Terza puntata (per la puntata precedente, clicca qui)
“Le signorine Cadonati”
Al numero 11 di via Rocca abitavano anche le signorine Cadonati, due zitellette quarantenni che si dedicavano al lavoro di lavanderia e stireria in casa.
Abitavano all’ultimo piano della casa Baglioni, nel versante che guardava sulla Via Porta Dipinta e dal quale si godeva la più ampia e straordinaria vista di Bergamo.
Il loro appartamento, grazie alla posizione elevata, era luminosissimo ed era composto di enormi stanzoni con soffitti a travi di legno.
Nella cucina lunga e stretta lavorava la vecchia sciura Cadonati, sempre piegata sul “sòi” a insaponare i panni, a lavarli, a sbatterli e strizzarli con forza.
Nonostante la bestiale fatica, la signora Cadonati era sempre sorridente e contenta.
In uno stanzone con grandi finestre, sempre aperte all’aria e al sole, c’erano due tavoli su pedane di legno, coperti di teli bianchi, sul quali erano allineati ferri da stiro di ghisa neri e pesanti, barattoli di saponaria, di smacchiatore, scodelle di acqua per inumidire, insomma tutto il necessario per stirare: il regno delle signorine Cadonati. In un angolo, poco distante, c’era il banchetto di lavoro del signor Cadonati, che faceva “ol scarpuli”. Sparse un po’ dovunque c’erano vecchie scarpacce sfondate, zoccoli, martelli, forme, pezzi di cuoio.
Un altro enorme stanzone soleggiato ed aerato era usato per stendere i panni bagnati e per appendere i capi stirati.
Le due sorelle Cadonati, Rina, morettina e Franca, biondina, passavano le loro giornate a stirare, sempre sui due piedi, interrompendo il lavoro solo per mangiare.
Erano sempre insieme, e non hanno passato un giorno l’una lontana dall’altra. Rina rifiutò la proposta di matrimonio di un bravo ragazzo di Bari, atterrita dall’idea di lasciare la sorella e la sua Bergamo. Trascorsero la loro vita sempre teneramente insieme, condividendo lo stesso lavoro e le stesse passioni.
Poiché facevano parte, con il padre, del coro del Teatro Donizetti, alcune sere si recavano a teatro per le prove. Rina aveva una calda voce di contralto, Franca di soprano, e il padre una profonda voce di baritono. Andare dalle signorine Cadonati era come salire in cielo, in un’atmosfera fuori dal mondo. Mentre lavoravano, si esercitavano nei brani d’opera che avrebbero dovuto cantare durante la stagione lirica e la stanza di lavoro, come per magia, si trasformava in un palcoscenico, cui faceva da scenario lo stupendo panorama di Bergamo. Io, rimanevo delle ore seduta su una seggiolina, in disparte, ad ascoltarle, immobile, per paura di dare fastidio.
Il brano che più mi commuoveva, fino a farmi sentire i brividi, era quello della Cavalleria Rusticana: “Esultiam – il Signor non è morto…”, perchè le tre voci si fondevano tra loro in un’accorata armonia piena di sentimento come fossero strumenti d’orchestra e la musica fluiva dal loro animo per penetrare tutto il mio essere.
Mi esaltavo anche quando cantavano il famoso brano dal Trovatore: “Chi del gitano – la vita – abbella…”, perché il signor Cadonati accompagnava il canto con dei colpi ritmati di un martello su una forma di ferro. In quella fucina di attività e di arte, mi sembrava di vivere in un sogno.
Di tanto in tanto attraversava lo stanzone, per andare a distendere nel locale accanto, la sciura Cadonati, la quale, camminando ancheggiante, emetteva delle scorreggette a tempo, ridendo sorniona e compiaciuta.
Le figlie interrompevano il canto e, guardando la madre scandalizzate, le dicevano: “Ma mama, ghè ché la s-cetina, móchela!” Io, invece, mi divertivo un mondo, anzi seguivo la sciura Cadonati e le dicevo: “Dài, signora Cadonati, me ne faccia sentire ancora qualcuna!”, e lei, a comando, dava fiato al suo strumento…
Da allora, quando volevamo divertirci, mia sorella Luisa ed io ci dicevamo: “Andiamo su dalla signora Cadonati a sentire qualche scorreggia!”.
Che risate ci facevamo quando la sciura camminava emettendo i suoi peti! Le sue flatulenze non avevano nulla di volgare, sembravano invece richiami di paperelle smarrite: “qua, quaraqua, qua, squecc…” e altre variazioni simili.
Era un fenomeno e noi ci chiedevamo ammirate come facesse. La sciura ci fece però promettere di non dirlo a nessuno e noi mantenemmo il segreto, altrimenti non ci avrebbe fatto sentire più niente.
Le signorine Cadonati, la sera, uscivano a far le consegne della biancheria stirata e, qualche volta, la nonna ci permetteva di andare con loro.
Per noi bambine, camminare di sera nelle buie stradine di Città Alta, silenziose e deserte, entrare in oscuri androni, salire scale sinuose e strette appena visibili, era una grande e misteriosa scoperta.
Le signorine Cadonati parlavano sottovoce tra di loro, quasi non volessero turbare il magico silenzio della notte e noi bambine ci sentivamo come delle esploratrici in cerca di fantasmi.
Le signorine Cadonati conoscevano tutti in Città Alta e, molte volte, si davano da fare per scoprire i segreti altrui.
Ricorderò sempre una sera nella quale, terminate le consegne, mi fecero percorrere su e giù la Città, per seguire a distanza la signorina Trivella, che abitava come noi in via Rocca al civico 11. La signorina Trivella era una bellissima ragazza con lunghi capelli corvini, che raccoglieva in grosse trecce, molto alta e dal portamento altero, che la faceva sembrare una nobile matrona romana.
Di giorno lavorava e tutte le sere usciva per assistere alle funzioni religiose. Ma quella sera, le signorine Cadonati notarono che la signorina Trivella, finita la funzione, invece di tornare a casa, aveva preso un’altra strada, per cui, mosse da una sana curiosità, si domandarono: “Ndó àla a chèst’ura, al pòst de “ndà a cà… Te edrét che la gà ol murus!” Naturalmente la seguirono per scoprire l’arcano.
La signorina Trivella, dopo aver percorso alcune erte viuzze, entrò in un portone. Le signorine Cadonati si sedettero su un muretto vicino ad aspettare, volevano vedere quando usciva e con chi.
Poco dopo, la signorina Trivella uscì con un bel giovanotto sotto braccio. Le signorine Cadonati, soddisfatte, videro confermati i loro sospetti.
Dai loro discorsi riuscii ad afferrare qualche cosa. Il giovanotto con cui la signorina Trivella si incontrava era un militare della Guardia di Finanza il quale, per una rigida disposizione disciplinare della sua Arma, non avrebbe dovuto avere relazioni sentimentali né avrebbe potuto sposarsi prima dei ventisette anni.
Ecco perché i due giovani innamorati dovevano incontrarsi di nascosto, come se amarsi fosse una colpa.
Le signorine Cadonati, verificata de visu la situazione, tornarono a casa soddisfatte: ora sapevano la verità.
Non si fidavano mai dei pettegolezzi altrui, dovevano andare da sole a fondo della realtà dei fatti. Non erano delle malelingue, la loro curiosità era discreta, non riferivano mai ad altri le loro scoperte, tenevano tutto per sé. Era un innocente passatempo delle due sorelle sempre sole, che le faceva sentire più vicine alla vita degli altri abitanti della Città.
Sapevano tutto di tutti, ma custodivano rispettosamente dentro di sé i segreti intimi della vita di ognuno, come fossero cari parenti. Dalle loro labbra non uscì mai voce malevola o sgradevole.
Le signorine Cadonati, invece, dall’alto del loro abbaino, regalavano tutti i giorni alla Città dolci e armoniose note di poesia, come canori usignoli nel loro nido.
“I Bonacina”
I coniugi Bonacina vivevano accanto alla famiglia Cadonati in un’unica stanza, ma così grande che oggi vi si potrebbe ricavare un comodo appartamento.
Quella stanzona comprendeva tutto: cucina, stanza da letto, soggiorno, arredati con mobili scuri ed austeri, tenuti lucidi come specchi.
Il pavimento di cotto rosso era brillante come un rubino perchè la sciura Bonacina vi camminava sopra solo con pattine incipriate di paraffina.
La sciura Bonacina era un tipo segaligno, alta e magrissima, con capelli tesi e tirati all’insù in uno gnocco arrotolato. Vestiva sempre di nero, in un rigido abito che la costringeva dal mento sino alle caviglie.
Quando usciva di casa, copriva il capo con uno scialle di seta nero d’estate e di lana in inverno.
Come era severo il suo abbigliamento, così era il suo cipiglio. Camminava impettita con lo sguardo fisso davanti a sé, scorbutica nel salutare e senza un sorriso. Detestava ogni esternazione affettiva, detestava carezze e baci perchè per lei erano insulse smancerie. Quando vedeva due persone che si tenevano per mano o in tenero atteggiamento, allontanava lo sguardo, dicendo nauseata: “Che lösòcc!”
Lo zio Vanni, il mio zio “barba”, si divertiva a provocarla facendo le vedere le fotografie di attrici in costume da bagno riprodotte sui giornali (i costumi da bagno di allora lasciavano ben poco alla luce!).
Lei, con disgusto e disprezzo, allontanava il giornale e diceva: “Fam mia èt a mé chèle gioàne, con chèi ciapamèrde!”
Lo zio le girava le spalle e rideva divertito, mentre la sciura Bonacina tratteneva a stento la sua irritazione, forte delle sue convinzioni.
La sciura Bonacina era il classico tipo della bigotta, il cui unico passatempo nella vita fu quello di passare da una chiesa all’altra. Non perdeva una funzione: i primi vespri, i secondi, quelli dei santi, quelli dei martiri, le terze, le seste, le none… senza contare le Messe quotidiane.
Seguiva tutte le processioni e tutti i funerali, anche quelli di persone che non conosceva, disertava solo le cerimonie nuziali perchè per lei erano troppo pagane.
Era una assidua e fervente cattolica, osservante al punto che non solo passava intere giornate in chiesa, ma recitava rosari e litanie anche in casa, dove apparivano crocifissi e santini un po’ in tutti gli angoli.
Questo suo feticismo religioso la rendeva una moralista inflessibile ed intollerante, tant’è vero che i suoi nipoti non andavano mai a trovarla, per non sentire i suoi anatemi e le sue pesanti parole di condanna.
La sciura Bonacina aveva da ridire tutto su di loro: il modo di vestire era indecente, la ragazza si truccava come una p…, non si vedevano mai a messa, frequentavano amici poco raccomandabili…
In realtà la sciura Bonacina esternava cosi la sua forte avversione per la nuora, sposata al suo unico figlio, una simpatica ed estroversa signora toscana che aveva tutt’altre vedute rispetto alla suocera. Di qui, la convinzione della sciura Bonacina che i nipoti non ricevessero una buona educazione e crescessero come dei miscredenti.
Eppure, a me la vecchia Bonacina, benché rustica e scostante, piaceva, salivo di frequente a trovarla ma scappavo via quando cominciava i suoi “De profundis clamavi…”
Anche il signor Bonacina era un personaggio molto interessante, era un bell’uomo alto e impettito, con due grossi baffi che rendevano il suo viso più importante e rispettabile. Indossava sempre dei pantaloni neri alla zuava, infilati in stivaloni aderenti, portava camicie scozzesi sotto un ampio tabarro. Tutte le mattine, all’alba, il signor Bonacina usciva di casa con la doppietta in spalla, per andare a caccia sui Torni o al Pascolo dei Tedeschi o in Castagneta, dove trovava sempre della selvaggina.
Non faceva incetta, si accontentava di cinque o sei uccelletti, che avrebbero costituito il pranzo quotidiano.
Tutti i giorni, infatti, i signori Bonacina mangiavano “polenta e osèi” a mezzogiorno. Alla sera, come cena, poteva bastare una minestrina.
Quando era finito il periodo della caccia, il signor Bonacina si procacciava il cibo andando a funghi e ne prendeva molti, per cui ne poteva mettere da parte una scorta per l’inverno.
Ricordo il caratteristico profumo di funghi che arrivava al naso non appena si entrava in casa dei Bonacina. Per terra, infatti, sui giornali vicino alla finestra, dove batteva il sole, erano distese fettine di funghi a seccare.
Ogni giorno i boschi di Città Alta offrivano delle delizie.
Il signor Bonacina, che era un profondo conoscitore della flora orobica, raccoglieva erbe medicinali e commestibili di ogni tipo: camomilla selvatica per fare tisane, cicoriette tenere e radici amare da fare lesse, germogli da fare in insalata, punte di ortiche per fare frittate e altre erbe buone da consumare che solo lui conosceva.
Insomma, i signori Bonacina compravano solo la farina gialla per fare la polenta perché tutto il rimanente lo offriva la natura, cioè i verdi colli di Città Alta.
Quando arrivava l’autunno, il periodo delle castagne, ne portava a casa a sacchi ed anche quelle diventavano una preziosa scorta per l”inverno. Com’ero grata, quando mi riempivano le tasche del grembiulino con quelle lucide castagne! Per me erano un regalo di grande valore, poiché ci giocavo e poi le mangiavo, anche crude.
Questa singolare coppia di vecchio stampo bergamasco, sotto la scorza di un’apparente rudezza, rivelava battiti di spontanea generosità.
In estate, durante le sue esplorazioni nei boschi, il signor Bonacina raccoglieva delle fragole di bosco piccolissime e profumatissime e le adagiava ordinatamente sopra foglie fresche, che intrecciava a forma di cestino.
Bussava alla nostra porta e, senza dire una parola, metteva il grazioso cestinetto nelle mani della nonna e se ne andava via. La nonna, confusa e commossa per il gentile gesto, gli rivolgeva parole di ringraziamento, ma lui, senza guardarla in faccia e salendo le scale, diceva solo: “Negot, negot…”.
Qualche volta, per non sentirsi in imbarazzo, metteva il cestinetto fuori dalla porta. La nonna capiva che doveva accettare senza troppi complimenti. Il signor Bonacina cosi dimostrava la sua amicizia e la sua simpatia, vero “caràter de la rassa bergamasca: fiama dè rar, ma sota la sender… brasca!”.
Quando il tenero e rustico signor Bonacina mori, la moglie dette prova ancor più della sua fierezza d’animo, non lasciando trasparire ombra di commozione e di dolore. A quanti le rivolgevano parole di cordoglio, laconica e asciutta rispondeva: “al Signùr l’a ülit issé, l’era la sò ura”. Rassegnazione religiosa o straordinaria capacità di dominare i propri sentimenti?
Rimasta vedova, la sciura Bonacina continuò la sua vita tra casa e chiesa. L’unica persona con la quale riuscì ad allacciare un buon rapporto fu mia nonna Anita, da lei molto stimata.
Infatti, tutte le sere, quando tornava dalle funzioni serali, entrava discreta in casa nostra, si sedeva, dava un’occhiata al giornale, commentava le notizie, annusava una presa di tabacco che la nonna le offriva dalla sua tabacchiera, beveva con piacere una tazza di tiglio o di camomilla, poi, al primo rintocco del campanone, si alzava e tornava nel suo rifugio, aspettando sola e dignitosa il suo turno per morire: “Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda”.
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Anna Rosa Galbiati, “Acquarelli Bergamaschi” (Sistema Bibliotecario Urbano – Biblioteca circoscrizionale Gianandrea Gavazzeni, Piazza Mercato delle Scarpe – Città Alta).
I dipinti e i disegni, di Mario Airoldi, sono tratti da: Mario Airoldi, Amanzio Possenti, “Bergamo negli occhi – Armonia di luci ed ombre”. Edotrice Cesare Ferrari, Clusone (Bg), 1986.