Il chiostro di Santa Marta: dall’antico splendore alle suggestioni di oggi

Il cuore pulsante della città si articola in una miriade di strade, viuzze, edifici, piccoli e grandi monumenti, così familiari da consentirci di elencarne mentalmente il susseguirsi.

Ma nel suo trambusto vi è ancora uno scrigno, così raccolto e silenzioso, da sfuggire ai nostri frettolosi sguardi: è il chiostro di S. Marta, uno degli angoli più belli e suggestivi, celato nella galleria incastonata tra le mura del Centro piacentiniano e che sopravvissuto a secoli di turbolente vicende, è ancor’oggi capace di evocare un’atmosfera quasi sacrale.

Piazza Vittorio Emanuele II. A sinistra  della Torre dei Caduti e del Palazzo della ex-Banca Popolare di Bergamo si diparte la galleria aperta tra l’imbocco di via Crispi e la torre, celando al suo interno il chiostro di S. Marta

Dalla dolce armonia delle logge e delle arcate spira ancora un’aria di assorto raccoglimento, acuito dalla posizione appartata che ne fa un luogo insolito e  senza tempo, un’oasi di quiete al centro di un via vai che non conosce sosta.

Il chiostro è quanto sopravvive di un complesso trecentesco di inusitata bellezza, che un tempo era parte integrante di un’articolata struttura sacra comprendente la chiesa e il convento.

Lo sguardo si perde gradevolmente fra colonnati, arcate, capitelli, affreschi e graffiti

Come fu destino di altri monasteri, nel corso del tempo il complesso ha cambiato più volte destinazione d’uso, segnato da un destino multiforme. Basti pensare anche solo al vicino monastero di SS. Lucia e Agata, demolito nel 1825 per edificare il palazzo della famiglia Frizzoni, casata di imprenditori e manifatturieri svizzeri che tra il 1836 e il 1840 vi avevano costruito il palazzo di famiglia (attuale sede del Municipio di Bergamo).

Veduta del tratto nord della Contrada di Prato, verso S. Leonardo, con a sinistra il convento e la chiesa medioevali di S. Lucia e S. Agata e a destra il convento delle suore domenicane di S. Marta, in gran parte demolito nel 1915 per l’edificazione dell’allora Banca Mutua Popolare (incisione realizzata intorno al 1815 – Proprietà Conte G. Piccinelli, Milano)

Il suo splendore fu grande, attraversando secoli intensi e convulsi di storia, fino al Settecento, quando le truppe napoleoniche, nel quadro di una serie di soppressioni dei diritti civili e religiosi compiuti nel nome del “progresso e della libertà”, lo spogliarono della sua funzione iniziale tramutandolo in Caserma e ospedale militare.

Le piante antiche ci restituiscono l’aspetto originario del complesso monastico, che nella Pianta della città e borghi esterni di Bergamo dell‘architetto Giuseppe Manzini del 1816 è indicato come Caserma. Sono ben visibili, a sinistra del grande quadrilatero della vecchia Fiera, i due chiostri di S. Marta

Di lì, in un serrato processo di decadenza, durante il governo austriaco il convento si tramutò in deposito militare e verso la fine dell’Ottocento fu ridotto in parte nuovamente a Caserma e in parte ad albergo.

Luigi Bettinelli – L’assalto alla caserma di S. Marta nel 1848

 

Il complesso di S. Marta. Dietro il coro della chiesa, dopo la soppressione del convento era stato aperto l’albergo Cavour, che fu dismesso tra il 1886 e il  1890 per ampliare la caserma stanziata nei locali del complesso monastico (Racc. Gaffuri

 

Via Roma: l’albergo Cavour, ricavato nel coro della chiesa di S. Marta, poi occupato dal Palazzo della ex Banca Popolare di Bergamo, posto dietro la Torre dei Caduti

Negli anni della prima guerra mondiale, in cui la tanto deprecata tessera razionava il consumo dei viveri, il chiostro e gli edifici annessi ospitarono gli spacci municipali: l’Annona:

“Era grande il via vai faccendiero di chi si recava all’annona a fare provviste: si saliva un paio di bassi gradini prima di entrare sotto il porticato ad archi tondi che ne sosteneva un secondo. La superficie del cortile era a selciato e torno torno girava un basso parapetto. La calce che imbiancava le pareti lasciava scoperti punti dove l’antichità era meglio manifestata attraverso laceri affreschi, scoloriti e indecisi; e l’erba serpeggiava”.
(Domenico Magni)

Mercatino addossato all’esterno del convento di Santa Marta, ora Ubi Banca (Foto Cesare Villa)

Infine, il complesso venne sacrificato alla riqualificazione dell’area con la costruzione del Centro piacentiniano, e ciò a partire dal 1915, quando fu pietosamente abbattuta la chiesa e parzialmente demolito il monastero, ormai trasandato e deperito.

La demolizione della chiesa di S. Marta

Il chiostro, risparmiato alla furia del piccone venne  acquisito dalla  Banca Bergamasca di Depositi e Conti Correnti (poi intitolata alla Milano Assicurazioni ed infine alla Banca Popolare di Bergamo), che ne impedì il degrado attraverso il restauro compiuto nel 1926 dall’ing. Luigi Angelini, uno dei più autorevoli e fecondi professionisti bergamaschi della prima metà del XX secolo.

La Banca Bergamasca, oggi sede dell’Ubi Banca

Questi, dopo l’abbattimento di casa Caffi per l’apertura della radiale S. Marta-Rotonda dei Mille, con una trovata urbanistica geniale propose la sistemazione di un nuovo passaggio, creando la galleria che collega l’imbocco di via Crispi (lato Sentierone) con piazza Vittorio Veneto.

Casa Caffi, abbattuta nel 1922 per l’apertura della radiale S. Marta-Rotonda dei Mille, attuale via Crispi

Fu così risparmiato l’isolamento del luogo, schiudendo alla città il chiostro con la sequenza armoniosa delle arcate che si susseguono fra le logge quattrocentesche, ponendo fine alle molte polemiche legate a quella di facciata che era stata proposta da Piacentini.

Il chiostro di S. Marta e  la sede della Ubi Banca sullo sfondo. La disposizione di porticati a loggia sovrapposti, ricalca la semplicità delle sue prime proprietarie, che preferirono uno stile sobrio, semplice e lineare. L’inevitabile usura del tempo e degli agenti atmosferici ha richiesto un secondo intervento di restauro, terminato nel 1991, affidato all’architetto Sandro Angelini, figlio dell’ideatore del progetto della galleria

Con la sua bellezza e la raccolta intimità, il chiostro si fonde armoniosamente agli effetti di luce, ai chiaroscuri, alle simmetrie equilibrate create dalle piazze, dai porticati e dai passaggi circostanti, accrescendo il valore estetico e lo spessore storico nello spazio del centro progettato da Piacentini.

 

UN TUFFO NEL PASSATO

“Nel silenzio S. Marta è nata, nel silenzio, senza clamori,

sembrava essersi appassita per lunghi secoli,

nel silenzio, ancora, esprime oggi la sua dolce elegia,

con una delicatezza che potremmo definire congenita,

quasi a non voler turbare i nostri passi:

l’importante è sapere che c’è,

che le sue pietre respirano ancora,

come un magico cuore nel cuore della città…”.

(F. Carpinteri, Il chiostro oltre la grata)

Il complesso domenicano di S. Marta aveva visto la luce dopo l’avvento della Signoria viscontea, in un periodo in bilico tra le lotte intestine delle grandi casate dei ghibellini e dei guelfi che avevano cristallizzato lo sviluppo del centro direzionale (città alta, dove nei quartieri nobili si moltiplicavano torri e case fortificate) e il diffondersi della ricchezza in Italia, con lo sviluppo dei commerci, che a Bergamo vedeva fiorire l’attività mercantile e  prevalere il ceto borghese.

Nonostante i gravi conflitti che opprimevano la vita cittadina, la città bassa esprimeva una forte vitalità ed un progresso costante e la Fiera diveniva sempre più vivace e redditizia.

Su di una parete del chiostro di S. Marta compare affrescato Il Disegno dell’Insigne Fabrica della Fiera di Bergamo (1732- 1739), ricavato da un’incisione all’acquaforte di Gaetano Le Poer conservato presso la Biblioteca A. Mai di Bergamo, nella Raccolta Gaffuri

In questo clima, angustiato dalle lotte di fazione e segnato da una cruda e serrata competizione economica, molte persone trovavano nella quiete del chiostro una risposta all’angoscia della loro esistenza.

“Facciata della Chiesa e quartiere di S.ta Marta – dopo la riduzione del presente anno. Colta dal vero da N. Mangili il 24 novembre 1886 per….” (disegno a matita)

Lungo il corso del Trecento la città si costellava così di nuove sedi conventuali, che si affiancavano al discreto numero dei preesistenti conventi benedettini: gli Umiliati, già stanziati alla Magione (Masone) e a S. Bartolomeo, si insediarono a S. Tommaso; i Francescani, già stanziati al monastero di S. Francesco presso la Rocca, si insediarono alle Grazie, alla Rocchetta e a Rosate; i Domenicani, da tempo stanziati a S. Stefano al Fortino, si insediarono anche al Matris Domini, a Santa Marta e a Santa Lucia; gli Eremitani a Sant’Agostino; iDisciplini Bianchi alla Maddalena; i Celestini a Santo Spirito e in borgo Santa Caterina (1).

Fu in questo clima che nacquero la chiesa e il convento che le Suore Domenicane vollero dedicare a S. Marta, da sempre, con il fratello Lazzaro, la santa “ospedaliera” per eccellenza, per aver sperimentato la malattia suprema (la morte) e la guarigione (la resurrezione di Lazzaro), per via della loro opera di assistenza ai malati. E benchè non vi siano notizie certe, sembra che in epoca protocristiana la zona scelta fosse adibita ad ospedale (2).

Il monastero di S. Marta è dunque il terzo dell’Ordine domenicano a Bergamo, dopo quello maschile di S. Stefano del 1226 e quello femminile di S. Maria Matris Domini del 1273.

Possiamo osservarlo nella veduta prospettica di Alvise Cima, che fedelmente ci restituisce l’immagine della Bergamo medioevale, dove il convento sembra essere il perno attorno a cui ruotano tutte le vie che si diramano per raggiungere il cuore del borgo S. Leonardo.

Porzione della veduta prospettica di Alvise Cima, da Borgo S. Leonardo a S. Marta, compresi nella cerchia medioevale delle Muraine

Il monastero, fondato attorno al 1340, fu ampliato nel Quattrocento per poter ospitare fino a cinquanta consacrate domenicane, mentre la chiesa fu consacrata nel 1357.

Particolare della Contrada di Prato (attuale Piazza Matteotti) intorno al 1815 (Racc, Conte G, Piccinelli), con il Convento delle Suore Domenicane di S. Marta

Secondo le fonti, era composto da due grandi chiostri dai lunghi colonnati, di cui quello quadrato grande corrisponde a quello che vediamo oggi, reso rettangolare  dai restauri e dalle integrazioni compiute da Luigi Angelini negli anni Venti del Novecento.

Le trasformazioni subite dal complesso monastico sono illustrate in un affresco presente sulle pareti del chiostro.

“Come era il Convento di S. Marta in Bergamo”. Pianta e prospetto del complesso di S. Marta, con le trasformazioni avvenute nel tempo. L’affresco compare su una parete del chiostro

Vi era inoltre una vastissima ortaglia estesa dalle mura fino a all’ospedale di S. Antonio nel prato di Sant’Alessandro, con viti, alberi da frutto e varie altre coltivazioni, solcata da una seriola “che permetteva la presenza nei pressi di filatoi, tintorie e mulini” (3).

Particolare nella veduta di Alvise Cima, conservata presso il Museo Storico di Bergamo sito in Piazza Vecchia. Il complesso monastico di S. Marta è orientato ad est come qualsiasi sito di culto in Medioevo. Sono raffigurati i due chiostri, mentre la chiesa risulta priva del portichetto antistante l’ingresso, documentato nel 1720. La vasta ortaglia di pertinenza è attraversata da una seriola

La chiesa, che assunse la sua forma definitiva nel 1637, raccoglieva diverse reliquie provenienti anche dal complesso domenicano maschile di S. Stefano, (demolito per la costruzione delle mura veneziane), ed era ricca di paramenti e decori anche grazie alle facoltose famiglie delle religiose che provvedevano a sostenerne le spese o a fare ingenti donazioni (4).

L’interno della bella chiesa di S. Marta nell’Ottocento, nel periodo in cui era stata trasformata in caserma (per l’immagine: M. Mencaroni Zoppetti, cit. in bibliografia)

 

L’interno della chiesa di S. Marta nell’Ottocento, nel periodo in cui era stata trasformata in caserma (per l’immagine: M. Mencaroni Zoppetti, cit. in bibliografia)

Il porticato in fronte la facciata della chiesa le venne aggiunto nel 1672. Lo ritroviamo ancora in alcune fotografie risalente ai primi del Novecento, accanto al Boschetto di Santa Marta.

Primi del Novecento. Parte del complesso di S. Marta visto da piazza Cavour, con il portichetto antistante la chiesa. A destra, il boschetto di S. Marta (Bergamo nelle vecchie cartoline, D. Lucchetti)

Nel 1915, al momento della demolizione dell’ex monastero la Banca Bergamasca  provvide a recuperare e catalogare gli antichi affreschi della chiesa. Oggi, tre strappi sono esposti lungo le pareti dal Salone delle Capriate, nel Palazzo della Ragione in Piazza Vecchia, mentre i rimanenti sono conservati negli uffici e nel chiostro dell’Ubi Banca in Viale Roma.

Uno strappo di decorazione muraria di fine ‘300 presente sulle pareti del chiostro di S. Marta

 

PASSEGGIANDO FINO AL CHIOSTRO

La breve passeggiata che separa i portici di Piazza Vittorio Emanuele II dalla galleria è un’esperienza sensoriale che val la pena di essere vissuta. La piazza,  un’estensione naturale del Sentierone, riecheggia con la lunga sequenza dei suoi porticati le archeggiature settecentesche della demolita Fiera, affacciata su quello che un tempo era chiamato Prato di Sant’Alessandro.

Accanto all’imbocco della galleria noterete l’ingresso della Banca Popolare, ora Ubi Banca, che invita ad ammirare i vasti interni illuminati da ampie vetrate decorate. Ad oggi resta una tra le più rappresentative, ospitando pregevoli opere di artisti bergamaschi dell’800 e del ‘900, oltre a significativi lavori di artisti moderni contemporanei.

Il nuovo salone della ex Banca Popolare di Bergamo, ampliato ad opera dell’ingegnere ed architetto Luigi Angelini, fu aperto nel dicembre del 1923. All’interno della Sede si può ammirare un particolare spazio dedicato, una sorta di museo itinerante dove vengono sapientemente collocati a rotazione alcuni fra i più importanti capolavori artistici di proprietà della Banca

Le emozioni che vi attendono, sono anticipate da un caleidoscopio di impressioni suscitate dall’ariosa ed elegante galleria, impreziosita da marmi lucenti e da ampi lucernari, che sprigionano una luce calda gradevole e avvolgente.

La galleria di Santa Marta

 

Un lucernario nella galleria

A poco a poco vi si svelerà l’ingresso appartato del chiostro, che vi trasmetterà la sensazione di trovarvi in un luogo dove il tempo si è fermato; la Banca Popolare lo rende accessibile gratuitamente ogni prima domenica del mese, mettendo a disposizione anche una guida per una visita della durata di 15 minuti.

Uno dei tanti allestimenti artistici temporanei ospitati nel chiostro di S. Marta

E’ un’occasione per ammirare le antiche testimonianze storiche, artistiche e culturali custodite sulle pareti, così come le installazioni permanenti che dall’incontro con questo luogo risultano pienamente valorizzate: il “Grande Cardinale seduto” (1984) di Giacomo Manzù  (tema sviluppato dallo scultore in oltre 300 rappresentazioni), “Le Suore che comunicano” (1971) di Elia Ajolfi (gia’ docente di scultura alla Carrara), e il curioso monolite di granito nero “Untitled” o “Parabola” (2004) dell’artista anglo-indiano Anish Kapoor, dove il contemporaneo rispecchia e fa rilucere l’antico.

Le installazioni permanenti realizzate per il chiostro da Giacomo Manzù, Elia Ajolfi e Anish Kapoor. Con l’essenzialità della sua forma, il monolite (“Parabola”), grande conca specchiante, si inserisce armoniosamente nel sobrio spazio quattrocentesco riflettendo i colonnati e restituendone al visitatore, affascinato dai bagliori che produce, l’immagine capovolta

 

Il gruppo de “Le suore che comunicano”, rievoca un momento della antica vita quotidiana delle monache nel Convento. Sullo sfondo, l’opera di Manzù

Qualsiasi momento della giornata val bene una sosta, in questo piccolo angolo segreto che sembra voler invitare a non dimenticare il proprio passato: anche la sera, quando è totalmente immerso nel silenzio e nell’atmosfera irreale delle sue luci soffuse.

Note

(1) A. Fumagalli, Op. Cit.

(2) F. Carpinteri, Op. Cit.

(3) T. Rossi, Op. Cit.

(4) T. Rossi, Op. Cit.

Fonti

Alberto Fumagalli, “Bergamo. Origini e vicende storiche del centro antico”. Rusconi, 1981, Milano.

Tosca Rossi, “A volo d’uccello – Bergamo nelle vedute di Alvise Cima – Analisi della rappresentazione della città trà XVI e XVIII secolo”, Litostampa, Bergamo, 2012.

Francesco Carpinteri, “Il chiostro oltre la grata”. Qui a Bergamo: mensile della città, Anno 1, n. 6.

Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

Il boschetto di Santa Marta e l’ippocastano che non c’è più

Ai giorni nostri il Sentierone è una lunga ed elegante vetrina che siamo soliti attraversare in fretta, ma un tempo era un luogo d’incontro dove tutto invitava a rallentare il passo.

Il viale Vittorio Emanuele – così si chiamava la Strada Ferdinandea dopo l’Unità d’Italia – era diviso a metà da un lato dall’antica Fiera, un grande centro commerciale ante litteram nel cuore della città, e, dall’altro, dal “Boschetto” di Santa Marta, un rigoglioso triangolo verde compreso tra il il lungo viale e via XX Settembre, che si allungava verso via Borfuro all’altezza del monumento di Lorenzo Mascheroni.

Inizi Novecento, Porta Nuova: la Strada Ferdinandea, così chiamata in omaggio all’imperatore austriaco ed alla sua visita in città, avvenuta nel 1838

Al soleggiato Sentierone e al trambusto della Fiera, luogo di contrattazioni e divertimenti, si contrapponeva il verde cupo del boschetto che per quasi un secolo ha ristorato intere generazioni di borghigiani e persino, in più occasioni, gli invasori, specie dopo la ripiantumazione nel 1849 della sua metà inferiore verso lo sbocco di via Borfuro.

1920: Piazza Cavour e il Boschetto di Santa Marta, per quasi un secolo luogo di ritrovo estivo alla cui ombra si ripararono passanti e perditempo. A sinistra, il busto di Lorenzo Mascheroni, inaugurato nel settembre del 1897

Fittamente piantato a ippocastani, il “Boschetto” celava al suo interno la chiesa e il monastero trecenteschi delle Domenicane, custodendo sotto la sua ombra discreta anche alcuni di quei monumenti che ora si trovano sparsi nel centro cittadino: quello di Cavour, quello di Lorenzo Mascheroni e l’obelisco, svettante altissimo nell’attuale piazza Vittorio Veneto.

Il monumento marmoreo a Cavour, inaugurato nel 1913 dal re Vittorio Emanuele III, cambiò più volte domicilio essendo stato persino nei giardinetti presso il Municipio vecchio, “coperto di una leggera patina verde-vergogna” (Luigi Pelandi). Accanto, è ancora visibile il portico della chiesa di S. Marta

 

La chiesa e il Boschetto di S. Marta, con  il busto eretto alla memoria di Lorenzo Mascheroni

L’obelisco, che tutti credono attribuito a Napoleone Bonaparte, in realtà era stato eretto in precedenza in onore del podestà e vice capitano della Repubblica Veneta  Gianfranco Correr (che in quel periodo stava lasciando la città), per essersi tanto prodigato durante la grave carestia del 1775. A seguito dell’invasione francese del 1797 l’obelisco venne dedicato a Napoleone, ma nel 1801, con l’occupazione austro-russa della città, l’intestazione venne rimossa. In seguito, il ritorno delle truppe francesi in Bergamo riportò il nome di Napoleone sull’obelisco dal quale peraltro venne cancellato intorno al 1815.

Trafiletto tratto da “Un giorno a Bergamo, guida della città”, 1892

Ma le peripezie dell’intitolazione non finiscono qui e  il seguito lo scopriremo presto.

Piazza Vittorio Veneto con l’Obelisco dedicato “A Bonaparte l’Italico 1797”. L’attuale medaglione che decora il dado del basamento è opera di Costante Coter ed è stato posto soltanto nel 1939

Nel bel mezzo del “Boschetto”, ch’era liberamente aperto a tutti, per anni aveva dimorato una famiglia di girovaghi con una carrozza sgangherata. E a dimostrazione della libertà concessa al luogo, il ramaio Cornali, che qui aveva la sua bottega, era solito appendere sui rami degli ippocastani le gabbie dei volatili che catturava: un piccolo arbitrio sul quale il Comune chiudeva un occhio.

Acquaforte di Sandro Angelini (“Bergamo d’altri tempi” – Istituto Italiano d’Arti Grafiche – Bergamo).

Al boschetto era stata anche eretta la prima edicola della città e verso il 1875 si era stanziato con un chiosco-baraccone il libraio Bortolo Fantini detto Ol Barbù, un tipo bonario, gran compratore e rivenditore di libri usati, presso cui talvolta si poteva acquistare a buon mercato qualche antica edizione abbastanza rara. Con i suoi libri il buon Fantini aveva così istituito una biblioteca circolante.

“Boschetto di S.ta Marta visto dal lato ovest. 1887”. Disegno a matita

Ma in una brutta notte primaverile del 1884 un incendio gli portò via ogni cosa e da allora dovette arrangiarsi a vendere merce di vario genere, aggirandosi col suo carretto.

Nelle sere d’estate, Bernardo Moro, detto Pèia, allestiva ai confini del boschetto la sua  baracca di burattini; durante gli intervalli la moglie passava fra il pubblico porgendo in una mano il bussolotto per raccogliere le offerte e reggendo con l’altra una lanterna.

Quest’angolo della Bergamo dell’Ottocento è rappresentato in un quadro del pittore Gabriele Rosa, con la baracca tra i cittadini che frequentavano il passeggio sul quale si affacciavano gli edifici affastellati attorno all’antica Fiera, con i suoi variopinti Caffè.

La baracca di Bernardo Moro nella più antica testimonianza del teatro dei burattini a Bergamo in un dipinto di Gabriele Rosa del 1840, intitolato “Spettacolo di burattini sul Sentierone durante la Fiera di Sant’Alessandro”

Questo stato di grazia perdurò fino a che, all’inizio degli anni Venti, non si avviarono le demolizioni nell’area per far posto agli edifici del centro piacentiniano.

Bergamo, 1922-1924: una fase della demolizione degli edifici dell’antica Fiera, per far posto al nuovo centro di Città Bassa progettato dal giovane architetto romano Marcello Piacentini

Insieme agli edifici della Fiera si decise di abbattere anche il Boschetto di Santa Marta e con esso il “piantù”, uno splendido esemplare di ippocastano cresciuto regolarmente, come natura comanda, senza alcun taglio dei rami alla base ed altre riduzioni alla chioma, e di cui solo le immagini possono restituirci  la bellezza e la maestosità.

Il maestoso ippocastano che svettava sul Sentierone accanto al complesso di S. Marta, abbattuto il 19 novembre del 1923 a seguito dell’apertura di via Crispi e della realizzazione della Banca Bergamasca, che prese il posto del demolito complesso conventuale (Raccolta Lucchetti)

Furono in molti in quel 1923 a chiedere che “ol piantù” fosse risparmiato, ma non vi furono ragioni: l’abbattimento dell’amato monumento verde, che era stato il simbolo di un’epoca e di un luogo, lasciò un vuoto incolmabile  nell’animo dei Bergamaschi.

“Era l’ultimo testimone vivente del buon tempo passato: all’ombra ristoratrice dei suoi rami fronzuti, quante generazioni avevano riposato, ed avevano sognato!

Fanciulli, si giocava a rimpiattino dietro l’enorme tronco; giovanotti, si faceva all’amor platonico con la morosetta del core; vecchi, si rievocava il passato, chiacchierando, fra una pipata e l’altra! Povero, grande amico piantone! Se n’è andato andato anche lui…” (Sereno Locatelli Milesi).

L’abbattimento del “piantù”, avvenuto il 19 novembre del 1923 fra il commosso rimpianto della cittadinanza. Alle sua spalle l’obelisco e la Torre dei Caduti in costruzione

Tutti rimpiansero le quiete passeggiate sul Sentierone, gli assolati pomeriggi estivi trascorsi nella gradevole penombra del boschetto e le lunghe serate passate chiacchierando con gli amici sotto le enormi fronde di quello che tutti ormai chiamavano ol piantù.

In quell’occasione, anche “La Rivista di Bergamo” diede voce all’ippocastano sacrificato:

“Bergamaschi carissimi, sono il più formidabile campione degli ippocastani di secolari memorie che stano cadendo sotto la scure. Quale sventura! Sotto l’ombra ospitale dei nostri rami quanti tra voi, grandi e piccini, avete trascorso ore serene di riposo, soprattutto in estate. Ed è questa la vostra riconoscenza? Stiamo cadendo sotto i colpi della scure uno dopo l’altro; fino a ieri avevamo però sperato di non essere tutti sacrificati alle nuove bellezze edilizie di Bergamo. Invece non c’è pietà. Addio, boschetto di Santa Marta! Lo confesso: egoisticamente mi illudevo che le mie maestose forme e lo splendore candido della mia veste quandè primavera bastassero a salvarmi; e mi ero rassegnato ad assistere impotente alla fine dei miei confratelli. Invece, toccherà anche a me. Qui tra l’altro Bergamo mi volle quando non contava più di trentamila anime; e ora i suoi sessantamila abitanti mi sopprimono. Ma lasciatemelo dire: prima della fine di questo secolo, allorquando i cittadini saranno centoventimila, io sarei salito tanto alto nel cielo da costituire, con numerosi figli miei, il più meraviglioso ornamento della natura di Bergamo. Peccato, centomila volte peccato” (1).

Così, quando si decise di abbattere anche l’ultimo albero superstite del Boschetto per far posto a una una banca, anche il “Merica”, famoso cantastorie di Bergamo, si sbizzarrì dedicandogli una delle sue canzoni più accorate.

Su questo terreno si era deciso di costruire la sede della Banca Bergamasca di Depositi e Conti Correnti, abbattendo sia il boschetto che gran parte del convento di Santa Marta, di cui fortunatamente si salvò il chiostro, oggi celato nell’elegante galleria omonima.

Febbraio 1923: la posa della prima pietra della Banca Bergamasca, nella zona di S. Marta. A edificio ultimato, la cerimonia di inaugurazione, prevista per i primi giorni del mese, fu rimandata in segno di lutto dopo il disastro della diga del Gleno, avvenuto proprio il primo dicembre

La costruzione della banca rientrava nella seconda fase dei lavori per il nuovo centro: un lotto che coprì 2383 metri quadri dell’area e si elevò sino a quattro piani fuori terra (oltre gli ammezzati), con portici su tutti e quattro i lati e con una spesa iniziale prevista di tre milioni e mezzo, da ultimarsi in tre anni.

Un carro della Ote, con un grosso trasformatore elettrico, verosimilmente avviato verso la stazione ferroviaria, si ferma per una foto ricordo davanti alla Torre dei Caduti di nuova costruzione, affiancata sulla destra dal palazzo già della Banca Bergamasca (ora Ubi Banca), inaugurato nel 1926 su progetto di Marcello Piacentini ma affidata a Giovanni Muzio per l’architettura e la decorazione interna

Già nel 1924 il nuovo centro aveva assunto un carattere che lasciava intravedere, sull’area del vecchio Prato di S. Alessandro, il suo armonioso ed elegante aspetto.

Nella aerofotografia del 1924 il centro piacentiniano si avvia a compimento: sono costruite la Banca d’Italia e la Torre dei Caduti (di Marcello Piacentini), la Camera di Commercio (di Luigi Angelini); nel 1925 sarà aperto il blocco di edifici sul Sentierone (di Marcello Piacentini). E’ in costruzione il Palazzo di Giustizia (di Marcello Piacentini, con la direzione di Ernesto Suardo). Accanto al Palazzo di Giustizia, di fronte al Teatro Nuovo, tra il 1927 e il 1928, sarà costruito quello che doveva essere il Palazzo delle Poste e Telegrafi (di Marcello Piacentini)-(M. Mencaroni Zoppetti – a cura di – L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo)

A sancire il nuovo status politico-urbanistico di Bergamo Bassa, si elevava la Torre dei Caduti, dedicata alla memoria e all’onore dei caduti bergamaschi e costruita anche per esaltare e consolidare il nazionalismo unitario, come esplicitamente detto nel discorso di inaugurazione pronunciato da Mussolini il 27 ottobre 1924.

La messa in opera sulla torre dei Caduti della statua della Vittoria, opera dello scultore Faino (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

 

Lo scenografico balcone della Torre dei Caduti nel giorno della sua inaugurazione, il 27/10/1924, avvenuta alla presenza di Mussolini. Nell’immagine figura anche Antonio Locatelli, non ancora podestà di Bergamo (Archivio fotografico – Fondazione Bergamo nella Storia)

 

Il bagno di folla di Benito Mussolini, attorniato dalle autorità militari e civili, dopo l’inaugurazione della Torre dei Caduti, destinata a diventare il simbolo di Città Bassa (Archivio fotografico – Fondazione Bergamo nella Storia)

Il gioiellino che aveva preso il posto dell’amato giardino entrò cosi a far parte del nuovo centro, ormai affacciato alla “modernità”. Bergamo perdeva il suo Boschetto, ma grazie alla lungimiranza dei progettisti e degli amministratori dell’epoca, lasciava ai posteri una magnifica, invidiabile vista su Città Alta.

1930 circa: “Il nuovo centro della fiera”. “Schierata e raggruppata sulle sue splendide mura come un diadema su una nobile fronte. ella pare dire al Borgo che sta ai suoi piedi, sempre più ricco, sempre più prosperoso di industrie e di commerci: ‘Tu trionferai a patto che io sia in vista. Più diverrai possente e più vorrai evitare l’onta e il danno de i tuoi abitatori, alzando gli occhi, non vedano più la Madre’. E il comandamento è stato obbedito. E ora, man mano che i lavori si avviano a soluzione, il progetto Piacentini dà al nuovo centro un aspetto architettonico abbastanza sobrio per evitare ogni contrasto sgradevole con la scena squisitamente pittoresca dell’altura” (Ettore ]anni, per “Emporium”)-(Ph “Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

 

Note

(1) Dal numero di settembre-ottobre del 1923, “La Rivista di Bergamo”.

Riferimenti

“Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

“La Rivista di Bergamo”, numero di settembre-ottobre del 1923

“Bergamo di una volta”, Umberto Zanetti. Ed. Il Conventino.

Il Santuario di Sombreno e i nuovi affreschi tornati alla luce

Collocato in posizione dominante sull’estremo sperone occidentale dei colli di Bergamo, il Santuario di Sombreno (m. 329 s.l.m.) costituisce una presenza emblematica non solo dal punto di vista religioso, storico e culturale ma anche paesaggistico, con l’altissimo campanile che funge da essenziale perno visivo nel Parco dei Colli e rende il profilo del Santuario facilmente riconoscibile da lontano.

Il Santuario di Sombreno nel 1922. Il campanile e il Santuario sono stati evidenziati nel rilievo del territorio di Bergamo eseguito nel 1569 dal cartografo veronese Cristoforo Sorte per incarico della Magnifica Comunità di Bergamo

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini 

COME RAGGIUNGERE IL SANTUARIO

Il collegamento veicolare verso il Santuario avviene mediante una carrozzabile (via Castellina, realizzata grazie all’intervento del Genio Zappatori nel 1936), che dal paese si avvia con stretti tornanti verso un ampio piazzale in terra battuta, posto all’ombra di maestose querce.

Ma vi è un percorso ideale e dal sapore agreste, immerso nella quiete della gradinata alle spalle di Villa Agliardi, che conduce dolcemente alla vetta.

La pendice meridionale del colle di Sombreno, con vista sulla torretta seicentesca. Il versante è completamente ripulito dalle sterpaglie che lo soffocavano

La bellezza di questo antico e soleggiato percorso rappresenta la miglior prospettiva per gustare i più mirabili scorci sulla Val Breno e su Villa Pesenti-Agliardi, che con l’annesso parco costituisce una delle mete privilegiate di questi luoghi.

Dalle pendici del colle, Villa Agliardi immersa nelle prime coloriture autunnali

L’ascesa invita alla contemplazione e alla meditazione, scandita dalle sette cappellette devozionali dei misteri dolorosi di Maria presenti dal 1920 e più recentemente affrescate da artisti locali.

La sinuosa e comoda via gradinata acciottolata, un invito alla contemplazione e al raccoglimento

 

La torre seicentesca del Lazzaretto, parte del sistema difensivo del castello

 

Alle spalle della cappelletta devozionale, il paesaggio sulla Val Breno sino alle propaggini collinari di Mozzo ed oltre

Al termine della salita, solo un ultimo breve tratto separa il visitatore dal portale d’accesso, sormontato da una lunetta in stucco raffigurante il Padre Eterno benedicente.

Il portale  d’accesso al Santuario, sormontato da una lunetta con il Padre Eterno benedicente (Ph Maurizio Scalvini)

Dal Santuario, eretto su un terrapieno in pietra squadrata adagiato sul poggio dominante la Val Breno, la vista gode di un vasto panorama che spazia dal Canto Alto e dall’Ubione alle cime della Roncola, del Linzone e dell’Albenza e della Val San Martino.

La veduta verso oriente, dal porticato antistante la cappella dell’Addolorata

Non appena varcato l’accesso, si incontra dapprima il piccolo Santuario dedicato alla Madonna Addolorata – la struttura da cui ha avuto origine il complesso sacro -, che sul quattro e Cinquecento venne affiancato ad una chiesa più grande, quella della Natività di Maria Santissima, in grado di contenere un maggior numero di fedeli.

Ad ovest del complesso sorge la chiesa dedicata alla Natività di Maria Santissima, accostata dal 1493 alla cappella dell’Addolorata. Le due costruzioni sono legate armonicamente tra loro da un portico ad archi ribassati sostenuto da colonne binate in arenaria, realizzato agli inizi del Settecento, mentre il portico antistante la chiesetta, più recente, risale al 1832 (Ph Maurizio Scalvini)

La chiesetta dell’Addolorata era in origine l’antica cappella del castello di Breno (una fortificazione che, come accennato qui, fungeva da avamposto del sistema difensivo organizzato sul crinale del colle fino a San Vigilio (1)) e, secondo il Fornoni, fu  la prima ad ottenere il battistero divenendo parrocchia anche per le vicinie di Paladina e Ossanesga, fino alla metà del XVI secolo (2).

La troviamo nominata per la prima volta in un atto del 1093 come antica cappella battesimale di Santa Maria di Breno, benchè si pensi che le sue origini siano assai più antiche.

La cappella dell’Addolorata (Ph Maurizio Scalvini)

La chiesa – passata dal 1267 alla Chiesa di Bergamo – si può considerare ancora abbastanza primitiva, anche se è piuttosto difficile stabilire quanto conservi, o ricalchi nei suoi andamenti, della preesistente fortificazione.

Cronologia costruttiva della cappella dell’Addolorata e della chiesa della Natività di Maria Santissima. In corrispondenza della cappella si nota la presenza di murature risalenti al XII secolo, un residuo dell’antica struttura (P. GRITTI, 1989)

L’impianto attuale è trecentesco, con massicci interventi effettuati in stile barocco agli inizi del Settecento. Gli intonaci mostrano tracce di primitivi affreschi.

A destra, uno dei primitivi affreschi (Ph Maurizio Scalvini)

 

Particolare di un affresco (Ph Maurizio Scalvini)

LA CHIESA MAGGIORE

La chiesa maggiore, nota anche per l’osso di cetaceo appeso al soffitto e recentemente analizzato, è stata edificata negli anni tra il 1493 e il 1570 ma l’interno è stato profondamente rinnovato a partire dal 1613 in seguito alla visita pastorale del vescovo Emo.

L’edificio è sorto in seguito ad una supplica inviata dagli uomini e dai vicini di Breno ai Rettori della città di Bergamo, considerata ormai inadeguata l’antica cappella del castello per accogliere il popolo che vi confluiva.

Gettate le fondazioni e i pilastri della “tribuna” con materiale ottenuto dalle demolizioni di quanto rimaneva del vecchio e ormai inservibile castello (3), si attese il benestare dei Rettori (il Podestà di Bergamo Francesco Mocenigo e il Capitano Matteo Lauredano), che il 14 agosto del 1493 concessero l’autorizzazione a procedere, secondo dettagliate indicazioni ed invitando  ad osservare la massima economia possibile (la chiesa fu infatti costruita con l’oblazione e le elemosine di tutta la diocesi bergamasca).

Paliotto in cuoio dell’altare maggiore raffigurante la Natività di Maria

La costruzione della chiesa prende avvio nel 1494 sotto la guida del Presbitero Gasparino de Nervis (che resse la parrocchia negli anni 1494-1533) (4), con il quale si procede ad affrescare le pareti con immagini di tipo votivo (che vedremo in un secondo momento). Ma a causa della grande povertà che affligge la maggioranza della popolazione, la chiesa (e con essa il campanile) verrà terminata soltanto verso il 1570 sotto la guida del parroco Jo. Battista de Solario, che la governa dal 1534 al 1586 ossia per ben 53 anni. Altre opere di completamento e di sistemazione del Santuario inizieranno nel 1710, protraendosi sino ai primi decenni del Novecento.

La chiesa dedicata alla Natività di Maria Santissima, edificata dal 1493 al 1570 (Ph Maurizio Scalvini)

 

Il campanile fu innalzato fra il 1561 e il 1569, quando vi venne posta la campana acquistata con l’offerta dei devoti di Sombreno. Esso fu posto fra le due chiese per economia e comodità. Infatti unita alla chiesetta vi era la casa del Parroco, divenuta dal Quattrocento abitazione dei Romiti, che potevano facilmente raggiungere il campanile e controllare simultaneamente le due chiese. Al 1878- 1879 risale il rifacimento della cuspide  nonché l’installazione della statua in rame dell’Immacolata. L’orologio vi fu collocato nel 1925 (Ph Maurizio Scalvini)

La forma, le dimensioni, la struttura portante e il tipo di copertura dell’attuale “chiesa grande”, rispecchiano le indicazioni allegate all’autorizzazione del 1493: una sola navata con due archi ogivali trasversali che la dividono in tre campate, sulle quali sono posti travetti in legno e piastrelle in cotto.

Inoltre, l’altare maggiore, posto in asse centrale e a base quadrata, e due altari posti sui fronti laterali del presbiterio: l’Altare di S. Rocco e quello di S. Caterina.

Ai tempi della visita pastorale del vescovo S. Carlo Borromeo (1575), la chiesa risulta ampia (lunga passi 32 e larga 13) e con quattro altari: il maggiore, S. Rocco, S. Caterina e quello, costruito recentemente dal parroco Solario, della Madonna di Loreto.

Dagli atti della visita di S. Carlo emerge la sensazione di un certo abbandono delle due chiese sul monte, forse dovuto al fatto che, con l’avvento del Solario, nonostante la chiesa di S. Maria non avesse cessato di essere la parrocchiale, la cura d’anime cominciava a esercitarsi nella chiesa dei SS. Fermo e Rustico, dove si conservava il SS. Sacramento, si trovavano gli olii Santi e le solite funzioni parrocchiali, e dove fu trasferito anche il fonte battesimale (Rota).

Borromeo ordina quindi la modifica dell’altare maggiore nella forma richiesta dalle nuove disposizioni, l’eliminazione dell’altare di S. Maria di Loreto, e la modifica degli altari e delle cappelle.

Veduta del presbiterio e degli altari laterali della Chiesa Nuova, con gli stucchi e i quadri seicenteschi. Il presbiterio è stato alzato agli inizi del Seicento, quando la volta a botte ha sostituito l’originaria volta a crociera e si è aperta la finestra ad arco di tipo palladiano

La vecchia chiesetta di S. Maria,  piccola e con un unico altare, necessitava invece della riparazione delle volte e della modifica dell’altare secondo le nuove disposizioni.

Dopo il 1575 l’altare della chiesa dell’Addolorata viene modificato secondo le disposizioni di S. Carlo Borromeo, con ai lati pilastri in pietra arenaria di finissima fattura. La copertura era lignea. La volta attuale così come l’altare in marmo nero risalgono al 1710, quando vi vennero collocati i quadri dei dolori di Maria. Le decorazioni interne sono ottocentesche e l’affresco della Madonna dei Servi di Maria è del 1853, anno cui si fa risalire l’acquisizione dei due quadri di Francesco Vigna esposti alle pareti

Nel frattempo, intorno al 1563, Solario aveva fatto realizzare il gruppo ligneo della Madonna con Cristo morto, l’opera più importante conservata all’interno della chiesetta.

Il gruppo scultoreo dell’Addolorata (Anonimo, sec. XVI), la più importante opera artistica conservata nella chiesetta (Ph Maurizio Scalvini)

La statua veniva coperta con un drappo sul quale è raffigurata la Madonna con il Cristo Morto, pregevole opera di pittore anonimo del XVI secolo, purtroppo, e per mancanza di spazio, conservata nella sagrestia vecchia.

Velario dell’altare della Madonna dell’Addolorata (Anonimo, XVI secolo). il drappo veniva sollevato in occasione delle cosiddette “Scoperte”

 

Dettaglio del velario dell’altare della Madonna dell’Addolorata (Anonimo, XVI secolo)

Nel suo testamento (1591) il Solario lascia alla Chiesa di S. Maria posta sopra il monte di Breno, beni immobili e denari per l’ampliamento della sagrestia e concorda di essere sepolto in detta chiesa. Il sepolcro, in lastre di marmo di Zandobbio, è posto nel pavimento, in centro, subito dopo i gradini del presbiterio.

La statua della Madonna Addolorata, spostata momentaneamente all’interno della chiesa dedicata alla Natività di Maria Santissima

Le opere di ampliamento della sagrestia si realizzano alla fine del Cinquecento, periodo in cui si posa anche il pregevole lavabo in marmo (1599), tuttora esistente.

Lavabo in marmo della sagrestia (1599)

 

Dettaglio del lavabo in marmo della sagrestia (1599); lo stemma, con strumento musicale, potrebbe riferirsi alla famiglia Violini, bresciana

La Confraternita del SS. Nome di Gesù ottiene, il 4 aprile 1604, dal Papa Clemente VIII e su richiesta del “diletto Maffeo Pesenti”, la concessione di indulgenze alla chiesa della Madonna e alla sua Confraternita.

Come detto, in seguito alla visita pastorale compiuta il 27 aprile 1613 dal vescovo di Bergamo Giovanni Emo, il Santuario della Natività verrà sottoposto ad un profondo rinnovamento strutturale (tra cui figura l’erezione della cappella intitolata alla Madonna del Rosario).

Il 22 Aprile  del 2019, giorno di Pasquetta, il Santuario della Natività della Santa Vergine accoglieva la prima Santa Messa dopo gli otto mesi di chiusura richiesti dai lavori di restauro: un momento commovente che ha scritto un frammento di storia di questo luogo. L’atmosfera è resa ancor più solenne e suggestiva dalla celebrazione della Messa in latino con Rito Romano: i riti vengono officiati sull’altare volgendo le spalle ai fedeli

GLI AFFRESCHI DELLA CHIESA NUOVA 

Costruita la nuova chiesa, per intercedere grazie e protezioni o per ringraziamento i devoti fanno affrescare le pareti con immagini di tipo votivo che ripetono la figura della Madonna cui la chiesa è dedicata. Nel  corso del Seicento tali affreschi verranno ricoperti  dagli stucchi e dai quadri visibili attualmente.

La piana di Sombreno e il suo Santuario

Sono noti quelli collocati sopra gli altari posti a lato del fronte del presbiterio (altare di S. Rocco e altare di S. Caterina), poi ricoperti dalle pale del Genovesino. Mentre è solo dal 1962 che in occasione dei recenti restauri si è venuti a conoscenza di alcuni affreschi di fine Quattrocento nell’area del presbiterio, proprio laddove oggi sono emerse nuove scoperte che stanno riscrivendo importanti capitoli della storia artistica e comunitaria del Santuario sul monte.

Al centro dell’altare maggiore (d) vi era inoltre un polittico cinquecentesco suddiviso in nove comparti, poi disperso e sostituito pala dello Zanchi.

Disegno del presbiterio della Chiesa Nuova nel XVI secolo. Sulla parete dell’altare di S. Rocco (a) vi è un affresco del  XV secolo, sovrapposto da un altro della metà del XVI secolo. La parete dell’altare di S. Caterina (b) presenta invece l’affresco della “Madonna allattante” di Andrea Previtali. Ai lati e al centro del presbiterio, sulle pareti, tracce di affreschi della fine del XV sec. e XVI sec. Al centro, il polittico, poi disperso e sostituito dalla pala dello Zanchi (GRITTI, 1990)

 

L’altare maggiore e i due altari laterali dopo i recenti lavori di restauro. L’Altare di S. Rocco (a sinistra) e l’Altare di S. Caterina (a destra). Al centro dell’altare maggiore, la pala dello Zanchi

L’affresco della “Madonna allattante” (1524 ca.) presente sul lato destro del fronte del presbiterio, in corrispondenza dell’altare di S. Caterina, è stato attribuito ad Andrea Previtali, che l’ha eseguito nel periodo in cui risentì maggiormente l’influenza di Lorenzo Lotto (5).

L’affresco della “Madonna allattante“attribuito ad Andrea Previtali, mutilo delle teste della Madonna e di S. Lucia (asportati con uno strappo). La posizione del Bambino con le gambe accavallate è simile al quadro della “Madonna del latte” dell’Accademia Carrara; il ritratto del frate offerente è, per semplicità umana e rappresentazione realistica, paragonabile ai migliori ritratti presenti nelle opere del Previtali; l’occhio che si apre nel palmo della mano di S. Lucia è un elemento surrealistico, il cui esempio si ritrova nel simbolo della “Creazione” nelle tarsie del Lotto in Santa Maria Maggiore. Gli altri elementi tipici del Previtali sono la compostezza della composizione, l’eleganza e il fine accostamento dei colori dei vestiti (GRITTI, 1990)

Sulla parete che sovrasta l’Altare di S. Rocco, la tela del Genovesino nasconde  l’affresco della Madonna in trono con Angeli (sovrapposto ad affreschi più antichi), attribuibile ad un anonimo seguace del Lotto. L’esecuzione si può far risalire a poco prima della metà del XVI secolo. Nella rappresentazione vi sono elementi (l’atteggiamento della Madonna con la mano tesa in avanti – forse verso S. Rocco – il Bambino con la mano benedicente alzata e il panneggio verde con fondo di cielo sorretto dagli angeli) ripresi nelle opere del Lotto, dalle Madonne in trono della Chiesa di S. Bernardino e S. Spirito in Bergamo.

Altare di S. Rocco, sovrapposto a due antichi affreschi (anonimi, fine XV e metà XVI sec.), ve n’è un altro eseguito poco prima della metà del ‘500. Si intravede il volto della Madonna in trono, la mano del Bambino, che è stato asportato, e il panneggio verde del fondo sorretto da due angeli

La realizzazione di un nuovo affresco sopra quelli eseguiti pochi decenni prima si giustifica con la necessità di creare un maggiore equilibrio degli altari sul fronte del presbiterio e di rivaleggiare con un’opera di influenza lottesca con quello “che oggi ci giunge come il più godibile affresco del Previtali”.

IL (DISPERSO) POLITTICO AL CENTRO DELL’ALTARE MAGGIORE, IN VIA DI PARZIALE RICOMPOSIZIONE?

Al centro dell’altare maggiore, al posto della attuale pala della Natività di Antonio Zanchi (eseguita nel 1671) vi era un polittico formato da nove comparti e di cui tre (Madonna con Bambino e i Santi Fermo e Rustico) firmati Giovanni De Vecchi detto Galizzi nel 1543, mentre la cimasa con il Padre Eterno benedicente, non firmata, è attribuita al medesimo pittore.

Dagli atti della visita pastorale del Vescovo Ruzzini dell’8 luglio 1701, risulta che  tre quadri del Galizzi si trovavano nel coro della chiesa dei SS. Fermo e Rustico (GRITTI, 1990): oggi, il pannello con il Padre Eterno benedicente è conservato nella Parrocchiale, quello della Madonna con Bambino dai conti Agliardi, mentre quelli di Fermo e Rustico sono in Accademia Carrara, già dei coniugi Asperti di Boccaleone.

Tavole del polittico esistente sull’altare maggiore nella chiesa di S. Maria prima della pala dello Zanchi; le tre tavole centrali sono firmate “ID.XXXXIII/IOANES DE GALIZIS BGMESIS” (1543). Sono raffigurati, al centro, la Madonna col Bambino e ai lati i Santi Fermo e Rustico. La cimasa con il Padre Eterno benedicente è stata comunque attribuita allo stesso pittore (GRITTI, 1990)

Secondo notizie emerse, si è ventilata l’intenzione di recuperare almeno quattro delle tavole originali del polittico, per poterlo parzialmente ricomporre e posizionare sulla parete di sinistra.

I NUOVI AFFRESCHI VENUTI ALLA LUCE

In occasione dell’apertura straordinaria del Santuario, tenutasi il 10 novembre 2019, il reporter Maurizio Scalvini ci ha offerto un’anteprima assoluta degli affreschi e delle strutture emerse grazie ai recenti lavori di ricognizione e restauro conservativo che ha interessato tutta la struttura interna della chiesa, compresi i pregevoli stucchi che decorano le pareti.

Mentre si era a conoscenza dell’esistenza degli affreschi della Madonna del Cardellino e della Madonna della Pera, si ignorava totalmente l’esistenza dell’affresco Moroni, posto sulla parete destra accanto all’ingresso, e di quello della vasta Crocifissione, collocato al centro dell’altare maggiore sotto la pala dello Zanchi:  una sorpresa assoluta, che ci consente oggi di fruire della loro bellezza e raffinatezza.

Pannello illustrativo degli interventi di restauro, disegnato dell’Architetto Guido Roche (direttore dei lavori) ed elaborato da Maurizio Scalvini. Lo schema è riferito al lato destro del Santuario e al presbiterio (posto a sinistra del disegno). Da destra a sinistra: appena superato l’ingresso, nell’area del confessionale è posto l’affresco Moroni. Gli ovali indicano rispettivamente la posizione della Madonna del Cardellino, della Madonna Della Pera ed infine della colonna sulla quale è affrescata un’altra Madonna

 

Schema del presbiterio della Chiesa Nuova. L’affresco della Crocefissione emerso al centro dell’altare maggiore, sotto la pala dello Zanchi (Elaborazione di Maurizio Scalvini da GRITTI, 1990) 

All’ingresso del Santuario, sulla parete destra è emerso l’affresco Moroni, datato 1580, il meglio conservato rispetto a tutti quelli scoperti durante i lavori e che ora possiamo ammirare grazie al sapiente restauro.

Affresco Moroni nel corso del restauro

 

Affresco Moroni dopo il restauro

A destra della Madonna si individua con certezza San Rocco, mentre le vesti della figura sinistra riprendono quelle di un santo del citato polittico, quindi San Fermo o San Rustico, ritratti solitamente accoppiati e senza tratti distinguibili.

Affresco Moroni

Un cartiglio reca il nome del committente e la data d’esecuzione (15 Maggio 1580), riportati in calce a piè dell’affresco.

Affresco Moroni (Particolare). Il bellissimo volto sorridente della Madonna

Proseguendo sulla parete di destra, accanto alla porta che immette nella sagrestia è stato portato alla luce l’affresco della “Madonna col Cardellino“,  tenuto in mano dal Bambinello.

Madonna del Cardellino, da poco rinvenuta e compromessa a causa dello stipite di una porta e di un altoparlante

 

Madonna del Cardellino dopo i restauri

Immediatamente a lato, nell’angolo con l’altare di Santa Caterina è stata riportata in luce la cosiddetta “Madonna della Pera“; ora completamente svelata, tiene nella mano destra il frutto.

Madonna della Pera, scoperta grazie al rinvenimento di tracce di colore

 

Madonna della pera dopo i restauri: raffigurazione curiosa e molto rara

Nel presbiterio, di fianco all’Adorazione dei Magi è venuta alla luce una colonna decorata, dove sono presenti una Madonna con Bambino molto rovinati. Si è così scoperto che in corrispondenza dell’Adorazione dei Magi, sotto un muro posticcio vi è una nicchia entro la quale proseguono le decorazioni presenti sulla colonna.

Grazie ad un sondaggio eseguito sulla parete di destra del presbiterio, è emersa una colonna con affrescata una Madonna con Bambino

 

In altro nell’immagine, il ritrovamento di una porzione del capitello quattrocentesco che sovrasta la colonna affrescata

 

Dettaglio della Madonna con Bambino affrescati sulla colonna del presbiterio, dopo i restauri

E, sorpresa, al centro dell’altare maggiore, dietro la pala dello Zanchi è venuta alla luce una Crocefissione di straordinaria bellezza e dalle dimensioni considerevoli!

Affresco della Crocefissione, riaffiorata da dietro la pala posta al centro dell’altare maggiore

Nonostante l’antichità dell’affresco, sorprendentemente i colori hanno mantenuto la loro vivacità.

Affresco della Crocefissione, al centro dell’altare maggiore, durante i restauri

 

Affresco della Crocefissione, durante i restauri – Dettaglio

 

Particolare dell’Angelo, nell’affresco della Crocefissione – Dettaglio

 

La stupenda Crocefissione dopo i restauri

 

La Crocefissione dopo i restauri – Dettaglio

Infine, fra la serie delle Madonne emerse dall’area presbiteriale – tutte databili intorno alla fine del ‘400 – è emersa, ai piedi della Crocefissione e a sinistra, una delicatissima ed inaspettata Madonna del Latte, che sorregge il Bimbo con una fascia ricamata.

Madonna del Latte

Gli affreschi sono oggi visibili grazie alle cerniere mobili che permettono agli addetti di scostare agevolmente gli antistanti supporti dei dipinti su tela.

IL PROFONDO RINNOVAMENTO STRUTTURALE DEL SEICENTO: DAGLI AFFRESCHI ALLE GRANDI TELE  

In seguito alla visita pastorale compiuta il 27 aprile 1613 dal vescovo di Bergamo Giovanni Emo, il Santuario della Natività viene sottoposto ad un profondo rinnovamento strutturale, dettato da una serie di decreti improntati al rispetto del rigore della riforma tridentina.

Tra questi, per evitare scandalo al popolo o sconvenienza per luogo sacro, veniva ripresa la prescrizione di chiedere licenza scritta al Vescovo per collocare immagini sacre nelle chiese.

Nell’ultimo scorcio del Cinquecento infatti, aveva avuto inizio quel fervore di attività per arricchire di stucchi e decorazioni gli spazi nudi o affrescati delle nostre chiese. L’esempio più importante partiva dalla Basilica di Santa Maria Maggiore dove la MIA incaricava l’ing. milanese Martino Bassi di redigere un progetto di rinnovamento dello spazio interno con inizio dalla Cappella votiva della città.
Altre chiese si adeguano a questo nuovo modo di trattare le superfici interne, come la Matris Domini e la chiesa della Madonna dei Campi a Stezzano e lo stesso gusto viene seguito nella sistemazione dei palazzi privati.

 La visita del vescovo di Bergamo ci tramanda interessanti notizie sull’aspetto del luogo di culto al principio del Seicento:

«Alla Madonna di Sombreno vedendo noi lì tante pitture vi si sono fatte et fanno della Gloriosa Vergine, rappresentando però il medesimo Misterio, che non servono a devozione né a ornamento, intendendo noi di volerle levare a suo tempo ed occasione di qualche più durevole ornamento à mag. divvozione di nostra Signora della chiesa dedicata a Lei, fratanto commando che all’avenire non si faccia pittura alcuna senza noi si esprima licenzia ottenuta in scritto».

Veduta del presbiterio e dei tre altari originari, coperti dagli stucchi e dai quadri nel Seicento, rispecchianti il nuovo modo di trattare le superfici interne improntato al rispetto e al rigore della Riforma tridentina. Sul fronte del presbiterio le tele del Genovesino hanno sostituito gli affreschi votivi, mentre la volta è affrescata da Pietro Baschenis nel 1623

Anche la chiesa nuova di Sombreno nella sua opera di rinnovamento si conforma ai modelli citati affidando gli stucchi barocchi ai fratelli Gerolamo e Gio B. Porta (già esecutori con il padre delle decorazioni di S. Maria Maggiore),  e il ciclo di affreschi delle Storie della Vergine (1623) nella volta del presbiterio, a Pietro Baschenis.
Essi si firmano nel primo gradino della presentazione al tempio “PETR. BASCHENES PINXIT IERONIMO BATTISTA PORTA STUAVIT”.

In questo periodo si presume sia stato alzato il presbiterio con la formazione della volta a botte, in sostituzione della crociera, e aperta la finestra ad arco di tipo palladiano.

Volta del presbiterio con le decorazioni a stucco e gli affreschi seicenteschi di Pietro Baschenis. A destra Affresco dell’Annunciazione, a sinistra quello della Visitazione. Francesca Cortesi Bosco mette in evidenza le ripetizioni di modelli espressi nella pittura di Enea Salmeggia e gli spunti presi dal Cavagna

Sono da attribuire ai fratelli Porta anche la figura del Padre Eterno con le decorazioni a stucco sopra il portale d’ingresso al Santuario.

Il Padre Eterno benedicente sul portale d’accesso al Santuario (G. Porta)

Come anticipato, nelle cornici a stucco degli altari sul fronte del presbiterio furono collocati nel 1626 i quadri di Bartolomeo Roverio detto il Genovesino: a destra la tela di S. Lucia e S. Caterina a conferma della titolare dell’altare; all’altare di sinistra invece in luogo di S. Rocco, compaiono S. Francesco e S. Bonaventura con il Salvatore.

Il Salvatore tra S. Bonaventura e S. Francesco nell’altare di N.S. Gesù (ex S. Rocco), S. Lucia e S. Caterina nell’altare dedicato a S. Caterina (Genovesino) (GRITTI, 1990)

La famiglia Pesenti dona i quadri posti sopra il cornicione a nord rappresentanti la circoncisione di Gesù e la presentazione al tempio con in basso lo stemma Pesenti e la scritta ex-voto Petro Mariae, aequitis de Pesentibus anno MDCXXXIV e si fa promotrice, a partire dal 1620, della costruzione del nuovo altare del Rosario, aperto nella parete sud, nel corpo centrale.

Stemma della famiglia Pesenti. Con il lascito di 600 scudi da parte di Santino Pesenti dopo la morte della figlia Caterina, il finanziamento per la costruzione dell’altare del Rosario proseguì con Ippolita Corna Pesenti, nel 1630 (che, ammalata di peste lasciò la sua dote alla chiesa) e si concretizzò con il fratello e fabbricere della chiesa Pietro Corna che affidò l’incarico a Carlo Ceresa di eseguire le pitture (GRITTI, 1990)

Nelle chiese di culto mariano nel Seicento si espresse e si diffuse in molte parrocchie sotto l’episcopato del Barbarigo la devozione della Madonna del Rosario e dei Santi domenicani che l’avevano promossa. La formazione della Confraternita della Madonna del Rosario di Sombreno avvenne nel 1631 e secondo il parroco Quarenghi è da considerarsi la più antica della zona.

L’Altare della Madonna del Rosario, con i dipinti eseguiti da Carlo Ceresa e commissionati dalla famiglia Pesenti tra il 1620 e il 1649. I piccoli dipinti rappresentano i quindici Misteri del Rosario. Il Santuario di Sombreno è l’edificio sacro contenente il maggio numero di opere del Ceresa (venti in totale)

Nel 1645, appena eseguiti gli stucchi, si collocano i quindici Misteri del Rosario eseguiti da Carlo Ceresa  (su incarico del fabbricere Pietro Corna) e nel 1646 i due quadri laterali rappresentanti l’uno i Santi Nicola da Tolentino e Antonio da Padova, l’altro i Santi Rocco e Sebastiano (che ripropongono i Santi rappresentati negli antichi affreschi dell’altare omonimo).

Solo nel 1649 viene collocata la pala dell’altare della Madonna del Rosario raffigurante la Madonna con il Bambino in gloria con S. Pietro e S. Caterina d’Alessandria (a ricordo di Pietro Corna mentre la figura della Santa è forse il ritratto di Caterina Pesenti) e S. Domenico.

Dettaglio della pala della Madonna del Rosario con S. Caterina, S. Pietro e S. Domenico, e dei quindici Misteri del Rosario dipinti da Carlo Ceresa.  Scrive Luisa Vertova “che nella tela di Sombreno la Vergine ha la fiorente robustezza delle Madonne delle pale di Bergamo e di Nese e il Ceresa tenta di Conciliarvi la monumentalità della pala di altare con la intimità della Sacra Conversazione, anzi del gruppo di famiglia”

La famiglia Pesenti, offerente, fa apporre lo stemma dell’aquila con sormontata la stadera, alle tele dell’Annunciazione eseguite da Carlo Ceresa nel 1660, poste ai lati dell’arcone del presbiterio (tele già menzionate e descritte da Angelo Pinetti nel 1931).

La “Vergine annunciata“, una delle due grandi tele della “Annunciazione” eseguite da Carlo Ceresa, collocate sopra l’altare entro riquadrature di stucco poste ai lati dell’arco di accesso al presbiterio. Secondo lo storico Gabriele Medolago, Pietro Maria Pesenti  avrebbe commissionato l’Annunciazione forse a seguito di una grazie ricevuta. La somiglianza della “Vergine annunciata” con l'”Angelo annunciante” appare piuttosto marcata: potrebbe trattarsi della moglie Caterina – le cui fattezze ricorsero talvolta nelle Vergini del Ceresa – e, nel caso dell’Angelo, di uno dei figlioli morti in tenera età, il cui ricordo si trasferì sovente nei suoi angioletti (Ph Maurizio Scalvini)

 

L’ “Angelo annunciante” e la “Vergine annunciata” esposti al pubblico (giugno 2010) in occasione del restauro, nella navata del Santuario della Natività di S. Maria a Sombreno.  L’Angelo, dai caratteristici tratti ceresiani, è ricoperto da un candido abito bianco che dà vita a quella che Giovanni Testori definiva una «poesia concreta, familiare, alpigiana, polentesca, cascinesca, catechistica, rosariante, castagnosa, lattea, formaggesca» (Ph Maurizio Scalvini)

 

Particolare dello stemma araldico della famiglia Pesenti sulla tela dell’Angelo annunciante, con l’iscrizione indicante la commissione dei dipinti

Nel 1672, Francesco Carminati (6) versa una cospicua somma per l’acquisto della nuova pala dell’altare maggiore eseguita dal pittore veneziano Antonio Zanchi e per la realizzazione della nuova ancona a stucco affidata allo scultore luganese Giovanni Angelo Sala, artisti che già avevano lavorato per la MIA in S. Maria Maggiore.

Pala dell’altare maggiore rappresentante la Natività di Antonio Zanchi eseguita nel 1671. La tela cela l’affresco quattrocentesco della Crocifissione, visibile scostando il grande dipinto

Pietro Zampetti a proposito della pala di Sombreno scrive: …”E’ opera dello Zanchi tutta giustapposizioni e bilanciamenti, ricchi piegamenti di panni e solidi colori a rilievo. Alla base della sapiente piramide costruttiva, le splendide figure delle due giovani fantesche…sono un richiamo alle importazioni caravaggesche raccolte dal gruppo dei riformati…”.

Lo stemma della famiglia Carminati (carro), offerente dell’altare dei Morti e della pala dello Zanchi. Lo stemma dei Carminati compare anche sopra il portone d’ingresso

Sulla parete di fronte all’altare del Rosario la famiglia Carminati nel 1682 fa costruire la Cappella dei Morti, un altare in forma simmetrica con la dedica alla passione di Cristo in suffragio delle anime del purgatorio, culto che aveva preso impulso dopo la peste del 1630 e che nelle chiese della bergamasca tendeva ad occupare gli altari laterali più importanti.

Altare dei Morti

I figli di Francesco, Pietro e Don Carlo Carminati, acquistano la pala con Gesù crocefisso e Santi (1675) di Johann Carl Loth, pittore nato a Monaco di Baviera e vissuto a Venezia dalla metà del secolo e la collocano, nel 1683, nel centro dell’altare, insieme ai due quadri laterali attribuiti da Mariolina Olivari a Gregorio Lazzarini, raffiguranti la Resurrezione di Lazzaro e la Resurrezione del figlio della vedova di Naim.

Alla base delle colonne laterali della cappella sono posti gli stemmi in marmo di Carrara della famiglia Carminati con aquila bicipite sopra un carro e lo stesso stemma lo troviamo sulla parete ell’ingresso in alto con la dicitura: FRATRES FILII Q. FRANCISCI / DE CARMINATIS PATRITII VENETI EX DEVOTIONE / ANNO MDCLXXXVIII”. Il titolo nobiliare era stato conferito a Venezia nell’anno 1687 per l’attività di banchieri.

Altare dei Morti (famiglia Carminati offerente), con la pala di J.C. Loth e i dipinti laterali del Lazzarini. Gli intagli del pulpito e dei confessionali ottocenteschi in noce sono di Carlo Mariani; si ammirano inoltre gli stucchi, dalla forte simbologia, valorizzati dal recente restauro

 

Dettaglio della Pala con Gesù crocefisso e Santi (1675) di Johann Carl Loth, sull’altare dei Morti. Il restauro ha restituito le tele a una bellezza che il tempo aveva offuscato, mentre tra gli stucchi è stata recuperata una tinta grigio scuro

 

Nel corso dei restauri, tra gli stucchi dell’altare dei Morti e della volta è emersa una bellissima colorazione grigia

 

Dettaglio dei dipinti del Lazzarini, a lato dell’altare dei Morti, con uno dei due confessionali in noce intagliati da Carlo Mariani

Nel 1708 il rettore don Francesco Gavazzeni, su ordine della Curia episcopale di Bergamo redige l’inventario dei Beni della Chiesa di S. Maria che consistevano in case e terreni posti in Breno, in Paladina, in Almè e ad Ossanesga.

Le opere di completamento e sistemazione del Santuario iniziarono nel 1710,  protraendosi sino ai primi decenni del Novecento.

Nel 1710 venne innalzata la volta della chiesetta dell’Addolorata sostituendo la copertura lignea e vennero aperte due nuove finestre in alto.

Volta del presbiterio della cappella dedll’Addolorata, innalzata nel 1710 (Ph Maurizio Scalvini)

Nel presbiterio venne collocato un nuovo altare in marmo nero con al centro il paliotto in marmo bianco dell’Addolorata, ai lati furono posti i quadri dei dolori di Maria.

Il nuovo altare in marmo nero con al centro il paliotto in marmo bianco dell’Addolorata e ai lati i quadri dei dolori di Maria (Ph Maurizio Scalvini)

 

Paliotto centrale dell’altare dell’Addolorata in marmo bianco di Carrara

Sotto la direzione del capomastro Gianni Moroni di Ponte S. Pietro si ampliò la casa del romito e si formò il portico con le colonne binate in pietra arenaria.

Il porticato antistante il Santuario,  con le colonne binate in pietra arenaria (inizio settecento) (Ph Maurizio Scalvini)

 

Il Santuario della Natività di Maria Santissima e il porticato con le colonne binate in arenaria

Per la chiesa nuova si procedette all’ampliamento della sacrestia e ad adornare la stessa con mobili eseguiti dal romito intagliatore fra Giacomo Micheletti (tre poltrone e due sgabelli finemente intagliati). Nel 1736 si eseguì la cantoria in legno con decorazioni ad intaglio e dipinte e si installò l’organo fornito dalla ditta Serassi.

Sopra la porta della sagrestia, l’organo Serassi, ultimato il 24 Febbraio 1737 ed oggetto di numerosi interventi di restauro, di cui l’ultimo eseguito ad opera della ditta Piccinelli di Ponteranica tra il 3 Aprile 2013 e il 31 Agosto 2015. Si nota anche il prezioso color malachite che adorna gli stucchi, mentre sotto l’organo sono visibili due degli affreschi emersi recentemente

 

Schizzo a penna allegato alla nota del 1725 sull’ampliamento della Sagrestia (GRITTI, 1990)

Il sagrato del Santuario che presentava cedimenti è stato sistemato nel 1832. L’opera di ampliamento dello spalto del piazzale con la formazione dei fornici in muratura si può far risalire alla fine del XVII secolo. Originariamente il muro di sostegno del terrapieno era più arretrato ed è ancora visibile nelle murature di pietra squadrata che si scorgono nei fondali delle volte.

Santuario di Sombreno e muro di sostegno del terrapieno (Ph Maurizio Scalvini)

Nell’Ottocento si rifanno le decorazioni interne della chiesa piccola, l’affresco della Madonna dei Servi di Maria del 1853 è opera di Luigi e Carlo Rota.
Il 12 febbraio dello stesso anno era stata eretta la Congregazione dei Servi di Maria dal Priore Generale di Roma. A questa occasione si può far risalire l’acquisizione dei due quadri di Francesco Vigna esposti alle pareti.

L’affresco della Madonna dei Servi di Maria (1853), di Luigi e Carlo Rota, nella chiesa dell’Addolorata  (Ph Maurizio Scalvini)

La cuspide del campanile e la statua dell’Immacolata sono opere di Antonio Preda e dei F.lli Rusconi che le eseguono nel 1879.

Veduta complessiva del Santuario mariano di Sombreno

Al 1902 risale la ricostruzione con solaio in cemento del terrazzo e del porticato di fronte alla chiesa dell’Addolorata; al 1905 la formazione di quattro stanze sopra la sagrestia nuova; al 1925 la collocazione dell’orologio sul campanile.

 

NOTE

(1) Il sistema difensivo di Breno comprendeva anche due torri, una inglobata nell’ala occidentale di villa Pesenti-Agliardi ed una seconda torre collocata in quella che è oggi la piazza, inglobata in un edificio di più vaste dimensioni. Le due torri furono probabilmente acquistate dai Pesenti, allorquando nel 1473 si insediarono a Breno, ampliandole e trasformandole in abitazioni.

(2) La cappella del castello fu, secondo il Fornoni, la prima chiesa ad ottenere il battistero divenendo parrocchia anche per le vicinie di Paladina e Ossanesga (Gritti 1997). Ossanesga si staccherà nel 1538 e Paladina nel 1568.

(3) Nel 1621 viene cioè concesso a un abitante di Breno di costruire un muro di cinta tra i beni della chiesa situati in cima al monte e il ronco di sua proprietà, servendosi dei sassi ricavati dall’abbattimento “di quella mura vecchia chiamata il Torrazzo esistente nel detto pezzo di terra di ragione del beneficio” (Pietro e Luigia Gritti, “Il Santuario della Madonna di Sombreno”, cit.)

(4) Il Presbitero Gasparino de Nervis fu il principale artefice delle opere eseguite alla chiesa di S. Maria al monte. Egli si occupò anche della chiesa dei SS. Fermo e Rustico, che per comodità del popolo fu sistemata nei primi decenni del ‘500. Durante la visita pastorale del 1520 il Vescovo Pietro Lippomano raccoglie buone informazioni sul comportamento del Presbitero Gasparino de Nervis dai testi Joannino de Pesenti e da Antonio Moroni. Per il completamento della costruzione della chiesa di S. MariaSerzanus f.q. Ioanini dicti Cappelle de Moronibus habitator de Brene nella sua cucina, alla presenza di Gasparino de Nervis, fa redigere nel 1506 il testamento in cui lascia “10 lire imperiali da spendersi per la stessa fabbrica e due ducati da spendersi per una pianeta per la stessa chiesa”. Al Presbitero, oltre ai benefici e alla proprietà dei beni della chiesa di S. Maria, era stato assegnato nel 1527, in un arbitrato fatto nel palazzo vescovile: al “rettore e beneficiato Gasparino de Nervis” il godimento delle piante del bosco di Sombreno: “tenga, goda e fruisca degli alberi di moroni e castagne esistenti al presente e in futuro sul monte si S. Maria di Sombreno, fino al monte di Breno…”.
Nel suo testamento del 1536 Gasparino de Nervis lascia i suoi beni alle Suore di S. Grata in Colunnellis di Bergamo, di cui era cappellano e confessore compresa la casa di via S. Lorenzino acquistata dalla MIA, che l’aveva avuta in eredità da Battista Cucchi cerusico (Pietro e Luigia Gritti, “Il Santuario della Madonna di Sombreno”, cit.).

(5) Francesca Cortesi Bosco concordando sull’attribuzione ad Andrea Previtali, indica nel 1524 la data presumibile di esecuzione. I motivi della datazione riguardano l’influsso avuto sul Previtali dal ciclo degli affreschi nell’oratorio Suardi di Lotto, chiaramente riscontrabili nella maggiore attenzione al vero, nella freschezza e luminosità del colore nella realizzazione del Bambino rispetto al quadro dell’Accademia Carrara; nell’abito di Santa Lucia con il laccio della manica appena sotto la spalla, presente anche nella Sibilla Chimicha del Lotto, tanto più che dello stesso anno è il cartone che il Lotto presenta al Consorzio della Misericordia per il coperto della tarsia detta “la Creazione” nel quale il simbolico occhio divino si modella congiuntamente alla carne delle braccia. “Il ritratto del committente in abito monastico è di grande vigore ed efficacia; sotto questo aspetto accostabile al ritratto di Paolo Cassotti nella tavola della Carrara. Per l’identificazione del committente, probabile appartenente ad una famiglia della zona, può essere utile il fatto che lo stesso doveva soffrire di disturbi alla vista, in quanto S. Lucia è in atto di proteggerlo e raccomandarlo alla Vergine.

(6) Il nobile Alessandro Morone f.q. Fermo, abitante in Porta Romana della parrocchia S. Tecla di Milano, originario di Breno, lascia nel suo testamento del 1650 trenta scudi di moneta di Bergamo sia per la chiesa di S. Maria di Breno e sia per la chiesa di S. Fermo e Rustico, e deposita nel Banco di S. Ambrosio lire otto mille cinquecento imperiali, i cui utili dovranno servire “per far celebrare una messa quotidiana nel detto loco di Brenno territorio di Bergamo e nelle chiese di detto loco…e siano d’aiuto ai suoi eredi che intendono seguire la carriera ecclesiastica” (…) A quindici figliole di Breno e dieci dei luoghi vicini (…) si diano 100 lire di moneta di Bergamo per ciascuna al tempo che si mariteranno o spiritualmente o temporalmente”…con preferenza ai parenti delle famiglie Moroni e Carminati. Nomina il cognato Francesco Carminati, abitante in Bergamo, tutore dei figli avuti dalla moglie Caterina Carminati e lascia erede universale il figlio Carlo Fermo Morone. Francesco Carminati, trasferitosi a Venezia dove svolge l’attività di mercante, non dimentica il suo luogo di origine e si prodiga per l’abbellimento della sua parrocchia sul Monte di Breno (Pietro e Luigia Gritti, “Il Santuario della Madonna di Sombreno”, cit.).

Bibliografia essenziale

– Pietro e Luigia Gritti, “Il Santuario della Madonna di Sombreno” – Consorzio per il Parco dei Colli di Bergamo. Grafica e Arte Bergamo, 1990.
– Il Parco dei Colli di Bergamo – Introduzione alla conoscenza del territorio, capitolo “Caratteri urbanistici e presenze architettoniche”, Graziella Colmuto Zanella.

Nebbia in Città Alta

Fotografie di Giuseppe Preianò

 

La pioggia, stanca di osservare un mondo sempre uguale, disse un giorno al Cielo: 
“Io posso dipingere il mondo di un solo grigio colore. 
La Tempesta, mia sorella, sprigiona grandi arcobaleni; il Temporale, mio fratello, trafigge  con l’impeto violaceo della folgore”
“Tu puoi essere tante cose invece!“, rispose il Cielo. 
“Puoi essere pioggia, pioggerella, acquerugiola, acquetta e persino acquazzone di primavera.
Il mondo si riflette nei tuoi mille specchi e fluendo leggera regali alla Terra succosi frutti”
“Ciò non mi basta!” ribattè lei stizzita.
“Anch’io vorrei stupire e creare meraviglie!”

Preso da compassione 
il Cielo le permise di calare sul mondo come Nebbia 
 e fondersi con esso 
fluttuando coi colori più cangianti 

Vagando leggiadra in ogni dove 

quella massa densa  e azzurrognola

avvolgeva di bruma ogni cosa 

sino a celarla alla sua stessa vista 

Poi lentamente cominciò a intravedere

 insieme alle altissime torri 

le cupole e i campanili

che bucando il suo soffice mantello 

 si svelavano lucenti sotto la sua spessa coltre

Il mondo da lassù pareva assai diverso ora

ed anche gli uomini laggiù rallentarono il passo

ammutoliti da quella meraviglia

Come per magia 

emergevano altissime guglie celesti 

che animate da trame invisibili 

 scomparivano ed apparivano fluttuando leggere

Ma stanca di quel gioco

 la capricciosa Nebbia chiese aiuto al Vento

che gonfiandosi il petto

con alito potente squarciò uno spicchio di Cielo

 mostrando l’ombra di un castello

Più in alto

le guglie brillavano ardite con tale bellezza

che anch’egli commosso sparse all’intorno 

un velo di polvere turchina

Nell’ora del silenzio

la quiete accompagnava le prime luci della sera

e una musica dolce

colmava i cuori di un canto struggente

Giovanni Signorelli detto “il Merica”: il cantastorie di Bergamo

1920: il cantastorie Giuseppe Signorelli detto Merica nei pressi del Duomo

Con il Merica, una tipica macchietta cittadina vissuta fra fine Ottocento e la prima metà Novecento, gli autori e le cronache del tempo ebbero di che sbizzarrirsi.

Era, nel ritratto che di lui fece Umberto Zanetti, “un omino dinoccolato alto si e no un metro, che cantava con una vocetta agra, in falsetto, accompagnandosi con una chitarra più grande di lui”.

La sua “lirica”, che sgorgava dal suo genio, commentò argutamente i fatti cittadini per tutto un cinquantennio di storia bergamasca, elevandosi dall’ebbrezza lieve dei vinelli delle colline o tra i purissimi aspri vapori del più autentico “trani”.

Rivendita di vini pugliesi in piazzetta S. Pancrazio (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)

Tutta Bergamo lo conosceva ma nessuno, proprio nessuno, sapeva il suo vero nome. “Merica” – spiegò una volta il “cantore” – per via di una bisavola che si chiamava Maria Degna Merita e che aveva gli tramandato il nome, storpiato “in forza di chissà quali occulte leggi di antonomasia matronimica”, scrisse Vajana.

Si sapeva che era nato in SanTomaso, in anni lontanissimi, e ch’era figlio di un poverissimo cocchiere.

Via S. Tomaso nel 1910, con la donna che ha appena attinto l’acqua dalla fontanella (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

La sua bruttezza, “quasi disdicevole”, lo anticipò sin da bambino. Tutto di lui promuoveva al riso: magro impiccato, era alto come un paracarro, aveva le gambe sproporzionatamente corte e storte, malgrado le impaludasse civettuolmente in un giacchettone sproporzionatamente lungo. La sua camminata insicura ed ondeggiante tradiva un difetto alle ginocchia, che scontrandosi si respingevano a vicenda. “Gambestorte” e “crapadrecia”, si era compiaciuto definirsi.

“Ol Merica” nel commiato di Vajana

Il busto striminzito reggeva un cranio dalla forma marcata e pressata alle tempie; un visetto da infante, dominato da uno strano naso sottile da cui si allungava una barbetta appuntita e scomposta. Due occhietti vivacissimi e pungenti, quasi da topo, rallegravano quella specie di viso mobilissimo.

Le cronache si accaniscono descrivendo una bocca, “dalle labbra turgide e di un rosso rancido”, somigliante a “una ferita da taglio inferto da uno spadone medioevale”. Povero Merica. Parlava biascicando e il suo balbettio gli lasciava delle vistose bolle bianche ai lati della bocca, che risucchiava con movimenti suoi particolari. Nonostante ciò, anche quando serrava i denti digrignando fino all’esasperazione, riusciva simpatico a tutti.

Tra una canzone e l’altra aveva trovato il tempo di portare all’altare…. – c’è chi dice quattro, c’è chi dice cinque e c’è chi dice sette – donne, e di vederle poi dipartirsi nel regno dell’eternità: curiosamente, aveva sempre pronunciato il suo ‘sì’ mentre l’altra parte era in fin di vita. Sicchè ogni rito nuziale si era trasformato in un rito funebre, al termine del quale, “ol Merica” offriva da bere agli amici.

Il passeggio in Fiera nel 1902

Le di lui descrizioni sono a dozzine, ma fra tutte, quella di Geo Renato Crippa – che ai tipi bergamaschi dedicò esilaranti e commoventi capitoli – è senz’altro la più ricca e gustosa: nessuno meglio di lui – grande conoscitore delle storie e delle “macchiette” della città – avrebbe potuto né ignorare né lasciarsi sfuggire l’occasione ghiotta di descrivere il Merica.

La madre, una brava donna, illudendosi di farne un bravo artigiano l’aveva affidato a un ciabattino di Borgo Santa Caterina non badando che nello stanzino del “padrone”, fra banchetto, forme, ferri, pece, corde e scarpe, facevan bella vista alla parete due chitarre (una abbastanza passabile, l’altra vecchia e tarlata ma di buon suono) che avevano attirato le amorose attenzioni del giovinetto.

Il ponte di Borgo Santa Caterina

Non appena il “principale” sortiva dal bugigattolo, il nostro cercava di addestrarsi alla bell’e meglio e appassionatamente, e quando udiva qualche suono azzeccato si agitava all’impazzata meravigliandosi, fino a quando, dagli e ridagli e straziando le povere corde all’infinito, finì col realizzare un sogno cullato per settimane e mesi: accordare chitarra e canto fino ad acquistare una certa abilità, che perfezionò con qualche strana maestria.

Scrisse Crippa che “Per non disturbare i suoi di casa – vivevano in una stanza sola in quattro – esercitarsi nel ‘cesso’, all’esterno di una loggetta, fu invenzione prelibata. Questo posto, diceva, era il suo conservatorio, la scuola primaria della sua ‘genialità’ musicale”. Vi canticchiava la notte, cercando di adattare motivi popolari a testi di sua invenzione “amorosi o romantici, scelti in racconti di quartiere o raccolti nella miseria dei rimbrotti, delle accuse, delle stravaganze e delle irriquiete denuncie d’un volto rattrappito”.

Sicchè, “spingerlo a farsi conoscere, dopo averne constatata la bravura, fu operazione infame di un gruppo di buontemponi, decisi a scortarlo nelle osterie, sullo sterrato di piazza Baroni al tempo della Fiera, davanti ai caffè dei signori e sul Sentierone”.

Città Alta domina sul Sentierone con la Fiera e l’Ospedale di S. Marco e la chiesa di S. Bartolomeo (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Gli rimediarono così una giacca degna del suo nuovo ruolo, “magari di velluto ed un cappello verde alpino con fior di penna”.

Il lato della Fiera sull’attuale Largo Belotti (da “Bergamo nelle vecchie fotografie – D. Lucchetti)

Scortato dalla feroce compagnia, fece la sua prima apparizione pubblica nel suo borgo in due locali “di pregio”: il “Gamberone” e l’Angelo”.

Entrato nelle sale, così conciato, gli urlarono di andarsene alla svelta.

Borgo S. Caterina. Nei pressi si trovavano, poco distanziate fra loro, le trattorie delle Tre Corone, dell’Angelo, del Gambero e della Scopa (in “Bergamo nelle vecchie fotografie” di D. Lucchetti)

Ma imperterrito, con i suoi imbonitori pronti a difenderlo – “gente conosciuta (un macellaio e due salumieri)” – cominciò timidamente a cantare accompagnandosi alla chitarra scalcinata e “dati due strattoni, iniziò la sua tiritera con energia infuocata. Risa reiterate, battimani, ‘forza’, salutarono la esibizione, mentre, stordito ed in lacrime, l’artista non sapeva se accettare i bicchieri di vino che gli venivano porti da diverse parti: un successo”.

1910 circa: scoricio di Borgo S. Caterina (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

Da quella sera la fama del “cantastorie” percorse l’intera città, dai borghi a Piazza Vecchia e poi ancora giù, in Viale Roma: nei trani, nelle osterie, nei caffè di periferia, lo attendevano, passandosi parola.

Il gioco delle bocce in una trattoria di Bergamo, 1890 (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)

E così il suo repertorio mutò con destrezza e dalle fiabe d’amore passò ad improvvisare i fatti cittadini, commentandoli come un Pasquino redivivo.

“Verdi” – scrisse Umberto Ronchi – lo avrebbe assunto come Rigoletto, un Rigoletto generoso, tutto lepidezza e fantasia improvvisatrice”.

L’ometto, agli applausi non ci teneva affatto; voleva soldoni lui, quelli di rame: solidi, pesanti, colla bella faccia di Vittorio Emanuele.

Ol Merica in una caricatura del “Giupì” (da L. Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea, 1963)

Il castigamatti, “conquistava i suoi “affezionati” accusando prefetto, sindaco, amministratori, vigili, agenti del dazio, di non mantenere le promesse, di aumentare i prezzi delle derrate, di non pulire a dovere le strade, di impicciarsi in cose non di loro pertinenza, di permettere abusi nella applicazione delle tasse, nel non affannarsi a chiedere al governo di Roma il raddoppio della linea ferroviaria per Treviglio, di aumentare i tabacchi, il sale, i francobolli, i ‘trams’ e le cambiali.

Le giostre in tempo di Fiera (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)

Bastava la pubblicazione di un manifesto con nuove ordinanze civiche o militari perchè il Merica, cantante analfabeta, chiesti ragguagli a conoscenti, schiattasse in imprecazioni e querele; uno spasso”.

1925 circa: il Sentierone (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

Quando la guerra chiamò il popolo a raccolta, imbracciò la sua chitarra come un mitra e con la sua vocetta agra intonò il suo canto di battaglia:

“Viva l’Italia

la gran nassiù

che la combàt

per la resù”.

Il rifugio antiaereo scavato in Piazza Dante

 

Porta Nuova nel 1940. Sulla fronte dei tempietti si legge: “Il passato è già dietro le nostre spalle. L’avvenire è nostro” e “Disciplina Concordia e Lavoro per la ricostruzione della Patria”

Tra gli avvenimenti accompagnati dal suo lieto e canoro commento, famosa è la nascita del nuovo centro cittadino e di tutti gli edifici che spuntavano come funghi a ridosso delle Mura.

La Fiera in demolizione (1922-’24) e la nascita del centro piacentiniano

 

La Fiera in demolizione (1922-’24)

Del rinnovamento sontuoso della sua Bergamo egli ne fu entusiasta, ma la sua gioia fu mortificata dalla tristezza che attribuì alle sue vecchie amiche Mura:

“Che’ diràl chèl curnisù

Quando l’vé la primaera?

Vederàl piö i farfale

a vulà sota la féra?”

Panorama di Bergamo, 1938

Per far posto all’allora palazzo della Banca Bergamasca, sorta in prossimità del chiostro di Santa Marta, venne schiantato un ippocastano che per quasi un secolo aveva assistito a tutte le vicende bergamasche. Si trattava del “piantù” nel Boschetto di Santa Marta, uno stupendo gigante alla cui ombra ristoratrice si erano ritemprati vecchi pensionati e ai cui romantici effluvi si erano confortati dalle sartine ai soldatini.

1920 circa: il centro direzionale della ‘Nuova Fiera’ (Da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Quando lo vide crollare con schianto formidabile, compose un brano memorabile:

“Nel bosch de Santa Marta

a gh’era ü vècc piantù

per mèt sö öna strassa d’banca

I l’à mandat a reboldù”

La “strassa d’ banca” era la Banca Bergamasca, fallita e poi occupata dal Banco Ambrosiano, sorta in luogo del complesso monastico di S. Marta.

Il Sentierone e i suoi rigogliosi giardini negli anni ’30

Le due statue poste ai lati dell’appena inaugurato Palazzo di Giustizia, Il “Diritto” e la “Legge”, furono invece così nominate:

“Gh’è dò bèle statue

sura ü pedestalì

la siura l’è padruna

chèl biòt l’è l’inquilì”

Il Palazzo di Giustizia in Piazza Dante, da poco edificato

Che le sue argomentazioni fossero in prosa o in rima nessuno se ne accorgeva: per le folle egli era la bocca della verità, il fustigatore, il difensore della poveraglia, l’inquisitore”,

“Bravo, bravo”, gli urlavano, soprattutto se avvinazzate.

La sua acredine degenerava in lamentela disperata verso gli amministratori dei luoghi pii – ospedali, manicomio,“Clementina” – verso i quali gridava come un ossesso a difesa di sordomuti e poveri ciechi, del brefotrofio e relativa “ruota” e di ragazze-madri. Non c’era modo di trattenerlo.

Il fronte della fabbrica cinquecentesca (demolita nel 1937) dell’Ospedale vecchio di S. Marco: oggi, del grande complesso un tempo parte del quadrilatero della vecchia Fiera, è rimasta solo la chiesa che porta lo stesso nome

 

Il Manicomio Provinciale entrò in servizio dopo che fu chiuso, nel 1892, il manicomio di Astino. La ripresa fotografica è anteriore al 1905 (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

 

Marzo 1915: il trasloco della Pia Casa di Ricovero delle “Grazie” (ex convento degli Zoccolanti ed ora Credito Bergamasco) al nuovo edificio della Clementina. Nelle “Grazie” subentrò l’ospedale militare della CRI (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

 

Il Piazzale Porta Nuova con l’ex convento degli “Zoccolanti”: Casa di ricovero “di Grassie” sino al 1915, poi ospedale militare della CRI. Annullo postale del 14 – 7 – 1919 (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

Lo ammansivano assicurando che si sbagliava e con gran fatica lo invitavano a consolarsi: ringraziava e una volta placato soggiungeva, quasi ilare: ‘Vi canterò la storia della Girometta, quella che, per amore, di chiappe ne vendette una fetta’.

Un gorgoglìo, in fondo alla gola, lo quietava prima di sgusciarsela recriminando”.

La Fiera settecentesca e il Sentierone. serie, riservata al mercato francese, fu stampata in tricromia dall’Istituto Italiano d’Arti Grafiche nel 1905 ca. (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Con la fede e con i santi era però impossibile tendergli un agguato, e lo seppe, una sera, una certa Paola, famosa passeggiatrice, che tentandolo a sproposito ricevette in cambio una sberla ben assestata.

Sempre avvolto in un pastrano raccattato che gli arrivava alle ginocchia, continuò a cantare finché la voce non divenne fioca e scheggiata fino a ridursi in miseria: “dopo il giro col piattello in mano, notava i pochi centesimi raccolti, borbottava sostenendo che egli non meritava di esser schiavo o sottomesso ad alcuno, ma degno di rispetto nel suo intenso lavorìo di giudice delle malefatte altrui, che egli rivelava da cittadino cosciente ed ardito. Non scherzava lui e non mentiva, o buffoni”.

Persa quasi totalmente la vista, si aggirava per le vie della città accompagnato da una povera fanciulla, anch’essa mezza cieca, perpetrando tristemente “i racconti di giorni perduti, di sindaci morti da anni, del dazio sparito, di denari senza valore e di inutili bazzecole”.

Ebbe però un lampo di poesia alla morte di Antonio Locatelli, scomparso in un agguato in Africa mentre era in missione a Lekemti compiendo voli di ricognizione per far sì che le truppe italiane non cadessero nelle imboscate delle milizie dei Ras finanziati dagli inglesi.

1920 ca. Questa cartolina, con Antonio Locatelli ed il suo inseparabile S.V.A., non è una vera e propria cartolina commerciale, ma è interessante poichè sul retro porta il visto della “censura fotografica” militare. La più grossa impresa sportiva di Locatelli fu la “prima trasvolata delle Ande”. Compì l’impresa di andata e ritorno tra il 31 luglio ed il 5 agosto 1919, effettuando anche il primo servizio di posta aerea tra l’Argentina e il Cile” (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Atterrato in una radura, fu ucciso a tradimento con tutto il suo seguito e del suo corpo non si seppe più nulla “e per ciò, come degli antichi eroi, ben si può dire che il suo corpo, forse arso, trapassò nei leggendari empirei del simbolo”. Ebbe a dire Bortolo Belotti.

Era il 1936 e per Bergamo fu un terribile trauma; anche il Merica, ormai vecchio e misero, lo pianse con dolore sincero.

“Il cuore, consunto, gli dettò una geremiade, mezzo angosciosa, mezzo gloriosa. Forse fu la sola e garbata elegìa sfociata in devoto dolore; la balbettava piangendo, sicuramente affranto:

Me pianze, me pianze,
l’è mort, l’è mort, ol poèr Tunì.
I la brüsat i nigher,
selvaggi de nu dì.
L’era grand e bu, mei del pà bianc.
Bel, bel coma un angelì.
Me pianze, me pianze, ol me poer Tunì”

Morì con un rammarico, quello di non saper comporre musica (“Potevo diventare un Donizetti”…). La morte lo colse all’inizio del 1943 dopo una breve malattia e fu annunciata da un necrologio dell’”Eco”: una colonna e mezza che l’avvocato Alfonso Vajana volle dedicare al povero cantastorie di San Tomaso.

Il Merica l’aveva invitato a comunicare la sua dipartita ai suoi ignari cittadini, nel momento in cui avrebbe per sempre posato la sua chitarra stanca: “Io lo compresi e lo feci con tenerezza. Del resto se l’era meritata…..: aveva servito, a modo suo, parecchie generazioni di bergamaschi, prodigando molto canto, attimi di serenità ed un po’ di sorriso”.

Contenendo a stento la tristezza, nell’angusta prigione del suo corpo breve e storto.

 

RIFERIMENTI

Geo Renato Crippa, Il “Merica, in “Bergamo così (1900 – 1903?)”.

Alfonso Vajana, “Uomini di Bergamo”, Vol II. Edizioni Orobiche, Bergamo.