Al suo terzo appassionato viaggio in Italia, nel 1913 il grande scrittore svizzero-tedesco Hermann Hesse – premio Nobel per la Letteratura nel 1946 – compie un viaggio in Lombardia visitando in successione Como, Bergamo e Cremona, mete tra le meno sfruttate dai viaggiatori celebri del tempo. Com’è consuetudine, annota le impressioni e le emozioni del viaggio nel suo “Bildebuch”, lasciandoci in eredità una delle descrizioni più belle e suggestive dell’antica Bergamo.
Dopo aver visitato due grandi mete del Belpaese, Venezia e Firenze, egli desidera ardentemente andare alla scoperta di centri minori, lontani dai Grand Tour così in voga tra gli intellettuali e gli aristocratici del tempo. Desidera vagare per cittadine raccolte e un po’ assonnate, ricche di logge e porticati che offrano frescura e rifugio al viandante straniero; luoghi dal carattere remoto e dalla grazia ritrosa che si possano percorrere a piedi e abbracciare dall’alto in un solo sguardo, con strade e viottoli nei quali il tempo sembra sospeso. Luoghi simili alle amate cittadine dell’Italia centrale con quegli ‘umidi vapori di angusti vicoli’ e le ‘presaghe oscurità’.
L’autore del “Viandante” si lascia condurre per la città non dalle istruzioni contenute in una Guida ma solo dalla sua anima colta, sensibile e aperta, soffermandosi su ciò che per lui è fonte essenziale di emozione e quindi degno di prolungato sguardo contemplativo.
Hesse, che salì in Città Alta verso notte, pieno di curiosità, addentrandosi inaspettatamente in una grande, magnifica piazza si lasciò attrarre da oscurità piene di mistero e sorprendere da nobili costruzioni balzanti su all’improvviso con genuino stupore, lasciando che i suoi sensi, complice la notte, lo trasportassero in un mondo surreale, ingigantito da ombre oscure, che si dissolsero con la luce del giorno.
Giunto al cospetto della chiesa grande di Santa Maria, si trovò subito ravvolto da una luce e da un profumo devoti e solenni, respirando l’ardore e la consapevolezza di un superbo passato e attirato da un raggio di sole ad un palazzone che sullo sfondo lasciava giungere dalle finestre spalancate le voci a coro di scolari…
Rimase lì incantato.
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In una notte di marzo del 1913 l’allora trentaseienne Hermann Hesse approda alla stazione di Bergamo…
s’incammina verso la funicolare e a poco a poco il profilo lucente di Città Alta si svela al suo sguardo.
Risale l’imponente arteria centrale, dove sono allineati ristoranti e negozi illuminati…
raggiunge la funicolare per Città Alta…
e dal Mercato delle Scarpe…
si dirige verso Piazza Vecchia.
“Mi ritrovai nel cuore di una buia città antica, inghiottito da un vicolo stretto e spopolato.
Proprio allora venivano chiuse le botteghe.
D’un tratto mi spaventò la vista di una torre incredibilmente alta che fuoriusciva da una forra di case e spariva in alto, nella notte; mi parve di essere tornato all’improvviso nella Toscana meridionale o in una cittadina dell’Umbria montagnosa.
Inaspettatamente il vicolo si allargò come spartendosi in due e sfociò in una grande piazza stupenda:
a destra un lungo portico ad arcate dove tardivi passeggiatori fumavano la pipa;
a sinistra un grande monumento moderno, probabilmente un Garibaldi; e a ridosso una scura, elegante architettura con grosse colonne ed archi eleganti.
Sulla piazza nessun segno di vita all’infuori dei vetri debolmente illuminati di un piccolo caffè e di una drogheria che in vetrina esibiva, a mo’ di gioielli, brillanti bottiglie di vetro verde e arancio cupo.
Trassi un profondo respiro. Da molto tempo non entravo più di notte in un’antica cittadina italiana, adescato da oscurità presaghe, sorpreso dal repentino apparire di nobili architetture e salutato dall’umidità della pietra degli stretti vicoli.
Nella locanda mi venne assegnata una camera pavimentata in cotto rosso, grande come un palazzo, e mi fu dato del tenero arrosto di montone. Il vino era buono, e l’oste aveva una bella cognata.
Ciò nondimeno uscii subito.
La pioggia sgocciolava soavemente sui lastroni di pietra, su cui si cammina tanto bene.
Il Garibaldi era là, serio e un po’ abbacchiato, sul suo alto piedistallo, custodito da quattro leoni dall’aria assai truce. A tre ficcai nelle fauci urlanti di bronzo una monetina da due soldi che l’indomani ritrovai al medesimo posto.
Nel frattempo avevo aggirato il monumento ritrovandomi così davanti a un meraviglioso palazzo il cui pianoterra formava un imponente portico col soffitto voltato, pilastri a spigoli verso l’esterno e belle colonne leggere all’interno.
Lo attraversai. Sul lato sinistro vidi una maestosa scalinata bianca che portava al Duomo..
e di fronte un’altra grande chiesa dall’aspetto fantastico, cupole indistinte nel cielo notturno..
Un portale molto antico, presumibilmente gotico, con figure entro piccoli tabernacoli;
di fianco, la facciata ricca e turgida di una cappella. Il tutto immerso nella foschia crepuscolare, il tutto carico di presagi e di promesse.
Pregustai sorprese affascinanti.
Andai oltre, eccitato e pieno di aspettative per il mattino seguente, senza alcun desiderio di guastarmi l’attesa con la lettura di un Baedecker o Cicerone.
L’indomani la prima passeggiata mi riportò sulla piazza, che ora, nella luce del mattino, mantenne tutte le promesse della notte.
Solo il Garibaldi usciva perdente, se ne stava tapino sul suo zoccolo troppo grosso, mentre i quattro leoni feroci non solo, come allora vidi, avevano un’aria stolida, ma fortunatamente erano anche molto più piccoli.
Il palazzo con il portico, a volte, ospitava la famosa biblioteca di Bergamo, che conserva alcune centinaia di incunaboli; avrei anche potuto vederli se solo ne avessi avuto voglia.
Un’ardita scalinata lunghissima con soffitto a cassettoni sorretto da colonne costituiva l’accesso alla biblioteca.
La lasciai dov’era e, sperando in nuove sorprese, percorsi il porticato passando davanti a una briosa statua barocca raffigurante il poeta Tasso..
..e proprio lì vidi due chiese che la notte dianzi erano emerse dal buio come sagome spettrali: nel parco sole del mattino erano limpide e coraggiose.
Dall’altra parte il Duomo, pomposamente gaio e chiaro con una larga gradinata maestosa davanti alle porte;
vicino, di fronte a me, Santa Maria Maggiore e, attigua, con le sue bizzarre e sfrenate decorazioni, la Cappella del Colleoni.
Davanti al portale della chiesa, un piccolo avancorpo molto alto: sei modesti gradini di pietra, un largo arco romanico a tutto tondo poggiante su due colonne sorrette da leoni, e concluso da una sopraelevazione gotica, una specie di piccolo vano grazioso a tre nicchie e in ciascuna una antica scultura, quella mediana a cavallo. Al di sopra uno stretto baldacchino cuspidale, un piccolo ambiente con due lucide colonnine leggiadre e con tre figure di santi. Il tutto di una grazia contegnosa e di una innocenza selvatica che emanava quel fascino proprio dell’anonimato; perché questo genere di forme artistiche, simile peraltro all’arte dei popoli primitivi, non sembra scaturito da una sola mente, ma piuttosto dal pensiero e dal sentimento di un’intera generazione e di un’intera comunità”.
Un’intera comunità che ha fatto del protiro, luogo simbolo di accesso alla principale chiesa cittadina, un’espressione viva e scultorea della propria identità mitica e religiosa.
“Stavo per entrare nella cattedrale, ma il mio sguardo fu catturato dalla dovizia decorativa della facciata della Cappella Colleoni.
Il suo disegno originario doveva essere molto bello e lineare, una ripetizione elegante dello schema classico: portale e due finestre laterali, sopra l’ingresso un grande rosone e, a conclusione, una leggera e nitida galleria di gentili colonnine.
Ora però i conti, non si sa perché, non tornano. L’insieme non è armonico, non è né pulito né perfetto; tra la facciata e la cupola c’è uno spazio vuoto e non risolto (…). Ah, talvolta mi sento davvero allargare il cuore quando mi capita di cogliere in fallo gli italiani che, di certo, sono spesso spavaldamente virtuosi e magari superficiali, ma che in architettura e nella decorazione sono tuttavia incorsi raramente in quelle funeste disavventure che da noi sono invece pressoché la regola.
Nemmeno quel tatuaggio mi mise in fuga, sicchè entrai all’interno della cappella dove il generale veneziano Colleoni è sepolto insieme alla figlia e dove ancor oggi si officiano messe in suffragio della sua anima, in virtù di un lascito di milioni donato dallo stesso pio condottiero. Al di sopra del suo sacello, in un’ombrosa nicchia nella parete, il generale dorato cavalca un destriero pure dorato, affascinante nella sua grandezza e dignità, magari un po’ rigida.
Sulla parete di fianco la sua giovane figliola, delicata e minuta, riposa scolpita nella pietra su un cuscino pure di pietra e, resa immortale dall’ignoto artista, dorme ignara incontro alla stessa eternità e fama del suo grande padre.
Pieno di curiosità, mi affrettai a raggiungere la grande chiesa superando i due leoni rossastri che sorreggono le colonne dello stretto protiro.
Entrai. Subito mi sentii avvolgere da una luce e da un profumo religiosi e insieme solenni.
Una penombra dorata filtrava sui dipinti della pala dell’altare e sui pallidi affreschi. Nelle nicchie e lungo i muri ovunque opere scultoree e d’intaglio di ogni sorta; molto splendore e molta ricchezza profusi in ogni dove.
Quella chiesa la si attraversa: si respira l’ardore e la consapevolezza di un passato orgoglioso, si saluta al rapido passaggio un volto noto scolpito nella pietra, si ammira un arazzo. Si va avanti e, procedendo, si dimentica già ciò che si è appena visto. Solo un suono rimane: l’armonia di una magnificenza satura e di una penombra venerabile.
Una cosa però non si dimentica più: i seggi del coro di questa chiesa singolare. Tutti i i dorsali di questi seggi (sono parecchie dozzine), sono gli stalli del coro di questa stupefacente chiesa. Gli schienali, e sono parecchie decine, sono intarsi in legno, quadro dopo quadro, su disegno di Lorenzo Lotto e altri, realizzati da artisti bergamaschi in un paziente lavoro di intaglio e commettitura. A queste formelle hanno lavorato nonni, figli e nipoti per oltre centocinquant’anni.
E non si rimpiange né il tempo né la fatica che questo lavoro è costato. Difficile vedere opere che comunichino tanta gioia come quest’arte fedele, raffinata e inconsueta: legni bruni, gialli, verdi bianchi, mielati, tutti della medesima vaporosità e con la medesima patina del tempo, sommessamente brillanti in tonalità calde e piene, un benefico, tiepido bagno per la vista (…).
Diedi un’occhiata all’interno del Duomo: bianco e oro e uno splendore straordinariamente sposato alla sobrietà.
Uscito, seguii l’invito di un raggio di sole su una piccola piazza sghemba in leggera salita, dove sull’acciottolato spuntavano fili d’erba appuntiti di un verde luminoso..
..e dalle finestre aperte di un grande palazzo uscivano le voci un po’ monotone di alcuni scolaretti.
Arrivai, più oltre, in un silenzioso angolino chiamato pomposamente Piazza Terzi.
Un lato di questa piazzetta era formato dall’alto muraglione di un giardino pensile. Il muro, pesante e grezzo, era però deliziosamente interrotto da un nicchione che ospitava una bella figura femminile armoniosa nelle fattezze, forse una Cerere, e che si concludeva con una galleria compresa fra due putti con cornucopia e spighe.
Mi fermai estasiato: uno degli angoli più belli d’Italia, una delle tante piccole sorprese e gioie per le quali vale la pena di viaggiare.
E appena mi girai, dirimpetto alla statua notai il portone aperto di un palazzo. Sotto un’alta volta nitida si vedeva una corte con piante e lampioni appesi al soffitto, magicamente conclusa da un’elegante balaustra. Due grandi statue dal puro contorno si libravano quasi nell’aria, evocando, lì in quell’angolo racchiuso dalle murature, il senso presago dell’infinito e della vastità dello spazio aereo al di sopra della pianura del Po”.
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Hesse si reca poi nella città bassa e dopo aver visitato l’Accademia Carrara si concede una pausa per bere due caffè, meravigliandosi “di come gli italiani riuscissero, nonostante le loro elevatissime tasse doganali, a fare per pochi soldi un caffè che da noi non si trova nemmeno nei locali eleganti”…
Dopo essersi “abbastanza annoiato nella città moderna”, s’incammina verso l’alta città gironzolando senza meta e senza fretta per stradine.
“L’importante non è la meta, bensì il viaggio”, affermava Siddartha in una riflessione scaturita dal suo autore.
Superato Colle Aperto e giunto alla porta di Sant’Alessandro, dato uno sguardo a case dipinte di rosa o di verde, inondate dalla luce del tramonto…
…si ritrova nella piccola sala d’aspetto della funicolare che conduce a San Vigilio, inaugurata un anno prima, nell’agosto del 1912.
“Era quello che mi ci voleva”.
Dalla funicolare Hesse ammira il graduale svelarsi dell’antica città, dei tetti, dei campanili e delle torri; poi si lascia avvolgere dalla quiete dei luoghi godendosi il tepore della giornata che declina verso il tramonto.
“Presi la prima telecabina in partenza e dopo pochi istanti mi si dischiuse un panorama stupendo e del tutto diverso: sospeso al di sopra della città sulla piattaforma della funicolare, vidi profilarsi, tra me e la verde pianura che la lontananza sfumava, la sulhouette compatta e altezzosa di Bergamo vecchia, con le sue torri e le sue cupole, le sue mura e i suoi tetti. Un pallido sole serale sfiorava le cupole…
Di fronte alla stazione c’era una bassa costruzione che ospitava una locanda.
L’edificio era poco profondo e un’occhiata attraverso la porta a vetri mi fece immaginare sul lato opposto una vista incantevole, cosicchè decisi di entrare.
Prima però mi avventurai per un tratto sulla stradicciola che si snoda lungo il crinale della collina”.
Da San Vigilio Hesse si avvia verso la scaletta dello Scorlazzone, la ripida via gradinata che si diparte dalla chiesa e calando ripida verso i Torni si insinua tra gli orti ben coltivati.
I fianchi delle colline alla cui estremità sorge la Bergamo antica erano profusi di orti, terrazzamenti con vigne, filari di piante da frutta, ciliegi e mandorli, galline in libertà, cascinali che nel volgere di qualche decennio vennero trasformati in residenze di pregio, le cosiddette “ville di delizia”.
La trama minuta delle scalette, dei sentieri e dei viottoli, era percorsa da un continuo andirivieni di contadini, popolani, viandanti, muli, cavalli, asini…
Mentre cercava i vasti panorami, le ”azzurre lontananze” della pianura che si svelavano man mano, al suono delle note incerte di un pianoforte rallentò il passo senza andare oltre.
“Davanti a una linda villetta mi fermai ad ascoltare il suono esitante di un pianoforte. C’è sempre uno strano fascino nell’ascoltare la musica che proviene da una casa sconosciuta in una città sconosciuta; è una sensazione che evoca nostalgiche visioni di una felicità e di un’intimità cui siamo estranei.
Sostai a lungo cercando di immaginare chi stesse suonando. Certamente una fanciulla, forse di quindici o di sedici anni, che andava a scuola giù, nella città nuova, e che da poco aveva il permesso di esibirsi al pianoforte in occasione di ricorrenze familiari.
Inaspettatamente il portone si aprì e ne uscì un signore molto cortese che mi chiese che cosa desiderassi. Io gli dissi che avevo semplicemente ascoltato il pianoforte, ma, dal momento che aveva aperto, gli sarei stato grato se mi avesse lasciato dare un’occhiata al suo giardino. Il signore sorrise e si presentò: era un professore…”.
ll padrone di casa era il prof. Giuseppe Alberti, insegnante all’istituto tecnico. Gli presentò l’autrice della melodia, la figlia di dodici anni, e incominciarono a parlare: ”D’inverno, mi raccontarono, se ne stavano spesso seduti lassù, al sole, mentre la pianura tutt’attorno era inghiottita da un mare di nubi”.
La lieve foschia di quella giornata non gli impedì di scorgere la pianura, ai cui margini si elevano “montagne di un azzurro cupo, ispirando un profondo senso di spazio e lontananza”.
Ad un tratto, un raggio di sole svelò una “piccola forma bianca, infinitamente lontana e irreale”, un ”puntino gaio e luminoso” perduto nell’infinito della pianura.
Era il Duomo di Milano.
“Solo ora vedevo in tutta la sua estensione e maestosa dignità l‘immensa pianura dell’Italia settentrionale. Imponente e sconfinata come un mare, era verde e luminosa nelle vicinanze, mentre in lontananza assumeva mille diverse tonalità, dal grigio, al turchino, all’azzurro sempre più intenso punteggiato da una bianca miriade di cittadine, villaggi, monasteri, casali, fattorie, campanili, ville, fino a sfumare all’orizzonte in una distesa di blu senza fine”.
Note
Nel “Bildebuch” (“libro di immagini”, uscito nel 1926) sono contenute le annotazioni di viaggio di oltre un ventennio di Hermann Hesse. Il testo originale tedesco è pubblicato in H. Hesse, Gesammelte Schriften, Frankfurt am Main, Suhrkam, 1968, vol. III, pp. 780-785. La traduzione italiana della descrizione di Bergamo, qui riportata sino al soggiorno in Bergamo Alta, è apparsa in H. Hesse, L’azzurre lontananze, traduzione di Luisa Coeta, Milano, Lugarlo 1980.