Bergamo nelle impressioni di Hermann Hesse: dalla percezione all’anima

Al suo terzo appassionato viaggio in Italia, nel 1913 il grande scrittore svizzero-tedesco Hermann Hesse – premio Nobel per la Letteratura nel 1946 – compie un viaggio in Lombardia visitando in successione Como, Bergamo e Cremona, mete tra le meno sfruttate dai viaggiatori celebri del tempo. Com’è consuetudine, annota le impressioni e le emozioni del viaggio nel suo “Bildebuch”, lasciandoci in eredità una delle descrizioni più belle e suggestive dell’antica Bergamo.

Dopo aver visitato due grandi mete del Belpaese, Venezia e Firenze, egli desidera ardentemente andare alla scoperta di centri minori, lontani dai Grand Tour così in voga tra gli intellettuali e gli aristocratici del tempo. Desidera vagare per cittadine raccolte e un po’ assonnate, ricche di logge e porticati che offrano frescura e rifugio al viandante straniero; luoghi dal carattere remoto e dalla grazia ritrosa che si possano percorrere a piedi e abbracciare dall’alto in un solo sguardo, con strade e viottoli nei quali il tempo sembra sospeso. Luoghi simili alle amate cittadine dell’Italia centrale con quegli ‘umidi vapori di angusti vicoli’ e le ‘presaghe oscurità’.

L’autore del “Viandante” si lascia condurre per la città non dalle istruzioni contenute in una Guida ma solo dalla sua anima colta, sensibile e aperta,  soffermandosi su ciò che per lui è fonte essenziale di emozione e quindi degno di prolungato sguardo contemplativo.

Hesse, che salì in Città Alta verso notte, pieno di curiosità, addentrandosi inaspettatamente in una grande, magnifica piazza si lasciò attrarre da oscurità piene di mistero e sorprendere da nobili costruzioni balzanti su all’improvviso con genuino stupore, lasciando che i suoi sensi, complice la notte, lo trasportassero in un mondo surreale, ingigantito da ombre oscure, che si dissolsero con la luce del giorno.

Giunto al cospetto della chiesa grande di Santa Maria, si trovò subito ravvolto da una luce e da un profumo devoti e solenni, respirando l’ardore e la consapevolezza di un superbo passato e attirato da un raggio di sole ad un palazzone che sullo sfondo lasciava giungere dalle finestre spalancate le voci a coro di scolari…

Rimase lì incantato.

§§§

In una notte di marzo del 1913 l’allora trentaseienne Hermann Hesse  approda  alla stazione di Bergamo…

s’incammina verso la funicolare e a poco a poco il profilo lucente di Città Alta si svela al suo sguardo.

Risale l’imponente arteria centrale, dove sono allineati ristoranti e negozi illuminati…

raggiunge la funicolare per Città Alta…

e dal Mercato delle Scarpe…

si dirige verso Piazza Vecchia.

“Mi ritrovai nel cuore di una buia città antica, inghiottito da un vicolo stretto e spopolato.

Proprio allora venivano chiuse le botteghe.

D’un tratto mi spaventò la vista di una torre incredibilmente alta che fuoriusciva da una forra di case e spariva in alto, nella notte; mi parve di essere tornato all’improvviso nella Toscana meridionale o in una cittadina dell’Umbria montagnosa.

Torre del Gombito, eretta nel XII secolo, appartenne anticamente alla potente famiglia de’ Zoppo. La torre, una delle poche superstiti, testimonia il potere esercitato dai clan familiari sulla città in epoca medioevale. Molte altre torri vennero abbattute da Venezia quando nel 1428 la Serenissima estese il suo dominio sino a Bergamo

 

Inaspettatamente il vicolo si allargò come spartendosi in due e sfociò in una grande piazza stupenda:

a destra un lungo portico ad arcate dove tardivi passeggiatori fumavano la pipa;

a sinistra un grande monumento moderno, probabilmente un Garibaldi; e a ridosso una scura, elegante architettura con grosse colonne ed archi eleganti.

Il “grande monumento” a Garibaldi, qualche decennio prima aveva fatto sloggiare dal centro della piazza la settecentesca fontana del Contarini, che si prese tuttavia la rivincita ritornando al suo posto nel 1922; la “scura, elegante architettura” è l’austero palazzo della Ragione, costruito nei primi anni del Duecento e più volte rimaneggiato, simbolo della sovranità comunale

Sulla piazza nessun segno di vita all’infuori dei vetri debolmente illuminati di un piccolo caffè e di una drogheria che in vetrina esibiva, a mo’ di gioielli, brillanti bottiglie di vetro verde e arancio cupo.

Il porticato scamozziano in marmo bianco di Palazzo Nuovo, oggi sede della Civica Biblioteca, ospitava allora il Regio Istituto Tecnico

Trassi un profondo respiro. Da molto tempo non entravo più di notte in un’antica cittadina italiana, adescato da oscurità presaghe, sorpreso dal repentino apparire di nobili architetture e salutato dall’umidità della pietra degli stretti vicoli.

Nella locanda mi venne assegnata una camera pavimentata in cotto rosso, grande come un palazzo, e mi fu dato del tenero arrosto di montone. Il vino era buono, e l’oste aveva una bella cognata.

Hesse prese probabilmente alloggio all’Albergo del Sole, l’unico allora collocato in Piazza Vecchia, dove inizia la Corsarola. Oggi come allora l’albergo espone la bella insegna del sole in ferro battuto, dorato e colorato vivacemente

Ciò nondimeno uscii subito.

La pioggia sgocciolava soavemente sui lastroni di pietra, su cui si cammina tanto bene.

Il Garibaldi era là, serio e un po’ abbacchiato, sul suo alto piedistallo, custodito da quattro leoni dall’aria assai truce. A tre ficcai nelle fauci urlanti di bronzo una monetina da due soldi che l’indomani ritrovai al medesimo posto.

Nel frattempo avevo aggirato il monumento ritrovandomi così davanti a un meraviglioso palazzo il cui pianoterra formava un imponente portico col soffitto voltato, pilastri a spigoli verso l’esterno e belle colonne leggere all’interno.

Lo attraversai. Sul lato sinistro vidi una maestosa scalinata bianca che portava al Duomo..

e di fronte un’altra grande chiesa dall’aspetto fantastico, cupole indistinte nel cielo notturno..

Un portale molto antico, presumibilmente gotico, con figure entro piccoli tabernacoli;

di fianco, la facciata ricca e turgida di una cappella. Il tutto immerso nella foschia crepuscolare, il tutto carico di presagi e di promesse.

Pregustai sorprese affascinanti.

Andai oltre, eccitato e pieno di aspettative per il mattino seguente, senza alcun desiderio di guastarmi l’attesa con la lettura di un Baedecker o Cicerone.

 

L’indomani la prima passeggiata mi riportò sulla piazza, che ora, nella luce del mattino, mantenne tutte le promesse della notte.

Solo il Garibaldi usciva perdente, se ne stava tapino sul suo zoccolo troppo grosso, mentre i quattro leoni feroci non solo, come allora vidi, avevano un’aria stolida, ma fortunatamente erano anche molto più piccoli.

 

Il palazzo con il portico, a volte, ospitava la famosa biblioteca di Bergamo, che conserva alcune centinaia di incunaboli; avrei anche potuto vederli se solo ne avessi avuto voglia.

Dal 1843 al 1927 il Palazzo della Ragione ospitò la Biblioteca Civica di Bergamo, già ai tempi di Hesse annoverata tra le prime dieci biblioteche italiane per ricchezza e qualità dei fondi conservati

Un’ardita scalinata lunghissima con soffitto a cassettoni sorretto da colonne costituiva l’accesso alla biblioteca.

La lasciai dov’era e, sperando in nuove sorprese, percorsi il porticato passando davanti a una briosa statua barocca raffigurante il poeta Tasso..

..e proprio lì vidi due chiese che la notte dianzi erano emerse dal buio come sagome spettrali: nel parco sole del mattino erano limpide e coraggiose.

Dall’altra parte il Duomo, pomposamente gaio e chiaro con una larga gradinata maestosa davanti alle porte;

vicino, di fronte a me, Santa Maria Maggiore e, attigua, con le sue bizzarre e sfrenate decorazioni, la Cappella del Colleoni.

Davanti al portale della chiesa, un piccolo avancorpo molto alto: sei modesti gradini di pietra, un largo arco romanico a tutto tondo poggiante su due colonne sorrette da leoni, e concluso da una sopraelevazione gotica, una specie di piccolo vano grazioso a tre nicchie e in ciascuna una antica scultura, quella mediana a cavallo. Al di sopra uno stretto baldacchino cuspidale, un piccolo ambiente con due lucide colonnine leggiadre e con tre figure di santi. Il tutto di una grazia contegnosa e di una innocenza selvatica che emanava quel fascino proprio dell’anonimato; perché questo genere di forme artistiche, simile peraltro all’arte dei popoli primitivi, non sembra scaturito da una sola mente, ma piuttosto dal pensiero e dal sentimento di un’intera generazione e di un’intera comunità”.

Un’intera comunità che ha fatto del protiro, luogo simbolo di accesso alla principale chiesa cittadina, un’espressione viva e scultorea della propria identità mitica e religiosa.

Il protiro di Santa Maria Maggiore, opera di Giovanni da Campione e della sua bottega. Le figure dei santi che lo sovrastano sono i protettori di Bergamo: Alessandro, Vincenzo, Barnaba. Più in alto, sotto lo stretto baldacchino cuspidale, sono collocate Maria Vergine, Grata e Adleida: statue di cui si ignora la provenienza, e che gli studiosi non sanno attribuire né a un artista né a un periodo certi

“Stavo per entrare nella cattedrale, ma il mio sguardo fu catturato dalla dovizia decorativa della facciata della Cappella Colleoni.

La Cappella Colleoni, eretta da Giovan Antonio Amedeo nel 1472 per volontà del condottiero Bartolomeo Colleoni, che aveva raggiunto ricchezza e celebrità al servizio di Venezia

Il suo disegno originario doveva essere molto bello e lineare, una ripetizione elegante dello schema classico: portale e due finestre laterali, sopra l’ingresso un grande rosone e, a conclusione, una leggera e nitida galleria di gentili colonnine.

Ora però i conti, non si sa perché, non tornano. L’insieme non è armonico, non è né pulito né perfetto; tra la facciata e la cupola c’è uno spazio vuoto e non risolto (…). Ah, talvolta mi sento davvero allargare il cuore quando mi capita di cogliere in fallo gli italiani che, di certo, sono spesso spavaldamente virtuosi e magari superficiali, ma che in architettura e nella decorazione sono tuttavia incorsi raramente in quelle funeste disavventure che da noi sono invece pressoché la regola.

Nemmeno quel tatuaggio mi mise in fuga, sicchè entrai all’interno della cappella dove il generale veneziano Colleoni è sepolto insieme alla figlia e dove ancor oggi si officiano messe in suffragio della sua anima, in virtù di un lascito di milioni donato dallo stesso pio condottiero. Al di sopra del suo sacello, in un’ombrosa nicchia nella parete, il generale dorato cavalca un destriero pure dorato, affascinante nella sua grandezza e dignità, magari un po’ rigida.

Sulla parete di fianco la sua giovane figliola, delicata e minuta, riposa scolpita nella pietra su un cuscino pure di pietra e, resa immortale dall’ignoto artista, dorme ignara incontro alla stessa eternità e fama del suo grande padre.

Pieno di curiosità, mi affrettai a raggiungere la grande chiesa superando i due leoni rossastri che sorreggono le colonne dello stretto protiro.

Particolare del protiro della basilica di S. Maria Maggiore

Entrai. Subito mi sentii avvolgere da una luce e da un profumo religiosi e insieme solenni.

 

Una penombra dorata filtrava sui dipinti della pala dell’altare e sui pallidi affreschi. Nelle nicchie e lungo i muri ovunque opere scultoree e d’intaglio di ogni sorta; molto splendore e molta ricchezza profusi in ogni dove.

Quella chiesa la si attraversa: si respira l’ardore e la consapevolezza di un passato orgoglioso, si saluta al rapido passaggio un volto noto scolpito nella pietra, si ammira un arazzo. Si va avanti e, procedendo, si dimentica già ciò che si è appena visto. Solo un suono rimane: l’armonia di una magnificenza satura e di una penombra venerabile.

Una cosa però non si dimentica più: i seggi del coro di questa chiesa singolare. Tutti i i dorsali di questi seggi (sono parecchie dozzine), sono gli stalli del coro di questa stupefacente chiesa. Gli schienali, e sono parecchie decine, sono intarsi in legno, quadro dopo quadro, su disegno di Lorenzo Lotto e altri, realizzati da artisti bergamaschi in un paziente lavoro di intaglio e commettitura. A queste formelle hanno lavorato nonni, figli e nipoti per oltre centocinquant’anni.

Una delle preziose tarsie custodite in S. Maria Maggiore, realizzate da Giovan Francesco Capoferri su disegni di Lorenzo Lotto.  Le quattro grandi tavole intarsiate sul fronte esterno dell’iconostasi erano accessibili ai fedeli solo in occasione delle cerimonie solenni

E non si rimpiange né il tempo né la fatica che questo lavoro è costato. Difficile vedere opere che comunichino tanta gioia come quest’arte fedele, raffinata e inconsueta: legni bruni, gialli, verdi bianchi, mielati, tutti della medesima vaporosità e con la medesima patina del tempo, sommessamente brillanti in tonalità calde e piene, un benefico, tiepido bagno per la vista (…).

Tarsia realizzata da Giovan Francesco Capoferri su disegni di Lorenzo Lotto

 

Tarsia realizzata da Giovan Francesco Capoferri su disegni di Lorenzo Lotto

Diedi un’occhiata all’interno del Duomo: bianco e oro e uno splendore straordinariamente sposato alla sobrietà.

 

Uscito, seguii l’invito di un raggio di sole su una piccola piazza sghemba in leggera salita, dove sull’acciottolato spuntavano fili d’erba appuntiti di un verde luminoso..

..e dalle finestre aperte di un grande palazzo uscivano le voci un po’ monotone di alcuni scolaretti.

Arrivai, più oltre, in un silenzioso angolino chiamato pomposamente Piazza Terzi.

Un lato di questa piazzetta era formato dall’alto muraglione di un giardino pensile. Il muro, pesante e grezzo, era però deliziosamente interrotto da un nicchione che ospitava una bella figura femminile armoniosa nelle fattezze, forse una Cerere, e che si concludeva con una galleria compresa fra due putti con cornucopia e spighe.

Mi fermai estasiato: uno degli angoli più belli d’Italia, una delle tante piccole sorprese e gioie per le quali vale la pena di viaggiare.

E appena mi girai, dirimpetto alla statua notai il portone aperto di un palazzo. Sotto un’alta volta nitida si vedeva una corte con piante e lampioni appesi al soffitto, magicamente conclusa da un’elegante balaustra. Due grandi statue dal puro contorno si libravano quasi nell’aria, evocando, lì in quell’angolo racchiuso dalle murature, il senso presago dell’infinito e della vastità dello spazio aereo al di sopra della pianura del Po”.

Nel cinquecentesco palazzo Terzi aveva soggiornato ai primi dell’Ottocento il celebre scrittore francese Stendhal, del quale aveva scritto : “Il paesaggio di Bergamo è davvero il più bello che io abbia mai visto”

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Hesse si reca poi nella città bassa e dopo aver visitato l’Accademia Carrara si concede una pausa per bere due caffè, meravigliandosi  “di come gli italiani riuscissero, nonostante le loro elevatissime tasse doganali, a fare per pochi soldi un caffè che da noi non si trova nemmeno nei locali eleganti”…

Dopo essersi “abbastanza annoiato nella città moderna”, s’incammina verso l’alta città gironzolando senza meta e senza fretta per stradine.

“L’importante non è la meta, bensì il viaggio”, affermava  Siddartha in una riflessione scaturita dal suo autore.

Superato Colle Aperto e giunto alla porta di Sant’Alessandro, dato uno sguardo a case dipinte di rosa o di verde, inondate dalla luce del tramonto…

…si ritrova nella piccola sala d’aspetto della funicolare che conduce a San Vigilio, inaugurata un anno prima, nell’agosto del 1912.

“Era quello che mi ci voleva”.

Dalla funicolare Hesse ammira il graduale svelarsi dell’antica città, dei tetti, dei campanili e delle torri; poi si lascia avvolgere dalla quiete dei luoghi godendosi il tepore della giornata che declina verso il tramonto.

“Presi la prima telecabina in partenza e dopo pochi istanti mi si dischiuse un panorama stupendo e del tutto diverso: sospeso al di sopra della città sulla piattaforma della funicolare, vidi profilarsi, tra me e la verde pianura che la lontananza sfumava, la sulhouette compatta e altezzosa di Bergamo vecchia, con le sue torri e le sue cupole, le sue mura e i suoi tetti. Un pallido sole serale sfiorava le cupole…

Di fronte alla stazione c’era una bassa costruzione che ospitava una locanda.

L’edificio era poco profondo e un’occhiata attraverso la porta a vetri mi fece immaginare sul lato opposto una vista incantevole, cosicchè decisi di entrare.

La celebre “Antica Trattoria Isola Bella”, sul colle di San Vigilio, dove sostò Hermann  Hesse

Prima però mi avventurai per un tratto sulla stradicciola che si snoda lungo il crinale della collina”.

Da San Vigilio Hesse si avvia verso la scaletta dello Scorlazzone, la ripida via gradinata che si diparte dalla chiesa e calando ripida verso i Torni si insinua tra gli orti ben coltivati.

I fianchi delle colline alla cui estremità sorge la Bergamo antica erano profusi di orti, terrazzamenti con vigne, filari di piante da frutta, ciliegi e mandorli, galline in libertà, cascinali che nel volgere di qualche decennio vennero trasformati in residenze di pregio, le cosiddette “ville di delizia”.

La trama minuta delle scalette, dei sentieri e dei viottoli, era percorsa da un continuo andirivieni di contadini, popolani, viandanti, muli, cavalli, asini…

 

Mentre cercava i vasti panorami, le ”azzurre lontananze” della pianura che si svelavano man mano, al suono delle note incerte di un pianoforte rallentò il passo senza andare oltre.

“Davanti a una linda villetta mi fermai ad ascoltare il suono esitante di un pianoforte. C’è sempre uno strano fascino nell’ascoltare la musica che proviene da una casa sconosciuta in una città sconosciuta; è una sensazione che evoca nostalgiche visioni di una felicità e di un’intimità cui siamo estranei.

Sostai a lungo cercando di immaginare chi stesse suonando. Certamente una fanciulla, forse di quindici o di sedici anni, che andava a scuola giù, nella città nuova, e che da poco aveva il permesso di esibirsi al pianoforte in occasione di ricorrenze familiari.

Inaspettatamente il portone si aprì e ne uscì un signore molto cortese che mi chiese che cosa desiderassi. Io gli dissi che avevo semplicemente ascoltato il pianoforte, ma, dal momento che aveva aperto, gli sarei stato grato se mi avesse lasciato dare un’occhiata al suo giardino. Il signore sorrise e si presentò: era un professore…”.

ll padrone di casa era il prof. Giuseppe Alberti, insegnante all’istituto tecnico. Gli presentò l’autrice della melodia, la figlia di dodici anni, e incominciarono a parlare: ”D’inverno, mi raccontarono, se ne stavano spesso seduti lassù, al sole, mentre la pianura tutt’attorno era inghiottita da un mare di nubi”.

La lieve foschia di quella giornata non gli impedì di scorgere la pianura, ai cui margini si elevano “montagne di un azzurro cupo, ispirando un profondo senso di spazio e lontananza”.

Ad un tratto, un raggio di sole svelò una “piccola forma bianca, infinitamente lontana e irreale”, un ”puntino gaio e luminoso” perduto nell’infinito della pianura.

Era il Duomo di Milano.

“Solo ora vedevo in tutta la sua estensione e maestosa dignità l‘immensa pianura dell’Italia settentrionale. Imponente e sconfinata come un mare, era verde e luminosa nelle vicinanze, mentre in lontananza assumeva mille diverse tonalità, dal grigio, al turchino, all’azzurro sempre più intenso punteggiato da una bianca miriade di cittadine, villaggi, monasteri, casali, fattorie, campanili, ville, fino a sfumare all’orizzonte in una distesa di blu senza fine”.

 

 

 

Note

Nel “Bildebuch” (“libro di immagini”, uscito nel 1926) sono contenute le annotazioni di viaggio di oltre un ventennio di Hermann Hesse. Il testo originale tedesco è pubblicato in H. Hesse, Gesammelte Schriften, Frankfurt am Main, Suhrkam, 1968, vol. III, pp. 780-785. La traduzione italiana della descrizione di Bergamo, qui riportata sino al soggiorno in Bergamo Alta, è apparsa in H. Hesse, L’azzurre lontananze, traduzione di Luisa Coeta, Milano, Lugarlo 1980.

Casa Bottani in via Gombito: la “Casa Veneta” di Bergamo

Rilievo acquerellato di Casa Bottani (1899) in via Gombito (Bergamo Alta) eseguito dal vero dal pittore Angiolo D’Andrea

Affacciata su via Gombito al civico 26, Casa Bottani-Passetti è uno dei pochi esempi rimasti a Bergamo di case affrescate nel Cinquecento. Ma non solo: il coronamento ogivale e trilobato delle finestre superiori, di gusto tipicamente veneto tardo gotico, e l’apparato decorativo dell’intera facciata, ne fanno l’unico esempio sopravvissuto in città di edificio alla “veneziana”.

Facciata di Casa Bottani. Particolare delle finestre

L’origine del fabbricato è certamente duecentesca ma esso ha subito nel tempo diversi interventi, come si evince dall’architettura delle finestre, secondo Luigi Angelini nettamente quattrocentesca e veneziana e probabilmente precedente la decorazione pittorica della facciata.

Facciata di Casa Bottani. Le modanature delle coppie di finestre trilobate profilate in arenaria e l’apparato decorativo della facciata, ricordano Ie architetture di transizione fra il gotico e il Rinascimento che adornano in gran numero “le calli e i canali della città lagunare e delle città della terraferma veneziana, Treviso, Padova, Vicenza e Verona” (L. Angelini, Un esempio cittadino di casa veneziana, cit.)

Nel corso dell’Ottocento, dalle finestre del terzo piano fu asportato il coronamento trilobato, allorchè  l’edificio venne rialzato di un altro piano.

La facciata di casa Bottani prima del restauro del 1948, L’insignificante quarto piano (così lo definì Angelini) fu aggiunto nell’Ottocento, rovinando il coronamento trilobato delle due finestre del terzo piano, che fu reintegrato con il restauro del 1948

Tale coronamento venne reintegrato con il restauro dell’edificio nel 1948, in occasione del quale Mauro Pelliccioli provvide a consolidare le decorazioni della facciata (1)

(1) Un secondo intervento di restauro fu eseguito nella primavera del 1987 da Andrea Mandelli, con la collaborazione di Silvia Baldis e Marco Virotta.

Facciata di Casa Bottani. Particolare delle finestre

 

Facciata di Casa Bottani. Particolare delle finestre

Quest’ultima, alla fine dell’Ottocento costituiva ancora uno dei migliori esempi di pittura parietale cittadina ma nonostante i restauri eseguiti, oggi i profili dei particolari compositivi sono notevolmente deperiti.

La facciata di Casa Bottani a fine XIX secolo (BCBg, Raccolta Gaffuri, album 6, appendice n. 34)

 

La facciata di Casa Bottani qualche decennio dopo il restauro eseguito nel 1948 da Luigi Angelini per conto dell’Associazione Amici di Città Alta

Anticamente l’edificio era volgarmente chiamato “casa del Petrarca” poiché una tradizione vuole che l’orefice Enrico Capra vi abbia ospitato il poeta (2), che visitò Bergamo il 13 ottobre 1359. Ma a chi appartenne in realtà? Delle vicende patrimoniali dell’immobile sappiamo solo che nel XV secolo fu proprietà della famiglia Bottani e, tra il XIX e il XX secolo, della famiglia Passetti (3).

(2) Muzio 1900, Op. Cit.

(3) Stando a quanto si ricava dalla documentazione conservata presso la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio, sino al 1882 era nelle facoltà di Rodolfo Rodolfi, alla morte del quale passò alla moglie Giuseppina Passetti e ai suoi eredi, per poi finire intorno agli anni Quaranta ai Maffeis.

Casa Bottani

I Bottani (4), importante famiglia originaria della Valsassina dedita al commercio, grazie ai frequenti rapporti con Venezia avevano ottenuto dalla Serenissima l’ambito titolo nobiliare.

Nel palazzo, la famiglia Bottani ha lasciato il proprio stemma sia scolpito (nelle mensole sotto i davanzali delle finestre) che dipinto, e da ciò si può ritenere che essa sia stata committente, se non dell’intero edificio quattrocentesco, perlomeno della decorazione rinascimentale.

(4) Della famiglia Bottani si trovano memorie fin dalla prima metà del secolo XV. Chiamati nelle antiche carte “cittadini providi e discreti”, ebbero giudici di collegio, oratori e nel 1433 Ambrogio Bottani fu Vicario di Zogno (A. Gualandris, La città Dipinta, Op. cit.).

Lo stemma dipinto nella grande inquadratura fra le due finestre del secondo piano, raffigurante due leoni rampanti sostenenti una botte, rivela chiaramente il nome della famiglia che ha eretto l’edificio

Secondo Luigi Angelini, che ha curato il restauro dell’edificio, “la composizione decorativa affrescata è sicuramente del primo quarto del Cinquecento e pertanto del periodo in cui Bergamo, attraverso l’influsso veneziano, aveva abbondanza di artefici del pennello, ornatisti, riquadratori, affreschisti esimi di figura. Non è pertanto azzardato il pensare che a questa opera abbiano messo mano pittori di fama per il richiamo che da alcuni tratti viene al nome di Giovanni Cariani, chiamato in quegli anni ad eseguire in città opere considerevoli di pittura murale ormai perdute in edifici pubblici e privati” (5).

Sebbene la decorazione rinascimentale riveli “la mano di un artista di elegante garbo e di sicuro gusto nella nobile e fresca fattura dell’esecuzione” (6), l’ipotesi dell’attribuzione a Giovanni de’ Busi detto il Cariani (di cui si è proposta anche una data di esecuzione tra il 1517 e il 1523, che corrisponderebbe a quella di un soggiorno bergamasco dell’artista) non è stata accolta negli studi sul pittore e non viene nemmeno discussa nelle recenti monografie ad esso dedicate. D’altronde, le condizioni attuali della facciata non permettono un giudizio sereno ed equilibrato e gli elementi linguistici e stilistici che ancora si possono individuare non sono riferibili solamente al Cariani.
La presenza del fregio monocromo con teste imperiali sembra peraltro consigliare di retrodatare leggermente la decorazione, che sembra ancora esemplata su modelli della seconda metà del Quattrocento e che potrebbe quindi essere stata eseguita all’inizio del Cinquecento (7).

Della spettacolarità dell’apparato decorativo, resta una perfetta riproduzione ad acquerello realizzata nel 1899 dal pittore Angiolo D’Andrea, pubblicata nel 1900.

La decorazione era divisa in tre grandi registri separati da un fregio marcapiano a sfondo rosso con oculi, anfore e stemmi.

(5) Luigi Angelini, “Un esempio cittadino di casa veneziana”, Op. cit.

(6) Ibidem.

(7) Scheda Piano del Colore di Bergamo Alta, Op. Cit.

Il pregevole rilievo acquerellato di Casa Bottani (1899) eseguito dal vero dal pittore Angiolo D’Andrea, pubblicato dal locale Istituto di Arti Grafiche nella “Rivista Arte Decorativa e Industriale” e riprodotto a colori nella puntata del giugno 1900 (anche in BCBg, Bergamo illustrata, falcl. 74, n. 1)

Il primo registro a partire dal basso, delimitato da lesene decorate con anfore e girali monocromi, presenta negli spazi tra le finestre due scene.

Le due vedute dipinte al primo piano, completato da lesene rinascimentali con ornamenti vari; superiormente, tra il primo ed il secondo piano, corre un fregio rosso decorato con centauri, anfore e tre medaglioni

La scena di sinistra è ambientata in Piazza San Marco, come testimoniano lo scorcio di Palazzo Ducale e le colonne con il leone di San Marco e san Teodoro, la laguna e figure in primo piano.

La scena di sinistra riproduce, con due persone in primo piano, la piazzetta veneziana di S. Marco con le due tipiche colonne e lo sfondo della laguna

La scena di destra, con in primo piano figure maschili (letterati o poeti) fra cui Dante Alighieri, è una veduta della vecchia Venezia nel sestiere di Dorsoduro.

Nella scena di destra, la veduta della vecchia Venezia nel sestiere di Dorsoduro

Il secondo registro accoglie una decorazione di tipo architettonico geometrico.
Delimitato da due colonne corinzie, è dominato da due finestre trilobate sormontate da medaglioni sorretti da una coppia di sirene. Ai lati due finte finestre decorate.

Il secondo registro  della decorazione della facciata. Alle estremità laterali si notano, circoscritti in tondi, visi maschili e femminili

In questo registro (secondo piano), in un tondo sotto le balaustre troviamo anche due volti, uno femminile ed uno maschile,

Testa inscritta in uno degli spazi sotto le finestre

 

Testa inscritta in uno degli spazi sotto le finestre

e al centro, come osservato in precedenza, una complessa composizione con due leoni rampanti che sostengono una botte al di sopra della quale vi è seduto un uomo dalla testa leonina.

La figurazione araldica al centro del secondo registro, rappresentante un leone con bastone seduto sopra un elmo e sotto uno stemma con due leone rampanti reggenti una botte

Una fascia decorativa a fondo rosso con cavalli marini cavalcati da ragazze, intercalati da medaglioni di personaggi laureati e coronati, separa il secondo dal terzo piano.

Nel terzo ed ultimo registro l’impostazione decorativa è  molto simile a quella precedente: al centro tre figure intere al primo piano sotto la volta di un arco e alle estremità due lesene; a sinistra vasi con motivi floreali, a destra una composizione con putti (8).

(8) A. Gualandris, La città Dipinta, Op. cit.

L’insieme del terzo registro della decorazione della facciata

 

La scena centrale del terzo – ed ultimo – registro

 

Testa inscritta in uno degli spazi sotto le finestre, con a lato lesenette rappresentanti piccoli putti

 

Testa inscritta in uno degli spazi sotto le finestre, con a lato lesenette rappresentanti piccoli putti

 

Riferimenti

– Luigi Angelini: Un esempio cittadino di casa veneziana, in: “Cose belle di casa nostra: Testimonianze d’arte e di storia in Bergamo”, Stamperia Conti, Bergamo, 1955, pp. da 125 a 126.
– Casa Bottani, Scheda Piano del Colore di Bergamo Città Alta.
–  Academiaedu, Università degli studi di Bergamo, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea Triennale in Lettere, A.A 2012-2013, Marco Bombardieri, I cicli pittorici profani nella Bergamo del Cinquecento.

– Arnaldo Gualandris, La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta.  U.C.A.I., 2008.

Bibliografia

– Angelini L., 1951, Il volto di Bergamo nei secoli, Bergamo, tav. XLI.

– Angelini L., 1955, Cose belle di casa nostra. Testimonianze d ‘arte e di storia in Bergamo, Bergamo, pp. 125-126.
– Capellini P., 1987, Si tenta di salvare gli affreschi della casa veneziana in via Gombito, in ”L’Eco di Bergamo”, 9 agosto, p. 6.
– Gualandris A., 2008, La citta dipinta. Affreschi, dipinti murali, insegne di Bergamo alta, Bergamo, p. 55.
– Mazzoleni A., 1909, Guida di Bergamo storico artistica, Bergamo, p. 57.
– Muzio V., 1900, Vecchie case con facciate dipinte a Bergamo, in “Arte italiana decorativa e industriale”, n. 9, settembre, pp. 69-.70, tavv.. 49-50.
– Torri T., 1983, Policromie di affreschi nella Bergamo rinascimentale, in “Atti dell’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti, vol. XLII, a.a. 1980-1981/1981-1982, pp. 919-938.
– Rossi T., 2009, Bergamo. Urbs Picta. Le facciate dipinte di Bergamo tra XV e XVII secolo. Censimento e schedatura di tutti i dipinti murali degli edifici di Bergamo Alta, bassa e dei colli esistenti o citati dalle fonti, Bergamo, pp. 118-123 n. 26.
– Zanella V., 1971, Bergamo Città, Bergamo, p. 65.

La curiosa beffa della tomba di Bartolomeo Colleoni

Bartolomeo Colleoni, particolare dell’affresco eseguito nel Luogo Pio Colleoni di Bergamo

Il «giallo» legato alle sorti dei resti di Bartolomeo Colleoni ebbe inizio nel 1913  in seguito alla visita a Bergamo di Vittorio Emanuele III e alla mancata risposta ad una sua semplice domanda: “Il Colleoni si trova nell’arca superiore o inferiore?”

Due ali di folla, con bandiere, applausi e grida “Viva il re!” al passaggio a Porta Nuova del corteo con l’auto – scortata da carabinieri in bicicletta – con Vittorio Emanuele III in visita alla città il 23 settembre 1913. In quella occasione il re presenziò anche all’inaugurazione del monumento a Cavour, alla posa della prima pietra dell’lstituto Tecnico in foro Boario e visitò l’lstituto Italiano d’Arti Grafiche (da “Fotografi pionieri a Bergamo” di Domenico Lucchetti – Foto di Giuseppe Locatelli)

Gli studi di mons. Locatelli, allora priore di S. Maria Maggiore, portarono a escludere che il condottiero fosse nel suo mausoleo e ad ipotizzare che questi fosse sepolto nell’attigua basilica di Santa Maria Maggiore dove, nel gennaio del 1950, venne scoperto un sarcofago in pietra sepolto nell’angolo sud – est della basilica.
Il sarcofago, che alcuni decenni or sono era ancora visibile sotto gli archi della casa d’angolo fra via Arena e piazza Rosate, conteneva ossa umane delle quali ad oggi non si sa nulla.
Il “Cavaliere Misterioso”, come è stato ribattezzato, riposa ancora sotto Santa Maria Maggiore, in un’urna di ebano protetta da una cassetta di zinco.
Dov’erano sepolte dunque le spoglie del nostro Bartholomeus?

Riassaporiamone gli eventi nella divertente intervista rilasciata nel 2004 al Corriere della Sera dal compianto fotografo bergamasco Domenico Lucchetti, che fu testimone di una vicenda dal sapore rocambolesco.

I propilei di Porta Nuova addobbati in occasione della visita del re Vittorio Emanuele III, in visita alla città il 23 settembre 1913

Quello che di pittoresco e popolare resta di lui: tre paia di «segni virili», come nel 1500 scriveva Spino, che nella sua biografia lo ha sempre e serenamente chiamato Bartolomeo Coglioni.

Tre paia di coglioncini come lustro e orgoglioso decoro della cancellata di ferro intorno alla magnifica cappella funeraria del gran condottiero.

Lo stemma forgiato sulla cancellata di ferro della cappella-mausoleo di Bartolomeo Colleoni, “passato alla storia per il suo nome e per il suo stemma, che sfoggiava dipinti tre “cojoni”, ovvero tre testicoli (secondo altri, tre cuori rovesciati): un potente simbolo di fertilità che fece nascere la leggenda che egli fosse particolarmente “dotato”. Se anche non lo era, forse, fisicamente, dotato lo fu di certo per traslato” (Elena Percivaldi, “Bartolomeo Colleoni – Vita di un grande Bergamasco”)

Lustri come l’oro, a furia di toccamenti e carezze, «perché dicono che porta buono» ridacchia Domenico Lucchetti, che più di tutti conosce la città e le sue storie: «e perché, dopo tanta gloria e tanto splendore, quel che del Colleoni ricorda la gente di Bergamo sono soprattutto gli aneddoti».

Ai tempi s’ era sparsa la voce che, di «segni virili», il gran condottiero ne avesse tre: sui marmorei stipiti della cappella, gli «attributi» ancora più evidenziati, essendo stati scolpiti in eloquentissima prospettiva.

Taglia corto Lucchetti: «Sul tema, sono state scritte migliaia di chiacchiere; stemma e cognome appartenevano già a suo padre e a suo nonno, originari di Malpaga, a sud di Bergamo: dove Bartolomeo Colleoni nacque, e dove morì, il 3 novembre 1475».

A parte i toccamenti ai tre lucenti cosini, è comunque fuori di dubbio che Bartolomeo Colleoni sia un tutt’ uno con Bergamo. Non fosse per la tomba maestosa, che suscitò dispute non meno accese di quelle circa il numero de «i ball», come le chiamano qui.

Oramai vecchio, ricchissimo e in forzato ritiro, il grande soldato era tornato nel castello di Malpaga pensando, finalmente, all’ anima sua: come allora si usava, dopo averne fatte di cotte e di crude.

Convocò l’ architetto Giovanni Antonio Amadeo e gli ordinò di erigere la cappella funeraria a due passi dal suo palazzo di città, di fianco alla chiesa di Santa Maria Maggiore in Città Alta.

Cappella Colleoni (Bergamo, Taramelli, 1890 ca.) Stampa all’albumina o al gelatino bromuro

Volle essere raffigurato a cavallo, armato e corrusco, e interamente dorato.

Il monumento equestre di Bartolomeo Colleoni, la grandiosa statua d’oro che sovrasta la tomba del condottiero nella cappella a lui intitolata in Bergamo Alta (da una stampa ottocentesca)

Dispose inoltre che, nella parete di fronte, fosse preparata la tomba per sua figlia Medea, morta all’ età di quindici anni, e temporaneamente sepolta nel Santuario della Basella insieme al suo canarino.
Tomba di struggente bellezza, con Medea dal lungo collo e la virginale vestina distesa come se stesse dormendo.

Bartolomeo Colleoni visita la tomba della figlia Medea che l’Amadeo ha compiuto (di Giovanni Beri, post 1867. Il dipinto è giunto alle collezioni museali dalla Civica Scuola di Pittura). Quasi sei secoli fa, sul finire dell’inverno del 1470, Medea, la figlia quattordicenne del Colleoni, si ammalò di un grave morbo polmonare. Il condottiero abbandonò i suoi incarichi per stare vicino alla sua amatissima bambina. Ma la fine giunse rapidamente e Medea morì il 6 marzo 1470. Una perdita gravissima

Liquidata la questione della cappella funebre, Bartolomeo Colleoni passò al testamento. Lasciò armi, cavalli e denaro a Venezia, che tranne qualche fuggevole infedeltà aveva servito per tutta la vita, pretendendo in compenso un grande monumento in città: anche qui a cavallo, e anche qui tutto armato.

Venezia – Campo dei Santi Giovanni e Paolo – Monumento equestre a Bartolomeo Colleoni – Verrocchio. Data della ripresa: 1900/1920

Fondò a Bergamo il «Luogo Pio Bartolomeo Colleoni» per fornire una dote alle ragazze bergamasche povere e in età da marito.

Luogo Pio della Pietà, via Colleoni, Bergamo

Nelle campagne bergamasche creò mulini e rogge utili a irrigare le terre che ancora oggi fruttano tutto ciò che serve amantenere la sua funebre cappella.

E infine morì, presenti alcune figlie (ne aveva nove, fra legittime e no), il segretario Abbondio Longhi, il magistrato Candiano Bollani, che Venezia aveva spedito perché si buttasse sui suoi beni.

E Zohane di Zuchi, «inviato» dei Visconti, che descrisse la sua «vestizione «final»: camicia di raso cremisi, «turca» di panno d’argento, berretta  «cappitanesca», bastone di comando, spada, speroni.

Trainata da due cavalli neri, la lunga salma (era alto quasi due metri ) raggiunse Bergamo, che tutta in lutto andò per tre giorni a rendergli onore nella basilica di Santa Maria Maggiore, dove era stata esposta prima della sepoltura nella vicina cappella, ancora fresca di pitture sui muri.

Interno della basilica di Santa Maria Maggiore in una stampa ottocentesca

E poi, sparì: il sacello sul quale montava a cavallo il gran condottiero, risultava vuoto. «L’ hanno cercato come pazzi», racconta divertito Lucchetti.

Nel 1954 monsignor Locatelli, priore di Santa Maria Maggiore si convinse che Colleoni fosse sepolto nella basilica. Ribaltarono il pavimento, finché non si trovarono segni evidenti di una tomba.

Il discusso ritrovamento del 12 gennaio 1950. Mons. Locatelli scopre la massiccia arca lapidea in granito, di tipo barbarico, interrato nel pavimento di Santa Maria Maggiore

Fu convocato il rabdomante Malachia, che i bambini di Città Alta credevano un mago perché ipnotizzava le galline.

Il discusso ritrovamento del 12 gennaio 1950. Il pesante sarcofago della polemica

Fu trovato uno scheletro.

Una scritta scolpita su una lastra autorizzò il priore a cantare vittoria. Finché non giunse una crudele smentita.

Il discusso ritrovamento del 12 gennaio 1950. Lo scheletro ricomposto che fu ritenuto del Colleoni. La commissione che presenziò a questa riesumazione dichiarò frettolosamente che i resti appartenevano al Colleoni senza rilevare le evidenti contraddizioni che vi si opponevano. Non si spiegava il perché dell’utilizzo di un’arca altomedievale, l’assenza di qualsiasi elemento di identificazione del feretro, la presenza di una spada di legno anziché di una vera, l’altezza dello scheletro non corrispondente alla statura tramandataci del Colleoni

 

Il discusso ritrovamento del 12 gennaio 1950. Con ironia la didascalia originale recita così: “I dolenti porgono condoglianze… ai discendenti del Condottiero”. I dubbi, mai sopiti, portarono al riesame dei reperti ad opera di una commissione, indicata dal Ministero della Pubblica Istruzione, presieduta da padre Agostino Gemelli che il 21 maggio 1956 escluse che le ossa in questione appartenessero al Colleoni: si concludeva una vicenda ma il mistero rimaneva, anzi vi si aggiungeva quello della vera appartenenza delle ossa, forse di un guerriero medievale mentre rimaneva inspiegabile la spada di legno rinvenuta insieme al misterioso scheletro

Il volonteroso prete e il mite ipnotizzatore di galline furono coperti di ridicolo.

I giornali dopo il ritrovamento contestato di Mons. Locatelli (1950)

Ma il tormentone aveva oramai invaso la città di Bergamo: «Dov’è Colleoni?».

Il fallimento di Malachia aveva aperto la caccia al fantomatico scheletro.

La ripresa delle ricerche con l’Ing. Alessandro Porro (maggio 1968). Si scavò fino a 4 m. di profondità

 

Il materiale ricavato dallo scavo eseguito nell’angolo in fondo a sinistra della Cappella

Monsignor Angelo Meli, nuovo priore di santa Maria Maggiore studiò a lungo il problema: «Il Colleoni è nella sua tomba.
Ma il suo sacello non è quello dove poggia la statua a cavallo ma quello più in basso».

Il Rotary cittadino si assunse le spese della ricerca.

Fu aperto fra le formelle di marmo un pertugio.
Fu chiesta al custode Sala un manico di scopa per tastare il fondo.
Non trovarono niente.
Offesissimo, Melli: «Io sono sicuro che Colleoni è in quello in basso; che cerchino meglio».

Infatti, chi aveva manovrato il manico della scopa aveva creduto di aver toccato il fondo; e invece era il coperchio della cassa di pero, lunga due metri e alta 45 centimetri «L’ abbiamo trovato!» andarono in trionfo al priore Melli.
E lui, imperturbabile: «Io l’ avevo sempre saputo che il Colleoni era lì».

Il disegno illustra l’ipotesi ritenuta più probabile circa l’introduzione della bara – avvenuta il 4 gennaio 1476 – nell’Arca maggiore: quello che per secoli era stato ritenuto un semplice pavimento sotto l’Arca Maggiore, sempre ritenuta vuota, viene frantumato e sotto un sigillo di calce viene alla luce una cassa di legno di pero priva di qualsiasi decorazione

 

Se i resti di Bartolomeo Colleoni riposano nell’Arca maggiore, a chi era destinata l’Arca minore? Forse il Condottiero pensava di trasferirvi le spoglie dell’adorata figlia Medea, lasciando alla Basella (dove inizialmente venne sepolta) il monumento originario dell’Amadeo

Questa volta, non c’ erano dubbi: le vesti e tutto il resto corrispondevano alla descrizione del cronista visconteo.

Una lastra in piombo ai piedi della bara riportava chiaramente la scritta

«Bartolomeo Colleoni, nobile bergamense per privilegio dello d’ Angiò, invitto condottiero generale della Illustrissima Signoria Veneta.
Visse 75 anni. Comandò per 24. Morì il 3 novembre anno 475 sopra il mille»

La targa di piombo, nitidamente incisa, rinvenuta nella cassa. Si tratta di una vera e propria “carta d’identità” del Condottiero. L’iscrizione dice: « BARTOLOMEUS COLIONUS NOBILIS BERGO. PRIVILEGIO ANDEGAVENSIS ILL.MI IMPERIJ VENETORUM IMPERATOR GENERALIS INVICTUS VIXIT ANNOS LXXX IMPERAVIT IIII ET XX OBIIT. III. NO. NOVEMBRIS CCCCLXXV SUPRA MILLE »

Erano sbagliati soltanto gli anni, che in realtà erano 81.

Domenico Lucchetti, che del Colleoni sapeva ormai tutto, si introdusse nel loculo per fotografarlo.
«La spada era sotto la schiena, perché era stato inumato da sotto, mentre la bara aveva dovuto subire una rotazione in avanti.
Il bastone del comando era in briciole, la spada arrugginita: evidentemente, l’avido inviato veneziano si era portato via i gloriosi cimeli, sostituendoli con altri di meno valore.

La prima fotografia a colori eseguita dopo la sensazionale scoperta delle spoglie di Bartolomeo Colleoni. Il coperchio della cassa viene tolto alle 14,30 del 21 novembre 1969; ai presenti appaiono le spoglie ancora intatte del Colleoni dopo 494 anni, con le vestigia del grande Capitano (nonchè una lastra di piombo con inviso il nome del condottiero). Il capo del Condottiero non è più centrato sul suo cuscino ma è scivolato nell’angolo della cassa; la berretta capitanesca è a sghimbescio, il corpo non è ben diritto. Evidentemente si è spostato all’indietro durante la collocazione della cassa nell’arca maggiore. E’ visibile il bastone di comando sul fianco destro del Capitano, e la targa di piombo cadutagli sui piedi

Ho fotografato ciò che restava di Bartolomeo Colleoni per una mattina intera. Mia madre mi aveva preparato gli ossi buchi, il mio piatto preferito. Non le dissi la verità, inventai una scusa, mangiai un pezzo di formaggio».

Il Rotary chiese in ricordo la scopa del ritrovamento, che tuttora religiosamente conserva.
Il custode Sala disse «sissignori» ma ne consegnò un’ altra.

Medea fu sepolta di fronte al padre due secoli fa. Per oscuri motivi, le autorità religiose la privarono del canarino che suo padre aveva fatto imbalsamare perché le tenesse compagnia anche al di là della vita.

Uccellino imbalsamato nella cappella Colleoni: apparteneva a Medea, figlia del Colleoni. A poca distanza dalla camera della ragazza vi era una gabbietta con un passerotto, suo compagno di giochi. Anche l’uccellino pare avesse avvertito l’agonia della padroncina e infatti morì lo stesso giorno. Bartolomeo ordinò dunque di farlo imbalsamare e di riporlo nella bara di Medea. Seppellita nella chiesa di Santa Maria della Basella, a Urgnano, nel 1842 la bara con le spoglie di Medea e il passero venne trasportati nella Cappella Colleoni. Ed è appunto da quel sarcofago che l’uccellino venne successivamente tolto per essere conservato sotto la cupola di vetro

Lo spennato cimelio, adagiato su un cuscinetto giallo e chiuso in una campanella di vetro, è custodito dalla signora Angela, che vende ricordi in un chioschetto all’ interno della cappella.

E per non smentire la concretezza bergamasca, Lucchetti informa: «Noi lo chiamiamo come la nostra torta più celebre, polenta e osei».

 

Fonti
– Corriere della Sera (21 novembre 2004):  Il Colleoni, gran condottiero e benefattore Gloria di un mondo pittoresco e popolare.
– Le fotografie in b/n e alcune notizie storiche sono tratte da Mario Bonavia, “Storia di una ricerca – La scoperta delle spoglie di Bartolomeo Colleoni”, edito nel 1970 a cura del Rotary Club Est Bergamo Clusone. L’ing. Bonavia è stato l’artefice della scoperta delle spoglie del Colleoni.

Santa Lucia, la festa della luce, tra passato e magia

E finalmente Dicembre con la sua magia.

Il periodo dell’anno in cui ci si stringe l’uno accanto all’altro nella convivialità delle feste tanto attese e desiderate, in un tripudio di regali, luci, abbondanza e….calorie.

Da che mondo è mondo, questo è il nostro modo per celebrare il solstizio d’inverno, quel momento in cui, tra il 21 e il 22 dicembre, dopo aver toccato il punto più basso dell’orizzonte il sole ricomincia a salire, regalandoci di giorno in giorno minuti di luce che prepareranno la natura al risveglio.

Il Solstizio d’Inverno non cade sempre lo stesso giorno, ma oscilla fra il 21 e il 22 Dicembre; questo perché noi utilizziamo un calendario chiamato gregoriano che suddivide l’anno in 365 giorni. Ma dal momento che alla Terra occorrono 365 giorni e 6 ore (circa) per completare la sua orbita attorno al sole, il disavanzo si riassesta grazie all’anno bisestile che, con l’aggiunta di un giorno in più, incorpora e integra le 6 ore lasciate indietro degli anni precedenti. Nel 2018 la data del Solstizio d’Inverno sarà dunque venerdì 21 dicembre, alle ore 22:22

Con la fine della caduta del sole, il solstizio invernale segna perciò l’inizio di una stagione che già nasconde in sé il seme della primavera.

Ed è appunto in questo periodo che attraverso i simboli legati alla alla luce celebriamo la speranza e il desiderio del risveglio: con l’albero di Natale illuminato, la stella cometa che guida i Re Magi, il ceppo che rimane acceso nella notte di Natale o con i grandi falò accesi nella festa di Sant’Antonio: tutte ricorrenze che affondano le radici nelle celebrazioni pagane legate al culto del Sole.

Varese: un maestoso falò per S. Antonio, festeggiato il 17 gennaio. L’antica usanza contadina è legata al delicato e importante momento di passaggio dal buio alla luce, dal letargo della natura al suo risveglio e alla vita 

Tra le feste situate a ridosso del solstizio d’inverno e legate alla luce,  quella di Santa Lucia è la festa per eccellenza e vedremo il perché.

CHI ERA SANTA LUCIA

La futura Santa siracusana, poco più che una ragazzina, apparteneva a una famiglia benestante. Orfana di padre, era stata promessa a un concittadino pagano. Quando la mamma Eutichia si ammalò gravemente, Lucia si recò in pellegrinaggio a Catania, sul sepolcro di Sant’Agata, per invocarne l’intervento. Durante la preghiera Lucia si assopì e vide in sogno Agata dirle: Lucia, perché chiedi a me ciò che puoi ottenere tu per tua madre? Nella visione Agata le preannunciava anche il martirio e il suo patronato sulla città. Ritornata a Siracusa e constatata la guarigione della madre, Lucia le comunicò la ferma decisione di consacrarsi a Cristo e di donare tutti i suoi averi ai poveri. Il pretendente, insospettito e preoccupato nel vedere la desiderata sposa donare tutto il suo patrimonio, verificato il rifiuto di Lucia, la denunciò alle autorità romane come cristiana. Erano gli anni delle persecuzioni di Diocleziano, e questa accusa equivaleva a una sicura sentenza di morte.

Santa Lucia davanti al giudice, particolare della pala di Santa Lucia, Lotto, 1532 – Pinacoteca civica di Jesi. Secondo la Legenda Aurea la santa si era rifiutata di adorare gli idoli pagani, per questo viene portata davanti al giudice, il console romano Pascasio. La sua posa verticale inflessibile simboleggia la sua fede incrollabile

Subì un processo in cui il Tribunale non riuscì a farla abiurare in alcun modo, e resistette anche di fronte alle minacce di essere esposta tra le meretrici.  Venne decapitata o, secondo alcune fonti, uccisa con una pugnalata alla giugulare, dopo le torture atroci inflittale dal console romano Pascasio, che non voleva piegarsi ai segni straordinari che attraverso di lei Dio stava mostrando.

Il culto di Lucia quale santa patrona degli occhi e della vista, si afferma a partire dal XIV secolo, quando nell’iconografia appare l’emblema degli occhi che la Santa tiene in mano (o su un piatto, o su una coppa) e che sarebbe da ricollegarsi con l’etimologia del nome Lucia (da Lux, luce)

Le sue spoglie riposano a Venezia dal 1203, qui giunte dopo una serie di vicissitudini storiche. Dopo aver peregrinato a lungo per le chiese di Venezia, dal 1863 sono state accolte in una cappella della Chiesa di San Geremia, da quel momento intitolata anche a Santa Lucia.

Le spoglie di S. Lucia sono conservate gelosamente a Venezia da oltre sette secoli, dopo essere state cedute a Costantinopoli (1040) ed essere state riportate in Italia nel corso della quarta Crociata guidata dal Doge veneto Enrico Dandolo.  L’urna contenente le sue spoglie è stata costruita col materiale della chiesa palladiana di Santa Lucia, abbattuta nel 1861 per dar spazio alla stazione ferroviaria di Venezia, che ne conserva tuttora il nome

 

Nel 1955 l’allora Patriarca di Venezia Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, fece porre una maschera d’argento sul volto, per proteggerlo dalla polvere

SANTA LUCIA A BERGAMO 

La devozione alla Santa si diffuse rapidamente e giunse nella Bergamasca probabilmente introdotta dagli eremitani agostiniani,  che nei secoli passati officiavano nella chiesa di San Nicola da Tolentino a San Pellegrino, adiacente al loro monastero, poi soppresso (1), mentre in città la prima chiesa dedicata Santa si trovava nella Valle di Santa Lucia Vecchia accanto all’attuale Tempio Votivo, dove oggi si trova la chiesa del Santo Nome di Gesù. 

La Valle di S. Lucia Vecchia in una ripresa del 1884

In questo luogo, esterno alle muraine, sorgeva dal 1337 il convento delle Domenicane con l’annessa chiesa titolata alla santa siracusana.

L’antica chiesa di Santa Lucia nella valle di Santa Lucia Vecchia (da Diego Gimondi e Salvatore Greco, “Santa Lucia – Tradizioni brembane e siracusane“. Ferrari Editrice)

Ma a causa della posizione isolata del sito, nel 1586 le monache decisero il loro trasferimento nel monastero di S. Agata, in Contrada di Prato (attuale Piazza Matteotti), occupato fino a quel momento dalle Umiliate di S. Agata de Rasolo.

Nei pressi del monastero di S. Agata in Contrada di Prato, corrispondente all’attuale via XX Settembre

Con l’arrivo delle Domenicane, il monastero di S. Agata assunse così la doppia titolazione di Santa Lucia e Sant’Agata.

Il monastero di S. Lucia e S. Agata in Contrada di Prato, al centro dell’immagine (incisione del 1815 ca. Proprietà Conte G. Piccinelli, Milano)

SANTA LUCIA, LA NOTTE PIU’ LUNGA CHE CI SIA

La festa di Santa Lucia rientra a pieno titolo tra le feste situate nel contesto invernale legate alla luce, essendosi letteralmente sovrapposta alle antiche feste pagane legate al culto del Sole, celebrate il giorno del solstizio d’inverno.

Fino a cinque secoli fa infatti, prima della riforma del calendario giuliano ad opera di Papa Gregorio XIII, il solstizio d’inverno cadeva proprio il 13 dicembre, nel giorno legato alla celebrazione liturgica di Santa Lucia. La Chiesa Cattolica l’aveva posta proprio al 13 dicembre per sostituirla alle celebrazioni pagane legate al solstizio, facendo della Santa la portatrice cristiana della luce, colei che attraverso il martirio ha testimoniato il cammino della sua fede.

Nel 1582, per rimediare a certi errori di calcolo astronomico commessi secoli prima da Giulio Cesare (il “redattore” del calendario giuliano), Papa Gregorio XIII aveva dato una “sforbiciata” al calendario di una decina di giorni (2) facendo slittare in avanti il solstizio d’inverno, che dal 13 passava al 21-22 dicembre. Ma mantenendo per il 13 la festa di S. Lucia, si mantenne anche il detto popolare, che recita:

E’ così che Santa Lucia, “portatrice di luce” ha anche il grato compito di portare i doni ai bambini in molte zone d’Italia – a Bergamo, come nel bresciano, nel Trentino e nelle province di Udine, Cremona, Lodi, Mantova, Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Verona – come dell’Austria, in Boemia e in Svezia, dove la festa della Santa, “regina di luce”, rappresenta un momento di allegria prenatalizia nel momento più buio dell’inverno nordico.

In Svezia, la Santa vestita di bianco porta una corona di candele e offre delle focaccine allo zafferano dal nome curioso: lussekatter (il gatto di Lucia)

 

LE ORIGINI DELLA FESTA

Secondo un’usanza ormai consolidata, nei giorni che precedono la festa i bambini consegnano le letterine nella chiesa della Madonna dello Spasimo in via XX Settembre – chiamata ormai da tempo “di S. Lucia” -, mentre il Sentierone si anima di bancarelle rinnovando l’antica festa che un tempo si celebrava intorno alla chiesa dedicata alla Santa.

Il rito della consegna delle letterine nella chiesa della Madonna dello Spasimo in via XX Settembre

La si incontrava in Contrada di Prato, verso la strada che conduceva al popoloso borgo di S. Leonardo, poco oltre le colonne marmoree chiamate “di Prato”.

Le colonne di Prato, poste all’altezza dell’imbocco dell’attuale via Borfuro, delimitarono il confine della Fiera dal 1620 al 1882 (disegno di G. Trécourt)

 

In Contrada di Prato, la chiesa di S. Lucia e S. Agata. Accanto, ai limiti del Boschetto di S. Marta sorgeva l’omonimo monastero, di cui è sopravvissuto solo un chiostro e, in fondo, la chiesa di S. Bartolomeo

Sul fianco della chiesa si apriva un grande portone che introduceva all’interno, sovrastato da una grande volta.

Contrada di Prato, verso S. Leonardo. La chiesa di S. Lucia e S. Agata (ex S. Antonio di Vienne) era ampia e non disadorna; era divisa in tre grandi navate con quattro pilastri centrali, aveva quattro altari e un grande coro. Le fonti parlano di pregevoli pitture di Daniele Crespi e di Cristoforo Baschenis; di pale del Cariani del Cavagna e di un quadro raffigurante S. Lucia di Giacomo Cotta (incisione del 1815 ca. Proprietà Conte G. Piccinelli, Milano)

Allora come oggi, a S. Lucia si facevano tre giorni di festa con grande concorso di folla e nei dintorni della chiesa si allestiva un mercato affollato di banchetti e bancarelle, mentre le monache distribuivano ai bambini i deliziosi biscottini da loro preparati.

L’ingresso laterale della chiesa di S. Lucia e S. Agata in un disegno ottocentesco. Da sempre in questo spazio si faceva mercato

Dietro il versamento di un obolo alle monache, i mercanti esponevano nei loro banchetti merce di ogni sorta: panni, cappelli e berrette, stoffa, merletti, guanti, tela, refe, stringhe, zoccoli, corde, fusi e rocchetti, coperte, carta per bachi da seta, manichini in pelle, calze di lana di bambagia e di stame, masserizie in legno e in ferro e, naturalmente, non mancavano sacchi di castagne.

Le contadine, racconta il Reverendo Angelini, non sono sciocche e prima di comprare esaminano a fondo e con perizia, minuziosamente, l’articolo che vogliono acquistare.

La Contrada di Prato, davanti al monastero delle SS. Lucia e Agata

Con l’arrivo dei Francesi, a fine Settecento la chiesa ed il convento vennero soppressi per poi essere acquisiti dalla famiglia Frizzoni, che li demolirono nel 1825 per costruirvi la loro residenza di città, poi divenuta sede del Municipio di Bergamo.

Piazza Cavour, Palazzo Frizzoni, attuale sede del Municipio di Bergamo, edificato tra il 1825 e il 1840 sull’area un tempo occupata dal convento di S. Lucia e S. Agata da Rodolfo Vantini

Dopo il periodo delle soppressioni, la festa venne reintrodotta nella vicina chiesa della Madonna dello Spasimo, che dopo la soppressione del 1797 era stata adibita per due anni a sala per il Circolo Costituzionale, per essere riaperta al culto grazie agli Austriaci nel 1799.

Da allora, in questa chiesa adottata come chiesa “ufficiale” di S. Lucia, si è rinnovata la straordinaria devozione alla martire, il cui simulacro è stato collocato in una cappelletta laterale che è poi l’indirizzo terrestre al quale i bambini portano le letterine nei giorni che precedono la festa.

In prospettiva, a sinistra della cortina edilizia è visibile il campanile della chiesa intitolata alla Madonna dello Spasimo, eretta nel 1592 e riedificata a più riprese sino al 1768, a spese degli abitanti di borgo San Leonardo

La leggenda popolare ha da sempre ammantato di magia quella che per i bambini è una notte speciale che li vede trepidanti nell’attesa dell’evento.

La festa di Santa Lucia in Città Alta nel 1969

 

I doni per la festa di Santa Lucia in Città Alta, nel 1968

 

La festa di Santa Lucia al Seminarino di Città Alta, metà anni Sessanta

Un tempo c’era chi preparava le scarpe pulite, sperando di rivederle ricolme di dolci l’indomani; chi andava in cerca di paglia per nutrire l’asinello; chi per ingolosirlo appendeva alle finestre dei mazzetti di carote oppure esponeva alla finestra uno zoccolo colmo di crusca per l’asinello e un bicchier d’acqua per Santa Lucia.

Accanto a tutto ciò veniva posto un lumino acceso alla finestra, ad indicare la presenza di bambini.

Ancor oggi, i bambini pongono in tavola un po’ di cibo per l’asinello e una tazza di latte per la Santa (che l’indomani troveranno semivuota e magari con una leggera impronta di rossetto..), rinnovando a loro insaputa il rito pagano del “pegno”.

Naturalmente dovranno coricarsi presto e tenere gli occhi ben chiusi, perché ai bambini ancora svegli Santa Lucia getterà la cenere negli occhi senza lasciare alcun regalo!

Nell’attesa tenderanno ansiosi l’orecchio per udire i campanellini che ne annunciano l’arrivo, finché il sonno non avrà finalmente la meglio.

Ancora un secolo fa – scriveva Antonio Tiraboschi – alla vigilia della festa i bambini venivano portati a vedere “quelle due lunghe grandi fila di banchette ricoperte di dolci, di mille maniere, e fra sacchi ricolmi di noci e di castagne affumicate… Mi reco a passeggiare tra quei banchetti che, coi loro vari paramenti e con i loro tendoni illuminati di sotto producono un bellissimo effetto: mi fermo davanti a quei sacchi di noci e dì castagne, in mezzo ai quali è conficcata una candela, e mi diverto a sentire i vari inviti che dai venditori si indirizzano ai presenti: ‘I e ché i bei biligòcc de la Alota’” (3).

E cosa trovavano l’indomani i nostri nonni, fuori dalla finestra? …Beh, ben poco per la verità: pastefrolle, caldarroste, carrube, castagne bollite, noci, nocciole, arachidi, cachi, mandarini, fichi secchi e croccanti fatti in casa con nocciole, acqua e zucchero, sandaletti, scarpe, oppure maglioni e calze pesanti di lana necessarie per l’inverno.

I regali per le bambine di solito erano bambole di legno o di pezza fatte dalla nonna, mentre i bambini trovavano giocattoli di legno come cavallini, carriole, trenini e fucili, oppure biglie e fionde.

Mentre oggi?

Beh, oggi è tutta un’altra storia.

Note

(1) Diego Gimondi e Salvatore Greco, “Santa Lucia – Tradizioni brembane e siracusane“. Ferrari Editrice.

(2) Perché questa sfasatura? Il conquistatore delle Gallie, quando volle mettere ordine nel computo dei giorni e degli anni ad uso dei romani e dei loro sudditi, si rivolse all’astronomo egiziano Sosigene. Questi fissò l’anno di 365 giorni e sei ore. In realtà, dicono gli esperti, doveva essere di 365 giorni, cinque ore, quarantotto minuti primi e 46 secondi. Quell’errore di una dozzina di minuti fu tale da portare scompiglio nel calendario per i secoli futuri. Fu un astronomo gesuita tedesco che propose di sopprimere dieci giorni in ottobre. Perché proprio in quel mese? Perché, spiegò il gesuita, ottobre è il mese che conta meno feste religiose e anche perché gli uomini d’affari lavorano poco in quel periodo”.

(3) Antonio Tiraboschi, Manoscritto, Festività Bergamasche.

Bibliografia
P. Donato Calvi, Effemeridi Sacro Profane. 1676.
Martino Compagnoni, Folclore Bergamasco. Editrice Cesare Ferrari.
Diego Gimondi, Santa Lucia. Tradizioni brembane e siracusane, Centro Studi Francesco Cleri di Sedrina.
AntonioTiraboschi, Manoscritto. Festività Bergamasche, Biblioteca Mai.

Il Tesoro della Catterale di Bergamo nell’antica chiesa di S. Vincenzo

Nell’antica Cattedrale di San Vincenzo, rinvenuta nel 2004 nell’area sottostante il Duomo di Bergamo, oltre la struttura affrescata dell’iconostasi si estende un suggestivo dedalo di camere sepolcrali con soffitto a volta (ricavate già a partire dalla rifondazione dell’architetto Filarete), raggiunte le quali si può ammirare il Tesoro della Cattedrale, un’accurata selezione di preziosi oggetti d’arte sacra scelti in base al criterio suggerito dai consulenti scientifici, i professori Giovanni Romano e Saverio Lomartire.

L’iconostasi della Cattedrale di San Vincenzo evoca le solenni celebrazioni officiate dal vescovo e dai canonici, nelle occasioni solenni rivestiti dei sontuosi paramenti, di cui il museo conserva alcuni esemplari. Radunati nell’aula, i fedeli erano esclusi dalla partecipazione visiva alle sacre cerimonie ma ne ascoltavano il rituale potendo vedere solo i santi vivacemente raffigurati, che mediavano il loro rapporto con la divinità

La selezione, coerentemente alle diverse fasi architettoniche che hanno interessato l’antica cattedrale, si è attenuta al limite cronologico cinque-seicentesco,  escludendo perciò i superbi pezzi dell’epoca barocca che costituiscono  la maggior parte del Tesoro.

Le preziose testimonianze esposte, di cui il presente post offre un breve spaccato, sono confluite in cattedrale in tempi diversi, custodite per la loro importanza e preziosità. Provengono per lo più dalla dotazione della Cattedrale di San Vincenzo ma anche da altre  chiese della città (come la croce di San Procolo, ad esempio).

(Credits Photo Thomas Mayer)

Viene quindi offerta l’occasione di ammirare da vicino e nelle migliori condizioni il Piviale e la Pianeta di S. Vincenzo, del XV secolo; la trecentesca Croce di Ughetto e quella quattrocentesca del Carmine in argento e cristallo di rocca; alcuni calici e reliquiari; l’icona di origine cretese della Madonna dei Canonici; l’affresco delle Opere di Misericordia sinora esposto al Museo diocesano e proveniente proprio dall’antica cattedrale (fu ritrovato dal Fornoni durante i lavori del 1906).
Inoltre, due imponenti lapidi sepolcrali, quella del vescovo Bucelleni e quella del canonico Bresciani la cui tomba, data l’importanza del prelato, venne portata dalla Basilica alessandrina in S. Vincenzo quando la basilica fu atterrata dai Veneziani nel 1561.

Nell’apertura del muro presbiteriale è collocata la cosiddetta Croce del Carmine, dal luogo di provenienza, parte del ricco corredo del Tesoro della Cattedrale, il cui progetto museale si deve all’architetto Giovanni Tortelli, sotto l’egida della Fondazione Bernareggi. È probabile che la splendida oreficeria sia opera della bottega dei Da Sesto, una famiglia operante a Venezia nella prima metà del XV secolo. La croce è particolarmente suggestiva per la presenza, nei bracci, del cristallo di rocca, una varietà di quarzo apprezzato per essere assolutamente incolore e trasparente

Antiche fonti (1) e ricerche recenti (2) ricordano l’esistenza, nell’antica cattedrale di San Vincenzo, di due cori (il chorus magnus, più grande, riservato ai canonici e il chorus parvus, di minori dimensioni, nella cappella di San Pietro), tre altari (San Vincenzo, Santa Maria, San Pietro) e quattro cappelle in chiesa (San Silvestro, San Sebastiano, San Benedetto, Santa Margherita), cui aggiungere quella di Santa Trinità voluta dal vescovo Adalberto. V’erano inoltre due cappelle esterne (Santa Croce e San Cassiano)

Secondo il cerimoniale liturgico della Chiesa di Bergamo riportato da Barozzi, modellato su antiche consuetudini, la recinzione delimitava gli stalli del chorus magnus, posti ante altare e occupati secondo una precisa gerarchia: l’arcidiacono sedeva alla destra del vescovo (dotato di faldistorio mobile, utile alle cerimonie che richiedevano una particolare collocazione rispetto all’altare), mentre il prevosto di Sant’Alessandro alla sua sinistra.

Il pulpito, in posizione non precisata, era sormontato da una croce argentea.

Sopra l’altare maggiore, ornato di antependium, si ergeva la crux magna, estraibile dal piedistallo per essere portata in processione quale simbolo della Bergomensis Ecclesia.

Con scrupolo è descritto il rituale legato ai vasa sacra, la cui consistenza in età romanica è restituita dagli atti del 1189.

Apprendiamo inoltre che il thesaurus comune alle canoniche di San Vincenzo e Sant’Alessandro  – ma custodito presso la prima – era composto da:

– quattro croci con asta, fra cui la crux magna, e quattro senza;
– un cherubino con croce; un calice d’oro e uno d’argento;
– sei corone votive d’argento; tre evangeliari, uno d’oro e due d’argento;
– un messale e un lezionario d’argento;
– un turibolo, due candelabri e due reliquiari d’argento;
– un reliquiario d’oro e uno di avorio; un altare portatile con bordure in oro e argento;
– tavolette di avorio per il canto; una tavoletta di avorio scolpita;
– due casule con stole;
–  manipoli.
(Valsecchi 1989).

(1) Si ricavano preziose informazioni su San Vincenzo nel Medioevo dall’integrale trascrizione nonché dal puntuale commento del Liber ordinarius del vescovo Giovanni Barozzi(1449-1464), minuta del cerimoniale liturgico della Chiesa di Bergamo, modellato su antiche consuetudini (Gatti 2005-2006 e Gatti 2008).
(2) Ricaviamo altre informazioni sull’edificio attraverso le ricerche di Gian Mario Petrò nelle fonti archivistiche notarili. Almeno otto gli altari documentati nella cattedrale di San Vincenzo, compreso quello della sacrestia, e due cori, uno più grande riservato ai canonici ed un altro di minori dimensioni nella cappella di San Pietro.

 

LA CROCE DI UGHETTO

La Croce di Ughetto, straordinario manufatto di arte orafa, prende il nome dal suo principale esecutore, Ughetto Lorenzoni da Vertova, il quale l’ha realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro

La Croce di Ughetto, forse l’opera più rappresentativa del Tesoro della cattedrale, in origine era arricchita da 34 reliquie miracolose, sigillate sotto la sua preziosa oreficeria.
La grande croce processionale prende il nome dal suo principale esecutore, Ughetto Lorenzoni da Vertova, il quale l’ha realizzata su disegno del pittore Pecino Pietro da Nova nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro.

Essa proviene dunque dalla distrutta Basilica alessandrina, ed è questo il motivo per cui il Santo appare vistosamente abbigliato come un cavaliere medievale in sella al suo destriero, mentre sullo sfondo si staglia il profilo ideale della città di Bergamo, conquistata alla fede cristiana.
Grazie a un inventario sappiamo che nell’imminenza dell’abbattimento della Basilica alessandrina (1561), la croce di Ughetto venne portata in solenne processione nella Cattedrale di S. Vincenzo insieme – oltre ai paramenti sacri, organi, campane e corredo liturgico -, alle sacre reliquie: il Capitolo di S. Alessandro perdeva definitivamente la propria sede e da quel momento i canonici Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro si trovarono a convivere fino a che non vennero definitivamente unificati (1689) sotto le insegne di S. Alessandro.

Particolare di S. Alessandro nella croce di Ughetto, realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro, motivo che giustifica la presenza vistosa del Santo

La croce fu rinnovata nel 1614, anno in cui fu sancita la provvisoria riunificazione dei due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro: il restauro della croce è quindi la concreta manifestazione di questo tentativo di unità, tanto che la fisionomia originale della croce è stata stravolta e piegata a questo scopo.

In origine il recto esibiva il Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni, in alto un Angelo e ai piedi S. Alessandro a cavallo; il verso esibiva il Cristo glorioso tra i quattro evangelisti e ai piedi Santa Grata.

Nell’operazione di restauro (oltre alle vere e proprie aggiunte seicentesche) il Cristo crocifisso medievale è stato sostituito con un altro più recente, recuperato da una croce del Capitolo di San Vincenzo.

 

CROCE DI SAN PROCOLO

La crocetta metallica riceve  il suo nome dal fatto di essere conservata unitamente alle reliquie di San Procolo, vescovo di Verona martirizzato nel IV secolo. I sui resti pervennero in Cattedrale insieme a quelli dei Santi Fermo e Rustico, anch’essi martirizzati nel IV secolo e che un’antica “Passio” menziona come originari di Bergamo.
Le reliquie di questi Santi dopo vari spostamenti sono giunte a Verona nella seconda metà dell’VIII secolo e verso la metà del secolo successivo parte delle reliquie sono state trafugate da mercanti bergamaschi e portate nella chiesa di San Fermo a Bergamo.
Nel 1575 Carlo Borromeo ha ordinato la traslazione delle reliquie in Cattedrale ed è questo il motivo che spiega la presenza della croce in questo luogo. Alcuni fori marginali non a caso rendono probabile la sua originaria applicazione su una cassetta reliquiario.

Croce di Procolo – Autore ignoto – (Ambito longobardo?) IX/X secolo. Originariamente le reliquie del santo si trovavano nella chiesa di san Fermo e furono portate successivamente in Cattedrale. La croce è sbalzata su una lamina argentea dai bordi profilati da un listello rialzato. La fattura, meno sfarzosa e complessa rispetto alle altre croci del Tesoro, è affascinante per sua semplicità e per il rigore simbolico dato dalla centralità del corpo di Cristo, che estendendosi lungo tutta la superficie del manufatto rimanda al sacrificio eucaristico. Il corpo di un uomo vivo, con gli occhi aperti, che ha attraversato la morte e che ora vive

Lo stile ci permette di assegnare una datazione. Il primo elemento significativo ci è fornito dal perizoma lungo fino alle ginocchia e mosso da pieghe. Questo tipo di veste non la ritroviamo prima del IX secolo. Un secondo motivo è rappresentato dai pollici in abduzione; sistema adottato non oltre il secolo XI. Quindi la datazione deve aggirarsi intorno al IX-X secolo.

La figura del Cristo domina tutta l’ampiezza della croce: il capo è eretto e dotato di aureola crucifera; il volto è imberbe, secondo un tipo fisionomico diffuso in età tardo antica e altomedievale; gli occhi sono aperti; le mani recano visibili i segni dei chiodi.
Il torace è robusto e ben modellato; le gambe non sono incrociate e i piedi non sono sovrapposti, ma ruotano verso l’esterno senza alcun segno dei chiodi.
Nella parte superiore sono presenti le raffigurazioni del sole e della luna.

 

LA BORSA PER IL CORPORALE

La borsa per corporale è un manufatto nato per custodire il corporale, un telo di tessuto che si stende sull’altare per posarvi calice e patena durante la celebrazione eucaristica.
La borsa era utilizzata nel tragitto che porta dalla sacrestia all’altare, e viceversa.

Il tema del Cristo eucaristico è espresso secondo un modello iconografico molto diffuso e strettamente aderente alla funzione dell’oggetto liturgico.

La Borsa per il corporale, con decorazione a tema eucaristico, è in velluto di seta ricamato con filati in seta e filati metallici, pittura a tempera, applicazioni di pailettes, di manifattura lombarda

La figura di Gesù regge la croce, arricchita con i tre chiodi che ne sostenevano il corpo, da cui ora penzolano due flagelli, con allusione, assieme alla corona di spine, a due momenti della passione che precedettero la crocifissione: flagellazione e incoronazione di spine.
Con gesto enfatico, Cristo si rivolge al calice che sta per ricevere il frutto del suo sacrificio.

Alcuni elementi fanno risalire la borsa a poco prima della metà del Quattrocento (1430 – 1450 ca.): le difficoltà prospettiche nell’assetto della composizione (si noti, ad esempio, la diversa inclinazione dei tre chiodi della croce) rendono incerta e traballante la posizione occupata da Cristo nello spazio. Le sproporzioni innaturali di alcuni dettagli (l’ingigantita mano destra, con l’ingenua profilatura delle unghie, o l’enorme calice che sta per accogliere il disco eucaristico), così come l’andamento sinuoso della preziosa veste di Cristo e le folte e arzigogolanti ciocche della sua capigliatura, conferiscono all’immagine un forte accento tardogotico.

 

IL PIVIALE DI SAN VINCENZO

Il sontuoso piviale di San Vincenzo è un ampio mantello che proviene dalla cattedrale, dove è segnalato per la prima volta in un inventario del 1593. L’epoca della sua realizzazione è però di molto anteriore, risalendo allo scorcio del Quattrocento, periodo dell’episcopato di Lorenzo Gabrieli (1484-1512).

La stola (o stolone) di questo paramento riporta cinque figure per lato di santi, realizzate a ricamo con parti a riporto acquarellate. Si dice che il manto pesi 100 chilogrammi

 

Manifattura lombarda, 1490-1510, particolare del piviale di San Vincenzo, raffigurante S. Alessandro a cavallo. Tessuto laminato in oro, argento e seta policroma, Bergamo, Fondaz. Bernareggi

Questa veste liturgica– costituita da un manto semicircolare lungo fino ai piedi, arricchito da uno stolone e da un cappuccio ricamati – era utilizzata nelle celebrazioni più solenni (3).

Al centro dello stolone è raffigurato Dio Padre benedicente; sui due bordi i Santi Pietro, Andrea, Giovanni episcopo (?), Vincenzo e Maria Maddalena (a destra); e i Santi Marco, Alessandro, Paolo, Gerolamo e Caterina d’Alessandria (a sinistra). Infine sul cappuccio è rappresentato l’episodio narrativo dell’Adorazione dei Magi, d’ispirazione foppesca (4).
Proprio la presenza dei Santi Vincenzo e Alessandro (all’epoca, rispettivamente patroni della Cattedrale e della chiesa cittadina che ne conserva le reliquie), oltre a quella di San Marco (protettore della Serenissima, entro i cui confini amministrativi era inserita Bergamo), lega il manufatto a doppio filo alla storia della città e della sua cattedrale.

(3) Il luogo di realizzazione di questo indumento liturgico è certamente l’area nord italiana. Esso è confezionato in un tessuto laminato d’oro con effetti di quadrettatura, su una base di armatura rossa. Il suo tessuto è caratterizzato dalla presenza del disegno a “melagrana”, molto in voga tra il 1420 e il 1550. Il motivo a melagrana si unisce nella trama al fiore di loto e alla pigna, facendo risalire l’origine dei tessuti alla seconda metà del XV secolo. Agli inizi del XVI secolo è da attribuire, invece, la composizione della trama, per via della suddivisione a scacchiera degli scomparti ogivali e l’evidente stilizzazione del formulario vegetale, elementi tipici di quegli anni. Sia lo stolone che il capino (il cappuccio sul retro del piviale) conservano un ricamo a riporto, con filati serici policromi, filati metallici e parti in tessuto dipinte. Le maglie ogivali disposte secondo un andamento a teorie orizzontali sfalsate, includono un fiore di cardo delimitato ai margini da rami fiorati.
(4) La puntuale ripresa dell’Adorazione dei Magi dall’invenzione foppesca dipinta nel perduto tramezzo di Sant’Angelo a Milano (nota tramite le derivazioni diffuse in diverse chiese lombarde dei Minori Osservanti), serve a istituire un ulteriore legame con la cultura figurativa lombarda e, più in particolare, al magistero di Foppa. I dieci Santi che appaiono sullo stolone abitano nicchie (o formelle) architettoniche non dissimili da quelle – rappresentate in pittura – del polittico di Bernardino Butinone e Bernardo Zenale a Treviglio e del polittico di Santa Maria delle Grazie di Vincenzo Foppa, datato al 1476 (ora alla Pinacoteca di Brera a Milano). Anche la posa della Madonna e di S. Giuseppe fanno presagire stilemi di inizio Cinquecento (con un’evidente richiamo al dipinto di Giacomo Borlone nell’Oratorio dei Disciplini a Clusone, databile intorno al 1470).

I preziosi calici del Tesoro della Cattedrale (Credits Photo Thomas Mayer)

 

L’ELEMOSINA DEI CONFRATELLI DELLA MISERICORDIA

Il lacerto con I confratelli della Misericordia (sinora esposto al Museo diocesano e proveniente proprio dall’antica cattedrale), è quello provieniente dalla zona scavata da Elia Fornoni nel 1906.
La rappresentazione riguarda la confraternita intitolata a Santa Maria della Misericordia, più nota come MIA, una delle associazioni locali più antiche della città e che in origine si radunava nella chiesa di San Vincenzo. Tra gli obblighi della confraternita, che aveva intenti spirituali e caritativi, figurava la distribuzione dell’elemosina ai poveri.

L’affresco fu dipinto negli stessi anni della fine del Duecento in cui si metteva mano alla decorazione dell’iconostasi.

Elemosina dei confratelli della Misericordia (Autore ignoto, ambito lombardo – ca. 1280). L’opera raffigura i quattro confratelli del sodalizio che distribuiscono l’elemosina. Due confratelli (dotati di copricapo e di un abito più ricercato, sono probabilmente i canevari), porgono una forma di pane e una brocca a un povero, seguiti da altri due, dalla veste più dimessa (forse i servi) che portano in spalle un sacco (di pane) e una fiasca (di vino). Il movimento del corteo è molto solenne e il pittore ha enfatizzato la distanza sociale che separa chi dona da chi riceve, con la figura del povero rappresentato in scala minore e collocato in posizione marginale

 

LA MADONNA DEI CANONICI DELLA CATTEDRALE

Fra le opere figurative del Tesoro, si contempla anche l’icona della Madonna dei Canonici della Cattedrale.

La Madonna dei Canonici della Cattedrale, un’icona di scuola cretese del XV secolo, nota anche come Madonna della Consolazione, assimilabile ad una Madonna Nera (Credits Photo Thomas Mayer)

 

Riferimenti
– Le domande di un visitatore, le risposte di una guida. Testi di Simone Facchinetti. Litostampa Istituto Grafico srl – Bergamo, 2012.
– Academia.edu – Fabio Scirea Il complesso cattedrale di Bergamo.
– Cattedrale di Bergamo.