Il boschetto di Santa Marta e l’ippocastano che non c’è più

Ai giorni nostri il Sentierone è una lunga ed elegante vetrina che siamo soliti attraversare in fretta, ma un tempo era un luogo d’incontro dove tutto invitava a rallentare il passo.

Il viale Vittorio Emanuele – così si chiamava la Strada Ferdinandea dopo l’Unità d’Italia – era diviso a metà da un lato dall’antica Fiera, un grande centro commerciale ante litteram nel cuore della città, e, dall’altro, dal “Boschetto” di Santa Marta, un rigoglioso triangolo verde compreso tra il il lungo viale e via XX Settembre, che si allungava verso via Borfuro all’altezza del monumento di Lorenzo Mascheroni.

Inizi Novecento, Porta Nuova: la Strada Ferdinandea, così chiamata in omaggio all’imperatore austriaco ed alla sua visita in città, avvenuta nel 1838

Al soleggiato Sentierone e al trambusto della Fiera, luogo di contrattazioni e divertimenti, si contrapponeva il verde cupo del boschetto che per quasi un secolo ha ristorato intere generazioni di borghigiani e persino, in più occasioni, gli invasori, specie dopo la ripiantumazione nel 1849 della sua metà inferiore verso lo sbocco di via Borfuro.

1920: Piazza Cavour e il Boschetto di Santa Marta, per quasi un secolo luogo di ritrovo estivo alla cui ombra si ripararono passanti e perditempo. A sinistra, il busto di Lorenzo Mascheroni, inaugurato nel settembre del 1897

Fittamente piantato a ippocastani, il “Boschetto” celava al suo interno la chiesa e il monastero trecenteschi delle Domenicane, custodendo sotto la sua ombra discreta anche alcuni di quei monumenti che ora si trovano sparsi nel centro cittadino: quello di Cavour, quello di Lorenzo Mascheroni e l’obelisco, svettante altissimo nell’attuale piazza Vittorio Veneto.

Il monumento marmoreo a Cavour, inaugurato nel 1913 dal re Vittorio Emanuele III, cambiò più volte domicilio essendo stato persino nei giardinetti presso il Municipio vecchio, “coperto di una leggera patina verde-vergogna” (Luigi Pelandi). Accanto, è ancora visibile il portico della chiesa di S. Marta

 

La chiesa e il Boschetto di S. Marta, con  il busto eretto alla memoria di Lorenzo Mascheroni

L’obelisco, che tutti credono attribuito a Napoleone Bonaparte, in realtà era stato eretto in precedenza in onore del podestà e vice capitano della Repubblica Veneta  Gianfranco Correr (che in quel periodo stava lasciando la città), per essersi tanto prodigato durante la grave carestia del 1775. A seguito dell’invasione francese del 1797 l’obelisco venne dedicato a Napoleone, ma nel 1801, con l’occupazione austro-russa della città, l’intestazione venne rimossa. In seguito, il ritorno delle truppe francesi in Bergamo riportò il nome di Napoleone sull’obelisco dal quale peraltro venne cancellato intorno al 1815.

Trafiletto tratto da “Un giorno a Bergamo, guida della città”, 1892

Ma le peripezie dell’intitolazione non finiscono qui e  il seguito lo scopriremo presto.

Piazza Vittorio Veneto con l’Obelisco dedicato “A Bonaparte l’Italico 1797”. L’attuale medaglione che decora il dado del basamento è opera di Costante Coter ed è stato posto soltanto nel 1939

Nel bel mezzo del “Boschetto”, ch’era liberamente aperto a tutti, per anni aveva dimorato una famiglia di girovaghi con una carrozza sgangherata. E a dimostrazione della libertà concessa al luogo, il ramaio Cornali, che qui aveva la sua bottega, era solito appendere sui rami degli ippocastani le gabbie dei volatili che catturava: un piccolo arbitrio sul quale il Comune chiudeva un occhio.

Acquaforte di Sandro Angelini (“Bergamo d’altri tempi” – Istituto Italiano d’Arti Grafiche – Bergamo).

Al boschetto era stata anche eretta la prima edicola della città e verso il 1875 si era stanziato con un chiosco-baraccone il libraio Bortolo Fantini detto Ol Barbù, un tipo bonario, gran compratore e rivenditore di libri usati, presso cui talvolta si poteva acquistare a buon mercato qualche antica edizione abbastanza rara. Con i suoi libri il buon Fantini aveva così istituito una biblioteca circolante.

“Boschetto di S.ta Marta visto dal lato ovest. 1887”. Disegno a matita

Ma in una brutta notte primaverile del 1884 un incendio gli portò via ogni cosa e da allora dovette arrangiarsi a vendere merce di vario genere, aggirandosi col suo carretto.

Nelle sere d’estate, Bernardo Moro, detto Pèia, allestiva ai confini del boschetto la sua  baracca di burattini; durante gli intervalli la moglie passava fra il pubblico porgendo in una mano il bussolotto per raccogliere le offerte e reggendo con l’altra una lanterna.

Quest’angolo della Bergamo dell’Ottocento è rappresentato in un quadro del pittore Gabriele Rosa, con la baracca tra i cittadini che frequentavano il passeggio sul quale si affacciavano gli edifici affastellati attorno all’antica Fiera, con i suoi variopinti Caffè.

La baracca di Bernardo Moro nella più antica testimonianza del teatro dei burattini a Bergamo in un dipinto di Gabriele Rosa del 1840, intitolato “Spettacolo di burattini sul Sentierone durante la Fiera di Sant’Alessandro”

Questo stato di grazia perdurò fino a che, all’inizio degli anni Venti, non si avviarono le demolizioni nell’area per far posto agli edifici del centro piacentiniano.

Bergamo, 1922-1924: una fase della demolizione degli edifici dell’antica Fiera, per far posto al nuovo centro di Città Bassa progettato dal giovane architetto romano Marcello Piacentini

Insieme agli edifici della Fiera si decise di abbattere anche il Boschetto di Santa Marta e con esso il “piantù”, uno splendido esemplare di ippocastano cresciuto regolarmente, come natura comanda, senza alcun taglio dei rami alla base ed altre riduzioni alla chioma, e di cui solo le immagini possono restituirci  la bellezza e la maestosità.

Il maestoso ippocastano che svettava sul Sentierone accanto al complesso di S. Marta, abbattuto il 19 novembre del 1923 a seguito dell’apertura di via Crispi e della realizzazione della Banca Bergamasca, che prese il posto del demolito complesso conventuale (Raccolta Lucchetti)

Furono in molti in quel 1923 a chiedere che “ol piantù” fosse risparmiato, ma non vi furono ragioni: l’abbattimento dell’amato monumento verde, che era stato il simbolo di un’epoca e di un luogo, lasciò un vuoto incolmabile  nell’animo dei Bergamaschi.

“Era l’ultimo testimone vivente del buon tempo passato: all’ombra ristoratrice dei suoi rami fronzuti, quante generazioni avevano riposato, ed avevano sognato!

Fanciulli, si giocava a rimpiattino dietro l’enorme tronco; giovanotti, si faceva all’amor platonico con la morosetta del core; vecchi, si rievocava il passato, chiacchierando, fra una pipata e l’altra! Povero, grande amico piantone! Se n’è andato andato anche lui…” (Sereno Locatelli Milesi).

L’abbattimento del “piantù”, avvenuto il 19 novembre del 1923 fra il commosso rimpianto della cittadinanza. Alle sua spalle l’obelisco e la Torre dei Caduti in costruzione

Tutti rimpiansero le quiete passeggiate sul Sentierone, gli assolati pomeriggi estivi trascorsi nella gradevole penombra del boschetto e le lunghe serate passate chiacchierando con gli amici sotto le enormi fronde di quello che tutti ormai chiamavano ol piantù.

In quell’occasione, anche “La Rivista di Bergamo” diede voce all’ippocastano sacrificato:

“Bergamaschi carissimi, sono il più formidabile campione degli ippocastani di secolari memorie che stano cadendo sotto la scure. Quale sventura! Sotto l’ombra ospitale dei nostri rami quanti tra voi, grandi e piccini, avete trascorso ore serene di riposo, soprattutto in estate. Ed è questa la vostra riconoscenza? Stiamo cadendo sotto i colpi della scure uno dopo l’altro; fino a ieri avevamo però sperato di non essere tutti sacrificati alle nuove bellezze edilizie di Bergamo. Invece non c’è pietà. Addio, boschetto di Santa Marta! Lo confesso: egoisticamente mi illudevo che le mie maestose forme e lo splendore candido della mia veste quandè primavera bastassero a salvarmi; e mi ero rassegnato ad assistere impotente alla fine dei miei confratelli. Invece, toccherà anche a me. Qui tra l’altro Bergamo mi volle quando non contava più di trentamila anime; e ora i suoi sessantamila abitanti mi sopprimono. Ma lasciatemelo dire: prima della fine di questo secolo, allorquando i cittadini saranno centoventimila, io sarei salito tanto alto nel cielo da costituire, con numerosi figli miei, il più meraviglioso ornamento della natura di Bergamo. Peccato, centomila volte peccato” (1).

Così, quando si decise di abbattere anche l’ultimo albero superstite del Boschetto per far posto a una una banca, anche il “Merica”, famoso cantastorie di Bergamo, si sbizzarrì dedicandogli una delle sue canzoni più accorate.

Su questo terreno si era deciso di costruire la sede della Banca Bergamasca di Depositi e Conti Correnti, abbattendo sia il boschetto che gran parte del convento di Santa Marta, di cui fortunatamente si salvò il chiostro, oggi celato nell’elegante galleria omonima.

Febbraio 1923: la posa della prima pietra della Banca Bergamasca, nella zona di S. Marta. A edificio ultimato, la cerimonia di inaugurazione, prevista per i primi giorni del mese, fu rimandata in segno di lutto dopo il disastro della diga del Gleno, avvenuto proprio il primo dicembre

La costruzione della banca rientrava nella seconda fase dei lavori per il nuovo centro: un lotto che coprì 2383 metri quadri dell’area e si elevò sino a quattro piani fuori terra (oltre gli ammezzati), con portici su tutti e quattro i lati e con una spesa iniziale prevista di tre milioni e mezzo, da ultimarsi in tre anni.

Un carro della Ote, con un grosso trasformatore elettrico, verosimilmente avviato verso la stazione ferroviaria, si ferma per una foto ricordo davanti alla Torre dei Caduti di nuova costruzione, affiancata sulla destra dal palazzo già della Banca Bergamasca (ora Ubi Banca), inaugurato nel 1926 su progetto di Marcello Piacentini ma affidata a Giovanni Muzio per l’architettura e la decorazione interna

Già nel 1924 il nuovo centro aveva assunto un carattere che lasciava intravedere, sull’area del vecchio Prato di S. Alessandro, il suo armonioso ed elegante aspetto.

Nella aerofotografia del 1924 il centro piacentiniano si avvia a compimento: sono costruite la Banca d’Italia e la Torre dei Caduti (di Marcello Piacentini), la Camera di Commercio (di Luigi Angelini); nel 1925 sarà aperto il blocco di edifici sul Sentierone (di Marcello Piacentini). E’ in costruzione il Palazzo di Giustizia (di Marcello Piacentini, con la direzione di Ernesto Suardo). Accanto al Palazzo di Giustizia, di fronte al Teatro Nuovo, tra il 1927 e il 1928, sarà costruito quello che doveva essere il Palazzo delle Poste e Telegrafi (di Marcello Piacentini)-(M. Mencaroni Zoppetti – a cura di – L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo)

A sancire il nuovo status politico-urbanistico di Bergamo Bassa, si elevava la Torre dei Caduti, dedicata alla memoria e all’onore dei caduti bergamaschi e costruita anche per esaltare e consolidare il nazionalismo unitario, come esplicitamente detto nel discorso di inaugurazione pronunciato da Mussolini il 27 ottobre 1924.

La messa in opera sulla torre dei Caduti della statua della Vittoria, opera dello scultore Faino (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

 

Lo scenografico balcone della Torre dei Caduti nel giorno della sua inaugurazione, il 27/10/1924, avvenuta alla presenza di Mussolini. Nell’immagine figura anche Antonio Locatelli, non ancora podestà di Bergamo (Archivio fotografico – Fondazione Bergamo nella Storia)

 

Il bagno di folla di Benito Mussolini, attorniato dalle autorità militari e civili, dopo l’inaugurazione della Torre dei Caduti, destinata a diventare il simbolo di Città Bassa (Archivio fotografico – Fondazione Bergamo nella Storia)

Il gioiellino che aveva preso il posto dell’amato giardino entrò cosi a far parte del nuovo centro, ormai affacciato alla “modernità”. Bergamo perdeva il suo Boschetto, ma grazie alla lungimiranza dei progettisti e degli amministratori dell’epoca, lasciava ai posteri una magnifica, invidiabile vista su Città Alta.

1930 circa: “Il nuovo centro della fiera”. “Schierata e raggruppata sulle sue splendide mura come un diadema su una nobile fronte. ella pare dire al Borgo che sta ai suoi piedi, sempre più ricco, sempre più prosperoso di industrie e di commerci: ‘Tu trionferai a patto che io sia in vista. Più diverrai possente e più vorrai evitare l’onta e il danno de i tuoi abitatori, alzando gli occhi, non vedano più la Madre’. E il comandamento è stato obbedito. E ora, man mano che i lavori si avviano a soluzione, il progetto Piacentini dà al nuovo centro un aspetto architettonico abbastanza sobrio per evitare ogni contrasto sgradevole con la scena squisitamente pittoresca dell’altura” (Ettore ]anni, per “Emporium”)-(Ph “Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

 

Note

(1) Dal numero di settembre-ottobre del 1923, “La Rivista di Bergamo”.

Riferimenti

“Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

“La Rivista di Bergamo”, numero di settembre-ottobre del 1923

“Bergamo di una volta”, Umberto Zanetti. Ed. Il Conventino.

2 risposte a “Il boschetto di Santa Marta e l’ippocastano che non c’è più”

    1. Buonasera,
      se si riferisce alla storia del Boschetto di S. Marta e del piantù, questa la bibliografia:
      “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

      “La Rivista di Bergamo”, numero di settembre-ottobre del 1923

      “Bergamo di una volta”, Umberto Zanetti. Ed. Il Conventino.

      Cordialità

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