (Fotografia Maurizio Scalvini)

IL MAGLIO OGGI

Se fino a qualche decennio fa, il maglio e i suoi dintorni erano caratterizzati dalla presenza di manufatti che evidenziavano l’utilizzo continuo della fucina, dopo la cessazione delle attività si sono verificati deterioramenti e atti vandalici, sia alle attrezzature che all’edificio stesso.

Oggi, come mostrato dalle immagini, il caseggiato che per secoli ha ospitato il maglio di Clanezzo è completamente rovinato e abbandonato: tutti i precedenti tentativi di preservare questa importante realtà storica sono stati inefficaci; il comune non può intervenire perché l’immobile è di proprietà privata e un recupero pare improbabile. Immutata è invece la suggestione del luogo.

Nel 2018, all’interno si trovavano ancora alcuni resti dei macchinari utilizzati e l’asse del mulino che forniva il movimento per battere il metallo (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Particolare dell’asse del mulino che forniva il movimento per battere il metallo, ritratto nel 2018 (Fotografia Maurizio Scalvini)

LE ORIGINI DEL MAGLIO

L’edificio del maglio, con le sue grosse pietre squadrate ha un’origine molto antica, risalente al XIII secolo: la fucina infatti era stata impiantata in una costruzione precedentemente utilizzata come mulino, come si evince da un un documento del 1296, redatto nel periodo in cui il latifondo di Clanezzo era appannaggio del vescovo di Bergamo (3).

La lavorazione del ferro ebbe invece inizio nel 1548 ad opera di Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna, come si evince da un documento rivenuto presso l’Archivio di Stato di Bergamo (4), nel quale si legge che l’edificio necessitava già di tante cure manutentive.

A quei tempi il proprietario del maglio era Gian Giacomo Buscoloni, figlio di quel Bernardino, originario di Almenno, che nel 1539 aveva acquistato la tenuta di Clanezzo dall’Istituto della Pietà (quest’ultimo, l’aveva venduta per le gravi difficoltà economiche causate dalle guerre del Cinquecento). Gian Giacomo subentrava al padre nella conduzione degli affari e con ogni probabilità si districava bene in quanto riuscì ad acquistare nuove terre nel circondario. Egli, il 28 giugno del 1551 aveva ottenuto con decreto ducale il privilegio dell’esenzione dal dazio per la condotta del ferro crudo, di rottami, scaglie e carboni. I dazi per il ferro infatti erano così alti che molti abbandonavano la professione, ed essendo la montagna molto povera, dovevano lasciare le terre ed emigrare nel Milanese (5) .

CARLO CAMOZZI, PRODUTTORE DI CANNONI

Ma fu nel Settecento che dalla fucina di Clanezzo uscirono armi in gran quantità, che venivano trasportate a Venezia per essere utilizzate per la difesa di terra e per armare le navi della flotta. Oltre alle armi, la fucina produceva anche molto ferro lavorato.

A produrre le armi per conto di Venezia era Carlo Camozzi di Bordogna (6), figlio di quel Marco che nel 1701 aveva preso in affitto, dal conte Leopardo Martinengo da Barco, la tenuta di Clanezzo, compresi il castello, il porto e l’edificio della fucina, cui era tenuto a provvedere, ad esclusione dei muri e del tetto.

Nel 1711 Carlo, da tempo instradato dalla sua famiglia nell’arte della lavorazione del ferro, aveva rilevato dal padre la gestione della fucina di Clanezzo e di quella di Strozza, avviando nel 1712 una fabbrica di cannoni a Lizzone, presso la Ventolosa di Villa d’Almè: numerosi atti notarili pubblicati nel libro di Diego e Osvaldo Gimondi (7), attestano che per decenni, nella fucina di Lizzone vennero fabbricati numerosi cannoni e rispettive munizioni per conto di Venezia – impegnata in quel periodo nella guerra contro il “nemico turco” -, e che nei periodi di scarsa produzione, Carlo Camozzi era autorizzato a fabbricare armi anche per il Ducato di Milano (8).

Leone di S. Marco – Particolare di una pergamena del 1712 nella quale il Senato concede al bergamasco Carlo Camozzi, residente a Clanezzo, di produrre cannoni per la flotta veneta (Castello Camozzi-Vertova, Costa Mezzate) – (Foto tratta da U. Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000)

 

Veduta della Fonderia. Avviata nel giugno del 1712, la “fondaria de canoni” di Carlo Camozzi viene impiantata a Lizzo, o Lizzone, lembo di terra adagiato sulla sponda sinistra del fiume Brembo, a quei tempi appartenente al Comune d’Almenno S. Salvatore e integrata dopo l’unità d’Italia nei confini di Villa d’Almè. Con l’installazione della fabbrica di cannoni questa località prese il nome di Fonderia, denominazione che conserva tuttora (D. e O. Gimondi, op. cit.). Vi si arrivava dalla “Ventulosa”, tratto di strada che da Villa d’Almè conduce a Ca’ dell’Ora, punto nevralgico tra la fonderia, la via Priula e i collegamenti tra Bergamo e le Valli Brembana e Imagna. Non è dunque un caso che in quella località siano sorte antiche dimore e avamposti (una grossa torre di avvistamento accanto a villa Olmo e il notevole palazzo di Ca’ dell’Ora) – (Foto tratta da: D. e O. Gimondi, “Villa d’Almè – dal Settecento al secondo dopoguerra”. Ferrari Editrice, Clusone, 1998)
I due cannoni presenti nella Fortezza di Corfù, fabbricati da Carlo Camozzi, che  realizzò per Venezia oltre 1900 cannoni di vario calibro, molti dei quali si trovano  nelle isole greche (Corfù, Cefalonia, Itaca…). Le scritte in rilievo rivelano la sua firma: C B (Camozzi Bergamo), oppure la più estesa CARLO CAMOZZI F(ecit) BERGAMO. La loro lunghezza li fa attribuire l’uno (276 cm) alla seconda serie (1722-1724), mentre l’altro (293 cm) alla terza, quindi successivo al novembre 1725. Il primo, oltre alle iniziale C B ed al leone marciano porta uno stemma non ancora identificato, probabilmente appartenente al Provveditore alla Artiglierie in carica. Sul secondo, oltre alla scritta latinizzata si scorge ancora un “leone in moleca”, cioè racchiuso come in una conchiglia, purtroppo molto deteriorato

 

I cannoni “Camozzi” ritenuti all’epoca eccezionali, erano tanto invidiati e segreti da mantenere ancora oggi, nella loro composizione di metalli e di progettazione qualche segreto non svelato.  Il Camozzi muore – pare – nel 1767, con l’orgoglio di aver creato “una fabbrica di cannoni di ferro che nella belezza e nella perfettione supera qual si altra di qualunque Potentato dell’Universo”

 

Cannone Camozzi

Data la cospicua ed eccellente produzione, alla fonderia della Ventolosa (9) si attribuì una forte rilevanza militare, ma d’altro canto non mancano testimonianze che attestano una vivace attività anche presso il maglio di Clanezzo, dove, se dobbiamo credere alle parole di G. Rosa, la produzione di cannoni e di proiettili era iniziata nel 1706 (10), ed era ancora in atto nel 1749, nel periodo in cui anche la fabbrica di armi di Gromo produceva spade e altre armi da punta e taglio, come risulta dalle relazioni inviate a Venezia dai Rettori (11).

Pietro Maria Ronzoni (1781-1862). Clanezzo preso dal Ghisleno. Schizzo a matita (proprietà privata) – (Foto tratta da: D. e O. Gimondi, op. cit.)

Anche l’abate G. Battista Angelini, nativo di Strozza, dove risiedette nel periodo dell’attività svolta dal Camozzi, nella sua celebre opera “Bergamo descritta a mosaico”, descrisse in versi la fucina di Clanezzo. Dalla sua opera apprendiamo che la fucina produceva molto ferro che, in verghe, piastre e cerchi veniva venduto alla fiera di Almenno, e che la fabbricazione di armi era molto fruttuosa, considerati i continui venti di guerra che spazzavano la Repubblica.

Dalla fucina uscivano palle da bombarde, colubrine e cannoni (12), di cui l’Angelini descrive i passaggi che della fusione portano allo stampaggio e alla successiva prova del fuoco.

Prima di essere venduti, i pezzi venivano collaudati sul posto, quindi per la valle spesso si udivano i rimbombi prodotti dagli scoppi: “Di palle da bombarde, e colubrine/Si fa qui sotto ‘l getto, e ‘l getto de cannoni”. Solo uno dei tanti operai rimase vittima durante questi esperimenti (13).

OLTRE ALLE ARMI, LA PIETRA FOCAIA

Nel territorio di Ubiale, polo di monte dell’attuale comune di Ubiale Clanezzo, si cavava tra l’altro una pietra utilizzata come focaia, che battendola faceva spruzzi e faville. Veniva venduta alla fiera a caro prezzo, perché era pregevole e si poteva paragonare alla pietra di Calcedonia: nelle case serviva da “accendino”, ma era molto usata anche in ambito militare perché perfetta per l’archibugio, un antenato del fucile con il quale si procedeva allo sparo con l’ausilio di un acciarino composto da un pezzo d’acciaio e da una pietra focaia (14).

Una pietra simile, era il quarzo estratto ad Ubiale fino agli anni Sessanta, che doveva trovarsi nei pressi della vecchia cava in località Coste, ora ricoperta da una fitta vegetazione (la tramoggia è ancora visibile lungo la strada che porta ai ponti di Sedrina).

Ubiale, cave di quarzo (foto d’epoca)

DOVE SI TROVA L’EDIFICIO DEL MAGLIO

Il maglio non è facile da scoprire. Si trova sotto l’antico Castello di Clanezzo, in una stretta valletta là dove l’Imagna disegna un’ansa. Vi si accede seguendo il sentiero che conduce alla Centrale elettrica, svoltando però a sinistra anziché proseguire la discesa. Ed è sulla riva sinistra del torrente che, quando gli alberi sono spogli, si può scorgere un grosso caseggiato solitario: è l’antichissima fucina di Clanezzo.

In questa zona, alla confluenza tra il torrente Imagna e il fiume Brembo, caratterizzata da uno spazio relativamente ristretto, si riscontra la presenza di un ricco e variegato contesto naturale, che contraddistingue questo luogo nella sua unicità, il cui fascino è accresciuto dalla bellezza del paesaggio fluviale. Se la rete idrica superficiale è piuttosto limitata, grazie ai diffusi fenomeni carsici, la zona è ricca l’idrografia sotterranea, evidenziata da significative cavità e sistemi di condotte e grotte. La discesa al torrente permette di osservare la forra e le formazioni rocciose (Fotografia Maurizio Scalvini)

Per raggiungerla bisogna costeggiare parte del muro di cinta del Castello e proseguire per la chiesa e via S Gottardo, da dove, svoltando a sinistra per via Marconi, si incontra un lungo ed antico edificio adibito ad abitazioni.

Clanezzo, chiesa di S. Gottardo (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Clanezzo, il lungo edificio di via Marconi, al termine del quale si diparte la mulattiera che scende verso la vecchia Centrale elettrica (Fotografia Maurizio Scalvini)

Oltrepassato il caseggiato si svolta nuovamente a sinistra per via della Centrale: qui la strada lascia il posto ad una sterrata, attrezzata con guardrail, che scende fino alla valletta dell’Imagna e che consente di avvistare in lontananza la dismessa Centrale elettrica di Clanezzo.

In lontananza, la Centrale elettrica di Clanezzo, rimasta in funzione fino agli anni ’80 (Fotografia Maurizio Scalvini)

Mantenendosi sulla sponda sinistra del torrente, in parte scavato tra le falde della roccia, in pochi minuti si arriva alla vecchia Centrale, da tempo in disuso, e costeggiando il muro di cinta dell’edificio si raggiunge il punto di captazione dell’acqua dell’antico canale che indirizzava le acque del torrente Imagna alla grande fucina del ferro.

La centrale della Società Idroelettrica della Valle Imagna Inferiore a Clanezzo. E’ posta nel fondovalle dell’Imagna, lungo il sentiero per il maglio e intercettava le acque del torrente in territorio di Berbenno, alla località Ponte Giurino, da dove venivano trasportate con un canale semi sotterraneo in territorio di Clanezzo, dove l’Imagna sbocca nel Brembo: un salto di ben 80 metri e una portata di 580 litri d’acqua al secondo, assicurava una potenza complessiva di 500 cavalli (HP). (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

L’interno della Centrale oggi (Fotografia Maurizio Scalvini)

Per vedere quel che ne rimane, arrivati al cancello della centrale anziché proseguire in discesa si procede a sinistra su uno stretto sentiero e in pochi minuti si arriva alla costruzione, in completo abbandono: ormai ridotto ad un edificio decadente e quasi diroccato, col tempo verrà invaso dalla vegetazione.  La prudenza consiglia a chiunque volesse recarsi sul posto di tenersi a debita distanza dall’edificio, che racchiude fra le sue mura la bellezza di oltre sette secoli di storia.

Il maglio di Clanezzo. Collocato ai margini del giardino romantico del Castello, il massiccio edificio in pietra a vista posto sul fondo delI’Imagna e la cui presenza è documentata sin dal secolo XIII, è oggi quasi completamente distrutto e pericolante: le pietre del Brembo e la calce dell’Ubione furono i materiali utilizzati per la sua costruzione. All’interno, i resti dei manufatti ne denunciano da tempo lo stato di totale abbandono (Fotografia Maurizio Scalvini)

Note

(1) La documentazione fotografica conservata dal “Museo delle Storie di Bergamo nell’Archivio Fotografico Sestini”, abbraccia invece un arco di tempo che va dal 1960 al 2000. La collezione è stata resa possibile soprattutto grazie alle fotografie di grandi artisti e fotoreporter contemporanei come Pepi Merisio (1931-2021), Pier Achille Terzi, detto Tito (1936-2010), ed altri. Nei loro scatti, questi grandi fotografi sono riusciti a catturare suggestive pagine di storia, che altrimenti sarebbero andate perdute.

(2) Per la descrizione dell’itinerario e della fucina, Paolo Impellizzeri e Marco Antonio Solari per il Giornale di Bergamo del 5 novembre 1967.

(3) Un documento del 1296 riporta che un certo “Cagniginus de clenezio de brembilla” pagava già allora al vescovo di Bergamo, Giovanni di Scanzo, un fitto per poter condurre ad una casa vicina all’Imagna acqua “…sufficintem tribus rotis molendinorum”, cioè sufficiente per azionare tre ruote da molino (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000).

(4) Cinzia Gamba, Stefania Mauri, Tesi di Laurea dal titolo: I magli nella Bergamasca: L’esempio di Clanezzo. Anno accademico 1995/96. Contiene notizie dettagliate sul maglio di Clanezzo e sulla lavorazione del ferro nella bergamasca. Presso l’Archivio di Stato di Bergamo gli architetti Cinzia Gamba e Stefania Mauri hanno trovato un documento riguardante la disputa sorta tra il proprietario del luogo (il Buscoloni) e il Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna, magliaro, redatto dal notaio A. Rescanzi in data 23 novembre 1548. Il Venturini chiedeva la riduzione delle spese di affitto quantificate in duecento lire imperiali, perché aveva dovuto sostenere le spese di manutenzione dell’edificio (U. Gamba, op. cit.).

(5) Dalle relazioni dei rettori veneti emerge che il ferro della Val Brembilla veniva portato nel Milanese, facendo diminuire guadagni, lavoro e numero delle maestranze: la popolazione si trasferiva quindi in altri stati per procurarsi il vitto. Alla metà del ‘700, la concorrenza delle miniere scoperte nel Milanese e nel Piemontese aveva procurato un grave danno alla debole economia locale. Vent’anni dopo il prodotto del ferro non è più abbondante, non per deficienza di vene, ma per il costo dell’estrazione. Nel 1787 il capitano e vice podestà Bartolomeo Mora sollecita il Senato affinché ridia vitalità alla produzione di ferro nei forni, i quali sono chiusi o lavorano al minimo; fa presente che per far funzionare un forno (escavazione, trasporto, carbone e fusione), lavorano circa 300 persone e in una fucina al massimo 8, perciò non si deve favorire l’importazione di ferro, ma bisogna farlo produrre nella valle (U. Gamba, op. cit.).

(6) Originaria di Bordogna, in alta Valle Brembana, la famiglia Camozzi si occupava da tempo di metallurgia e fu una delle ultime ad operare con grande risonanza sul territorio brembano. Tale famiglia nel XVII secolo ramifica la sua discendenza in Valle Imagna, precisamente a Strozza, trasferendosi in seguito a Clanezzo, dove nel 1701 Marco Camozzi, con i figli Carlo e Gabriele, prende in affitto dal conte Leopardo Martinengo da Barco, per nove anni, la tenuta di Clanezzo, risiedendo probabilmente nel palazzo (il suddetto contratto di locazione sarà ripetuto con Carlo Camozzi nel 1724). Nel 1702, Marco gestisce, oltre la fucina di Clenezzo, anche quella di Strozza (Diego e Osvaldo Gimondi, “Villa d’Almè – dal Settecento al secondo dopoguerra”. Ferrari Editrice, Clusone, 1998, pagg. 31 e segg.).

(7)  Nel corso del secolo la Serenissima, alla necessità di armamenti nuovi da impiegarsi contro i turchi, non trovando adeguata risposta dalle fonderie bresciane che affrontavano un momento di grave crisi, induce i governanti veneti a rivolgersi a Carlo Camozzi, il quale nel 1712 propone alla Serenissima la creazione di un nuovo impianto di forni e uno schema di contratto attraverso il quale si impegna a consegnare, annualmente, per dodici anni, quaranta cannoni di diverso calibro e rispettive munizioni. Nel giugno del 1712 Carlo avvia la sua fabbrica di cannoni, trasferendo la sua dimora a Lizzone. Si legge nel testo che “Il ritrovamento di un ingente numero di documenti notarili ci testimonia senza alcun dubbio che, contrariamente a quanto sino ad oggi affermato…il loco della Fondaria de canoni del signor Carlo Camozzi, era “posta di là dal Brembo Comune d’Almenno Santo Salvatore distretto di Bergamo. Si tratta di quella fascia di terreno sulla sinistra del fiume chiamata Lizzo, o Lizzone che, proprio con l’installazione della fabbrica di cannoni prese il nome di Fonderia….”, dove Carlo trasferì la propria dimora e dove risulta abitare ancora nel 1735. Egli, prima di dedicarsi alla produzione di cannoni, era stato occupato in qualità di maestro presso la fonderia di Tiburzio Bailo (D. e O. Gimondi, op. cit.) a Sarezzo, in Val Trompia (BS), il primo fornitore nazionale di cannoni in ferro e rispettivi proiettili per il naviglio della Repubblica di Venezia, “per la quale produsse più di 470 cannoni tra il 1689 ed il 1702” (…) “Venezia trovò un nuovo fornitore in Carlo Camozzi dopo un tentativo fallito di realizzare i cannoni in ferro direttamente nel proprio Arsenale (1718-1719)”. Carlo Camozzi “creò una nuova industria a Clanezzo nel bergamasco, attiva dal 1722 ai primi anni Quaranta del Settecento” (Cannone veneziano da 40 libbre (sottili)). Le alterne vicende belliche alternate ad anni di lunghe tregue, segnarono il declino del Bailo, che alla ripresa delle ostilità turche si trovarono nell’impossibilità di fornire i cannoni, in quanto i fabbricati erano andati in rovina, i forni smantellati e la Serenissima non intendeva finanziare un ripristino oneroso. Il momento fu propizio al Camozzi, che nel 1712 decise di mettersi in proprio, proponendo a Venezia la costruzione di un forno nella zona pianeggiante fra Clanezzo e Oltre Brembo (come era chiamata la località Fonderia fino al 1884). I cannoni del Camozzi erano in ferro fuso ed avevano il notevole vantaggio di avere un costo inferiore a quelli di bronzo. Nel 1714, dopo il collaudo favorevole dei primi esemplari, Venezia ordinò quaranta cannoni all’anno per dodici anni a cui fecero seguito negli anni successivi altre commesse per centinaia di pezzi per una quantità totale di oltre 1900 cannoni di vario calibro (da Villa d’Almè informa. Notiziario del Comune di Villa d’Almè. Anno 3. Giugno 2021. N. 6).

(8) Ciò avvenne anche nel 1727, dopo che Venezia raggiunse una certa stabilità in terraferma e dopo la sconfitta di Morea, con la quale i Turchi non rappresentavano più una minaccia sul mare (D. e O. Gimondi, op. cit.).

(9) Un atto notarile, in cui si allude ad una “compagnia vecchia della fonderia”, fa intendere che nel 1730 nella proprietà siano intervenuti dei cambiamenti e cioè che sia cambiata la ragione sociale (anche se un documento relativo a una deliberazione del governo veneziano in cui vengono ordinati duecento cannoni di ferro in Bergamasca, lascia intendere che nel 1736 i Camozzi risultano essere i “Partitanti” della nuova “ditta”). Negli anni seguenti le notizie sono sempre più rare. La fabbrica dei cannoni alla Ventolosa era ancora in piena attività nel 1742. Non è dato di sapere quando La fonderia finì di adempiere alle sue originarie funzioni. “Il Belotti afferma che il grande impianto dove si producevano i cannoni per Venezia, successivamente non ebbe fortuna e rimase quasi inattivo, riducendosi alla semplice produzione di falci”. Dei Camozzi, come si apprende da una Ducale del 1736, “conosciamo la nuova destinazione: Bergamo. Carlo, lasciata l’incombenza ai figli che erano divenuti a loro volta ‘maestri’ della fonderia, morì, cosa che non possiamo confermare, verso il 1767”. “Con la fine della produzione dei cannoni presso la fonderia del Lizzone, l’industria metallurgica andò segnando il passo, trascinando con sé anche quella mineraria che, grazie appunto alla fonderia, per oltre mezzo secolo, aveva permesso la sopravvivenza di molte miniere della valle” (D. e O. Gimondi, op. Cit.). Altrove si legge che gli ordini si esaurirono nel 1743, quando Venezia non era più minacciata dal pericolo turco (da Villa d’Almè informa, op. cit.).

(10) G. Rosa, Notizie statistiche della Provincia di Bergamo in ordine storico., pag. 133. Tip. Pagnoncelli 1858 Bergamo. Nel testo si legge che la Serenissima “…soccorse alla decadenza di nostra metallurgia, aprendo nel 1605 una fonderia di cannoni e di proiettili a Brescia, nel 1706 altra simile a Ventolosa e Clanezzo presso Bergamo e di proprietà Camozzi, nel 1776 un’altra a Castro presso Lovere”. Ma da quanto osservato sinora, in base agli atti notarili consultati dali fratelli Gimondi (op. cit.), per la Ventolosa la produzione dei cannoni si avvia dal giugno del 1712. Altrove si legge invece che Carlo Camozzi  “creò una nuova industria a Clanezzo nel bergamasco, attiva dal 1722 ai primi anni Quaranta del Settecento” (Cannone veneziano da 40 libbre (sottili)).

(11) Il Lanfranchi” (Giacinto Lanfranchi, “I cannoni di Bergamo hanno allontanato il turco dall’Europa”. Atti dell’Ateneo (in), vol. XXX, anno 1957/59) scrive che ‘Venezia, nel 1721, al 22 giugno, ordina “al Camozzi mortai da 40 che non erano urgenti perché solo il 22 febbraio dell’anno seguente, inviò a Clanezzo, i disegni dei letti per montarli” e che “Dopo questa fornitura, la fonderia ebbe parecchi mesi di arresto con grave danno per il Camozzi obbligato a tenere la maestranza inoperosa”. E’ di questo periodo (1721) “il riconoscimento, a motivo della bontà delle armi prodotte a Lizzone, che Venezia concesse al Camozzi, il diritto di collaudare i suoi pezzi sul posto” (D. e O. Gimondi, op. Cit.). Umberto Gamba cita invece le relazioni dei rettori veneti Alvise Contarini e Nicolò Erizzo. Nella relazione del rettore veneto Alvise Contarini II, del 10 giugno 1749 si legge che nel territorio della provincia, oltre alle altre fucine, vi è la fabbrica di armi di Gromo che “….produce spade et altre armi da punta e taglio militari e la fondaria dell’artiglieria situata in Claneso…”, mentre Nella relazione del rettore veneto Nicolò Erizzo, del 20 dicembre 1754, è scritto che nel territorio vi sono 45 fucine e 9 forni nella valle di Scalve e Brembana e 28 nella Valle Seriana, in più la fonderia delle artiglierie che esiste in “Clenezzo” (Istituto di Storia Economica dell’Università di Trieste, Relazione dei Rettori veneti in terraferma XII Podesteria e Capitanato di Bergamo, Vol. XII, 1978, rispettivamente pag. 685 e pag. 718. In U. Gamba, op. Cit.)

(12) Le bombarde, già conosciute dal 1300 e diffusesi nel 1400, erano formate da due tubi di ferro coassiali, uno grosso che conteneva il proiettile, in genere una palla di pietra, e l’altro più stretto, dove veniva messa la carica. Modificato in seguito il disegno e perfezionato il funzionamento, nel XV secolo presero il nome di cannoni. Le colubrine comparvero più tardi. Lunghe e strette, all’inizio si portavano a mano, in seguito vennero montate su di un affusto. Avevano questo nome, perché le prime prodotte rappresentavano sull’altorilievo di volata un sepente (colubro). Anch’esse in seguito vennero sostituite dai cannoni, più efficienti e potenti (U. Gamba, op. cit.).

(13) Vincenzo Marchetti (a cura), “Angelini Giovanni Battista erudito bergamasco del Settecento”. Quaderni del centro documentazione beni culturali IV, Ferrari Grafiche, Clusone 1991, pagg. 95 e 96.

(14) V. Marchetti o.c. pagg. 96 e 97.

Riferimenti principali

Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000.

D. e O. Gimondi, “Villa d’Almè – dal Settecento al secondo dopoguerra”. Ferrari Editrice, Clusone, 1998, pagg. 31 e segg.

Nota alle immagini

Le fotografie relative al reportage realizzato da Pepi Merisio negli anni 1965/’66, sono di proprietà dell’Ente AESS (Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione Lombardia), che ne conserva le copie digitali.

Le fotografie recenti, relative agli anni 2018 e 2024, sono realizzate da Maurizio Scalvini.

Clanezzo, crocevia di frontiera

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini

Antico borgo medievale all’inizio della Valle Brembana, a 16 km da Bergamo, in uno spazio che sta tutto in una mano Clanezzo conserva una nutrita serie di testimonianze storiche, che nulla ha da invidiare ai borghi blasonati della Bergamasca. In questo minuscolo angolo, adagiato su un terrazzo fluviale all’ombra del monte Ubione, affacciato su una forra che si specchia in acque smeraldine, si concentrano oltre mille anni di storia, che val la pena raccontare.

Se il castello e l’antichissimo ponte di Attone ci catapultano repentinamente nell’alto Medioevo, qualche secolo dopo, quello stesso castello ci riporta all’aspra contesa tra guelfi e ghibellini, quando, accoccolato sul dirupo alla confluenza dell’Imagna, scrutava il nemico avanzare sul millenario ponte ad arco che scavalca il torrente. Ma qui c’era anche un traghetto a fune tesa che faceva la spola tra le due sponde del Brembo – simile a quello di Imbersago e a quello un tempo in uso a S. Pellegrino -, che giustifica la presenza dei caratteristici edifici del Porto e, sull’altra sponda, del “Casino”: un grosso caseggiato in pietra ancora ben visibile a Villa d’Almè, sullo stradone  che immette in Val Brembana. Il periodo della dominazione veneziana è invece ben rappresentato dalla Dogana e dal maglio.

Una manciata di edifici e di strutture accomunati da un unico denominatore: la particolare posizione del sito alla confluenza delle valli Brembilla, Imagna e Brembana – là dove l’Imagna si getta nel Brembo -, che ha fatto di Clanezzo terra di confine: a destra della vallata con gli Almenni (a loro volta terra di confine: Lemine, dal latino “ad limina”, “la soglia per”), con il torrente Imagna a segnare nettamente i confini; a sinistra, con il torrente Brembilla; di fronte, sulla riva opposta del Brembo, con la Valle Brembana, e, alle spalle, con il pendio della montagna.

Lasciata dunque la strada della Valle Imagna e oltrepassato il ponte novecentesco, ci si ritrova nell’incantevole fiordo che si annuncia con il placido gorgoglio delle sue acque: la mulattiera acciottolata che fronteggia il castello si abbassa con ampi tornanti tra la vegetazione, lasciando alle spalle i rumori della strada per inoltrarsi nel cuore del nucleo storico del borgo, all’interno di un microcosmo che ancora conserva la sua unicità.

La nostra storia potrebbe cominciare dal millenario ponte in pietra affacciato sull’Imagna, che incontriamo lungo la via gradinata protesa verso il Porto. Ma sarebbe riduttivo, perché grazie alla particolare posizione geografica del sito, naturalmente difeso, Clanezzo fu frequentato sin dalla preistoria, come testimoniano i ritrovamenti che ne fanno un “giacimento” preistorico ed antropologico di enorme interesse per gli studiosi della materia.

Le frequentazioni si infittirono con l’arrivo dei Romani grazie alla vicinanza con Almenno (l’antica Lemine), divenuto il principale centro politico-amministrativo della zona grazie alla presenza di una importante via militare che collegava Bergamo con Como e grazie alla presenza di un ponte monumentale sul Brembo (il cosiddetto “Ponte della Regina”), eretto per il passaggio di truppe, uomini e merci.

Intorno al ponte, divenuto presto un importante crocevia di traffici, convergevano numerose strade, lungo le quali sorsero villaggi, ville, luoghi di culto. Strade che avevano al loro centro Almenno, dove sorgeva una CORTE posseduta personalmente dall’imperatore romano e che fungeva da luogo di controllo civile, militare ed economico di larga parte del territorio circostante.

Il Ponte della Regina (ponte d’età Romana di cui rimangono i resti di due piloni) superava il fiume Brembo ad Almenno S. Salvatore, all’altezza della chiesa della Madonna del Castello, raggiungendo la sponda di Almè. Dove oggi sorge la chiesa  vi era, fin dall’epoca Romana, il sacro palazzo, di cui rimangono numerosi resti di pavimenti e tegoloni (Fotografia Maurizio Scalvini)

Fin dall’epoca romana dunque, l’importante centro di Almenno esercitò il potere politico sulle zone circostanti, compreso Clanezzo (1), che con la vicina Ubiale fu pertinenza di Almenno fino al XIII secolo, subendone l’influsso almeno sino a che non si instaurò a Bergamo la dominazione Veneziana.

L’importanza di Almenno si mantenne anche in seguito alla decadenza dell’impero romano e alle invasioni barbariche, quando i Longobardi vi insediarono una Corte Regia (2).

In seguito Almenno passò nelle mani di nuovi signori, divenendo dapprima Corte Franca (3), per poi entrare a far parte, dall’892 al 975, della contea di Lecco: ed è a questo punto che viene a stabilirsi un legame più stretto tra Lemine e Clanezzo, dal momento che il conte Attone di Guiberto (957- 20 giugno 975), ultimo dei Conti di Lecco a possedere la Corte di Almenno, fa edificare verso la fine del X secolo il cosiddetto Ponte di Attone, il bellissimo ponte in pietra sull’Imagna, che unisce Almenno con Clanezzo e che per secoli costituirà l’unica via di accesso alla Valle Brembana.

Il Ponte di Attone domina altissimo con le sue rozze pietre squadrate le verdi acque imprigionate fra le rocce e la ricca vegetazione. Costruito con un’unica arcata a “schiena d’asino”, con le sue spalle ben ancorate alle rocce degli argini, attraversa il torrente Imagna nel punto dove esso si immette nel Brembo. La tradizione lo vuole edificato nel X secolo, anche se il primo documento che ne attesta l’esistenza risale al 3 febbraio 1235 (Fotografia Maurizio Scalvini)

Il Ponte di Attone è documentato solo dal 1235, ma un collegamento tra Almenno e il territorio sulla riva destra del Brembo doveva esistere già da secoli, in quanto il vasto comprensorio territoriale della Corte Regia di Almenno, prima Longobarda e poi Franca, si estendeva fino a Brembilla, Zogno e Sedrina, per raggiungere i quali era necessario superare  l’Imagna a Clanezzo – cosa che doveva avvenire mediante passerelle fatte di tronchi d’albero o di cordame -, quindi percorrere la cavalcatoria che portava ad Ubiale, dove il torrente Brembilla poteva essere superato facilmente a guado.

Anche la gola di Sedrina, dove un ponte è documentato solo nel 1178, poteva essere superata tramite una rudimentale passerella: era, questo, il passaggio obbligato per andare da Almenno a Brembilla o a Zogno, dove alcuni terreni erano ancora di proprietà della Corte Signorile di Almè agli inizi del 1100. Non a caso infatti, il ponte in pietra di Attone e quello di Zogno presso Sedrina sono i primi ponti della Valle Brembana a essere citati nella Storia (4).

Nella parte centrale del Ponte di Attone si notano ancora i pilastri a foggia di merli che un tempo sorreggevano i cancelli che sbarravano il passaggio (Fotografia Maurizio Scalvini)

La valletta di Clanezzo per le sue caratteristiche era una fortezza: a oriente la difendeva il Brembo, a mezzogiorno il solco dell’Imagna, a settentrione una catena di monti, oltre al fatto che la sua particolare posizione, alla confluenza delle valli Brembilla, Imagna e Brembana, ne faceva un caposaldo altamente strategico per le comunicazioni tra l’Agro di Almenno e le Valli e per il controllo militare di tutta l’area.

IL CASTELLO DI CLANEZZO E LA ROCCA SULL’UBIONE

Vuole la tradizione che nel contempo Attone, che non si sentiva sicuro nella roccaforte di Almenno, provvedesse a realizzare un sistema difensivo facendo erigere, sui bordi del pianoro di Clanezzo, un Castello protetto da un profondo dirupo.

Sorto su un pittoresco poggio circondato da scogli, da vigneti e da fitte boscaglie, in mezzo al rumore incessante dei torrenti, il Castello di Clanezzo, già fortezza difensiva sul finire dell’alto medioevo, era difeso anche dall’aspra natura del territorio, affacciandosi su una forra profonda una cinquantina di metri e larga altrettanto (Fotografia Maurizio Scalvini)

Forse per timore o preveggenza, Attone ordinò anche che gli costruissero una rocca sul monte Ubione – che controllava l’accesso alla Valle Imagna -, allo scopo di prevenire e di contrastare qualunque assalto dalla pianura o dalle montagne: il ponte fatto costruire da Attone, conte di Lecco e di Almenno, avrebbe quindi consentito una via di comunicazione privilegiata con la fortezza di Clanezzo.

Sulla vetta del Monte Ubione, spartiacque tra le valli Imagna e Brembana e osservatorio ottimale sulla pianura e sulle valli, Attone di Guiberto, ultimo dei Conti di Lecco a possedere la Corte di Almenno, verso la fine del X secolo fece edificare una rocca provvista di torricella, dove vegliava una sentinella (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Veduta dal monte Ubione verso la Valle Imagna (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Veduta dal monte Ubione verso Sedrina, Ubiale e Zogno, in Valle Brembana (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Veduta dal monte Ubione verso le pianure (Fotografia Maurizio Scalvini)

Dagli storici padre Donato Calvi e l’abate Gian Battista Angelini apprendiamo che quando morì, nel 975, essendogli mancato il figlio Guidone, Attone donò la Corte di Almenno al vescovo di Bergamo Reginfredo e il possesso ai vescovi venne più volte riconfermato in atti successivi (anni 1014 e 1046). Da atti firmati nella corte stessa, si ricava che anche i Vescovi vi risiedevano e forse è per questo che nel suo territorio si trovano le tre chiese di S. Tomé, della Madonna del Castello (chiesa plebana) e di S. Giorgio, risalenti al dominio vescovile.

Il vasto feudo della Corte di Almenno rimase in possesso dell’Episcopato di Bergamo fino al 3 marzo 1220, quando i dritti feudali passarono al nascente Comune: la rocca sull’Ubione aveva assunto una tale importanza per il controllo del territorio, che il vescovo di Bergamo, dopo una lunga controversia con il comune di Almenno, cedette alcuni diritti al comune ma riservò per sé il monte Ubione con la sua rocca (4).

Attone, conte di Lecco, signore di Almenno e di tutto il circondario disponeva di ricchissimi possedimenti in diverse località, ma sembra avesse particolare predilezione per la Corte di Lemine, dove volle chiudere i suoi giorni. Venne sepolto, come da sua volontà, nella chiesa di S. Salvatore (oggi posta all’interno del Santuario della Madonna del Castello), dove, nella terza campata, vicino ai gradini della cappella di S. Giovanni Battista, alla profondità di 20 cm circa, si è trovato un pezzo di lastra di marmo che potrebbe essere parte del suo sepolcro, che doveva essere monumentale. Dell’esistenza del suo sepolcro e di quello della moglie Ferlinda vi è prova negli scritti di Bartolomeo Ossa (Fotografia Maurizio Scalvini)

LE SANGUINOSE LOTTE TRA GUELFI E GHIBELLINI

Dalla metà del 1300 fino ai primi decenni del 1400 il territorio bergamasco fu teatro di acerrime lotte fratricide delle opposte fazioni di guelfi (che parteggiavano per Venezia) e ghibellini (sostenitori dei Visconti di Milano) (5), che si scontrarono aspramente nelle nostre valli (6).

Più che di una scelta ideologica verso il Papa o l’Imperatore, si trattava di faide familiari o alleanze trasversali che erano utilizzate per contendersi il potere e i favori dei Visconti milanesi, padroni della bergamasca: Bernabò in particolare, aveva dato carta bianca e l’impunità ai ghibellini, dando loro la libertà di uccidere qualunque guelfo e di bruciargli la casa (7). La sua signoria nei confronti nei nemici fu la più funesta, oppressiva e persecutrice: fu sua l’invenzione di fare uso dei cani non per difesa o guardia ma per assalire gli uomini.

Le lotte tra i vari paesi e le famiglie avvenivano spesso con razzie e distruzioni delle contrade, ad opera di manipoli di uomini che si spostavano sulle vie di comunicazione. Le strade erano sempre tracciate in alto, come del resto in alto erano le contrade principali, al riparo da possibili attacchi e più facilmente difendibili. I fondovalle erano poco frequentati, impervi e poco difendibili, oltre che luoghi ideali per assalti ed imboscate.

Erano così andate sorgendo, in punti strategici, avamposti a difesa delle valli, presidiati da piccole squadre di soldati ed anche la vetta del Canto Alto aveva il suo maniero.

Veduta del Canto Alto, ripreso dagli ex bacini della Centrale elettrica sul monte Ubione. Nel 1978, durante i lavori per la posa della nuova croce, gli alpini rinvennero i resti di un’antica torre presidiaria edificata ai tempi delle lotte tra guelfi e ghibellini: dalla vetta del Canto Alto l’ampia veduta permette infatti di spaziare dalla pianura ai colli, dall’imbocco della Valle Seriana fino alla media Valle Brembana, ed ogni spostamento di armati poteva essere avvistato e prontamente segnalato con fuochi e fumate alle scolte alleate sul monte Ubione e di Cà Eminente. Celestino Colleoni attesta che nel 1383 un ghibellino, Zanone de Cropello, fece erigere sulla vetta del Canto Alto un maniero, detto di Pizzidente, sui resti di una bastia in legno, arsa durante l’assalto sferrato nel 1362 dal guelfo Merino dell’Olmo, che teneva la sua fortezza a Malpasso presso Endenna. Merino fu catturato nel 1378 dai capi ghibellini, che lo imprigionarono nella Rocca di Bergamo e ve lo lasciarono a morire. Il Pizzidente fu poi assalito e raso al suolo dai guelfi di Sorisole e di Ponteranica nel 1404. Le lotte di fazione dovettero infuriare anche a Petosino, dove i ghibellini Se Pilis avevano un castello, e a Ponteranica, attorno alle mura della Moretta, un munitissimo fortilizio guelfo, teatro degli scontri nel 1437 con Nicolò Piccinino, che, al soldo dei milanesi, tentò di strappare Bergamo a Venezia (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Zoom sulla vetta del Canto Alto, visto dagli ex bacini della Centrale elettrica sul monte Ubione (Fotografia Maurizio Scalvini)

A quei tempi Clanezzo faceva parte (insieme agli attuali comuni di Brembilla, Gerosa, Blello, Ubiale, Berbenno, Strozza e Capizzone) della Val Brembilla, (8), la roccaforte ghibellina, che non rassegnandosi all’avvento del nuovo regime Veneziano, era una vera e propria spina nel fianco per la  Serenissima. Formavano una vasta enclave ghibellina intorno a Clanezzo anche la Val Taleggio, Sedrina, Stabello e la sezione meridionale della Valle Imagna, mentre di parte guelfa erano la Val S. Martino, con Gerosa ed Almenno superiore.

Tra i terribili brembillesi, spiccavano per importanza due potenti famiglie di antico lignaggio: quella dei Dalamasoni di Clanezzo (menzionata dal 1189) e quella dei Carminati di Ubiale (menzionata dal 1246), entrambe di fede ghibellina (9).

Alla famiglia Dalmasoni, che in quegli anni vide tra i suoi esponenti i terribili Beltramo e Unguerrando, apparteneva il Castello di Clanezzo, mentre l’ormai divenuto maniero del monte Ubione era di proprietà della famiglia Carminati, che, molto potente e amica ai Visconti, dal castello terrorizzava i guelfi dei paesi vicini. Isolato e minaccioso sul culmine del monte, a cavaliere delle due valli, appariva a chi lo contemplava da lontano come un inviolabile nido di umani avvoltoi, dal quale gli armigeri piombavano inaspettati e in cui riparavano con la preda.

Nelle “Effemeridi” del Calvi, al 31 gennaio del 1360 si ricorda che Bernabò vi manteneva un castellano, diciassette soldati e due cani, mentre le cronache del 1395 narrano l’uccisione di un balestriere ad opera dei guelfi d’Imagna.

In lontananza, la vetta del monte Ubione, dove sorgeva il Castello dei Carminati, così descritto nel 1841: era un massiccio quadrato irregolare con il vertice merlato. Sul lato orientale si sollevava una torre di una solidità straordinaria, come dimostravano le muraglie grosse sei piedi. Sulla facciata nord-est si apriva l’ingresso chiuso a saracinesca e con un ponte levatoio, “ed era così sicuro che solo le donne sarebbero state sufficienti a difenderlo et tener fuori un grande et numeroso esercito”, scrive Bortolo Belotti ne “La cacciata dei Brembillesi” (Fotografia Maurizio Scalvini)

A completare la difesa della Valle, rendendola pressoché inespugnabile, vi erano altri edifici dei Carminati – “la più honorata et più temuta famiglia di tutta la valle di Brembilla” -, come il Castello di Casa Eminente a Laxolo (così chiamato perché sorgeva su un alto poggio e identificabile con una costruzione in contrada Torre), ed altri caposaldi strategici per il controllo della zona tra la bassa Val Brembana e la Valle Imagna (come il Castello di Mortesina a Capizzone).

Forti di un maggior numero di uomini e fortificazioni, difesi dalla natura del luogo e legittimati dalla prepotenza dei Visconti, a lungo i temuti signori della Val Brembilla avevano sostenuto scontri con alcuni centri della Val Brembana inferiore e con con la Valle Imagna, dominando saldamente e commettendo impunemente sulle contrade nemiche le più crudeli rappresaglie, che si traducevano atti di inaudita ferocia elencati dalle cronache del tempo come “homicidi, percosse, ferite, incendii, rubarie, iniurie, villanie, adulterii, stupri, violentie, invasioni delle cose e delle terre, saccheggiamenti”.

Un episodio narra le terribili gesta del ghibellino Enguerrando Dalmasano (una  recente storpiatura dei Dalmasoni), signore di Clanezzo e più potente avversario dei guelfi d’Imagna, il quale, ottenuta dai Carminati la fortezza sul monte Ubione, da quel luogo scendeva rovinoso con i suoi armigeri recando incendio e rovina nelle terre nemiche. Stanco di rappresaglie, l’agguerrito condottiero guelfo Pinamonte de Pellegrini da Capizzone, organizzò la rivolta. Era un giorno d’aprile del 1372. Enguerrando stava preparando scorrerie e saccheggi a Mazzoleni. Le spie di Pinamonte lo informarono di un movimento inusuale di militi armati sul monte Ubione. Sull’imbrunire si accesero i falò sulla vetta di Valnera, cui rispose un’altro sulle rupi di Bedulita e poi un altro sui macigni della Cornabusa. Erano segni convenzionali: tutta l’Imagna ne comprese il significato. Favoriti dalle tenebre i valdimagnini si radunarono e si nascosero in località Pasano vicino a Cepino, rimanendo in attesa del ritorno dei ghibellini dal sacco di Mazzoleni. Quando, verso mattina, i predatori fecero ritorno all’Ubione con il loro carico di vacche, pecore, derrate e masserizie, Pinamonte li attaccò veloce come una folgore: impreparati e sorpresi, i ghibellini subirono una rovinosa disfatta. Enguerrando Dalmasano a malapena poté sfuggire alla strage e rifugiarsi, umiliato e vinto, nella sua fortezza. Altri episodi si susseguirono, finché il ghibellino Enguerrando venne ucciso da Pinamonte. Beltramo, figlio di Enguerrando, riconquistò il maniero di Clanezzo imprigionandovi il Pinamonte, che lasciò a morire nelle prigioni del Castello.

Le antiche prigioni del Castello di Clanezzo in una vecchia fotografia pubblicata da Bortolo Belotti

La leggenda racconta che, fino alla fine del Concilio di Trento, il fantasma di Pinamonte tornò, ogni anno alla mezzanotte del 20 marzo, nel castello dell’odiato nemico. Poi i guelfi ritornarono in massa a scacciare i ghibellini ma questi, serrate le fila, rioccuparono Clanezzo attestandosi saldamente alla rocca di Ubione e a Cà Eminente.

Castello di Clanezzo prima degli ultimi restauri

 

Il Castello di Clanezzo oggi (parte retrostante) – (Fotografia Maurizio Scalvini)

Attorno al Castello di Clanezzo fiorirono ferali leggende, che narravano di orribili e cruenti prodigi di cui famoso è quello dei serpenti. Si racconta che, durante un prolungato assedio, gli assalitori catturarono centinaia di serpenti, che, chiusi in sacchi di pelle e in fasci di erbe, introdussero nel castello attraverso le feritoie, complice una notte senza luna. Ma i serpenti strisciarono fuori dal castello, mettendo in fuga ed uccidendo molti degli assalitori. Nella valle si diffuse la voce che i ghibellini avessero tanto veleno in corpo, che le vipere stesse avevano preferito fuggire, nel timore di rimanere esse stesse uccise avvelenate (10).

LA CACCIATA DEI BREMBILLESI

La morte di Gian Galeazzo Visconti, avvenuta il 3 settembre del 1402, segnò una svolta importante nella storia delle nostre valli: il successore Giovanni Maria, debole e politicamente incerto, affidandosi a condottieri infidi permise che i vasti domini dello stato di Milano venissero sgretolati nel breve volgere di pochi anni e finissero in gran parte nelle mani di Venezia, che poteva garantire maggiore tranquillità e sicurezza interna (11).

Con l’avanzata dei Veneziani i Brembillesi furono tra i più tenaci oppositori al nuovo dominatore; le azioni scellerate culminarono in quello che le cronache ricordano come lo scontro più feroce avvenuto fra le due fazioni: quindici anni dopo l’occupazione del territorio bergamasco, Venezia non aveva ancora domato i bellicosi brembillesi. Un mattino, armati di tutto punto e sventolando i loro gonfaloni, gli uomini di Brembilla scesero a Bergamo e in atto di sfida sfilarono attorno alle mura della città lanciando insulti a Venezia ed inneggiando ai milanesi. Una spacconata o una intimidazione? Certo fu la goccia che fece traboccare il vaso. Prontamente riferita al governo della città lagunare, la bravata fu stigmatizzata dal Senato, che dettò precise istruzioni affinché la beffarda resistenza fosse stroncata una volta per tutte. Non osando affrontare i brembillesi nella loro valle, munita di imprendibili fortezze, Venezia ricorse ad uno stratagemma: invitò a Bergamo i capi di tutti i più importanti paesi della provincia per dirimere eventuali questioni confinarie. In realtà il convegno permise di arrestare facilmente i capi brembillesi, caduti nel tranello.

Con deliberazione del 19 gennaio 1443 fu quindi decretata la messa al bando (esilio) di tutti gli abitanti della Val Brembilla e stabilito che entro tre giorni tutte le persone sgombrassero con le loro cose andando ad abitare dove credessero, purché non vi entrassero più per i successivi cento anni. Chi fosse restato o fosse rientrato sarebbe stato immediatamente ucciso. Nessuno vi restò all’infuori di qualche pastore, che continuò a condurre i suoi armenti nei boschi deserti.

Il Senato deliberò per la completa distruzione della valle. Le guarnigioni veneziane invasero il territorio e rasero al suolo, o danneggiarono, case e fortezze, danneggiando gravemente il Castello di Clanezzo ed abbattendo dalle fondamenta il Castello sulla cima del Monte Ubione: dell’originaria struttura a forma di quadrilatero con l’alta torre non ne rimasero che rovine, che vennero scoperte quattro secoli dopo.

In Val Brembilla, sulla sommità del Monte Ubione, a ricordo di quei tempi di lotte fratricide vi sono ancora i resti dell’antico Castello dei Carminati, distrutto alle fondamenta dai Veneziani nel 1443, nel corso della campagna militare contro i ribelli Brembillesi e che terminò con la loro cacciata. Sulla sommità svetta anche una croce collocata nel 1972 e accanto vi è un rifugio per gli escursionisti (Fotografia Maurizio Scalvini)

La decisione diede vita a una diaspora – nota alle cronache come “Cacciata dei Brembillesi” – che vide gli abitanti originari spargersi a Treviglio, a Covo, Antegnate, Lodi o nella Gera d’Adda, ma soprattutto nel milanese, dove il Duca Filippo Maria Visconti fu prodigo di privilegi e concessioni e dove si diffusero in gran numero i cognomi Brembilla, poi Brambilla (12). Molto probabilmente la cacciata dei Brembillesi diede il colpo di grazia alle ultime speranze dei ghibellini.

Anche l’antica Corte Regia di Almenno fu completamente cancellata, soprattutto dalla distruzione sistematica della Lemine Inferiore, decretata in quell’anno dal podestà di Bergamo Andrea Gritti, come rappresaglia veneta contro il caposaldo ghibellino.

I PROPRIETARI DELLA TENUTA DI CLANEZZO

Stroncata energicamente la resistenza ghibellina, la terra di Clanezzo venne ascritta al fisco di Venezia, che nel 1485 la cedette all’Istituto di Pietà Bartolomeo Colleoni. Il Castello fu col tempo trasformato in una sontuosa villa, dove si avvicendarono nei secoli alcune famiglie benestanti contornandosi di musica, letterati e intellettuali (13). Trovandosi in gravi condizioni economiche dopo le guerre del Cinquecento, l’Istituto di Pietà deliberò nel 1539 di venderla a Bernardino Buscoloni, originario di Almenno: uno degli eredi di Bernardino, il figlio Gian Giacomo, fu il primo proprietario del maglio di Clanezzo, che entrò in funzione nel 1548 ad opera di Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna.

Dopo i Buscoloni la proprietà passò ai Furietti ed in seguito ai Conti Martinengo da Barco, che pur risiedendo a Brescia fecero il possibile per venire incontro ai bisogni dei pochi abitanti del luogo. Furono costoro a far edificare nel 1786 la nuova chiesa di Clanezzo, che pare sia sorta circa quattro secoli prima come cappella gentilizia, ad uso dei nobili proprietari del castello e che fosse già intitolata a S. Gottardo, cui erano assai devoti gli imperatori germanici, a fianco dei quali si erano schierati i ghibellini.

Nel luogo della chiesa di S. Gottardo, a Clanezzo, doveva esistere una piccola cappella privata, tenuta dai nobili proprietari del castello, risalente al 1350/1400, come emerso durante i lavori di ristrutturazione (1985) della casa parrocchiale di Clanezzo, quando è venuta alla luce la sacrestia dell’antica chiesa con il soffitto a volta tutto affrescato, raffigurante un Gesù pantocratore e ai lati quattro angeli con i simboli degli evangelisti. Intitolata in un atto del 1539 ai Santi Antonio e Gottardo, verrà mantenuta solo la dedicazione a S. Gottardo. La chiesa divenne parrocchia nel 1707 e il conte Francesco Leopardo Martinengo da Barco ne ebbe l’Jus Patronato. Tale istituzione rimase in vigore fino al 1977, quando passò ai sigg. Beltrami ed in seguito ai Roncalli, che nel 1885 comperarono il castello e la sua tenuta. Più volte modificata, la chiesa conserva, oltre a pregevoli dipinti, arredi e sculture, nonché un organo realizzato dai fratelli Serassi nel 1829. Nel 1881 vi si rinvennero due sepolture romane. Altre tombe romane vennero più tardi alla luce a lato della mulattiera che collega Clanezzo ad Ubiale e più recentemente un gruppo speleologico ha individuato un insediamento umano con resti sovrapposti che dall’età della pietra giungono all’epoca romana (Fotografia Maurizio Scalvini)

Nel 1804 la tenuta di Clanezzo (che si estendeva da Clanezzo fino alla Mortesina e da Ubiale fino al “Casino” a Villa d’Almè), venne venduta ai fratelli Egidio e Luigi Beltrami, la cui famiglia rivestì un ruolo importante nella vita politica della comunità, ricoprendo cariche locali (14). Recuperarono il “podere” e ridiedero prestigio al castello e per magnificarne la storia adornarono il giardino di silenziosi recessi, di vere o supposte antiche rovine e di commosse iscrizioni.

Attuale interno del Castello di Clanezzo (proprietà Castello di Clanezzo)

 

Attuale interno del Castello di Clanezzo (proprietà Castello di Clanezzo)

Autore di molte modifiche fu Paolo Beltrami (1792-1853), con il quale la residenza perse via via l’aspetto di castello per trasformarsi in un palazzotto, ulteriormente abbellito dal figlio Vincenzo, primo sindaco del comune di Clanezzo nel 1863. Nel cimitero di Clanezzo è presente la cappella fatta costruire da Paolo Beltrami per custodire i resti suoi e della sua famiglia.

Il Castello di Clanezzo non conserva più nulla dell’antica fortificazione turrita dalla quale il crudele Enguerrando Dalmasano seminava il terrore. Niente più fa pensare agli scontri feroci di un tempo, ma appare oggi come un accogliente edificio adibito a ristorante, caratterizzato da un portico con il loggiato ad archi e tre massicce torri. Le differenti tematiche delle decorazioni e degli stili compositi fanno intendere che gli abbellimenti siano stati realizzati in epoche diverse (Fotografia Maurizio Scalvini)

Dal libri dei Visitatori del castello (15) apprendiamo che i Beltrami furono onorati nel 1837 dalla presenza di Massimo d’Azeglio (che fra l’altro ritrasse la Valle Brembana in alcuni suoi dipinti), del maestro Giuseppe Verdi, all’apice della fama, dell’Arciduca Ranieri Giuseppe d’Asburgo, viceré del Regno Lombardo–Veneto, il quale, essendovi capitato proprio nel 1848, nei giorni cruciali delle insurrezioni antiaustriache, dovette far precipitosamente fagotto per non cadere in mano ai rivoltosi.

Nel 1885 la proprietà passò ai conti Roncalli, che specialmente nel Settecento e nell’Ottocento ebbero un ruolo importante nelle vicende storiche bergamasche. Essi vivevano nei loro palazzi in Città Alta e venivano a Clanezzo saltuariamente, per trascorrere qualche giorno di vacanza e per amministrare il comune e i propri beni. Il fattore riscuoteva per i padroni gli affitti del pedaggio della passerella, del mulino, del maglio e delle terre, ossia, il più delle volte, ortaggi, castagne, legna, farina (16). Durante il suo mandato di sindaco, Giulio Roncalli si diede da fare per migliorare le condizioni del paese, impegnandosi nella realizzazione di strade, acquedotti e scuole. La nipote Maria è da ricordare principalmente per la costruzione, nel 1925, del ponte che collega Clanezzo con Almenno. I Roncalli mantennero il possesso della tenuta fino alla prima metà del Novecento.

COSA RESTA DEL VECCHIO CASTELLO DI CLANEZZO

Non sappiamo se il Castello conservi nei sotterranei i resti del vecchio maniero, ma parecchio resta ancora del tempo che fu in alcune strutture collaterali: i chioschetti cilindrici collocati lungo i sentieri che salgono dal basso, che dovevano essere torrette di guardia (una delle quali pare conservi armi bianche medievali), diventate covi di serpi utilizzate contro i nemici; certi passaggi scavati nel pendio sottostante l’abitato, probabilmente collegamenti con i sotterranei del castello più antico. Ora gli ingressi sono murati per impedire frequentazioni sgradite, ma un giorno si dovrà pure studiare a fondo anche questa situazione.

Sulla mulattiera acciottolata che conduce al Porto, si stacca a sinistra una stradina che conduce a un edificio incastrato nella roccia: sono le prigioni del Castello.

Il sentiero che conduce alle prigioni del Castello di Clanezzo, poste a destra dell’immagine (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Le prigioni del Castello di Clanezzo, a sbalzo lungo la riva sinistra dell’Imagna (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Il vano interno delle prigioni del Castello di Clanezzo (Fotografia Maurizio Scalvini) 

ATTIVITA’ LOCALI DURANTE IL DOMINIO VENETO E IL MAGLIO

Ritornata la pace nelle valli in seguito ai drastici provvedimenti del 1443, consapevole dell’importanza strategica di questo territorio, il governo Veneziano ne favorì lo sviluppo economico. Venezia si guardò bene dal distruggere il bellissimo ponte altomedioevale di Attone, che costituì per molti secoli l’unica via di accesso da e per la Valle Imagna e per l’accesso alla pianura.

Nella terra di Brembilla – ora chiamata Brembilla Vecchia -, nonostante le difficoltà conseguenti a tanti anni di guerre e carestie causate dalla peste degli anni 1503, 1527, 1630 (ricordata nella “Valle dei Morti”, a metà strada tra Clanezzo e Ubiale), nel Cinquecento e nel Seicento gli abitanti ottennero buoni risultati soprattutto nella coltivazione delle granaglie, ed è forse questo il motivo per cui sui fiumi del territorio vi erano addirittura dieci mulini.

La leggenda vuole che i morti della peste della zona fossero portati nella valle che sta a metà strada tra Clanezzo e Ubiale, che prese il nome di “Valle dei Morti”, stranamente indicata sulle mappe come “Valle dei Mori”

 

L’attività silvo-pastorale degli Ubialesi e la sua diffusione capillare nel territorio è testimoniata in dipinto del 1542 di Lorenzo Lotto raffigurante la Madonna in gloria coi santi Battista, Francesco, Gerolamo e Giacomo, conservato presso la chiesa parrocchiale di Sedrina. Al centro della grande pala, sotto le figure dei Santi, si scorge l’abitato di Sedrina con il suo ponte sul Brembo, mentre di fronte, in territorio di Ubiale, alcuni pastori con il gregge. Sappiamo che in un’epoca imprecisata, sul fiume vi era anche un follo da panni per lavorare l’abbondante quantità di lana prodotta. I panni di lana, dopo essere stati trattati con acqua, sapone e argilla per essere liberati da ogni impurità, venivano battuti con grossi martelli in modo che il tessuto diventasse più spesso, morbido e resistente

Nella zona si sviluppò con successo anche l’attività estrattiva, documentata alla metà del Settecento dall’abate Angelini, che testimonia l’esistenza ad Ubiale di un filone di una pregiata pietra, che, molto simile al calcedonio, serviva da “accendino” nelle case ma era molto usata nel campo delle armi perché perfetta per l’archibugio. Egli testimonia inoltre la produzione di calce prodotta in fornaci molto rudimentali (ed ancor oggi prodotta in loco in modo industriale), mentre sulle pendici del monte Ubione si produceva una notevole quantità di carbone, attività che, insieme al taglio della legna, interessava la maggior parte della popolazione del comune all’inizio dell’800: Maironi da Ponte assicura che dai boschi di castagno si ricavavano frutti, legna da ardere e da opera, commercializzata lungo tutta la valle e il cui guadagno veniva dal taglio e dal trasporto. Il profitto era ad appannaggio dei soli proprietari dei boschi: a Clanezzo i Beltrami prima e i conti Roncalli poi, ad Ubiale e a Rota, gli Ascolti e pochi altri. Quando cominciò a scarseggiare il lavoro, molti carbonai Ubialesi decisero di emigrare in Canton Ticino, dove i bravi carbonai erano molto richiesti.

Una voce importante riguardò la lavorazione del ferro presso il maglio, l’antichissima fucina sull’Imagna funzionante dal 1548 e che dal Settecento, considerati i continui venti di guerra che spazzavano la Repubblica, fu una fiorente fabbrica di armi per conto di Venezia: il ferro vi veniva lavorato con grande abilità e perizia, tant’è che qui venivano forgiati numerosi proiettili e cannoni, che venivano trasportati a Venezia per essere utilizzati per la difesa di terra e per armare le navi della flotta. Il minerale di ferro proveniva dalle miniere situate nell’Alta Valle Brembana, mentre in Valle Seriana sorgeva nello stesso periodo la fabbrica di armi di Gromo, che produceva spade e altre armi da punta e da taglio.

Il maglio di Clanezzo, un massiccio edificio in pietra a vista posto sul fondo delI’Imagna, oggi quasi completamente distrutto e pericolante: le pietre del Brembo e la calce dell’Ubione furono i materiali utilizzati per la costruzione del maglio e degli edifici della zona. All’inizio del Settecento i proprietari della tenuta di Clanezzo, conti Martinengo da Barco, avevano dato in affitto la tenuta, compresa la fucina, a Carlo Camozzi, che vi produsse palle da bombarde, colubrine e cannoni destinati a Venezia. Costeggiando parte del muro di cinta del Castello di Clanezzo si scende nella valletta del torrente Imagna fino a raggiungere il punto di captazione dell’acqua del canale di alimentazione della grande fucina del ferro (Maglio) posta sulla sponda sinistra. Percorrendo il letto del canale, in parte scavato tra le falde della roccia, si raggiunge l’edificio del maglio, collocato ai margini di un giardino romantico. Il maglio e i suoi dintorni sono caratterizzati dalla presenza di manufatti che evidenziano il continuo utilizzo della fucina fino ai tempi recenti (Fotografia Maurizio Scalvini)

MA PERCHE’ UNA DOGANA A CLANEZZO?

Anche nella bergamasca il Senato Veneto aveva disposto un sistema di riscossione collocando caselli presso tutti i ponti: sui fiumi Brembo, Serio, Oglio, Cherio e loro derivazioni, dove ogni persona che veniva nel distretto bergamasco doveva pagare in base alla provenienza, se a piedi o a cavallo,  eccetto coloro che avevano il lasciapassare del Papa, dei Cardinali, delI’Imperatore, dei Duchi, dei Baroni e di altri Principi e di quanti erano “privilegiati dal Serenissimo Dominio”, così come di chi portava “Biava sopra il mercato”. C’era quindi il “dacio della semination del Guado” (pianta erbacea), il “dacio della Gratarola” (compravendita di animali), il “dacio del Pizzamantello” (legumi), il “dacio de’ banditi” (banditi dal territorio) e via dicendo.

La Dogana in una foto d’epoca (proprietà Fausto Carrara)

IL PORTO FLUVIALE DI CLANEZZO

La posizione geografica di Clanezzo nel corso dei secoli ha notevolmente influenzato le attività e la vita sociale del paese. Isolato rispetto ai territori circostanti, l’abitato ha avuto bisogno di sviluppare comode e veloci vie di comunicazione ed in particolare i collegamenti con la sponda sinistra del Brembo, dove scorreva l’arteria commerciale della Valle Brembana.

Clanezzo era infatti da tempi remoti collegato con Almenno per l’accesso alla pianura e alla città, e con Ubiale per lo sbocco in valle, attraverso una scomoda mulattiera che allungava i tempi di percorrenza e rendeva disagevole il passaggio dei carri e il trasporto delle merci: basti pensare che da Ubiale la legna veniva portata a spalla nel deposito di Sedrina o verso Clanezzo.

Panoramica su Clanezzo ripreso da Villa d’Almè (Fotografia Maurizio Scalvini)

Ancora non esisteva il ponte novecentesco sull’Imagna, come non esisteva il collegamento viario diretto tra Clanezzo, Bondo e Ubiale, completato soltanto pochi decenni fa sulla sponda orografica destra del fiume.

Clanezzo ancora priva del ponte sull’Imagna fatto costruire dai conti Roncalli nel 1925

Anche con la costruzione della Strada Priula (1592-1594), realizzata dai Veneziani per unire il capoluogo all’alta Val Brembana e ai Grigioni svizzeri, la strada birocciabile per molti anni non arrivò che alle Chiavi della Botta, così chiamate per le grosse chiavi di ferro infisse nella roccia a sostenere lo spaventoso passo che superava le gole d’ingresso della Val Brembana e che venne allargato insieme alla strada solo nel 1827 dagli Austriaci. Nel frattempo dunque Clanezzesi ed Ubialesi per recarsi a Brembilla, a Sedrina e in alta Valle Brembana, continuavano ad utilizzare la vecchia mulattiera tra Clanezzo ed Ubiale, immettendosi nella Strada Priula nei pressi dei Ponti di Sedrina, dove un ponte esisteva già dal  1178.

La strada di Valle Brembana nei pressi delle “Chiavi della Botta” in una foto degli inizi del Novecento (Raccolta Ketto Cattaneo). Lasciata Porta San Lorenzo in Città alta, la Strada Priula puntava direttamente verso la Val Brembana superando con opere ardite la gola di ingresso della Valle, che aveva scoraggiato sino ad allora l’itinerario diretto da Bergamo: un tratto lungo soltanto 200 metri, tanto indispensabile quanto pericoloso, poiché soltanto un piccolissimo muretto, alto pochi centimetri, proteggeva commercianti, viandanti, animali e carichi al seguito, dal precipizio. “Guai, se fosse sdrucciolato con un piede il cavallo!”, scriveva Maironi da Ponte. La costruzione dell’opera comportò ingenti perdite tra gli operai, a causa dei cedimenti di piccole parti di parete e fatali distrazioni che si trasformavano in tragedia. La forra di Sedrina era invece superata con un ponte. La strada proseguiva poi lungo l’asta del Brembo. Paesi come Zogno (che divenne importante centro di mercato) e San Pellegrino (che prima era un modesto villaggio) ne furono enormemente avvantaggiati. Almeno fino alla loro realizzazione, la Via Mercatorum costituì il collegamento più agevole fra la valle e Bergamo da dove, una volta raggiunta Selvino, iniziava la cavalcatoria che per Serina e Dossena arrivava al borgo fortificato di Cornello dei Tasso, dove le locande offrivano ristoro e il portico protezione dalle intemperie

 

I Ponti di Sedrina, punto strategico per la difesa della città da nord. Il ponte più antico, testimoniato nella pala del 1542 di Lorenzo Lotto (Madonna in gloria coi santi Battista, Francesco, Gerolamo e Giacomo) presso la parrocchiale di Sedrina. risale almeno al 1400, ma in luogo di questo ponte doveva esisterne uno molto più antico. Esso metteva in comunicazione Zogno con Almè e Bergamo passando per le località: Somasedrina (poco a monte di Sedrina), Mediglio (poco a monte della Botta), nei pressi della Casa Giungo (a metà circa della valle del Giungo), per il passo di Bruntino Alto e Villa d’Almè

La ristrettezza della strada, oggi corrispondente alla statale della Val Brembana, consentiva dunque il transito ai birocci solo fino alle Chiavi della Botta, dove nei pressi si trovava infatti il “Casino” (detto anche “stal” o ”stalù”), un grosso edificio cinquecentesco in pietra grezza – ancora esistente a Villa d’Almè -, di proprietà dei padroni di Clanezzo: vi sorgeva il vecchio magazzino di sosta dei carriaggi commerciali e delle merci provenienti da Clanezzo o dirette a Clanezzo, con stalle per il ricovero e il cambio dei cavalli, vani per il ricovero per i carri e l’abitazione dei carrettieri.

A Villa d’Almé, sulla sponda orografica sinistra del Brembo e di fronte a Clanezzo, l’edificio del “Casino” esiste ancora, benché rimaneggiato: oggi occupato da Arredi Carminati, si trova in prossimità del grande parcheggio sulla strada statale che immette in Valle Brembana, in via Casino basso (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Dal parcheggio ubicato in prossimità del “Casino” si diparte un ampio sentiero gradinato e acciottolato, che scende comodamente al “ponte che balla” e di lì al Porto (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Il “ponte che balla” al termine del percorso gradinato (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Durante la discesa, a sinistra, una deviazione conduce alla pista ciclabile della Valle Brembana e si può anche osservare la stazione della vecchia Ferrovia con la prima galleria (Fotografia Maurizio Scalvini)

Era dunque inevitabile che gli abitanti di Clanezzo cercassero un modo rapido e sicuro per raggiungere questa strada. L’idea di costruire un ponte era sicuramente temeraria, considerando i costi e la notevole distanza delle due sponde; il traghetto collegato alle due sponde da una fune tesa parve la soluzione più facile e meno dispendiosa, anche perché in quel punto il fiume si restringeva e le correnti impedivano l’uso del guado.

Il traghetto a fune documentato in un’antica stampa

Documentato nel 1614 (17), il traghetto poteva essere anche più antico, non foss’altro perché era necessario a sopperire alla mancanza di un collegamento viario diretto sulla sponda destra del fiume (18), punto nevralgico per il commercio di Valle Brembana e Imagna.

Veduta del traghetto, del Porto e della Villa di Clanezzo. Il traghetto faceva la spola tra le due sponde del Brembo trasportando persone, generi alimentari, legna, carbone ecc. La barca era agganciata ad un cavo che attraversava il fiume secondo il sistema del traghetto leonardesco di Villa d’Adda (disegno di Paolo Beltrami, 1836. Bergamo, Biblioteca Civica A. Mai)

Il traghetto a fune era decisamente una “singolarità” per la Valle Brembana e più tardi, ai tempi della “belle époque”, ne sarebbe sorto un secondo a San Pellegrino, importante stazione termale brembana. Oggi dei porti su fiume rimane in attività solo quello di Imbersago le cui origini, così come quelle di altri porti similari documentati lungo l’Adda, ricordano l’opera di Leonardo da Vinci.

Ai tempi della “belle époque”, nella stazione termale di San Pellegrino  la traversata sul Brembo era per i turisti una consuetudine. il traghetto funzionava da “navetta” trasportando i villeggianti dall’attuale via B. Tasso all’allora ristorante Belvedere

Certamente oggi l’idea di un traghetto che attraversi il Brembo è inimmaginabile, perché il letto del Brembo era più profondo e la sua portata assai maggiore in ogni periodo dell’anno e, forse, a partire da Clanezzo, in certe condizioni parzialmente navigabile; senza contare che le opere di sbarramento realizzate per il fabbisogno di energia elettrica del Linificio di Villa d’Almè lo hanno quasi prosciugato: inutilmente, più volte il consiglio cittadino propose dei progetti per rendere il Brembo navigabile o canalizzarne le acque per collegarlo al Po.

Dettaglio della mappa della Valle Brembana disegnata da Pietro Ragnolo nel 1596 con la descrizione del tracciato della Strada Priula, contenuta nella relazione del Capitano Giovanni Da Lezze in quell’anno. In prossimità del nome “Clanez”, la scritta “Dove c’è il sito per cavar la bocca del navilio” indica il progetto di Giovanni Rota della Pianca per la realizzazione di un canale navigabile. Il progetto prevedeva di sbarrare il Brembo a Clanezzo e di derivare un canale dal lago che si sarebbe formato. Le soluzioni proposte per giungere a Venezia erano due: nella prima il canale navigabile avrebbe raggiunto Bergamo e poi l’Adige nel Veronese; nella seconda, una volta raggiunta Bergamo in Borgo S. Caterina, avrebbe seguito il perimetro della città per dirigersi poi verso l’Adda. Anche Bartolomeo Colleoni e Leonardo Da Vinci avevano pensato di costruire canali navigabili per trasportare le merci e di irrigazione con le acque del Brembo, ma tutti i progetti erano tramontati. Di Leonardo Da Vinci è rimasto uno schizzo, tracciato intorno al 1508-1510, nel quale sono riportate molte delle località che si trovano lungo il corso del fiume. Lo studio, conservato presso la Raccolta Reale di Windsor in Inghilterra

Il servizio di traghetto era gestito da un portolano, che controllava e riscuoteva il pedaggio dagli edifici del Porto, un variegato agglomerato di edifici costruiti nel Seicento ma di possibile origine medioevale.

Il traghetto a fune tesa nella Mappa napoleonica del 1810!

 

Il Porto di Clanezzo, uno scalo fluviale in miniatura. L’edificio del portolano esiste ancora e ha mantenuto la propria insegna, ricordando il traghetto che faceva la spola tra le due sponde del fiume, trasportando merci e persone. Anche negli edifici del Porto, un ampio androne doveva essere adibito al temporaneo riparo e a magazzino delle merci. Su una facciata degli edifici del Porto compare in altorilievo lo stemma della famiglia Roncalli (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Porto di Clanezzo. Sotto il gruppo di case scorre una vena sotterranea di cristallina acqua sorgiva, presente grazie ai diffusi fenomeni carsici che han dato luogo a diverse cavità e sistemi di condotte (Fotografia Maurizio Scalvini)

Nel corso dell’Ottocento gli edifici del Porto ospitavano pure l’ufficio postale comunale e un’osteria con alloggio, fatta chiudere dagli Austriaci nel 1829 per timore di disordini: in un documento del 7 febbraio 1829 è scritto infatti che il deputato politico comunale deve sospendere dall’esercizio di venditor di vino il Portolano di Clanezzo, Giacomo Capelli, perché è recidivo e causa di diversi disordini. La chiusura dell’osteria deve essere definitiva perché il luogo è vicina al Brembo e a tanti altri pericoli che possono essere dannosi per gli avventori e per gli ubriachi, e anche perché rende facile la fuga e quindi le ….”politiche trasgressioni”.

Porto di Clanezzo. Disegno del 1924 dell’ingegnere/architetto Luigi Angelini (proprietà del Bar “La Gabèla”, presso il Porto di Clanezzo)

Fino agli inizi del Novecento il gruppo di edifici fu custodito da un guardiano e gli ultimi abitanti hanno abbandonato il Porto in tempi recenti.

Il Porto di Clanezzo alla fine del Novecento, quando ancora i suoi edifici erano abitati

 

La vecchia insegna del Porto prima delle recenti operazioni di recupero

 

Gli affreschi sulla facciata di un edificio del Porto, oggi recuperati grazie all’iniziativa di Lorenzo Filippini, ingegnere di Petosino, e Davide Baggi, perito elettronico di Ponteranica (Fotografia Maurizio Scalvini)

E se l’accesso a Clanezzo dal lato del Brembo – sia che si giungesse col traghetto che, in seguito, con la passerella – prevedeva il pagamento di un pedaggio, lo stesso avveniva per chi transitava sull’antichissimo Ponte di Attone, dove, nella seicentesca Dogana fatta costruire dai Veneziani, viveva un portinaio con le stesse funzioni del collega del Porto (19): oltre ad essere il posto di controllo dei transiti tra le due sponde terminali della Valle Imagna, la Dogana era anche sede della “gabella”, che imponeva dazi ai commerci che utilizzavano tale via di comunicazione.

La robusta torre a pianta quadrata era probabilmente il nucleo originario della costruzione, solo in seguito affiancata da un edificio a logge lignee nel quale alloggiava il doganiere, colui che aveva appunto il compito di riscuotere il pedaggio.

Dal Ponte di Attone, lungo l’antico tracciato altomedioevale si scorge un edificio di epoca seicentesca che svolgeva la funzione di Dogana, una robusta torre affiancata in seguito da un edificio a logge lignee nel quale alloggiava il doganiere, colui che aveva  il compito di riscuotere il pedaggio (Fotografia Maurizio Scalvini)

Dopo che una piena distrusse il traghetto, forse a causa delle mutate condizioni del Brembo o forse per una maggiore funzionalità e convenienza, l’utilizzo del traghetto venne abbandonato a favore di un’opera di arditissima ingegneria: il ponte sospeso sul Brembo (oggi noto come “Ponte che balla”), fatto costruire nel 1878 da Vincenzo Beltrami, allora proprietario del castello di Clanezzo e delle terre circostanti (20). La passerella in legno, lunga circa 70 e larga 1,30 metri, è sorretta da esili cavi in acciaio tenuti in tensione da due contrafforti in pietra; un avvertibile ondeggiamento accompagna chi vi transita a piedi o in bicicletta.

Suggestiva immagine della passerella, unica sopravvissuta delle tre che, fino ad alcuni decenni fa, si trovavano nei pressi di Clanezzo (Fotografia Maurizio Scalvini)

I sistemi di tenditori delle funi sono visibili all’interno del contrafforte sulla sponda di Clanezzo, mentre all’interno di un edificio del Porto sono rimasti i vecchi meccanismi, ormai in disuso, a ricordo di un passato secolare.

I vecchi meccanismi della passerella, ormai in disuso, all’interno di un edificio del Porto (immagine di proprietà del Bar “La Gabèla”, presso il Porto di Clanezzo)

E’ l’unica passerella sopravvissuta delle tre che fino ad alcuni anni fa si trovavano nei pressi di Ubiale Clanezzo e fu uno dei primissimi esemplari realizzati nell’Ottocento in Italia con la tecnica delle funi portanti ancorate sulle rive.

Il ponte sospeso e il Porto. Con il suo dondolio, la passerella continua a trasmettere l’emozione di un inusitato passaggio sul fiume, mentre l’ambiente del Porto è rimasto pressoché immutato nel corso dei secoli (Fotografia Maurizio Scalvini)

Sono, questi, gli anni in cui si comincia a parlare dei Conti Roncalli, divenuti nel 1885 proprietari del Castello (ora Villa Beltrami) e di molti possedimenti in Clanezzo, dove si distingueranno nella vita politica ed amministrativa del paese e per la realizzazione di importanti opere come strade, acquedotti, scuole nonché il ponte di collegamento con Almenno, che verrà realizzato nel 1925.

Clanezzo – Contrada Porto in una vecchia cartolina dei primi Novecento. Lo stemma della famiglia Roncalli, che dal 1885 fu proprietaria della zona, compare sulla facciata di un edificio (Pompeo Sibilia Edizioni, Bergamo)

 

Nei primi anni del 1900, in piena belle époque, le carrozze che nei mesi estivi portavano le famiglie dei nobiluomini e dei borghesi benestanti verso le “Acque” di San Pellegrino erano solite interrompere il viaggio con una sosta di riposo all’altezza delle chiavi della Botta, sulla riva sinistra del Brembo, di fronte a Clanezzo. Le signore si facevano ombra con graziosi ombrellini, i signori accendevano il sigaro e scendevano verso il fiume, dove un ponte a passerella che dondolava dolcemente sopra le acque blu, permetteva loro di approdare sulla riva opposta e percorrere poi la dolce salita che, lasciando alle spalle gli edifici del Porto e della vecchia Dogana, li portava nel giardino ombreggiato del Castello o Villa Beltrami, come allora veniva chiamato. Un angolo di quieta bellezza, di grande frescura, situato dove il torrente Imagna si getta gorgogliante nel più importante fiume Brembo. Con l’arrivo della Ferrovia, i visitatori giunsero a Clanezzo, anziché in carrozza, con un trenino che sembrava un giocattolo, con tanto di gallerie, passaggi a livello e stazioni che sembravano fatte con il “traforo”. E se fino alla fine degli anni Trenta questo “piccolo mondo antico” non subì grandi variazioni, la seconda guerra mondiale cambiò l’Europa e, in piccolo, anche le abitudini di questo angolo di terra (Alberto Maria Molgorami Beltrami) – (Per la fotografia, Turisti in visita alla villa di Clanezzo all’inizio del Novecento – Raccolta Ketto Cattaneo)

 

1899: una fototipia di “Clanesso”. Il castello dei conti Roncalli domina isolato. Non c’è ancora il ponte carrabile (1925) che portava anche alle cave di quarzo (ora chiuse) – (Domenico Lucchetti, Album di antiche cartoline bergamasche. Grafica Gutemberg, 1979)

 

Nel frattempo, l’allargamento della Priula nel 1827 e la possibilità di transitare con piccoli carri e con birocci oltre le Chiavi della Botta, favoriva i trasporti da e per la Valle e incrementava diverse attività economiche (produzioni di carta, panni, ferro, legna e formaggi), così come lo sviluppo dell’attività termale di S. Pellegrino, dove i primi alberghi sorsero nel 1856. Grazie a tale incremento, alla fiera di S. Alessandro, nel 1828 vennero vendute stoffe per dodici milioni di lire austriache, nel ’34 per ventiquattro milioni, nel ’37 per trentotto milioni. Anche la produzione della seta ebbe una forte impennata e la coltivazione del gelso fu per lunghi anni una delle risorse dei meno abbienti. Ad Ubiale venne praticata da molte famiglie. I bachi, una volta raggiunta la dimensione giusta, venivano portati alla filanda di Campino, in territorio di Almenno S. Bartolomeo, presso il Brembo. Ancora alla metà dell’800 l’agricoltura occupava molti degli abitanti di Ubiale-Clanezzo come mezzadri e l’80% delle terre era ancora in mano ai nobili e all’alta borghesia

In seguito all’Unità d’Italia, la ricchezza mineraria e la presenza di risorse idriche per la produzione di energia ha favorito la nascita di insediamenti industriali e la realizzazione di opere ed impianti che hanno cambiato l’aspetto del territorio.

Nel territorio di Ubiale, ricco di rocce calcareo-marnose e quarzose, si aprirono alcune cave per l’estrazione di marna e quarzo. Il quarzo venne estratto fino agli anni Sessanta  in località Coste e a Ca’ Bonorè e le ferite nella montagna sono oggi ricoperte da una fitta vegetazione (lungo la strada che porta ai ponti di Sedrina si vede ancora la tramoggia).  Ebbero invece vita lunga le ditte Ghisalberti (poi Unicalle, a 200 metri dal Ponte sul torrente Brembilla) e la Società Cementi Valle Brembana (oggi Italcementi), che ancora oggi producono calce con il materiale estratto dalle cave di Ubiale, che in passato hanno divorato completamente le storiche contrade della Forcella, sopra i ponti di Sedrina, e quella, molto più grande e popolosa, di Ciniplano. Restano comunque i ruderi delle vecchie teleferiche e le tramogge utilizzate per portare materiali ai forni.

Tra il 1897 e il 1900, proprio a Clanezzo fu realizzata una Centrale idroelettrica: la prima in Valle Brembana che potesse definirsi correttamente in questo modo ed una delle prime in Italia a sfruttare il sistema di generazione e pompaggio. Fu costruita nei pressi dell’ultima stretta del Brembo, prima che il fiume sfoci in pianura, abbastanza vicino al capoluogo, quindi in posizione strategica.

La centrale Schuckert a Clanezzo poco prima del 1915. Fu una delle prime, in Italia, a sfruttare il sistema di generazione e pompaggio, cioè quello che permetteva di avere una scorta d’acqua (10.000 mc) sempre a portata di turbina. Sul contrafforte del monte Ubione si nota la condotta forzata per accumulare e riutilizzare più volte la stessa acqua. Venne realizzata, in qualità di proprietaria, dalla Società Schuckert & Co. di Norimberga (un’associazione di imprenditori tedeschi di cui faceva parte anche il birraio Von Wunster), cui subentrò più tardi la Società Bergamasca, mentre a produrre l’energia elettrica era la Società Orobia. Progettista del canale e della diga di servizio della centrale era l’ing. Luigi Goltara. Il canale di servizio alla centrale di Clanezzo era sulla sponda destra del Brembo. Ma ci vollero molti anni prima che il paese potesse beneficiare dell’energia elettrica

 

Operai al lavoro per la costruzione dei bacini (Raccolta Ketto Cattaneo)

 

Bacino di raccolta lungo le pendici del monte Ubione, per la Centrale idroelettrica di Clanezzo (Raccolta Ketto Cattaneo)

 

Bacino di raccolta lungo le pendici del monte Ubione, per la Centrale idroelettrica di Clanezzo (Raccolta Ketto Cattaneo)

 

Resti di una delle due cisterne lungo le pendici del monte Ubione, completate nel 1903. Si tratta di due grandi vasche semi-interrate, costruite per uso idroelettrico per la Centrale a pompaggio posta sul sottostante fiume Brembo, da tempo in disuso. Durante la notte l’energia elettrica prodotta in eccesso della Centrale veniva usata per pompare acqua dal fondovalle fino a queste vasche a metà montagna, acqua che poi di giorno tornava a valle per alimentare le condotte delle turbine e produrre così nuova energia (foto U. Gamba, op. cit.)

L’obiettivo era quello di produrre energia su vasta scala per venderla poi alle utenze private che stavano aumentando sempre di più.

Clanezzo. La passerella un tempo esistente presso la Centrale idroelettrica “Brembo”, costruita per raggiungere dalla centrale la strada di Valle Brembana senza dover utilizzare la passerella dei conti Roncalli, soggetta al pagamento di un pedaggio. Il gruppo di case era di proprietà dell’ente che erogava l’energia elettrica. Vi si arrivava attraverso una stradina tutta tornanti che scendeva da Campana, oggi inclusa in una proprietà privata. E’ stata smantellata dall’Enel, ma sono rimasti i sostegni in cemento dei tiranti a bordo fiume (Raccolta Ketto Cattaneo)

La concorrenza per accaparrarsi i diritti di sfruttamento delle risorse idriche nella zona di Clanezzo in quegli anni era fortissima. Contemporaneamente alla Centrale idroelettrica di Clanezzo, nel 1897 venne costruita un’altra Centrale, questa volta sul greto del torrente Imagna, che intercettava le acque dall’Imagna in territorio di Berbenno, alla località Ponte Giurino. Da qui venivano trasportate con un canale semi sotterraneo in territorio di Clanezzo, là dove l’Imagna sbocca nel Brembo: un salto di ben 80 metri e una portata di 580 litri d’acqua al secondo, assicurava una potenza complessiva di 500 cavalli (HP).

La Centrale elettrica di Clanezzo sul greto del torrente Imagna (1897), posta sul percorso che conduce al maglio di Clanezzo

Per portare l’acqua fino a Clanezzo, in territorio di Strozza fu costruito un arditissimo viadotto-canale a sei arcate che attraversava il torrente Imagna a una notevole altezza cambiando in modo spettacolare e definitivo il panorama di quella valle.

Per portare l’acqua fino a Clanezzo venne costruito un canale di derivazione che a Strozza attraversava il torrente sull’ardito e grandioso ponte-canale che ha preso il nome dall’ing. Giuseppe Chitò, che l’ha progettato e costruito nel 1897.  il canale a pelo libero, ora dismesso, raggiungeva i prati sovrastanti l’abitato di Clanezzo, fiancheggiando in quota il torrente per poi scendere di colpo tramite una condotta forzata alla centrale posta sul greto dell’Imagna. Ora la centrale è stata smantellata e sul sedime del canale, in parte ritombato e sistemato, passa il percorso ciclo-pedonale del Chitò (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Percorso ciclo-pedonale del Chitò: una pista molto peculiare, che corre a mezza costa nei boschi tenendo alla sua destra il monte Ubione e a sinistra il torrente Imagna, sviluppandosi interamente in sicurezza. La ciclovia percorre il sedime del dismesso canale che alimentava la Centrale idroelettrica minore di Clanezzo , fiancheggiando in quota il torrente Imagna, che qui si inforra per circa due chilometri prima di confluire nel Brembo a Clanezzo. Questo fa sì che la pista sia quasi interamente piana e che abbia molte grate che lasciano intravedere il corso d’acqua originale. Il percorso offre  ombra e frescura, anche grazie alle pozze, alle sorgenti e ai numerosi rivoli d’acqua che lo punteggiano, nonché particolari scorci paesistici di notevole bellezza. Sul sentiero sono presenti affioramenti di dolomia e sorgenti incrostanti con fenomeni di deposito concrezionale di particolare interesse naturalistico, rari per la bergamasca. In prossimità di Strozza (terzo chilometro) si giunge al suggestivo ed arditissimo ponte-canale del Chitò, grandiosa costruzione in pietra, a sei arcate, che attraversa il torrente Imagna a una notevole altezza, consentendo di passare sulla sua riva destra. Oltre il ponte la ciclabile prosegue ancora per un chilometro parallela alla strada provinciale SP14 per poi terminare in località Medega nei pressi di Capizzone (Fotografia Maurizio Scalvini)

Le nuove attività industriali avevano aumentato considerevolmente il volume delle merci e la mobilità della popolazione diveniva un problema sempre più pressante. Nonostante l’arrivo della Ferrovia delle Valli, Clanezzo era ancora completamente isolata: non c’era strada verso monte e per raggiungere la stazione c’era solo la mulattiera che saliva dalla passerella sospesa sul Brembo (che, come vedremo, diverrà proprietà comunale nel 1913).

Inizi ‘900: l’arrivo della Ferrovia a Clanezzo, con i binari e la galleria in basso e a destra dell’immagine. La Ferrovia della Val Brembana favorì lo sviluppo sociale ed economico della Valle

Ancora una volta, il suo isolamento impediva lo sviluppo economico del borgo e dei suoi abitanti. Era quindi necessario realizzare strade più comode e veloci.

Nel 1910 fu realizzata la nuova strada carrozzabile tra Ubiale e i Ponti di Sedrina, scavata negli strapiombi della riva destra del Brembo. A questo punto il vecchio percorso Clanezzo-Ubiale-Ponte del Capèl che si svolgeva lungo una scomoda mulattiera venne abbandonato (Raccolta Ketto Cattaneo)

 

L’ex stazione ferroviaria di Clanezzo è ubicata nel punto in cui dalla ciclabile si accede al Porto e alla passerella di Clanezzo, sul Brembo. la stazione, aperta nel 1906 al completamento della prima tratta della ferrovia della Valle Brembana (che giungeva fino a S. Giovanni Bianco), era posta a servizio del comune di Ubiale Clanezzo e Botta, frazione di Sedrina. La Ferrovia della Valle Brembana fu attiva fino al 1966

Intanto, il conte Giulio Roncalli, allora sindaco del paese, propose al Comune l’acquisto della passerella sospesa sul Brembo, necessaria per l’accesso alla stazione e alla strada provinciale attraverso la mulattiera. L’acquisizione con atto di vendita redatto il 21 luglio 1913 nel palazzo dei conti Roncalli in piazza Mascheroni a Bergamo, permise finalmente ai cittadini di non dover più pagare un pedaggio di 5 centesimi per attraversarla.

Clanezzo cominciava ad uscire dal secolare isolamento grazie alla nuova strada carrozzabile realizzata dopo la costruzione, nel 1925, del ponte sull’Imagna, fatto costruire dalla contessa Maria Roncalli, anche se nei primi anni il transito fu consentito solo ai Roncalli.  La strada, che si fermava al Castello (dove era la sede del Comune), venne poi prolungata fino al cimitero, per facilitare l’accesso ad una cava di quarzo sopra Clanezzo.

L’elegante ponte ad arco sull’Imagna, risalente al 1925, permise di collegare in quota i due pianori che si fronteggiano sul torrente. Il manufatto – il primo ponte in cemento armato costruito in Italia – è di proprietà privata ma lasciato in uso pubblico (Fotografia Maurizio Scalvini)

Qualche anno più tardi si costruì il tratto Clanezzo-Bondo e nel 1980 circa si diede inizio al collegamento con Ubiale, che s’immette sulla strada statale, collegando comodamente i due principali centri del comune.

§ § §

Da secoli ormai le due piccole fortezze del posto sono sguarnite d’armigeri; il millenario ponte ad arco è sgombro di nemici e privo degli antelli d’accesso; la torretta della Dogana è senza più vedette e il porticciolo sul Brembo è ormai in disuso. Anche il maglio non romba più per armature, alabarde e per falci da fieno e l’umile gleba non impingue più i granai e non offre le primizie dei campi al feudatario. La fortezza sull’Ubione è ormai ridotta a pochi resti, mentre il Castello ha dismesso da tempo il cipiglio guerresco: gli invitanti effluvi della cucina del ristorante fanno dimenticare le traversie del passato.

Ma nonostante i cambiamenti, il microcosmo di Clanezzo riesce ancora ad affascinare: per la posizione straordinaria accoccolata su un dirupo alla confluenza di due corsi d’acqua, per la bellezza del sito impervio ed accogliente insieme, per la suggestione dei rimandi storici ancora avvertibili, che continuano a farne un’affascinante meta, oggi valorizzata da un importante operazione di recupero, che ci fa amare ancor di più quel fazzoletto verde lambito dall’azzurro cangiante delle sue acque.

COME ARRIVARE

Clanezzo è raggiungibile sia dalla strada statale della Valle Brembana prendendo lo svincolo che all’altezza di Sedrina si immette per Ubiale, o accedendovi dall’edificio del Casino, a Villa d’Almè (parcheggio), da dove si diparte una comoda stradetta. Vi si arriva anche dalla strada provinciale di Almenno San Salvatore, dove, oltrepassato il ponte costruito dai Conti Roncalli nel 1925, l’abitato si annuncia con l’antico Castello, oggi adibito a ristorante.

Note

(1) Dal periodo romano Clanezzo ed Ubiale facevano parte del distretto territoriale di Lemine (Pagus Lemmenis) insieme alla Valle Imagna, la Valle Brembilla e parte della bassa Valle Brembana. infatti il “Rotulus Episcopatus” come parti del “territorio di lemene” nell’anno 1258 cita le località di “clanezo de lemene”, “monte obiono”, “bondum”, “lunga cavallina”, “finalle et callus de calcibio”, la via “que vadit ad letezolum”, “obiolo” e “ubiallo”. Pertinenza di Almenno fino al XIII secolo, fu, fino al 1443, parte integrante di quella zona generalmente chiamata Brembilla o Valle Brembilla, che era molto più estesa dell’attuale. Con tale nome si intendeva il fazzoletto di terra bergamasca a sud del colle di Berbenno, chiuso tra il fiume Brembo, il torrente Imagna e il torrente Brembilla, comprendente quindi i comuni di Ubiale Clanezzo, Brembilla ed assorbendo entro i propri confini anche le porzioni territoriali di Strozza e Capizzone poste alla sinistra del torrente Imagna. In seguito prese il nome di Brembilla Vecchia, nome che conservò sino alla fine del 1700, quando diventò Clanezzo con Ubiale. Qualche anno più tardi sparì l’indicazione “Ubiale” e il Comune diventò “Clanezzo”. Dal 1927 si chiama Ubiale Clanezzo (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000).

(2) Sotto il dominio longobardo furono soppressi i pagi e l’amministrazione del territorio venne accentrata nella città, la quale, con il passare degli anni, assumeva sempre più l’aspetto di una corte (Umberto Gamba, op. Cit.).

(3) Con la conquista franca del 774 e l’incoronazione di Carlo Magno, questi ristrutturò l’amministrazione e il governo del territorio, creando i conti e altre figure istituzionali. Ideò un regime feudale fondato sul vassallaggio, che trovò terreno fertile in Italia e, una volta radicatosi, vi rimase per lunghissimi anni. Passata nelle mani di nuovi signori, la Corte Franca di Almenno doveva essere solo una residenza di campagna o, considerando la natura dei luoghi, una tenuta di caccia. Doveva però essere bella e appetibile, dato che per lunghi anni fu tenuta in grande considerazione sia dai re longobardi che dai re carolingi. Nell’anno 875 Ludovico il Germanico la concedeva, insieme alla corte Morgola, ad Ermengarda (figlia di re Ludovico II, Imperatore del Sacro Romano Impero e sovrano d’Italia), che la tenne in possesso fino a quando gliela sottrasse l’imperatore Carlo il Grosso, salito al trono nell’881. In seguito, Autari concesse la corte a Guido da Spoleto, il quale, divenuto imperatore nell’892, la donò, su istanza della moglie Agertruda, al marchese Corrado, conte di Lecco, suo fedele margravio e anche parente. Corrado e la moglie Ermengunda presero possesso della corte e la tennero fino all’895, anno in cui Radaldo succedeva a Corrado e veniva a sua volta investito della corte. Divennero poi conti di Lecco Guiberto e infine Attone (957 – 20 giugno 975), sposo della longobarda Ferlinda (Umberto Gamba, op. Cit.).

(4) Storie nuove della Valle Brembana, di Giuseppe Pesenti. Saggi Storici Quaderni Brembani. Edizioni Centro Storico Culturale Valle Brembana, Corponove, Bergamo. Di questo antico percorso oggi è rimasto solo un tratto di circa 600 metri, ancora in discrete condizioni, che dal centro di Ubiale conduce in orizzontale verso la valle di Brembilla, sovrastando di circa 40 metri gli strapiombi del Brembo e la carrozzabile del 1910, e giungendo improvvisamente sul ciglio della cava di calcare che ha divorato già da parecchi decenni la collina pianeggiante a forma di panettone da cui poi tale percorso, con alcuni tornanti, scendeva al ponticello sopra il torrente Brembilla (Giuseppe Pesenti, Op. cit. in questa nota).

(5) Il 3 Marzo 1220 con una transazione il Vescovo investiva del feudo il comune, riservandosi il palazzo nel castello e le sue pertinenze, ma lasciando al comune l’elezione del portinaio. Il vescovo inoltre riservava a sé le decime e, tra le altre cose, il monte Ubione e la sua rocca”. Finalmente, il 3 settembre 1266 “il Comune di Almenno donava alla città duemilasettecento lire imperiali garantite da Bartolomeo del Zoppo e diventava borgo cottadino” (Umberto Gamba, op. Cit.).

(6) La divisione tra guelfi e ghibellini aveva avuto origine in Germania già nel 1140, durante la guerra che vide opposti il duca di Svevia e quello di Sassonia. Questa differenziazione si espanse anche in Italia e durò fino a tutto il Quattrocento. Essere ghibellini significava parteggiare per l’imperatore di Germania, che oltre a detenere il potere temporale, voleva anche la guida spirituale delle comunità a lui sottoposte; essere guelfi invece voleva dire essere dalla parte del Papa e sostenerne così sia il dominio spirituale, sia le mire di potere terreno, molto forti all’epoca anche da parte del clero. Questa divisione ideologica si ripercuoteva in quasi tutta Europa e si affiancava alle lotte già in corso tra i vari stati. In Italia la presenza del Papa rendeva ancor più accentuate queste contese; qui i vari stati e le famiglie più importanti si dividevano alleandosi col Papa o con l’Imperatore a seconda delle convenienze (I guelfi e i ghibellini in val Brembilla. In: Quaderni brembani. “Il Castello di Cornalba e le lotte sulle montagne brembillesi”, a cura del “Gruppo Sentieri amici della storia” di Brembilla testo di Cristian Pellegrini). Il dominio visconteo a Bergamo iniziò nel 1315 con Matteo Visconti, al quale fu offerta la città dai ghibellini bergamaschi.

(7) I fatti dell’epoca si possono ricostruire grazie al “Chronicon Bergomense guelpho-ghibellinum” di Castello Castelli e alla “Storia di Bergamo e dei Bergamaschi” di Bortolo Belotti.

(8) I rapporti di fiducia e di reciproca collaborazione tra i Brembillesi e Bernabò sono testimoniati anche da un atto redatto da Regina, moglie di Bernabò, e dal figlio Rodolfo i quali, dovendo porre rimedio alla forte emigrazione delle valli, ridussero a un quarto le taglie e le condanne per debiti e assolsero del tutto gli abitanti della Brembilla e i pochi ghibellini di Val Imagna (Umberto Gamba, op. Cit.).

(9) La giurisdizione di Brembilla comprendeva un’area molto vasta che includeva gli attuali comuni di Brembilla, Gerosa, Blello, ed anche Ubiale Clanezzo, Berbenno, Strozza e Capizzone. Lo stemma della Brembilla presentava nella parte superiore l’aquila nera su sfondo oro, a significare la comune fede ghibellina; 6 bande oblique di uguali dimensioni, oro e azzurre, a indicare le 6 principali frazioni della valle. Separava i due campi una banda rossa sormontata da una croce, a significare che tali frazioni erano di proprietà del vescovo. L’emblema della Brembilla si può ancora ammirare sulla parete di una casa di Almenno S. Salvatore lungo la strada che porta in Valle Imagna, all’ingresso del Castello di Clanezzo, dipinto sulla volta, con un castello al posto della croce, ed infine nel gonfalone del comune di Brembilla (Umberto Gamba, op. Cit.).

(10) Grazie ad alcuni documenti del XII e XIII secolo possiamo conoscere i nomi dei primi abitanti del luogo e delle prime contrade. Nei libri dei “Censuali dell’Episcopato di Bergamo si leggono i nomi delle famiglie Dalamsoni di Clanezzo (1189), dei Bonoreni (1195), famiglia originaria di Ca Bonorè, contrada che prende il nome da questa famiglia, una delle più belle del paese e che fino agli anni ’70 conservò intatto il fascino e l’architettura delle origini. Costruita in posizione strategica con le sembianze di una piccola fortificazione, Ca Bonorè è sicuramente una delle località più vecchie e importanti del paese; basti pensare che è menzionata, con Clanezzo, nelle mappe più antiche, nelle quali spesso è l’unico riferimento al paese. Secondo P. Tosino la famiglia Bonoreni si stabilì a Bergamo ed ottenne diritto di cittadinanza e titolo di nobiltà. C’erano poi i Carminati e Bertinalli (1246) di Ubiale: menzionate in quanto, verosimilmente, doveva trattarsi delle famiglie più abbienti. Capostipite dei Dalmasoni di Clanezzo è un certo Dalmatius de Clenezo, di cui si ha notizia nel 1189, Quando Clanezzo faceva parte della corte vescovile di Almenno. La nobile famiglia dei Dalmasoni di Clanezzo tenne il paese fino a circa il 1400. Probabilmente erano abbastanza ricchi ed operosi, perché nel 1300 vengono nominati circa 40 volte nei “Codici e libri dell’Estimo della città e del contado bergamasco”. Capostipite della nobile famiglia Carminati , originaria di Brembilla, fu un Bartolomeo Carminati esule della Val Brembilla nel 1443 per ordine della Serenissima. Da questa stirpe uscirono uomini potenti e famosi tra i quali, secondo alcuni storici, anche un papa; Giovanni XVIII Fasano, anche se su ciò vi sono molti dubbi. I Carminati per alcuni secoli ebbero un posto di primo piano nelle vicende di questo territorio. A Cadelfoglia di Brembilla compare sulla facciata di una casa lo stemma della famiglia Carminati, cognome che affonda le radici in Valle Brembilla e deriva sia dal territorio (contrada Carminata, posta sulle prime alture di Mortesina, in Valle Imagna ex Brembilla Vecchia), e sia dalla parola carro (mestiere del carrettiere). Eugenio, Simome, Savino, e Mogna de’ Carminati, furono tutti capi del partito Ghibellino e fautori della nobile famiglia dei Conti Suardo (Padre Donato Calvi, “Effemeridi”, pag, 226)  (Umberto Gamba, op. Cit.).

(11) “Il castello di Clanezzo”. Opuscolo illustrato Litostampa Bergamo, pag. 8.

(12) Cristian Pellegrini, “Il Castello di Cornalba e le lotte sulle montagne brembillesi”, in: “Quaderni Brembani n.2”. Ed. Corponove BG – dicembre 2003.

(13) “Fedeli a Venezia erano rimasti invece gli abitanti di Gerosa e di Sedrina. I primi chiesero e ottennero di essere separati dalla Val Brembilla come comunità autonoma aggregata direttamente alla città di Bergamo. I secondi, nominati dalla Serenissima ‘fideles nostri’ ebbero diversi privilegi. Gli abitanti di Almenno Inferiore, che erano stati solidali con i brembillesi, furono puniti con la confisca dei beni, acquistati poi da quelli di Almenno Superiore per undicimila scudi d’oro”. “Sappiamo che il conflitto fra Milano e Venezia durò altri dieci anni coinvolgendo anche diversi potentati italiani, ma la nostra città ne fu solo indirettamente toccata, più che altro perché gravata dai contributi che la Repubblica richiedeva per le spese di guerra”. Dalla Repubblica di Venezia la Valle Imagna ebbe un trattamento di favore, come riferisce il Calvi. “I Valdimagnini per la loro obbedienza al Vescovo, integrità della fede e fedeltà alla Repubblica, difendendola contro il Duca di Milano, furono dal Principe (il Doge) con vani privilegi, grazie e favori arricchiti et honorati (anno 1428)” (Andreina Franco Loiri Locatelli per Bergamosera, non più on line).

(14) Nel 1485 Venezia aveva ceduto Clanezzo all’Istituto di Pietà Bartolomeo Colleoni, che trovandosi in gravi condizioni economiche dopo le guerre del Cinquecento aveva deliberato (1539) di venderla a Bernardino Buscoloni, originario di Almenno. La proprietà includeva anche alcune contrade vicine. Dai Buscoloni la proprietà passò ai Tironi (1560) e nel 1614 toccò ad Elena Furietti, moglie di Lelio Martinengo. La figlia Cecilia si sposò in seconde nozze con il conte bresciano Francesco Leopardo Martinengo da Barco, la cui famiglia ne mantenenne il possesso fino agli inizi del 1800. Questa famiglia di studiosi e mecenati della cultura, legata alla Serenissima occupando cariche militari di rilievo, si estinse con Francesco Leopardo, senatore del Regno, morto il 6 agosto 1884 legando alla città di Brescia il palazzo, la pinacoteca e la biblioteca. A Francesco, morto nel 1689, successe il figlio Leopardo e, dopo il 1716, Gianfrancesco Leopardo. Fu uno dei figli di quest’ultimo, Giovanni (1722-1817), a far edificare a Clanezzo, nel 1786, una chiesa più grande della precedente, che potesse contenere il crescente numero di fedeli. La chiesa divenne parrocchia nel 1707 e il conte Francesco Leopardo Martinengo da Barco ne ebbe l’Jus Patronato. Tale istituzione rimase in vigore fino al 1977, quando passò ai sigg. Beltrami ed in seguito ai Roncalli, quando nel 1885 comperarono il castello e la sua tenuta. Don Verri, parroco di Clanezzo dal ‘48 al 1978, affermava che il patronato probabilmente venne istituito con la dote della sorella di Leopardo, la Beata Margherita dei Conti da Barco, che, nata nel 1687, fu beatificata nel 1900: ebbe rapporti indiretti con Clanezzo, ma potrebbe aver contribuito alla nascita della parrocchia (Umberto Gamba, op. Cit.).

(15) Con la conquista degli Austriaci e la creazione del Regno Lombardo – Veneto (7 agosto 1815) molti militari bergamaschi si dimisero per non entrare a far parte del costituendo esercito austriaco. Tra loro anche il capitano del genio Luigi Felice Beltrami che, divenendo membro della deputazione comunale, inizierà ad occuparsi dell’amministrazione del comune di “Clanezzo con Ubiale”. Anche Egidio, come il fratello, proprietario del Castello e delle terre, fu tra i primi deputati del Comune. Vincenzo Beltrami (1820-1880) fu invece il primo sindaco del comune di Clanezzo, nel 1863 (Umberto Gamba, op. Cit.).

(16) Un importantissimo documento dello splendore e della storia del luogo è il libro dei visitatori un tempo esistente nel Castello di Clanezzo, nel quale i visitatori a volte, scrivevano un pensiero, un commento o alcuni versi a ricordo del loro passaggio. Deve essere stata, questa, un’idea di Paolo Beltrami e quando questi morì, il figlio Vincenzo ne continuò la tradizione. Alcune pagine del libro, scritte alcuni anni prima del 1848 mostrano già i fremiti del sentimento patriottico che di lì a poco sfocerà nell’aperta ribellione all’Austria. Leggendole siamo indotti a pensare che Paolo Beltrami, nutrisse sentimenti di simpatia nei confronti dei patrioti e che il suo palazzo (il Castello di Clanezzo) fosse per loro un possibile rifugio. La tesi è convalidata anche da alcune sue amicizie, come quella con Giovan Battista Bazzoni, scrittore di ispirazione romantica e quindi presumibilmente patriota, più volte ospitato nel suo palazzo. Il libro rispecchiava anche gli avvenimenti italiani e lombardi. Era diviso in tre volumi e cominciava in data 2 maggio 1837; purtroppo è sparito, ma una parte significativa è presente nel saggio di Bortolo Belotti, “Fantasia storia e poesia sul castello di Clanezzo” (Umberto Gamba, op. Cit.).

(17) Nel 1885 il conte Antonio Roncalli, deputato politico al parlamento nazionale per la Valle Brembana, acquistava da Giulia Lana de Terzi, vedova del Beltrami, la tenuta di Clanezzo. In seguito la proprietà passava al figlio Giulio e da questi alla nipote, contessa Maria in Guffanti. Il rag, Giovanni Calcaterra, nativo di Malpaga, fu a lungo valido agente dei Roncalli e per alcuni anni ricoprì anche la carica di sindaco. Nel Castello soggiornarono inoltre lo storico Angelo Mazzi, del grande Torquato Taramelli, che, forse in cerca di resti preistorici, visita Clanezzo il 30 aprile 1893. Inoltre, Giacomo Beccaria, nipote del celebre Cesare, Pietro Ruggeri da Stabello (1838), e moltissimi altri (Umberto Gamba, op. Cit.).

(18) “Noi non sappiamo quando venne costruito il traghetto; sappiamo solo che nel 1614 esisteva già, perchè è di quell’anno la divisione dei beni tra le sorelle Furietti e nel documento relativo, tra le varie voci si legge ‘la metà del porto ad uso ed beneficio di quello ed indiviso'”. Il traghetto era di proprietà di Egidio Beltrami; era gestito da un barcaiolo che trasportava (quando il Brembo non faceva le bizze)  persone, merci ed altro, dall’altra parte del fiume. Il Beltrami pagava al costode (un certo Dellauro?) una somma di 100 £ annue per il trasporto dei suoi coloni, dei generi dei propri fondi, come legna, carbone, frutti e pagava un canone annuo alla finanza. “In tempi non molto lontani era possibile visionare un quaderno dove venivano registrati i viaggi fatti dal traghetto, i compensi ricevuti e le tariffe per il trasporto; anche questo però oggi non è più rintracciabile” (Umberto Gamba, op. Cit.).

(19) La sua antichità è comprovata anche dal fatto che, nel 1512, a seguito del crollo del ponte della Regina ad Almenno (avvenuto nel 1493), il Comune di Bergamo aveva concesso la gestione del nuovo porto per le valli Imagna e S. Martino (P. Mazzariol, 1997).

(20) Ricaviamo questo dato da un atto del 1686, che cita un tal Carlo Colnago “…portinaro al ponte di Clanezzo della Brembilla Vecchia…” (Umberto Gamba, op. Cit.).

(21) L’opera venne realizzata nonostante il 7 maggio 1862 la Ditta Beltrami avesse avuto dall’Amministrazione Demaniale la concessione, rinnovata nel 1875, di attraversare il fiume con battello dietro il pagamento di un canone annuo, ma non l’aveva ottenuta per la costruzione del ponte. La pratica si risolse dopo la morte di Vincenzo Beltrami. Il fiume si poteva attraversare, ma visto che il ponte era stato realizzato arbitrariamente, senza cioè la necessaria approvazione delle autorità competenti, fu il conte Antonio Roncalli, nuovo proprietario subentrato agli eredi Beltrami, a farsi carico di una sanatoria. Una copia del disegni del ponte, allegato alla domanda si sanatoria, è conservata presso il Genio Civile di Bergamo (Umberto Gamba, op. Cit.).

Riferimenti principali

Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000.

Il “porto” di Clanezzo – di Sergio Tiraboschi. Quaderni brembani n. 4. Anno 2006. Corponove BG – dicembre 2005.

“Valorizzazione dei percorsi storici che collegano Clanezzo ad Almenno S. Salvatore e Villa d’Almè attraversando il fiume Brembo ed il torrente Imagna”. Iniziativa promossa dai Comuni di Ubiale Clanezzo, Almenno S. Salvatore, Villa d’Almè, di concerto con la Provincia di Bergamo ed il contributo della Regione Lombardia, con il patrocinio di Castello di Clanezzo.

Il “porto” di Clanezzo 59 di Sergio Tiraboschi, in : QUADERNI BREMBANI Bollettino del Centro Storico Culturale Valle Brembana. Corponove, Bergamo, dicembre 2005.

Bibliografia

Gio. Battista Bazzoni, “I Guelfi dell’Imagna o il Castello di Clanezzo”. Racconto storico illustrato con cenni storici su l’antica Valle Brembilla, il Castello di Clanezzo e la Rocca di Monte Ubione Manini, Milano, 1841.

Castello Castelli, “I guelfi e i ghibellini in Bergamo. Cronaca di Castello Castelli delle cose occorse in Bergamo negli anni 1378-1407”. Prefazione e note del cav. Gio. Finazzi C. Colombo libraio editore, Bergamo, 1870

Ringraziamenti

Ringrazio il fotografo Maurizio Scalvini per le belle fotografie e per i preziosi consigli.

Ultima modifica: 25/04/2024.

Il Fontanone Visconteo – il più grande serbatoio di Città Alta da oltre 700 anni – e la nascita dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti

“Da ragazzino, insieme ai compagni ci infilavamo dentro, facevamo gli speleologi perlustrando le vasche. E’ immensa, passa sotto la basilica di Santa Maria Maggiore, a berla sapeva di pane” (Domenico Lucchetti in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, 28/04/2002)

Il Fontanone, stupendo manufatto a conci bicromi, bianchi e neri, sorge nel 1342 nella vicinia di Antescolis, nel cuore della Città Alta di Bergamo, tra l’abside della basilica di Santa Maria Maggiore e l’antica Cattedrale di San Vincenzo (Duomo dal IX secolo). E’ sormontato dalla mole della ex sede dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, eretto nel 1768

Nei sotterranei dell’ex Ateneo, in piazza Reginaldo Giuliani, si cela un grandioso serbatoio d’acqua, scavato nella viva roccia. E’ quello che chiamiamo “il Fontanone”, realizzato (o forse ripristinato) nel 1342 da Luchino Visconti – che governava Bergamo anche a nome del fratello arcivescovo Giovanni – nel centro politico, religioso e commerciale della città, oggetto in quegli anni di un grande fervore costruttivo.

La piazza, anticamente occupata dal Foro romano e divenuta nel medioevo “platea magna Sancti Vincentii”, ebbe fin dagli albori del Comune soprattutto vocazione commerciale.

La piazzetta antistante il Fontanone nell’incisione di Giuseppe Berlendis (1830). Sovrasta il Fontanone la sede dell’Ateneo. A lato è visibile la Basilica mentre a sinistra fa capolino la lanterna della Chiesa della Carità, indagata da Tosca Rossi in “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”

Il Fontanone si inserì nel centro monumentale urbano, a sottolineare la presenza dei nuovi signori. Vi si trovava una fontana citata come fontana “berlina”, forse perché nei suoi pressi si trovava la berlina, luogo di pena che esponeva al pubblico disprezzo i colpevoli di reati che erano di danno alla cittadinanza. C’era inoltre una struttura porticata, citata in alcuni documenti come “porticus pelipariorum” (portico dei pellicciai), e la cisterna inglobò ovviamente sia la fontana che il “porticus” preesistenti (1) e venne protetta da un riparo (2).

Donato Calvi nelle Effemeridi (Vol. I, pag. 324) dà la notizia di essere il volume d’acqua contenuto di tremila seicento cinquanta carri d’acqua, pari a 43.800 brente bergamasche (1200 mc.)

Capace di circa ventiduemila ettolitri d’acqua (secondo le testimonianze di allora tremilaseicentocinquanta carra, pari a 43.800 brente bergamasche), la cisterna era alimentata dall’antica conduttura dei Vasi proveniente da Castagneta, acquedotto di origine romana che, dopo secoli di abbandono e i danni causati dalle invasioni barbariche, i Visconti avevano provveduto a ripristinare per poter intervenire al meglio sull’impianto urbanistico, con la definizione di alcune piazze del centro storico: Mercato del Fieno, delle Scarpe, delle Biade, della Carne, del Pesce, differenziate per mercanzia allo scopo di agevolare la tassazione.

L’antico acquedotto dei Vasi proveniente da Castagneta, sui colli a nord della città, venne ripristinato in età viscontea rimediando ai danni delle invasioni barbariche, come recita la lapide presente in località Gallina, inserita in un bel tratto di muro medioevale. Il testo ricorda che nel 1339, sotto il podestà Beccaro Beccaris, l’acquedotto fu interamente ripulito (“Sguratum”) fino al Saliente (partitore finale o Castellum acquae), situato nei pressi dell’antica porta medioevale di S. Alessandro, distrutto con l’edificazione delle Mura veneziane

Nelle intenzioni della Signoria Viscontea, che dominò Bergamo dal 1331 e al 1428, la cisterna doveva, per misura di capacità, superare di gran lunga le camere di serbatoio delle altre fonti della città, che era già provvista di tre pozzi pubblici (3) e di 17 fontane vicinali.

La realizzazione della nuova cisterna (Fontanone) non aveva fatto eliminare la fontana di Antescolis unita alla basilica

E ciò non tanto, come asserivano i Visconti, per assicurare il rifornimento idrico ai poveri bergamaschi, quanto piuttosto per garantirlo ai militi viscontei, in quei difficili anni gravati da guerre, carestie e pestilenze, nell’eventualità di un lungo assedio da parte dei nemici.

Il fonte doveva perciò servire solo per attingere acqua: non vi dovevano essere né vasche per lavare, né abbeveratoi per i cavalli. come esistevano presso le fontane del Vagine, del Lantro, della Boccola, del Corno alla Fara, per le quali gli statuti della città, riassunti nel volume del 1727 (coll. VIII, cap. 75-78), imponevano ai guardiani misure di pulizia e di ordine: “custodes teneantur mundare et sgurare lavanderia et lavellos in quibus bibunt equi”.

Cisterna del Fontanone Visconteo. Recenti studi assicurano che prima di versarsi nella cisterna, l’acqua confluiva in una piccola vasca di decantazione posta sul lato occidentale verso la basilica; dalla parte opposta c’era la zona di aspirazione con il pescaggio nella parte inferiore (ora interrato e nascosto)

L’ACQUEDOTTO MAGISTRAE E IL PARTITORE DEL VESCOVADO

Con la costruzione delle Mura veneziane e la conseguente distruzione dell’antico serbatoio del Saliente in Colle Aperto, da cui si diramavano i canali per servire le diverse fontane, il Fontanone venne alimentato dall’Acquedotto Magistrale, il cui condotto prendeva origine dal punto di unione dell’Acquedotto dei Vasi con l’Acquedotto di Sudorno, all’interno del baluardo di S. Alessandro.

Snodandosi all’interno di Città Alta, tramite partitori delle acque e canalizzazioni minori, tale condotto distribuiva acqua alle fontane, cisterne ed utenze private che avevano la concessione per l’estrazione.

Le acque giungevano al Fontanone tramite il “Partitore del Vescovado”, il più importante fra i tre partitori delle acque costruiti lungo l’acquedotto, posizionato al di sotto del giardino della della Curia Vescovile. Da qui si dipartivano le canalizzazioni per alcune utenze interne alla Curia stessa, per la fontana di San Michele dell’Arco, la fontana di Antescolis o di Santa Maria Maggiore, il palazzo della Mia in via Arena, il Fontanone e il partitore successivo di piazza Mercato del Pesce.

Partitore del Vescovado. Provenendo da dietro la Cittadella, l’acquedotto magistrale raggiungeva il Vescovado, da dove un partitore distribuiva l’acqua in più parti della città E’ indicato il canale maggiore e le diramazioni per la fontana di S. Maria Maggiore (Antescolis) per il Fontanone e per la fontana di S. Michele (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole)

GLI ANTICHI CONDOTTI

Fondamentali tra le diramazioni del partitore del Vescovado due canali che passavano in senso longitudinale sotto la basilica di Santa Maria Maggiore. Uno di essi, in parte ancora esistente, attraversava un ambiente ipogeo di forma circolare e con soffitto a volta in cotto, ubicato sotto la sacrestia nuova. Il condotto proseguiva andando quindi ad alimentare la grande cisterna del Fontanone.

A riprova dell’esistenza di un preesistente sistema di canalizzazione, all’interno del suddetto ambiente ipogeo il Gruppo Speleologico Bergamasco Le Nottole ha individuato una struttura muraria più antica fornita di un tubo circolare in bronzo che doveva assicurare l’approvvigionamento idrico al sito. Ciò non deve stupire in quanto strutture come gli acquedotti dovevano seguire determinati percorsi, rispettando quote e livelli.

E’ da ritenere quindi che tra il condotto che assicurava l’acqua alla città romana e medievale, e poi a quella del ‘600, non vi fossero molte differenze, dovendo giocoforza attestarsi su alcune emergenze fondamentali come il colle di S. Giovanni e quello di S. Salvatore.

Vano ipogeo a pianta circolare con soffitto a volta in cotto esistente sotto la sagrestia di Santa Maria Maggiore. Era attraversato dall’acquedotto che, provenendo dal partitore del Vescovado, correva longitudinalmente sotto il pavimento della Basilica per poi alimentare la cisterna del Fontanone Visconteo (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole)

 

L’Acquedotto Magistrale rimase in funzione sino al 1892, quando venne costruito un nuovo impianto che rispondesse alle nuove esigenze, con la costruzione di nuovi lavatoi quello in via della Boccola, in Borgo canale e il lavatoio in via Mario Lupo, in fotografia

LA SIGLA AQ

La presenza dell’antico Acquedotto è segnalata dalla sigla AQ, incisa su un muro a lato del Fontanone, accanto allo scalone posto fra l’Ateneo e Santa Maria Maggiore e vicino a una porticina di legno, antico uschiolo di ispezione.

L’iscrizione AQ incisa su un muro a lato del Fontanone, accanto a una porticina in legno cui accedevano i fontanari per ispezionare la cisterna viscontea

 

La sigla AQ presso il Fontanone

Un tempo questa sigla, insieme alle lettere “A” o “AQM” si notava un po’ ovunque in Città Alta e sui colli, incisa sui muri di alcune case o su appositi cippi di arenaria. Era così che, nel ‘700, gli addetti alla manutenzione e alla pulizia della rete idrica (i cosiddetti “fontanari”) indicavano i punti in cui passavano i tracciati dell’acquedotto, altrimenti impossibili da individuare.

E dal momento che la rete idrica sotterranea si diramava per oltre sei chilometri, si presume che in passato tali sigle fossero numerose. Ancor oggi sopravvivono alcune tracce, ad esempio su un cippo di via Sudorno, su pietre del muro di sostegno in via San Vigilio o lungo il percorso dei Vasi (vie Castagneta, Ramera, Beltrami.

IL CARTIGLIO TRECENTESCO E LE BOCCHE DELL’ANTICA FONTANA

Al di sotto del doppio scalone un arco inquadra le bocche dell’antica fontana e un grande cartiglio trecentesco in marmo grigio, inciso in latino e in caratteri gotici.

L’epigrafe riporta il 1342 come data di edificazione del Fontanone ed oltre a ricordare i fratelli Giovanni e Luchino Visconti, riporta i nomi del podestà cittadino, Gabrio Pozzobonelli, e del tesoriere, Bondirolo de’ Zerbi, milanesi, nonché nomi dei costruttori, Giovanni da Corteregia e Giacomo da Correggio, forse scultori comacini che, all’epoca della costruzione, avevano da poco ultimato, sotto la direzione di Ugo e Giovanni da Campione, la ricca decorazione ornamentale del Battistero, ora affacciato sulla Piazza del Duomo di fronte alla Cattedrale.

Il pregevole cartiglio trecentesco

Il dominio di Luchino e Giovanni Visconti è visualizzato non solo nei nomi ma da tre interessanti riquadri araldici scolpiti nella parte superiore, con a sinistra lo stemma della città con sei strisce, vermiglie e gialle, disposte “a palo”; al centro la targa con l’aquila (pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero) allusiva a Giovanni Arcivescovo di Milano e, alla destra, come emblema del fratello minore Luchino, la raffigurazione in parte consunta di un aquilotto che artiglia un animale (lupo o cinghiale).

Gian Galeazzo Visconti, già vicario imperiale e signore della capitale lombarda, aveva ottenuto il titolo di Duca di Milano l’11 maggio 1395 mediante diploma imperiale da Venceslao di Lussemburgo. Con un secondo documento datato 13 ottobre 1396 i poteri ducali furono estesi a tutti i domini viscontei e nei centri più significativi del ducato. Gian Galeazzo ottenne la patente per inquartare il biscione visconteo con l’Aquila imperiale – pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero – nella nuova bandiera ducale. Il nome dei Visconti deriva infatti dal latino vice comitis, che significa “vice conti”, vice – colui che fa le veci e conti – comites (con-te) indicava colui che stava con qualcuno, cioè con l’imperatore: per i Visconti con l’imperatore del Sacro Romano Impero. La famiglia dei Visconti era quindi colei che in Italia rappresentava l’Impero, tanto da agognare allo status di primi Principi italiani, che a fatica Gian Galeazzo ottenne nel 1402

Nella parte inferiore, i due mascheroni a rilievo e a testa di moro posti a lato della bocchetta sono modellati con gusto secentesco, rivelando l’aggiunta di elementi in epoca molto più tarda.

In alternativa alla bocche dell’antica fontana c’era una bocchetta, ancora visibile sul lato breve che volge verso via Mario Lupo, che tramite una pompa prelevava l’acqua dal serbatoio, presente sino a pochi decenni or sono

Il Fontanone intorno al 1915 e la bocchetta ancora presente sul lato breve che volge verso via Mario Lupo (Raccolta D. Lucchetti)

 

1948: un bambino aziona la pompa per prelevare l’acqua del Fontanone

 

Una delle due finestrelle aperte ai lati più corti della struttura, attraverso la quale è possibile osservare la cisterna. La pompa e la bocchetta verso via Mario Lupo sono ancora presenti

IL PORTICO E LA NASCITA DEL MUSEO LAPIDARIO

La costruzione del Fontanone permise la realizzazione di un sovrastante piazza rettangolare sulla quale fu successivamente costruito un piccolo edificio, che compare nella cosiddetta veduta di Bergamo a volo d’uccello di Alvise Cima, dove è indicato come una minuscola struttura. Il prospetto sud, murato, è provvisto di tre piccole porte; molto probabilmente il fronte nord, non visibile nella rappresentazione, era aperto e scandito da colonne.  Poteva trattarsi o di un deposito di armi in disuso (4).

La freccia indica, di fronte alla chiesa di S. Vincenzo (attuale Duomo) il Fontanone visconteo privo del sopralzo neoclassico del 1768, con il prospetto sud murato e provvisto di tre piccole aperture; si presume che il fronte nord, non visibile nella rappresentazione, fosse aperto e scandito da colonne (4) (Anonimo, Bergamo a volo d’uccello, eseguita verso la fine del XVI secolo e con modifiche apportate entro il 1662, Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo. Foto Dimitri Salvi. Dettaglio)

Nel 1743 il portico esistente sopra il Fontanone fu trasformato in un ambiente destinato ad ospitare la sede del nascente museo lapidario, voluto dalla municipalità per ospitare le lapidi antiche provenienti da materiale di scavo, disperse a Bergamo e nel territorio. Il progetto fu affidato all’architetto veronese Alessandro Pompei. I lavori iniziarono nel 1759 e terminarono nel 1768 con la posa della monumentale scalinata d’ingresso a rampe contrapposte. Non siamo a conoscenza del disegno originario, ma è possibile immaginare una struttura essenziale, presumibilmente un loggiato aperto, dove internamente erano collocate le antiche lapidi.

La divisione in moduli proporzionale al piede veronese del l’edificazione – circa 35 cm – è stata recentemente confermata. Questo ha condizionato negli aspetti metrici tutta la sua successiva funzionalità e modifiche stilistiche (la sequenza lesene-arcate ricalca quella rapporto 1:3 e la larghezza di ciascun pilastro è pari a due piedi).

DALLA LA NASCITA DELL’ATENEO AI GIORNI NOSTRI

Nel 1818 l’Imperial Regia Delegazione Provinciale dispose di dare come sede definitiva dell’ “Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti” il pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone, che venne quindi adattato, ovvero modificato, per divenire un ambiente chiuso.

Ed è appunto in seguito al 1818, che viene eretto, su progetto dell’architetto Raffaello Dalpino, l’attuale costruzione di gusto neoclassico.

L’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, istituito con decreto napoleonico il 25 dicembre 1810, è sorto dall’unificazione di due antichissime accademie: degli Eccitati e degli Arvali. L’Accademia degli Eccitati, fondata nel 1642 da un gruppo di eruditi, tra cui Bonifacio Agliardi, Clemente Rivola e Donato Calvi, ebbe attività prevalentemente letteraria; rinnovata nel 1749 ad opera soprattutto di Pierantonio Serassi e di Mario Lupo. Ebbe tra i suoi soci anche Lorenzo Mascheroni (un “Eccitato”) e Giovanni Maironi da Ponte (un “Arvale”). L’Accademia degli Arvali sorse nel 1769, dietro invito della Repubblica di Venezia, con lo scopo di introdurre sistemi innovativi nell’agricoltura e nell’economia in genere. Gli Arvali erano sacerdoti appartenenti a famiglie patrizie dell’antica Roma dediti al culto di Cerere, dea delle messi. Ecco perché questa accademia si occupava in particolar modo di agricoltura. Dapprima l’istituzione si intitolò Accademia d’Agricoltura o degli Arvali; quindi, a partire dal 1787 fu denominata Accademia Economico-Arvale; ad essa sono legati i nomi della nobiltà terriera bergamasca: Benaglia, Rivola, Tomini-Foresti, Mozzi, Brembati, Secco Suardo, Calepino. Con il decreto napoleonico del 25 dicembre 1810, che tendeva a riformare ed unificare gli istituti culturali, le due istituzioni furono fuse in un solo organismo con il nome di Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Bergamo. L’Ateneo trovò sede provvisoria nell’ex refettorio e in alcune stanze contigue del monastero di Rosate (nel luogo dell’attuale Liceo Classico Sarpi), trovando sede definitiva (1818) nel pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone, per risarcire il debito che la città aveva aperto nei confronti dell’istituzione accademica quando, nel 1796, chiese in prestito 4000 scudi per far fronte alle spese che la Municipalità doveva sostenere per l’alloggiamento delle truppe francesi (Maria Mencaroni Zoppetti).

Scartato il progetto di adattamento e di messa in sicurezza di Carlo Capitanio, architetto responsabile dell’ufficio tecnico della città, furono incaricati gli architetti Gian Francesco Lucchini e Giacomo Bianconi (membri di l’Ateneo che nel frattempo finanziava l’edificio) il cui progetto – oggi perduto – prevedeva la chiusura dei portici con finestre e la realizzazione di due grandi ambienti nelle due campate laterali opposte. Il primo per creare un ampio vestibolo con ingresso secondario e il secondo ad uso ufficio e biblioteca.

La distribuzione spaziale fu mantenuta dall’architetto Raffaello Dalpino (anch’egli socio), al quale dobbiamo un nuovo progetto che è stato realizzato e completato nel 1859.

Il progetto dell’architetto Raffaele Dalpino, 1854

Il progetto di Dalpino è un progetto colto e raffinato, con un sapiente uso degli ordini architettonici e un rigoroso rispetto dei moduli adeguati, nelle proporzioni, al sito e al contesto dato dagli edifici preesistenti (5).
Uno spazio apparentemente semplice e simmetrico che in realtà ha diversificato fortemente le due parti attraverso una diversa caratterizzazione degli arredi, delle funzioni e della disposizione delle lapidi (presenti solo nella parte sinistra). Una perfetta combinazione tra la funzione museale e il ruolo istituzionale della sede dell’Ateneo.

Questa configurazione rimase immutata per circa ottant’anni e cioè fino al 1933 quando l’edificio fu ceduto al locale gruppo fascista Garibaldi; furono poi rimosse le collezioni e sostituiti gli arredi.

L’Ateneo con le aperture ancora tamponate (foto non datata)

L’intensa attività culturale dell’Istituzione aveva cominciato ad essere compromessa quando tra il luglio del 1899 e il gennaio del 1900 la biblioteca e i manoscritti erano stati collocati in deposito presso la Biblioteca Civica A. Mai.

Nel 1905 la Società di Cultura di Bergamo si offrì per accogliere ciò che restava della biblioteca degli scambi con le altre Accademie . Nel 1917 la sede fu concessa al Comune per il Museo del Risorgimento (opere d’arte e libri dell’Ateneo vennero quindi trasferiti nella biblioteca Mai). Quando questo fu poi installato in Rocca, i soci dell’Ateneo non poterono rientrarvi, perché al posto dell’istituzione culturale si insediò un’organizzazione fascista.

La rinascita avvenne dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1952, quando l’Ateneo ottenne una nuova sede, in via Torquato Tasso, dove si trova oggi.

Nel quadro di Luigi Brignoli, datato 1934, la mole Ateneo volutamente non compare: la sala sopra il Fontanone è ritenuta ormai inutile, anche perché nel 1933 è stata modificata. In quell’anno l’Ateneo è stato scelto come locazione della sezione del Partito fascista di Città Alta (proprietà Ateneo di Scienze Lettere e Arti)

 

Luigi Brignoli, L’Ateneo e S. Maria Maggiore, 1934 (proprietà Ateneo di Scienze Lettere e Arti)

Dopo molti anni di inattività, il monumento fu restaurato alla fine del secolo scorso per essere adibito a spazio espositivo per mostre temporanee ed eventi pubblici.

Il progetto di restauro dell’architetto Bruno Cassinelli, 1997

 

Sala interna dell’Ex Ateneo oggi

Va detto che quando ancora era accademia, l’Ateneo, a tutt’oggi molto attivo, per lungo tempo ha rappresentato l’unica istituzione interamente dedicata alla cultura. Basti pensare che la Biblioteca Civica arrivò solo più tardi. La sua istituzione non costituì soltanto un cambiamento di tipo amministrativo, dalla fusione nacque un organismo moderno, adeguato ai tempi nuovi che si preparavano.

A duecento anni dall’intitolazione l’Ateneo continua a parlare di storia, con l’intento di far conoscere ai bergamaschi l’origine della società in cui viviamo, affinché ognuno possa orientarsi in questo mondo e capire quale direzione prendere in futuro.

Note

(1) Andreina Franco-Loiri Locatelli per Bergamosera, rivista on line non più esistente.

(2) G. Petrò fa invece riferimento a un “porticus longa” documentato dagli statuti del 1331. Si tratta di una struttura porticata che funge da parapetto al forte dislivello che si crea tra la strada e la platea magna Sancti Vincentii  (Gianmario Petrò, “Dalla Piazza di San Vincenzo alla Piazza Nuova”. I luoghi delle istituzioni tra l’età comunale e l’inizio della dominazione veneziana attraverso le carte dell’archivio notarile di Bergamo”. Bergamo, Sestante, 2008).

(3) Ronchetti, “Memorie storiche”, 1838 (Vol. V, pag. 83).

(4)The International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, Volume XLVIII-M-2-2023 29th CIPA Symposium “Documenting, Understanding, Preserving Cultural Heritage: Humanities and Digital Technologies for Shaping the Future”, 25–30 June 2023, Florence, Italy. THE PALAZZO DELL’ATENEO IN THE UPPER CITY OF BERGAMO (CITTÀ ALTA): NEW DOCUMENTATION AND CONSERVATION STUDIES. Alessio Cardaci , Antonella Versaci, Pietro Azzola.

(5) G. Colmuto Zanella, 2001  L’elegante e ben inteso Edifizio sopra il fontanone visconteo, in “L’Ateneo dall’età napoleonica all’unità d’Italia”, Edizioni dell’Ateneo, Bergamo, 249-276.

Riferimenti
Renato Ravanelli, “Palazzo dell’Ateneo”, Bergamo: una città e il suo fascino, Grafica e arte, Bergamo, 1977, pagg. da 174 a 175.

Luigi Angelini, “La costruzione trecentesca del Fontanone”, La Rivista di Bergamo già “Gazzetta di Bergamo”, Anno VII, n. 11, Edizioni della Rotonda, Bergamo, Novembre 1956, pagg. da 3 a 4.

“L’elegante e ben inteso edifizio…sopra il Fontanone Visconteo” – Andrea Pasta alla presentazione del nuovo Museo Lapidario, 1775.

The International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, Volume XLVIII-M-2-2023 29th CIPA Symposium “Documenting, Understanding, Preserving Cultural Heritage: Humanities and Digital Technologies for Shaping the Future”, 25–30 June 2023, Florence, Italy. THE PALAZZO DELL’ATENEO IN THE UPPER CITY OF BERGAMO (CITTÀ ALTA): NEW DOCUMENTATION AND CONSERVATION STUDIES. Alessio Cardaci , Antonella Versaci, Pietro Azzola.

L’Eco di Bergamo, 17 giugno 2010. Intervista a Maria Mencaroni Zoppetti. “La passione per la città nasce dalla necessità di capirla”.