La Chiesa di S. Alessandro in Colonna a Bergamo

Chiesa di S. Alessandro in Colonna (Bergamo). Claudio Facheris. 55° Mostra-Concorso Pittura-Scultura-Acquerello “Don Angelo Foppa”, 15-30 Novembre 2003

La chiesa di S. Alessandro in Colonna, intitolata al patrono di Bergamo, si trova nell’omonima via in Bergamo bassa ed è il cuore del borgo omonimo. Asse di una delle direttrici che si diramano da Città Alta, la si raggiunge da piazza Pontida o attraverso l’animata via XX Settembre.

Benchè la tradizione la voglia già eretta nel VI secolo, sopra le rovine di un tempio pagano di cui non si hanno testimonianze, la presenza della chiesa è documentata solo dal secolo XI. Il primo documento riconosciuto risale infatti al 1133, quando è indicata come “Ecclesia S. Alexandri quae dicitur in columna” (Lupi, Codex Diplomaticus, II, co. 975), in riferimento alla presenza sul luogo di resti romani come colonne monumentali.

La consacrazione del 1474 ricorda la ricostruzione della chiesa a seguito di un crollo. Al 1627 è documentata una seconda consacrazione per sistemazioni dell’edificio secondo le indicazioni borromaiche, mentre nel 1739 la chiesa venne nuovamente rinnovata ed ampliata, anche se per il suo completamento bisogna attendere il 1780 quando venne realizzata la cupola e la facciata principale.

La ristrutturazione dei primi anni del XVIII secolo, attuata su disegno di Marco Alessandri, cancellò alcune parti di notevole valore come la cappella del Santissimo Corpo di Cristo che era stata progettata nel 1511 da Pietro Isabello e di cui rimangono solo i pilastri di pietra poi inglobati nella realizzazione successiva (1).

Il campanile venne iniziato nel 1842, su disegno di Giovanni Bovara, mentre il completamento da parte di Virginio Muzio è del 1904.  E diviso in sei livelli e si conclude con una complessa cella campanaria (2). Su di esso svetta la statua della Madonna del Patrocinio. Nel complesso, il campanile contrasta con la severità dell’intero complesso architettonico.

(1) La chiesa di sant’Alessandro in Colonna, La Rivista di Bergamo.

(2)  Il campanile ospita un concerto di 12 campane in la2, tra i più imponenti della Lombardia; 10 di esse formano la scala maggiore di la2, mentre le due restanti servono per formare la scala maggiore di si2. Le 8 campane in la2 sono state fuse dalla fonderia Pruneri di Grosio nel 1905, mentre le altre 4, dalla fonderia Ottolina di Seregno nel 1951

La chiesa di S. Alessandro in colonna ancora priva del campanile. Raccolta Gaffuri

 

Il campanile di S. Alessandro in Colonna in costruzione. Raccolta Gaffuri
Il campanile di S. Alessandro in Colonna in costruzione – Raccolta Gaffuri. Vi si accede percorrendo 169 gradini e l’ascesa è compensata da una vista spettacolare sulla città. E’ possibile accedervi il 26 agosto, durante la festività del patrono, e in occasione di diverse feste parrocchiali

Nella basilica si trovano inoltre due organi monumentali costruiti dai Serassi: l’organo maggiore, costruito nel 1781, collocato nell’abside ai lati dell’altare maggiore, e l’organo della cappella della Madonna del Patrocinio, costruito nel 1844.

Visibile non solo per la sua mole, con l’austera facciata neoclassica, la chiesa si caratterizza per la presenza dell’alta colonna, composta da diversi blocchi di epoca romana, che si innalza sul sagrato, la stessa alla quale – come vuole la tradizione – venne decapitato Alessandro, futuro patrono della città, nel III secolo d.C.

Scorcio di via S. Alessandro (a.p. 18-12-1905). Album di antiche cartoline bergamasche, Domenico Lucchetti. Grafica Gutemberg. La colonna è una ricostruzione risalente al 1618 realizzata con reperti romani, la cui origine è controversa

La colonna, ben visibile sul piccolo sagrato antistante la chiesa, è  citata da molte fonti antiche come “Colonna del Crotacio”(3), cittadino che forse risiedeva o che si fece seppellire nei pressi, ponendo un monumento (la colonna appunto) sormontato da un idolo, da cui il luogo prese il nome di “Vico Crotacio”(4), l’antica denominazione del borgo di S. Leonardo.

Fu solo dopo il Mille che il borgo cominciò a chiamarsi “Vico S. Alessandro” (5).

In realtà, la colonna originaria, che doveva essere ancora visibile nel 1575 perchè citata nelle visite pastorali, ha subìto modifiche nel 1618.

(3) “I primi secoli del’Era Cristiana quanto alla storia nostra politica sono ancora più d’ogni altro antecedente avvolti nella incertezza, e in una invincibile oscurità. In que’ tempi alcuni nostri scrittori assegnarono alla patria un governo di duchi, de’ quali Crotacio il primo, investito dall’imperator probo, e s. Lupo l’ultimo, che fu padre della beatissima Grata curatrice del corpo di S. Alessandro. Ma sulla erroneità di siffatta opinione, e sulla incompetenza di un tal titolo ai governanti in quell’epoca convien leggere il precitato Codice del canonico Lupo capo IV. e § V., e altrove” (Dizionario odeporico: o sia, storico-politico-naturale della provincia bergamasca (Giovanni Maironi da Ponte). 

(4) Mario Lumina, La chiesa di S. Alessandro in Colonna, S. Alessandro in Colonna, Greppi, Bergamo, 1977, pp. 6/8.

(5) Mario Lumina, ibidem.

Predica di Sant’Alessandro, di Enea Salmeggia – Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo. Al centro del dipinto la Colonna di Crotacio  sovrastata dall’idolo citato dalle fonti antiche

L’interno della basilica, a navata unica e a croce latina che si apre su quattro cappelle per lato, rispecchia pienamente il linguaggio neoclassico, con l’imponente volta a botte unghiata sorretta dall’alto cornicione e dalle slanciate semicolonne con i capitelli corinzi.  Il transetto, poco profondo, raggiunge l’ampiezza delle cappelle.

Adiacente al presbiterio vi è la cappella della Beata Vergine del Patrocinio, edificata sul luogo di un antico cimitero.

Interno, a navata unica, della chiesa di S. Alessandro in Colonna (Raccolta Gaffuri). Numerose le cappelle laterali, che si aprono nelle nicchie ai lati della navata, ricche di opere di pregio

 

Dettaglio della pala sovrastante l’altare maggiore

Le cappelle laterali e le sagrestie sono ricche di opere di pregio come il Martirio di Sant’Alessandro (1623) e Posa della prima pietra del tempio (1621), entrambi di Enea Salmeggia, Santa Grata che raccoglie il capo di Sant’Alessandro di Gian Paolo Cavagna (1621), Il Martirio di San Maurizio di Alessandro Balestra, l’Ultima Cena e la Natività di Leandro Bassano, la Deposizione di G.B. Bassano, l’Assunzione della Vergine di Girolamo Romanino, Santa Grata presenta al padre i fiori sbocciati dal sangue del martire di Francesco Zucco (1621), una Deposizione di Lorenzo Lotto.

Particolare della pala centrale dell’altare maggiore della chiesa di S. Alessandro in Colonna: Martirio di S. Alessandro, di Enea Salmeggia, eseguita nel 1623. L’opera fu commessa al Salmeggia il 15 settembre 1621 per la festa del Corpus Domini del  1625

Nella terza sagrestia si conserva una Natività di Alessandro Bonvicino detto il Moretto e la Madonna dello Scoiattolo di Giovanni di Giacomo Gavasio e, in alto sopra il cornicione,  La Trinità di Enea Salmeggia, copia dell’opera del Lotto, di cui la critica indica una datazione attorno al primo decennio del Seicento.

Pala centrale dell’altare di S. Grata, detto anche altare della gara, nella chiesa di S. Alessandro in Colonna, opera di Gian Paolo Cavagna eseguita intorno al 1621 e rappresentante il miracolo dei fiori nati dal sangue di S. Alessandro, secondo la descrizione di Celestino

Sulla parete destra del transetto, accanto alla Cappella del Corpus Christi, si trova San Pietro, San Paolo e San Cristoforo in gloria,  un dipinto del primo Seicento di Giovan Paolo Cavagna, unico per la scelta iconografica dell’artista.

Borgo S. Alessandro e città alta (particolare da Santi in gloria). Giampaolo Cavagna. Bergamo – S. Alessandro in Colonna. La fedele riproduzione del paesaggio, costituisce un prezioso documento iconografico testimoniante la Bergamo del Seicento

 

Assunzione della Vergine di Gerolamo Romanino. Bergamo – S. Alessandro in Colonna. La pala, posta nell’altare sinistro del transetto, colpisce per la grande suggestione creata dal gioco tra le nubi e la luce solare

Nel 1997 la chiesa è stata proclamata Basilica.

Bibliografia e sitografia

Giosuè Berbenni (a cura di), Organi Storici della Provincia di Bergamo, Bergamo, Provincia di Bergamo, 1998.

Fabio Pasquale (a cura di), Basilica di S. Alessandro in Colonna – Bergamo – Luogo di fede e d’arte, Bergamo, Artigrafiche Mariani & Monti, 1999.

Flora Berizzi, Bergamo, Milano, Electa, 2007.

Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima – Analisi della rappresentazione della città trà XVI e XVIII secolo, Litostampa, Bergamo, 2012.

http://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/BG120-00531/

AA.VV., Guida alle Chiese di Bergamo, Bergamo 2006.

Il torrente Morla e le sue storie

Veduta di Città Alta dal torrente Morla presso il Galgario. Racc. Ing. Angelini. Da Luigi Angelini, “Il volto di Bergamo nei secoli”

Benchè sia ormai inglobato nel tessuto cittadino, Il torrente Morla – “la Morla” per tradizione – è storicamente considerato il “fiume di Bergamo”, dal momento che ben 8 chilometri dei 14 totali sono compresi nel territorio comunale del capoluogo orobico.

Anche se la Morla non può, e non poteva competere, per volume d’acqua e per lunghezza di percorso, con i due fratelli maggiori – il Serio e il Brembo, onorati dal Tasso nel famoso sonetto – supera questi ultimi per importanza storica; per centinaia d’anni essa fu ammessa nella nomenclatura dei fiumi: nei diplomi imperiali di dieci secoli fa è chiamato flumen, e
Mosè del Brolo otto secoli or sono nel suo Pergaminus cantava: “un fiume a cui di Morla han dato il nome”.

Nasce dal Monte Solino, alle pendici del Canto Alto, e dal Col di Ranica, propaggine della Maresana, e all’altezza di viale G. Cesare riceve il contributo del torrente Tremana; del Gardellone riceve soltanto le acque di sfioro, e ciò da quando, nel 1950, per evitare che la Morla esondasse in città in caso di abbondanti piogge, tale torrente fu deviato direttamente al fiume Serio in territorio di Torre Boldone.

Come facilmente intuibile, la  portata della Morla è largamente dipendente dagli apporti meteorici.

Dopo aver attraversato, con andamento meandriforme, Sorisole, Ponteranica e Bergamo, la Morla assume un andamento quasi rettilineo, delimitando il perimetro comunale a est e lambendo il Corpo Santo di Campagnola a sud.

Oggi l’alveo attivo del torrente Morla scorre in una direzione completamente diversa rispetto al passato, in seguito ad importanti interventi di rettifica e canalizzazione.

Lasciata la città, la Morla attraversa Azzano S. Paolo, fiancheggiata lungo le rive da un’ampia fascia boschiva, procede verso Zanica, segnandone i poderi con le antiche linee di confine, ed infine raggiunge Comun Nuovo, dove si dirama in canali minori: una parte piega verso sud, accompagnata da un’interessante fascia alberata, per poi dividersi i in altre diramazioni che irrigano i campi al di sopra della Strada Francesca. La parte finale si disperde infine nel sistema irriguo di Spirano e zone limitrofe (elaborazione grafica su mappa tratta da Mapire)

Anticamente, il paleoalveo della Morla, documentato al XIII secolo, raggiunta la città di Bergamo a est, dopo aver compiuto un’ampia curva che la evitava proseguiva verso la zona dell’insediamento dell’ex-Gres di via S. Bernardino (ed esattamente a ovest di tale insediamento industriale),  continuando poi in direzione di Grumello del Piano. Da qui si disperdeva in una zona acquitrinosa con altri corsi d’acqua provenienti dalle pendici collinari occidentali.

Nell’area compresa tra la ferrovia e l’area dell’ex-Gres (via S. Bernardino), si possono ancora chiaramente riconoscere le tracce dell’antico corso della Morla: un tracciato ampio fino a qualche decina di metri, delimitato da due principali scarpate e da una serie di terrazzamenti che segnano l’area di influenza del torrente durante gli episodi di esondazione. “Fino agli anni Ottanta del secolo scorso i tratti del paleoalveo venivano sfruttati, sia per la natura limosa dei terreni che per la loro pendenza costante, per realizzare le marcite, tipico sistema di coltivazione lombardo, costituito da prati stabili irrigati con un velo continuo d’acqua perché seguitino a vegetare per permettere tagli d’erba, anche fino a 8-10 nella stagione fredda (Galizzi, 2012)”. Tale morfologia è ancora parzialmente presente nel disegno dei pochi campi agricoli ancora esistenti (Il paleoalveo del torrente Morla).

L’antico percorso della Morla venne deviato nel Duecento per irrigare nuovi campi bonificati, e nel 1253 il Municipio di Bergamo “alienò parte dei suoi terreni a sud di Campagnola e li affidò a ricche famiglie aristocratiche (tra cui i Suardi e i Grumelli) che li gestirono e li coltivarono destinando la produzione di fieno e ortaglie alla città. Le tracce di tale operazione permangono oggi nei designatori, con la presenza della via dei Prati, a Campagnola, che corre ancora oggi lungo la roggia. Successivamente lo stesso schema della bonifica venne applicato per la fondazione del centro di Comun Nuovo, situato qualche km a sud di Colognola in direzione di Caravaggio” (Il paleoalveo del torrente Morla).

Nei tempi antichi la Morla costituiva una fonte di vita per gli abitati che lambiva.
Durante il periodo medioevale la stessa città di Bergamo ricorreva alle sorgenti della collina per i propri bisogni idrici e domestici, ed ancora in tempi più recenti, almeno fino alla prima metà del XX secolo, la Morla fu utilizzata per fini domestici, in primis per lavare i panni, in quanto le sue acque erano dotate di una grande limpidezza.
Le persone più anziane ricorderanno certo con nostalgia i tempi in cui la Morla pareva “acqua sorgiva”, al punto tale che le massaie utilizzavano la sua acqua per lavare la biancheria, che stendevano sulle rive e nei prati ad asciugare e che, secondo l’esperienza di allora, con la luce ed il calore solare acquistava maggiore candore.
Inoltre, il suo alveo, adagiato su uno strato impermeabile argilloso, permetteva l’estrazione agli inizi del secolo di un’eccellente qualità di argilla (“unica nel suo genere”), con la quale venivano fabbricate stoviglie fra le migliori della Bergamasca.

La Morla lungo la sua storia causò grossi guai, paurosi straripamenti, inondazioni e vittime, ricordate in una lapide risalente all’epoca della dominazione veneta, affissa sulla facciata di una ex chiesetta costruita sul suo argine in località “Scuress” (Ponteranica).

Particolare tratto dall’aerofotografia della Città di Bergamo del 1924. La Morla, ancora scoperta, nell’area prospiciente lo scomparso edificio noto come “Nave”, in via Pitentino 1. La “Nave” guadagnò tale denominazione per la sua caratteristica forma

 

La Nave di via Pitentino (fotofrafia Rinaldo Della Vite) tratta dal libro di Don Francesco Garbelli

La Morla infatti è un torrente dal corso tortuoso con il fondo lastricato di rocce cenericce e sfaldabili chiamate  Sass de la Luna: quando è in secca non ci si accorge della sua esistenza, mentre in occasione di abbondanti precipitazioni si sveglia e può diventare pericolosa.

La Morla a Valverde. Fotografia di Carlo Scarpanti

 

La Morla a Valverde. Fotografia di Carlo Scarpanti

Le calamità naturali legate alle esondazioni della Morla sono ricordate dal poeta bergamasco Mosè del Brolo e dal Mazzi nella sua corografia bergomense. Quest’ultimo scriveva: “Il torrente provenendo dalle alture di Ponteranica, corre vicino alla città dalla sua parte orientale e se non è infelice esagerazione di poeta, si può credere che negli antichi tempi recasse non pochi guasti alle vicine campagne, giacchè di esso canta il nostro Mosè: Prossimo al Monte cittadin trascorre, un fiume a cui di Morla han dato il nome, e crudelmente le campagne inonda”.

Ricordiamo anche gli enormi guasti arrecati alla città di Bergamo, e in particolare a Borgo S. Caterina e Borgo Palazzo, nella primavera del 1936, quando persero la vita due persone.

Il cronista di allora così scriveva su “L’Eco di Bergamo”:
“il 3 maggio 1936 nel tardo pomeriggio dopo una giornata afosa si avevano i prodromi di un temporale proveniente da est e che è stato veramente impressionante.
La zona fortemente colpita è stata Borgo S. Caterina tanto che oltre alle case e cantine allagate le ossa del vecchio cimitero di Valtesse affiorarono sul terreno.
Questo grave episodio è stato determinato dallo straripamento dei torrenti Tremana e Gardellone, confluenti del Morla. Essi sono alimentati dal bacino imbrifero del Canto Alto da un lato e dalla zona collinare dall’altro.
Un fenomeno del genere si è avuto nel 1932 ma meno grave, perché avvenuto in un periodo di siccità mentre questo a seguito di continue piogge…”

Accanto a quella tragica del 1936, la storia della Morla registrò altre drammatiche piene, e tra queste, quella del 1896, del 1932, del 1937, del 1940, del 1946, del 1949 e del 1976.
In quelle occasioni si accesero discussioni, polemiche, dibattiti, volti a porre rimedio a queste calamità, studiando quindi una soluzione definitiva.
Dopo numerosi progetti si decise di canalizzare parte del corso cittadino del fiume, coprendone alcuni tratti. L’opera, che comportò ingenti sforzi non soltanto economici, si concluse nei primi anni sessanta modificando definitivamente la natura del torrente.

Via Cesare Battisti fiancheggiata dal torrente a cielo aperto

 

La “Nave” dopo la copertura della Morla. L’edificio venne abbattuto nel 1985, per far posto all’attuale parcheggio

La zona maggiormente interessata fu Borgo Santa Caterina, che vide scomparire totalmente il corso d’acqua che ne aveva caratterizzato la storia, posto sotto il manto di nuove strade e piazzali, su cui venne costruito anche il nuovo palazzetto dello sport della città.

Il Palazzetto dello Sport in costruzione. Proprietà Archivio Wells

 

La “Nave” e sullo sfondo a destra il Palazzetto dello Sport in un disegno a carboncino di A. Gritti, eseguito nel 1970 e rinvenuto in un mercatino

Venne quindi eliminato anche il caratteristico ponte di Borgo santa Caterina, da secoli delimitazione territoriale del quartiere stesso.

Il Ponte di S. Caterina nel 1910. Il tracciato delle Muraine seguiva l’andamento del muro che delimitava l’alveo del torrente dal lato di via Cesare Battisti, fungendo anticamente da fossato difensivo. La via Pitentino (a destra) era esterna alle mura dei borghi. Il massiccio muro verso la Morla serviva per proteggere le abitazioni della zona dalle piene del torrente, causa frequente di notevoli danni. Il vecchio cancello daziario e gli edifici annessi, erano già stati demoliti, ed è anche scomparso il ponte di vecchie pietre sopra il torrente, ora scavalcato da un ponte in cemento. Sono però visibili gli archi del ponte originario. Nel 1962 la Morla fu coperta anche nel tratto da S. Caterina al largo del Galgario

Un altro tratto in cui il torrente venne nascosto alla vista della città fu immediatamente dopo il ponte di Borgo Palazzo, per riemergere dal buio in prossimità della stazione ferroviaria, sotto la quale scorre l’ultimo tratto sotterraneo.

A seguito di questa grande opera il torrente venne relegato ad un ruolo sempre più marginale, tanto che col passare del tempo venne considerato sempre più una sorta di discarica a cielo aperto.

La Morla in via Battisti in un’immagine antecedente la copertura della Morla e la costruzione del Palazzetto dello Sport, inaugurato nel 1965. Sullo sfondo si individua l’edificio della “Nave”

 

La Morla nel 1960, tra via Cesare Battisti e via Pitentino (scattata da sud): una fogna a cielo aperto coperta nel 1962

 

Un immagine non molto dissimile dell’area, nel periodo in antecedente la copertura del torrente e la costruzione del Palazzetto dello Sport. Proprietà Archivio Wells

Soltanto con l’avvento del XXI secolo cominciò a verificarsi una nuova presa di coscienza da parte dei cittadini e delle autorità, che hanno posto la Morla al centro di un’opera di recupero ambientale. A tal riguardo è nato anche un Parco Locale ad Interesse Sovracomunale (PLIS) volto alla tutela ed al rilancio delle aree della pianura bergamasca interessate dal corso della Morla e dalle rogge da essa derivate.

L’arcata del vecchio Ponte di Borgo S. Caterina, immortalata nei primi mesi del 2013 in occasione del rifacimento della copertura stradale

La Morla fu  immortalata nei diplomi regi e imperiali, poiché diede il nome alla Corte regia di Borgo Palazzo. Il Lupi, che nel 1780 scriveva : “la corte Morgola… presso al fiume che fino ad oggidì porta lo stesso nome, in quel luogo che ora è detto Borgo Palazzo”, spiega che la curtis era un possedimento, o vasto feudo, appartenente a qualche particolare famiglia, la quale aveva la propria abitazione in forma di castello o di palazzo, con adiacenti alcune case per la  servitù o coloni addetti alla coltivazione dei terreni che si estendevano intorno ai fabbricati: il castello di Malpaga e le abitazioni che lo circondano possono rendono l’idea di cosa fossero le corti.

La Curtis regia era invece proprietà di un re o di un imperatore e talvolta abbracciava un villaggio (vicus) o anche un insieme di villaggi (pagus); aveva ampi fabbricati, che dimostravano la potenza e la dignità regia. In città la curtis regia era ubicata nell’area attualmente occupata dalla fontana di San Pancrazio.

Ora, la curtis: “… quae vocatur Morcula in comitatu Pergamo”, appare per la prima volta in un diploma dell’875 di Lodovico re di Germania; in questo documento si menziona l’esistenza di una corte Morgula o Murgula –  poiché essa era dislocata lungo il corso del torrente Morla -, situata nei pressi di un Palatium imperiale, nella parte bassa di Bergamo. Un palazzo destinato alla residenza degli imperatori di passaggio nei loro viaggi nelle provincie italiane.

Il ponte sul torrente Morla in Borgo Palazzo (1885 circa). Raccolta D. Lucchetti 

Fonti

http://www.comune.ponteranica.bg.it/territorio/maresana.php
http://it.wikipedia.org/wiki/Morla_(torrente)#cite_ref-0

IL TORRENTE MORLA. CARATTERI, VALORI, PROSPETTIVE
Saggi di: Lelio Pagani, Andrea Tosi, Moris Lorenzi, Gian Pietro Armanni, Fabrizio Conti, Renato Ferlinghetti, Fulvio Caronni, Silvano Ceresoli, Mario Di Fidio, Claudio Merati, Piervincenzo Scalpelli, Stefano Stecchetti, Graziano Vitali.

Il paleoalveo del torrente Morla

Provincia di Bergamo

Per la mappa storica: Mapire – le mappe storiche dell’impero asburgico, con Bergamo e provincia mappate nella seconda indagine militare (1806-1869).

I Laandér dè Paladina: la loro breve storia e il ricordo di Anna Rosa Galbiati

Donne al lavoro in un lavatorio della Bergamasca, 1963 – Foto e proprietà Gianni Gelmini

Seconda puntata (per la puntata precedente, clicca qui)

Quello delle lavandaie e dei lavandai, lavoro faticoso ed “usurante” che i bergamaschi praticarono in gran numero nei decenni passati, è uno dei mestieri dimenticati di cui rimangono tracce nell’architettura urbana e rurale della nostra città e provincia.

Ancor prima del sorgere del sole, in qualsiasi stagione dell’anno, le lavandaie si recavano con carretti ricolmi di ceste di panni sporchi presso i lavatoi che sorgevano in alcuni angoli di piazze e rioni e, prima ancora, presso i torrenti e i canali, dove i canti e il chiacchiericcio di donne di ogni età si accompagnavano al battere dei panni sulla pietra e al profumo della “lisciva”.

Intenerisce pensare alla semplicità di coloro che svolgevano un mestiere tanto faticoso: possiamo solo lontanamente immaginarne i desideri e i sogni, la quotidianità, le difficoltà del lavoro, degli amori, della loro mancanza di istruzione.
Uno spaccato significativo di questa ormai lontana realtà è rappresentata dai “lavandai di Paladina”, il piccolo comune della Val Breno, situato sulla sponda sinistra del fiume Brembo all’imbocco della Valle Brembana.

Qui, per più generazioni, moltissime famiglie si sono dedicate a lavare la biancheria di tutto il Capoluogo; una tradizione che, per la verità, continua anche ai giorni nostri grazie a tre famiglie che si sono tramandate di padre in figlio il mestiere, e che ora gestiscono altrettante lavanderie industriali completamente automatizzate, dando lavoro a qualche decina persone.

E dunque, insieme ad un veloce excursus storico, riporto con piacere un breve racconto di Anna Rosa Galbiati che descrive amorevolmente l’arrivo – come accadeva ogni primo lunedì del mese in Città Alta – dei famosi Laandér dè Paladina: un evento – o meglio un avvenimento – attesissimo dai bambini di allora e ricordato con vivida memoria ed emozione: un’occasione per calarsi nell’atmosfera di allora attraverso una piccola, ma non meno preziosa, carrellata di immagini che ritraggono una parte dell’antica Città alta fra Otto e Novecento.

Nella zona delle Ghiaie, frazione di Paladina (1) affacciata sul fiume Brembo, già dalla seconda metà del 1700 alcune famiglie del luogo traevano sostentamento dal mestiere di lavandai, divenuto una vera e propria attività per molti abitanti di Paladina. allorchè, nel 1894, il gruppo industriale tessile svizzero Legler Hefti e C., dovendo produrre energia elettrica per lo stabilimento di Ponte San Pietro, costruì sul letto della preesistente roggia (2) l’attuale canale, offrendo così la possibilità ai lavandai, dietro stipula di una concessione, di sfruttarne l’acqua.

(1) La conformazione morfologica di Paladina si divide sostanzialmente in due parti: la prima, quella dove sorge il nucleo storico, si trova su una balza a circa 40mt. sopra il livello del fiume, la seconda, denominata Ghiaie, si trova ad un livello prossimo a quello del fiume.

(2) La frazione delle Ghiaie fino alla seconda metà del 1700 era conosciuta e nota per i due mulini che venivano alimentati dall’acqua della roggia Benaglia, che nasceva dal Brembo e che correva parallelamente ad esso, per poi ricongiungersi circa 2 km più a valle.

Rilievo di Paladina nel 1810 – Dipartimento del Serio (Archivio di Stato di Bergamo)

La successiva costruzione dei fossi, conducendo l’acqua direttamente nei lavatoi delle abitazioni, contribuì fortemente ad agevolare l’attività nella zona delle Ghiaie, dove, negli anni a seguire, fiorirono molte lavanderie nelle quali, oltre alle donne, anche un consistente numero di uomini occupava un ruolo di rilievo.

Fu nel periodo a cavallo tra il primo ed il secondo conflitto mondiale che i lavandai di Paladina si fecero conoscere sempre più nella vicina città di Bergamo, e, grazie agli stagionali, anche nelle più rinomate località di vacanza quali S. Remo, S. Pellegrino, Courmayeur, Bellagio, Stresa, Venezia ed altre ancora.

Con il boom economico, negli anni ’50 del secolo scorso la diffusione sul mercato delle lavatrici, l’apertura in città delle prime lavanderie, nonché l’occupazione in fabbrica (più remunerativa), decretarono il declino del secolare mestiere dei lavandai.

Le nuove generazioni dapprima svolsero la doppia attività, di lavandaio e di occupazione nell’industria, per poi abbandonare definitivamente la prima.

Principalmente quattro erano gli strumenti di lavoro che si trovavano nelle antiche lavanderie, dette “laandère”.

La pietra era solitamente una lastra di arenaria cavata nelle vicinanze appoggiata davanti alla buca e veniva usata come piano di battitura della biancheria.

La buca permetteva al lavandaio, una volta entrato, di battere la biancheria sulla pietra e sciacquarla nell’acqua corrente più agevolmente.

La vasca solitamente era situata vicino alla caldaia e serviva per mettere in ammollo la biancheria con la lisciva.

La caldaia era l’elemento importante, se non il più importante, perché serviva per produrre la lisciva, l’unico detergente che si conoscesse al tempo; aveva una forma circolare composta di materiale refrattario, con un diametro di circa 100/120 cm, ed era suddivisa in due parti. Nella parte più bassa della prima si trovava il bracere che veniva alimentato con i trucioli della lavorazione del legno, nella parte superiore della seconda c’era il contenitore in rame a forma di paiolo dove veniva scaldata l’acqua e successivamente sciolta la lisciva.

La settimana lavorativa del lavandaio iniziava il lunedì con la raccolta e la consegna della biancheria presso i clienti (le cosiddette “poste”). Caricavano sulla carrola biancheria pulita, con l’ausilio dei carrettieri, e, tutti insieme, una volta ritrovatisi nella piazza di Paladina partivano verso la città.

Molti anziani dei paesi d’intorno ed in città ancor’oggi ricordano le lunghe file di carri che percorrevano le strade e i quartieri cantando in allegria, forse anche perché questo era il giorno in cui raccoglievano i frutti del lavoro svolto la settimana precedente.

I clienti provenivano dalle più svariate categorie: dalle famiglie benestanti ai conventi, dalle caserme alle carceri, tutto era buono per racimolare qualche soldo.

A partire dal martedì i lavori da svolgere erano tanti; si iniziava con la segnatura dei panni (ogni cliente aveva un suo segno distintivo di riconoscimento), a seguire la suddivisione della biancheria chiara da quella scura, per proseguire con il lavaggio, l’ammollo, la battitura, il risciacquo, la stenditura ed infine la ripiegatura e l’insacco.

L’attività del lavandaio risultava essere molto faticosa; infatti, oltre al dover stare sempre a contatto con l’acqua per tutto l’arco dell’anno e con ogni situazione metereologica, lo stesso correva sempre il rischio di essere contagiato dal contatto con la biancheria sporca. A ciò si aggiunga che l’acqua potabile alle Ghiaie arrivò solo nel 1927; facile quindi immaginare i rischi conseguenti.

Si ricorda a tal proposito l’epidemia di colera scoppiata il 16 Agosto del 1884; il primo decesso fu proprio quello della lavandaia Melania Benaglia, e durante tutta la durata dell’epidemia  i lavandai infettati furono 20, dei quali 11 perirono.

“I Laandér dè Paladina” nel ricordo di Anna Rosa Galbiati

Fine ‘800: via Porta Dipinta con la chiesa di S. Andrea osservate del Pozzo Bianco (Raccolta Lucchetti)

ll primo lunedì di ogni mese si attendeva con eccitazione l’arrivo dei lavandai di Paladina, con il loro carico di sacchi di biancheria pulita, lavata nelle acque del Brembo e stesa ad asciugare sulle rive del fiume.

La scoscesa via Porta Dipinta all’altezza della chiesa di S. Andrea, in una vecchia fotografia

Erano per lo più lenzuola e coperte bianche, che i proprietari contrassegnavano con delle cifre rosse.

Noi bambini ci mettevamo ad attendere i lavandai davanti alla stazione della funicolare, dove confluisce la via Porta Dipinta.

Fine Ottocento: la stazione della Funicolare in piazza Mercato delle Scarpe, ricavata dal cortile del trecentesco palazzo Gritti, già Suardi

L’arrivo dei “laandér” era annunciato dal rumore fragoroso delle ruote dei carri sull’acciottolato, dallo scalpitare degli zoccoli dei cavalli e dalle grida di incitamento dei lavandai.

La ripida salita metteva a dura prova quei poveri cavalli, che annaspavano ansanti, scivolavano, si piegavano sulle ginocchia, agitando la testa con la bocche spalancate in spasimi di fatica e con le froge fumanti e dilatate. Erano dei superbi cavalli da tiro, delle bestie dal corpo robusto, dal collo lungo e muscoloso, con fianchi e garresi poderosi. Avevano la criniera e la coda fulve, gli zoccoli nascosti sotto un folto pelame.

Non ho più rivisto cavalli così belli e imponenti!

Dalla Raccolta D. Lucchetti, con la seguente didascalia: “Questi carretti potrebbero essere quelli dei lavandai (forse gli ultimi a sparire)”

I cavalli tiravano le carrette con tutte le loro forze, aiutati da robusti carrettieri e da donnone imponenti, con il grembiule bianco. Uno teneva i cavalli per le briglie, altri facevano forza sulle ruote, le donne spingevano i carretti da dietro, per evitare che arretrassero.

Il punto più faticoso e difficile era la parte ripida dove via Porta Dipinta incrocia via Rocca, perché la pavimentazione era più liscia e scivolosa.

A fatica e con nitriti che sembravano grida di disperazione, finalmente i cavalli raggiungevano la piazzola e potevano riposarsi.

Erano talmente agitati e provati dall’immane sforzo che tutti i muscoli del loro corpo, in tensione, sbattevano come corde di un’arpa e ci voleva un po’ prima che si distendessero.

Appena arrivati, i lavandai coprivano subito con coperte i loro cavalli, bagnati di sudore, e mettevano sotto il loro muso un sacco con del fieno, quale giusto premio alle loro fatiche. I cavalli poi, come si rilassavano, cominciavano a fare pipì, ma tanta e poi tanta che per noi bambini divenne un gioco seguire quella scia di liquido giallastro e schiumoso, simile alla birra, giù per via Porta Dipinta, e vedere fin dove arrivava.

Mentre noi bambini eravamo attratti dalla pipì dei cavalli, alcune donnette, con paletta e secchiello, aspettavano che i cavalli facessero la cacca, poi correvano subito a raccoglierla, ancora calda, per usarla come concime.

Via Porta Dipinta in una fotografia scattata prima del 1935: in primo piano la casa abbattuta per evidenziare l’antica Torre Sub Foppis e per liberare la visuale verso la Fara (Raccolta Lucchetti)

I lavandai e le lavandaie, anche loro trafelati per la fatica, si riposavano un po’, poi si caricavano sulle spalle quattro o cinque sacchi, si dividevano per le varie vie per consegnare la biancheria pulita e ritornavano con sacchi di biancheria sporca.

Alfonso Modonesi – Città Alta, Bergamo, 1960-1970. In: “Fogliò”

Ricordo ancora bene le figure di quelle donnone con i loro grembiuloni bianchi, le trecce arrotolate sulla nuca e le belle facce rubiconde, erano delle virago, robuste e forti come degli uomini.

Terminato il giro e ricaricati i carri, i cavalli venivano ripresi per la cavezza, tenendo a bada il loro ardore. Poi, cominciava la lenta discesa, faticosa come la salita, anzi peggiore, perché c”era il rischio che il carro scendesse all”impazzata e si schiantasse contro qualche casa.

Attenti, seguivamo i “laandér” lungo il difficile percorso fino alla curva e restavamo a guardarli mentre si allontanavano, finché non sentivamo il rotolio fracassoso delle ruote del carro che passava davanti alla chiesa di Sant’Agostino.

Primi del ‘900: la chiesa di S. Agostino (edificata dal 1290 al 1446) con annessa l’omonima caserma (Raccolta Lucchetti)

 

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Per la parte storica: Presepe dei Lavandai – Paladina e i suoi Lavandai.

Per il racconto: Anna Rosa Galbiati, “Acquarelli Bergamaschi” (Sistema Bibliotecario Urbano – Biblioteca circoscrizionale Gianandrea Gavazzeni, Piazza Mercato delle Scarpe – Città Alta).

Le frasche sui Colli di Bergamo: interludio di Primavera

La “Bergamo così” di Geo Renato Crippa è uno scrigno di testimonianze che ci restituiscono, mirabilmente, il ritratto di una Bergamo “minore” – in contrapposizione alla Bergamo “potente” – ormai scomparsa. insieme ai più caratteristici personaggi, vengono descritti i luoghi, le consuetudini, il carattere, il sentire di un mondo perduto, semplice e proprio per questo ricco di suggestioni. Non poteva mancare una pagina dedicata alle “frasche”: quelle bucoliche cascinette che punteggiavano qua e là i dolci pendii dei Colli facendo capolino in angoli felici, sempre pronte ad allietare i giorni di festa o i più tranquilli pomeriggi. Ne sento ancora i profumi, la quiete; ne rivedo gli scorci, i colori, insieme ai volti a me più cari e alle combriccole di un tempo. Ricordo i ritornelli cantati a squarciagola, il profumo di quel “mazzolin di fiori” legato da uno stelo; le verdi distese dove lo sguardo vagava trasognato e lo spirito si ritemprava. E ancora, il sapore fragrante del pane o del latte appena munto, del cibo semplice e genuino, ancor più buono dopo una lunga passeggiata. La bellezza che sa rigenerare, la magia dell’infanzia e della scoperta e l’unicità di un mondo che oggi possiamo almeno in parte ritrovare, miracolosamente, solo laddove la mano e l’avidità dell’uomo non sono giunte ad intaccarne la primitiva purezza.

Delle “frasche”, specie d’osterie stagionali, disperse nelle campagne collinari bergamasche dove sorride il vigneto, ne esistevano e ne esistono a diecine. Di esse la notizia si perde nei secoli.

Chi le abbia inventate impossibile stabilirlo, forse non si erra dicendole “specialità” di mezzadri avvertiti, di piccoli proprietari preoccupati di vendere vino di loro produzione, fattori avveduti consigliati da mediatori e sensali intraprendenti.

Valmarina

Nell’intenzione di tutta questa gente, la gestione primaria consisteva nel godimento fuori dagli occhi dei curiosi o magari, la sollecitazione di togliersi dai rumori e dai travagli, in luoghetti solatii, all’aria buona e profumata al massimo, negati a cautele e pregiudizi di sorta. In verità qualche cosa di magico subbugliava intorno a realizzazioni di tanta attraenza e di sicura comodità.

Bastava innalzare, ai bordi di una stradetta o d’un viottolo, un ramo tagliato lungo, da un albero qualunque, e la “frasca” era fatta.

Da Valverde

Di solito la scelta cadeva su una di quelle “cascinette” nascoste nei coltivi. La si arrangiava alla buona con tre o quattro rozzi tavoli, una diecina di sedie, dapprincipio quasi sempre all’aperto dove, sotto una o due piante di noce, l’ombra non disturbasse i probabili avventori.

Nessun apparato convenzionale ma quel raro senso del rustico discreto e pulito che certe volte richiama e soddisfa.

Nel disporre, al meglio ed in modo adeguato, il “posticino”, serviva quella malizia contadina insuperabile nell’escogitare comodità attraenti se pure di una semplicità dosata e linda.

Da Castagneta

In quanto ad ornamenti nemmen pensarlo. Qualche gabbia, con i soliti merli o tordi, appesa accanto alla porta, dei vasi di fiori comuni, nient”altro se non attrezzi: falci, rastrelli, zappe, insomma ferri del mestiere.

Dalla Ripa Pasqualina

Ciò che si assicurava, al di sopra di ogni pregiudizio, era sulla sincerità del vino, proprio del luoghetto, e per chi desiderava uno spuntino, la sicurezza di un salame verace, di uova fresche, di formaggi e stracchini casalinghi, soprattutto di insalate, lattughe e radicchi, dell’orto sistemato al solivo e curato oltre ogni dire.

Altro non poteva essere offerto se non al tempo degli asparagi nostrani, delle fragole pregiate, di qualche ciliegia e di, ormai, rarassime pesche, sempre che la annata fosse favorevole.

Lo Scorlazzino

Chi desiderava portarsi, da casa, “roba” per una merenda, nulla da eccepire; alla “frasca” avrebbero dato il vino, le gazzose, un bel bicchierone di latte appena munto, una fetta di polenta, dei peperoni sott’aceto puro, specialità controllabile.

Nessuna preoccupazione, dunque; la accoglienza sarebbe stata buona, alla mano.

Chi desiderasse una tovaglia o dei tovaglioli chiedesse pure, andava ugualmente bene.

Lo Scorlazzino

I colli di Bergamo sono veramente una bellezza rara.

L’ampio paesaggio che li circonda aggiunge alla loro avvenenza una grandiosità stupenda. I declivi dolci educano ortaglie, dove l’architettura trama i pregi di linee e piani di una ambientazione miracolosa.

Dalla Scaletta delle More

La poesia, mai dominatrice, vi è dunque, quasi in umiltà, presente e savia.

Centinaia di cascinali, di brevi fattorie, di ville padronali non azzardate di lussi, rendono l’ambiente favorevole alla vista e allo spirito.

Niente sui colli di Bergamo ed intorno ad essi è confusione. Le varietà delineano una natura parlante ed umana.

Strade, tracciate con gusto, li percorrono insinuanti e certune, quasi aeree, dalle quali si dipartono scalette e sentieri fortunosi.

Verdi beati, feriti da boschetti ed infiorate, rallegrano l’atmosfera mai sazia di stupire.

Se raggiungere queste serene alture fu beneficio di passeggiate interminabili, la “trovata” delle “frasche” rese completezza alle previsioni ed alle speranze di trascorrere giornate allettanti.

Sopita l’idea di caricarsi di cento pacchi di provviste, la decisione a salire fuori porta divenne non impresa ma pensiero sufficientemente valido.

Gruppi, gruppetti, intere famiglie, associazioni con o senza vessilli, studiarono come studiano i fine settimana, o le domeniche, dove trascorrere in fantasia ed in “furia”.

Altri opponevano all’incontro di uno sterrato, di un praticello gradito agli spassi della ragazzaglia. I ragionamenti duravano giorni e giorni fra indecisioni e clamori.

Le preferenze decidevano per i giorni festivi, le occasioni, gli anniversari, le prime comunioni, realtà anche dell’oggi non accetto a facili turbamenti.

Partenze al mattino, calcolando esatta l”ora per arrivare un po’ avanti al mezzogiorno. Spedire una staffetta al fine di fissare un tavolo risultava perfetto.

Le donne non mancavano di preveggenza. Giungere accaldate e rosse di sudore avrebbe roso i primitivi entusiasmi.

Mai imbastita alla leggera la camminata, pur riuscendo qulche volta tormentata, procurava, sempre, un qualchecosa di nuovo, di insospettato, di stregato.

Occorreva disciplina, badare a starsene raccolti, a non perdersi in quisquilie, in reclami, indulgendo in soste ripetute.

Lungo i Torni

Sessanta, settanta, cent’anni fa andare allo sbaraglio non condizionava rischio o pretesa, anzi il non sapere affatto dove stare procurava curiosità e stordimento.

Chi consigliava a destra chi, sapiente, decideva verso un “posticino” di sua conoscenza, nelle vicinanze del quale sprizzava una fontanina d’acqua gelida e salutare.

Al panorama si sarebbe pensato appresso, dopo d’essere ben rifocillati e riposato scalzi alle brezze profumate, nella calda estate, di fieni e di quante erbe, odoravano strane e distinte.

Dal Sentiero dei Vasi

Rumorose tavolate invadevano le “frasche”. Impossibile chetarle. La bella giornata picchiava nei cervelli.

I richiami stordivano le padrone e i padroni impauriti ad oltranza. Chi desiderava una cosa, chi un’altra, un terzo, mai sazio, reclamava, dalla moglie e dalle figlie, dell’altro affettato, poi del pane, un ultimo sbraitava con i ragazzi inquieti e vocianti; in fondo all’aia si ampliavano canti e rampogne mentre un cane non finiva d’abbaiare al coro.

Le libagioni documentavano arsure festaiole, il vino correva a pinte, servito in boccali di maiolica decorati da scritte umoristiche; se c’erano l”anguria o il melone la gazzarra aumentava al minimo scatto ed il baillame inferociva soprattutto in quanti, presi nella farragine delle grida e dei berci, perdevano il gusto a librarsi a gioie familiari in piena libertà.

Fioriture verso Castagneta

Di notte, mentre all’orizzonte balzavano leggeri chiarori, i “trattori”, istupiditi dalla stanchezza, imploravano ristoro e silenzio.

Dal Santuario di Sombreno

Eppure sostare alle “frasche”, nei giorni feriali, del chiaro settembre, alla maniera di un cacciatore o d’un sognatore sereno, procurava, inutile precisarlo, momenti, anche se romantici, di timida letizia.

La realtà perdeva il suo carattere lasciando scorrere nelle vene estri inconsueti.

I migliori avventori, quelli d’intelligenza generosa, godevano nell’umiltà di un fascino domestico, il giogo di certa solitudine riverente.

Da Castagneta

Non stordiva il tramestio della cucina appena discosta, il battere d’un falcetto sulla siepe, il chiacchierio del pollaio, e nemmeno una voce perduta lontano.

Era tutto un mondo diventato, in quegli istanti, di una naturalezza monda di stramberie, di dissensi e di contestazioni vane.

Solo l’accostamento ad interessi virgiliani, al fremere della terra, alla tessitura, mai aspra, delle opere feconde, mobilitava vieppiù quell’ambiente mai stanco di sollevarsi nella giocondità impercettibile ma decifrabile solo ai moti del cuore.

 

Da Geo Renato Crippa, “Le frasche sui colli”, in: Bergamo così (1900-193??).  Banco di Bergamo – Editore. Bergamo, 1980.

Fotografie di Roberto Bezzi

Ricordi di Città Alta dalla penna di Anna Rosa Galbiati: “Partenza per Bergamo” e “La via Rocca”

Prima puntata

PREMESSA
Ho sempre nel cuore i magici giorni vissuti da bambina nella vecchia Città Alta, giorni che rappresentano un tesoro di emozioni, di immagini e di poesia ancor oggi palpitanti. La vita in Città Alta si svolgeva segreta e silente tra le vecchie pareti di roccia. Le stradine ripide e sassose erano percorse da dignitosi vecchietti, testimoni ed eredi di antiche tradizioni e di mestieri perpetuati con ignara sacralità. Vecchi, che vivevano abbarbicati alle loro Mura come l’edera d’estate, vecchi che erano l’espressione dello spirito genuino, ora perduto, della Città. Spiriti che non riconoscerebbero più le loro pietre, i loro anfratti, i loro segreti cortili, anime vaganti cacciate dal loro nido e dalla loro storia. Anime trapassate, ora rievocate. Non nomi illustri o prestigiosi personaggi, ma uomini e donne, semplici popolani, che si muovevano al ritmo delle campane. Ogni rintocco regolava il quieto vivere quotidiano nelle austere case e nelle vie della Città, da secoli intatta e incontaminata, aliena dal chiasso, dalla frenesia e dalle mode. Non solo i grandi lasciano tracce indelebili nella storia, ma anche gli umili con le loro sofferenze, la loro dignitosa rassegnazione e la loro scanzonata ironia. Veri depositari dello spirito del loro tempo e della loro Città. Oggi, le pietre ripulite e i portoni chiusi, vietano ai fantasmi del passato di ritornare ai loro nidi, di rivelare i loro segreti e di rivendicare la loro Storia, ma io, timidamente, cercherò di scavare nella mia memoria, per riportare alla luce le loro immagini, affinché non svaniscano nel nulla. Sono ricordi sfumati e sbiaditi dallo sciacquio del tempo, ricordi di una bambina che assorbì la vita di Città Alta nella sua genuina essenza e di cui, oggi, sente nostalgia e rimpianto. Bello sarebbe che altre testimonianze si unissero alle mie infantili reminiscenze per perpetuare nel tempo la memoria degli antichi spiriti bergamaschi.

Maggio 1999 – Anna Rosa Galbiati

PARTENZA PER BERGAMO

Piazza Mercato delle Scarpe – Racc. Lucchetti

Ogni anno aspettavo con trepidazione la fine della scuola per poter trascorrere le mie vacanze dai nonni in Città Alta.
Il giorno della partenza era sempre esaltante e concitato per i preparativi, come se avessi dovuto fare un lungo viaggio. La mamma preparava la valigia con i miei indumenti ed io riempivo la mia cassettina di legno con dei padellini, gli abitini della bambola e tutti i miei gingilli per giocare.
La mamma con la valigia in mano ed io con la mia cassettina da una parte e la bambola dall’altra, andavamo a prendere “ol gamba dè legn”, il mitico tram che arrivava da Monza e portava a Bergamo.
Alla fermata di Dalmine, dove abitavo, una nuvola di fumo nero che avanzava avvertiva che il treno stava arrivando. Io provavo sempre una grande emozione nel salirvi.

Dopo una breve sosta, il treno faceva un lungo fischio, che sembrava dicesse: “Sif sö töcc?”, e si avviava con sofferenza, annaspando, sobbalzando, sbuffando e poi, adagio adagio, prendeva il suo ritmo: “Ciridin, den, den, ciridin, den, den…”.
Pur dando il massimo della sua potenza, l”andatura era quella di una carrozza a cavalli.
Che rabbia mi facevano quei monelli in bicicletta che lo superavano e guardando verso di noi all’interno facevano il gesto provocatorio della mano mossa sulle labbra, che voleva dire: “Ölet i gnoc?” Li avrei picchiati! La mamma rideva divertita, ma io mi sentivo offesa per me stessa e per il povero tram di Monza. In realtà, non c’era mai un orario preciso di partenza né di arrivo. Inoltre, si partiva lindi e freschi e si arrivava a destinazione con gli abiti nero fumo, le lentiggini nere sulla faccia e sulle mani e pezzettini di carbone negli occhi. Il fumo della “tradotta” penetrava anche dai finestrini chiusi.

Arrivate alla stazione di Bergamo, che si trovava in via Paleocapa, andavamo a prendere il tram che portava alla funicolare. lo ero felice e osservavo tutto con interesse ma il mio sguardo era sempre fisso su Città Alta, che si avvicinava sempre più, ingrandendosi.
La vecchia funicolare di legno ci aspettava ai piedi della ripida salita.
Conoscevo perfettamente il rituale del manovratore: controllo dei biglietti, conteggio delle persone, non più di trenta, e chiusura delle porte dall”esterno. Si metteva poi davanti al posto di guida, faceva scivolare un chiodo metallico in un foro della piattaforma, infilava un altro congegno nel cruscotto, tirava una manovella e… via! Con gemiti e stiracchiamenti, come fosse cosa viva, la funicolare saliva, saliva. Io guardavo in basso ed osservavo quanto fosse ripida la salita. Una volta chiesi alla mamma:  “Non è mai successo che la fune si rompesse e la funicolare precipitasse giù, in fondo?”
La mamma, che era una fifona, facilmente impressionabile, rispose: “Figuriamoci se si rompe la fune, la funicolare si blocca subito”.
Però la mia domanda la mise in agitazione, forse perché non era sicura della risposta che mi aveva dato. Arrivate nel vasto atrio della stazione di Città Alta, la mamma, sollevata, disse: “Meno male, eccoci arrivate sane e salve”, come se fosse stata la prima volta che saliva in funicolare. Uscimmo nella Piazza del Mercato delle Scarpe e ci incamminammo verso la Via Rocca.

LA VIA ROCCA

Pietro Ronzoni – Parte della Rocca di Bergamo (Penna e bistro – Bergamo – Propr. comm. Aldo Farina)

La via Rocca era ed è una strada erta ed impervia, pavimentata e trapuntata da grossi ciottoli e con un marciapiede di pietre grigiastre e levigate aderente al caseggiato. Sulla destra passa quasi inosservata la chiesetta di San Rocco, quasi sempre chiusa, attaccata all’austero edificio che fu la prima sede della Misericordia Maggiore, fondata da Pinamonte da Brembate.
Dai portoni di queste antiche case, cariche di storia e di età, usciva un odore acre di muffa e di umido, poiché le pareti sulla via non prendevano mai il sole e le abitazioni, all’interno, erano tetre, buie e fredde.

Carlo Scarpanti, Via Rocca – Notturno (incisione all’acquaforte – 1966)

Nonostante tutto, in quegli edifici malsani vivevano tante famiglie, e vi pulsava una vita calda di povera gente, avvezza alle piccole cose, ma fiera e dignitosa.
Passavo tra questi edifici familiari fissando lo sguardo sulle finestre della casa della nonna, che vedevo appoggiata alla balaustra nell’attesa. Il suo sorriso aperto, non appena mi scorgeva, era il primo dolce saluto della magica e sognante Città Alta.
La nonna abitava al numero 11 di via Rocca, nella casa dei nobili Baglioni, ora Piazzini Albani. Dal suo appartamento, che seguiva la curva della strada che portava alla Rocca, si vedevano interamente il campanile della chiesa di San Pancrazio e il vasto complesso che costituiva il Collegio Convitto delle suore.
Nel piazzale antistante, vicino alla parete spaccata dell”enorme casa senza finestre e portali, si ergeva un elegante vespasiano, “al pissadùr”, in stile Liberty, che offriva un comodo ristoro al turista bisognoso in visita alla roccaforte.

La nonna, tutte le volte che apriva le finestre, si lamentava di avere quella maleodorante visuale sotto gli occhi e riteneva che quel “pissadùr” fosse un oltraggio al paesaggio. A me invece piaceva. Lo trovavo carino, come un gazebo, con quella tettoia argentata, con smerli, che si appoggiava su un sostegno che faceva da paravento e nascondeva il servizio igienico da sguardi indiscreti.

La nonna aveva più volte richiesto la sua eliminazione per i cattivi odori che emanava, ma io, senza dirlo, speravo che nessuno lo toccasse. Era sempre stato lì e lì doveva rimanere, come un monumento storico.
Il desiderio della nonna fu esaudito, anche se dopo la sua morte.
Il vecchio “pissadùr” non c”e più.

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Anna Rosa Galbiati, “Acquarelli Bergamaschi” (Sistema Bibliotecario Urbano – Biblioteca circoscrizionale Gianandrea Gavazzeni, Piazza Mercato delle Scarpe – Città Alta).