Il 29 ottobre 1922 vi fu l’assalto al palazzo delle Poste e Telegrafi da parte dei fascisti, riassunto nelle parole dell’avvocato giornalista Alfonso Vaiana:
“Più laboriosa l’occupazione delle Poste e Telegrafi, alla quale potei assistere, poiché le informazioni su quanto si preparava… ignorate dalIa questura, erano arrivate in redazione: un ghiotto servizio per il giornalista! A mezzanotte (tra il 28 e il 29 ottobre 1922) sul Sentierone si aveva l’impressione di poter camminare nudi, ma era soltanto un’impressione: le tresende della fiera – situate dove sorgono gli attuali edifici del centro piacentiniano – erano animate; al portone degli uffici postelegrafici, qualche sentinella (guardie regie); qualche ombra umana incollata nelle zone d’ombra. Anch’io, in attesa, mi ero appostato in ombra. …In quella, sempre dalle tresende, intervenne a gran corsa il grosso, il quale iniziò una sparatoria. Vediamo un ferito (mortalmente) steso al suolo… portammo il ferito in questura”. L’apparire del ferito – la guardia regia Pietro Perrone – provoca una tremenda esplosione d’ira tra le guardie regie, che vogliono correre a vendicare il compagno. E questo è veramente il momento più drammatico di tutta l’azione. ll questore – che stava creandosi i titoli per il suo avanzamento alla questura di Milano – chiude il portone, sfodera la pistola e minaccia di morte chiunque tenti di uscire. …la cronaca dei fatti fu improntata a verità ma anche ad austerità”.
lnizia cosi per l’Italia un triste periodo, caratterizzato da una sanguinosa guerra fratricida (1).
Note
(1) Da Domenico Lucchetti, Bergamo nelle vecchie Fotografie, ” Il costume (ambiente e vita)”. Grafica Gutemberg, 1976.
Perchè festeggiamo la ricorrenza a S. Antonio abate nella chiesa di S. Marco, che tra l’altro è popolarmente nota come chiesa di Santa Rita? Come districare la questione?
Anzitutto per il rapporto che a lungo ha legato la chiesa di S. Marco a quella di S. Antonio di Vienne, che con l’annesso ospedaletto sorgeva nell’area oggi occupata da Palazzo Frizzoni, il Municipio della città.
Come abbiamo osservato qui, le vicende delle due chiese sono legate dalla decisione, avvenuta a metà ‘400, di unificare undici ospedaletti sparsi per la città per creare un unico grande e più funzionale organismo a servizio della stessa: l’Ospedale Grande di S. Marco.
Si era così deciso di abbattere il vecchio ospedaletto di S. Antonio di Vienne per costruire al suo posto il nuovo Ospedale Grande, mantenendo però la chiesa, che avrebbe dovuto essere annessa al nuovo ospedale. Cosa che non avvenne a causa della strenua resistenza dei frati Antoniani, che ottennero di restare nella loro sede malgrado questa fosse ormai divenuta una dipendenza dell’Hospitale Grande di San Marco.
Come disposto dagli amministratori dell’Ospedale Grande, nella chiesa di S. Antonio di Vienne si celebrava la messa quotidiana, mentre in quella di S. Marco la si celebrava solo nel giorno dedicato al santo titolare (per il quale era stato eretto un apposito altare). Per il resto la chiesa di S. Marco si limitava a battezzare gli esposti adottati dall’ospedale e a seppellire i degenti che vi morivano, tanto che nel 1670 le era stato affiancato un Oratorio a suffragio dei poveri morti.
La messa quotidiana cominciò ad essere celebrata nella chiesa di S. Marco solo quando la chiesa e l’ospedale di S. Antonio in Prato vennero venduti (1586) alle monache di S. Lucia Vecchia, provenienti dall’omonima conca nell’attuale quartiere di Santa Lucia.
E’ solo da quel momento che, nonostante la sua dedicazione ufficiale, la chiesa dell’Ospedale Grande iniziò ad esser nominata “chiesa di S. Antonio”, evidentemente nell’intento di recuperare il culto della perduta chiesa di S. Antonio di Vienne in Prato.
Un documento ci informa infatti che ancora nel 1723 la chiesa di S. Marco era nominata “chiesa di S. Antonio”.
Tant’è che ai fedeli veniva distribuita l’immaginetta del Santo, espressamente indicato come titolare della chiesa parrocchiale dell’Ospedale Maggiore di Bergamo.
La chiesa festeggiava così, oltre alla ricorrenza del 25 aprile (S. Marco), anche quella del 17 gennaio dedicata a S. Antonio, quando nei pressi si teneva anche un mercato della durata di tre giorni il cui ricavato veniva devoluto ai nuovi corredi dell’ospedale.
E ancor’oggi, a ricordo dell’antica devozione campeggia nella chiesa l’immagine del Santo taumaturgo, noto principalmente per essere il guaritore dell’herpes zoster (“fuoco di S. Antonio”) e per essere legato al mondo dell’agricoltura e dell’allevamento.
La devozione a Sant’Antonio abate, testimone dell’antico legame tra la chiesa di S. Marco e i frati antoniani, ha continuato ad esistere nei riti e nelle celebrazioni del 17 gennaio, quando sul sagrato della chiesa un sacerdote impartisce la benedizione agli animali domestici ed alle automobili.
Nel frattempo, nei pressi della chiesa si tiene la tradizionale sagra dei biligòcc e si allestiscono, oggi come allora, le bancarelle che tanto ricordano i banchetti e i baracconi che gremivano l’antica piazza Baroni, luogo d’incontro e di svago dei nostri trisavoli.
Resta da chiedersi da cosa derivi la dedicazione popolare della chiesa a Santa Rita, che potrebbe essersi originata dall’esistenza di un ospedaletto privato di Santa Margerita, che secondo lo studioso Franchini avrebbe dovuto essere incorporato nell’Ospedale Grande.
La Santa, la cui statua è perennemente circondata da attestazioni di grazia ricevuta, è considerata dai fedeli mediatrice di miracoli ed è perciò così venerata da aver sostituito con il suo nome la dedicazione ufficiale della chiesa.
Comunque sia, la bella chiesa di S. Marco è l’ultima vistosa vestigia dell’antico ospedale, mentre nei dintorni persistono antiche tracce, meno note e appariscenti, come il cortiletto inglobato nella Casa S. Marco, edificata sull’area dell’antico ospedale. Il cortiletto, seppur ridimensionato e sfalsato nelle misure, presenta nella collocazione originaria almeno quattro colonne del portichetto meridionale dello scomparso nosocomio.
Demolito il grandioso complesso ospedaliero tra il 1936 e il 1938, entro il ’39 vennero edificate la Casa S. Marco e Casa Littoria, poi “Casa della Libertà”. La Casa S. Marco accorpa l’omonima chiesa abbracciandola da entrambi i lati, richiamando su due fronti il loggiato isabelliano che dava su piazza Baroni.
Il prospetto di Casa S. Marco in fregio all’omonima piazzetta, ripropone infatti il susseguirsi delle arcate dell’Isabello e presenta al piano terra alcuni elementi originari recuperati dal demolito ospedale.
E pensare che anche prima della costruzione dei nuovi edifici, in quest’angolo di città sopravviveva un paesaggio agreste fatto di prati, ortaglie e campagna. C’era persino un piccolo stagno pescoso sul quale il conduttore del fondo teneva una barca che gli serviva per le battute di pesca.
Si legge nel Novecento a Bergamo che al contadino teneva compagnia una soavissima pecora di nome Biancaneve, che aveva a disposizione un prato immenso: un piccolo eden nel cuore della città. E dove oggi c’è via Zelasco, greggi di pecore pascolavano liberamente.
Anche il lato orientale di Casa S. Marco affacciato su via Locatelli riecheggia il fronte dell’antico ospedale nelle dieci campate dell’intero prospetto; ed inoltre la porzione porticata è sostenuta da colonne e capitelli provenienti in parte dall’antico nosocomio.
Proprio in corrispondenza del portico attuale, esisteva un piccolo oratorio eretto nel 1670 a suffragio dei morti dell’ospedale, ed era dotato di un portichetto comunicante con la chiesa.
Nelle immagini che precedono le demolizioni, la cappelletta risulta essere ancora presente.
Verrà demolita insieme al’ospedale per lasciar posto al fronte orientale di Casa S. Marco, eretta su progetto di Dante Fornoni per conto della Banca Diocesana.
L’Oratorio dei morti si affacciava su un piccolo cimitero riservato a coloro che nell’ospedale esalavano l’ultimo respiro. Di questo cimitero sono emerse alcune tracce a partire dagli inizi degli anni Cinquanta, quando durante gli scavi eseguiti per realizzare il parcheggio di piazza della Repubblica, sono riemerse, a circa un metro e mezzo di profondità, diverse ossa umane.
Altri ritrovamenti sono avvenuti nel luglio del 2010 durante gli scavi eseguiti in via Zelasco per la posa del teleriscaldamento, quando sono emerse tre grosse fosse di scarico contenenti rispettivamente osse umane, macerie e una discarica di ceramiche attribuite al periodo postmedioevale.
Accanto alle fosse vi erano resti di murature (una canalizzazione sotterranea e un lungo muro a secco connesso ad un pavimento in laterizi), il tutto, secondo la Soprintendenza, riferibile all’antico ospedale di S. Marco.
Malgrado il dissolversi della civiltà contadina, nella Bergamasca la devozione a S. Antonio si mantiene ancora molto viva richiamando lunghe file di fedeli il 17 gennaio di ogni anno, “dies natalis” del Santo, giorno in cui egli muore per rinascere nel Regno Celeste.
Sul sagrato della chiesa viene impartita la tradizionale benedizione agli animali domestici e ai mezzi a motore, che con l’evoluzione della tecnologia hanno sostituito gli animali da lavoro.
Ai fedeli viene consegnata l’immaginetta di S. Antonio, raffigurato con gli animali legati al mondo contadino (il maiale in primis) e il bastone terminante a gruccia (simbolo del Tau). Bastone e maiale testimoniano il potere taumaturgico del Santo invocato nella cura del “Fuoco di S. Antonio”, che gli ospedalieri antoniani curavano con il grasso di maiale impiegato come emolliente per le piaghe.
E nei dintorni della chiesa, la tanto attesa sagra dei biligòcc – elemento simbolo della festa -, rallegra e riscalda come uno spicchio di luce messo lì nel bel mezzo dei rigori di gennaio.
Le gustosissime castagne, trattate secondo un laborioso procedimento, vengono offerte sfuse secondo la tradizione Brembana (come nei dintorni di Poscante) oppure infilzate a mo’ di collana (tradizione Seriana) e portate in città dai valligiani che da generazioni custodiscono e si tramandano la preziosa ricetta.
Sempre puntuali, avvolti negli scuri mantelli, i valligiani scendono da Vallalta e da Abbazia, frazioni di Albino, che da secoli rivaleggiano con la brembana Poscante nella produzione di biligòcc.
È l’atmosfera che si respira ogni anno, almeno dal 1586.
E visto che siamo a due passi da quello che un tempo si chiamava borgo di S. Antonio, nulla vieta di fare una capatina nelle due chiese che conservano l’effigie del Santo, raffigurato nelle due splendide pale di Lorenzo Lotto, entrambe del 1521.
La prima si trova in piazzetta Santo Spirito nella chiesa omonima e raffigura i santi legati al borgo e al convento dei Canonici Regolari Lateranensi: S. Caterina d’Alessandria, protettrice dei predicatori, S. Agostino, fondatore dell’Ordine di cui i Lateranensi seguono la regola ed infine il nostro S. Antonio Abate, patrono del borgo. Ai piedi del trono un gioioso S. Giovannino gioca con il Mistico Agnello, omaggio ai canonici legati ai confratelli romani di S. Giovanni in Laterano.
La seconda, considerata uno degli esiti più alti dell’arte di ogni tempo, si trova nella chiesa di San Bernardino in via S. Giovanni, ai piedi di Pignolo alta, posta sopra l’altare nella collocazione originaria. La chiesa, citata in un documento del 1468, venne “adottata” dai nobili e dai ricchi mercanti che nel Cinquecento si erano insediati nel tratto superiore del borgo, arricchendola di dipinti e splendidi arredi.
I Santi raffigurati sono quelli verso i quali gli abitanti del borgo nutrivano particolare devozione e cioè Sant’Antonio abate dalla lunga barba, protettore del borgo, San Giovanni Battista, cui era intitolata la vicinia con l’omonimo ospedale, San Bernardino che stringe il trigramma, cui era dedicata la chiesa ed infine S. Giuseppe, il cui culto fu promosso da Bernardino.
Anche qui S. Antonio è ritratto con gli attributi ricorrenti: il bastone terminante a forma di Tau, la campanella ed infine il fuoco intuibile alle sue spalle, che allude al suo “grande Spirito di fuoco” e al suo potere taumaturgico nella cura del “fuoco di Sant’Antonio”, e che in questo caso allude probabilmente anche alla situazione di violenza che la città respirava in quegli anni.
In questo meraviglioso dipinto, il tema della mediazione di Maria, comune a tante altre pale d’altare, non è mai stato descritto in modo così semplice ed efficace; la naturalezza e la sensazione di provvisorietà che si respira non rappresenta altro che l’irruzione improvvisa del divino nel mondo umano, nella vita di tutti i giorni.
Da visitare assolutamente, lasciandosi totalmente trasportare da tanta Bellezza.
Note
(1) M. Fortunati, A. Ghiroldi, Bergamo, Via Zelasco, Assistenza lavori posa teleriscaldamento. Strutture di età rinascimentale e moderna, “NSAL”, 2010-2011. pp. 45-46.
Due foto attuali appartengono a L’Eco di Bergamo, che ringrazio.
Riferimenti essenziali
L’Ospedale nella città. Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco, a cura di Mencaroni Zoppetti M., Per la storia dell’Ospedale di S. Marco in Bergamo. Documenti e immagini, Bergamo 2002.
“San Bernardino”, Borgo Pignolo in Bergamo: Arte e storia nelle sue chiese, Andreina Franco-Loiri Locatelli.
Lo storico negozio-laboratorio dell’orafo Blumer a due passi da Piazza Vecchia chiuderà presto i battenti: «Lascio una strada sporca e invasa dalle auto. E un centro storico che assomiglia sempre più a Gardaland». La notizia, apparsa ieri sul quotidiano locale L’Eco di Bergamo, riapre l’annoso dibattito legato al fenomeno della Turistificazione dei centri storici, che nell’Italia di oggi ha raggiunto dimensioni preoccupanti coinvolgendo centinaia di città e centri minori, favorito dalla diffusione di piattaforme turistiche digitali. Se Venezia e Firenze rappresentano casi estremi della mercificazione dei luoghi, emblemi di una monocoltura turistica ormai irreversibile che vede i centri storici cristallizzarsi in musei e in location riservate ad eventi, anche quello di Bergamo non si sottrae a questa tendenza, sedotto dall’idea mettere a reddito la sua bellezza. Da quando Bergamo si è scoperta “città d’arte”, alle dinamiche innescate dal mercato immobiliare dagli anni ‘70 si è aggiunto un ipertrofico sviluppo turistico che ha accelerato i processi di espulsione degli abitanti storici (in particolare delle fasce economicamente più fragili), mutando profondamente il tessuto sociale di Città Alta. Si sono così moltiplicate le infrastrutture per visitatori, dalle strutture ricettive (soprattutto airbnb), ai negozi (gadget, fast food, yogurterie.. e l’elenco potrebbe continuare all’infinito), a discapito degli esercizi di prima necessità e del permanere di artigiani, divenuti ormai introvabili. Ripropongo perciò un resoconto, risalente al luglio del 2014 ma indicativo di un trend che purtroppo non ha subito mutamenti, aggiornando i dati essenziali alla situazione attuale.
Percorrendo la Corsarola – il lunghissimo “serpentone” che da piazza Mercato delle Scarpe si allunga verso la Cittadella – non si può non avvertire un senso di disagio per la crescita spropositata di esercizi commerciali che ben poco hanno in comune con l’identità di un centro storico, un tempo ricco di botteghe e negozi sufficienti a soddisfare il fabbisogno degli abitanti.
Negozi che, nella loro semplicità e in sintonia con il luogo, si accompagnavano al brulichìo che si svolgeva entro le mura e che nel volgere di poco hanno chiuso i battenti, per lasciare spazio a un cambiamento poco consono ai ritmi e al tessuto sociale della città sul colle.
Un problema annoso, quello della penuria di botteghe storiche e di negozi di vicinato, strettamente legato allo spopolamento verificatosi a partire dagli anni ’60 e alle vertiginose dinamiche del mercato immobiliare, che in pochi decenni hanno ribaltato l’assetto socio-economico di Bergamo Alta con un notevole incremento già a partire dal trentennio 1971/2001.
Un centro, quello di Bergamo Alta, dove a una compagine sociale un tempo prevalentemente popolare, ha corrisposto via via la crescita senza precedenti di una classe d’élite composta per lo più da medio-alta borghesia.
Dai dati demografici annuali del Comune di Bergamo degli ultimi 60 anni circa, si può capire quanto profondo sia stato il mutamento, sia per quanto riguarda il calo della popolazione (in larga parte relativo ai ceti più deboli) e sia riguardo la sua composizione sociale.
L’esodo dei residenti dal centro storico verso la periferia si è verificato già a partire dal decennio ’50-’60. Se negli anni ’50 il centro storico era abitato da 8.000 persone, provenienti per lo più dai ceti popolari (una media superiore rispetto a quella del resto della città), nel 1961 la popolazione si è ridotta sino a raggiungere i circa 6.500 abitanti, subendo un ulteriore calo nel 1971 (con 4.109 abitanti) per arrivare a 2438 abitanti dentro le mura nel 2014: 1571 persone in meno rispetto al 1971, pari al 38% della popolazione.
Un’emorragia che si è ulteriormente aggravata, considerato che nel 2016 il numero degli abitanti ha toccato il minimo storico con 2400 unità.
Per quanto riguarda la composizione sociale degli abitanti dentro le mura, se nel 1971 era molto simile a quella dell’intera città di Bergamo, nel 2001 già si registrava un incremento del 16% di appartenenti al ceto benestante (imprenditori, liberi professionisti, lavoratori in proprio). Un trend che si è progressivamente aggravato a causa della crescita verticale dell’industria del turismo, che ha fatto sì che negli ultimi quarant’anni le case vuote siano aumentate di sei volte, le abitazioni di proprietà siano raddoppiate e quelle in affitto dimezzate, precludendo l’accessibilità alle giovani coppie con figli e favorendo “una omogeneità sociale fatta di famiglie piccole e benestanti. La città storica diventa la città dei ricchi. E, in prospettiva vicina, la città dei turisti” (1).
L’inclusione delle Mura veneziane della città nel patrimonio Unesco ha ulteriormente aggravato il problema delle abitazioni, facendo raddoppiare le vendite “di pregio” e incrementando la presenza di strutture alberghiere, con un aumento del 79% degli airbnb ed un calo del 9,2% per gli alberghi veri e propri dal 2010 ad oggi: i turisti che ogni anno visitano il centro storico sono stimati in circa 200.000 l’anno, cento per singolo abitante (2).
La sensibile estromissione delle botteghe storiche e dei negozi di vicinato – non più in grado di sopravvivere a causa dell’attività molto ridotta -, se da un lato si lega strettamente alla inarrestabile emorragia della popolazione, è d’altro canto ulteriormente favorita dalla crescita, già in atto dalla metà degli anni ’70, di tipologie commerciali sempre più rivolte a chi giunge da fuori.
I negozi di utilità sociale, che dovrebbero soddisfare le necessità quotidiane dei residenti, sono a rischio estinzione proprio a causa della omologazione commerciale dell’effimero composta da negozi di abbigliamento, souvenir e simili, ai quali si sono aggiunte le crescenti offerte di ristorazione e alloggio.
Alla scomparsa di numerose botteghe artigianali (nel 1976 vi erano ben 5 calzolai), corrisponde nel centro storico un calo considerevole dei negozi di alimentari (dei 14 esistenti ne sono sopravvissuti 3 alla data del 2014), nonché di tutti i negozi di vicinato.
Una situazione aggravata dal fatto che questi ultimi, laddove persistono, non sono più intesi nel senso classico del termine ma si sono trasformati in qualcosa che spesso non è alla portata di tutte le tasche.
Dal 1976 all’ottobre 2013, insieme al calo della popolazione si è registrato il seguente decremento:
-20% panettieri
-35% antiquari
-30% orefici
-50% parrucchieri
-65% fruttivendoli
-75% calzature
-80% alimentari generici e latterie
-100% calzolai
Dal confronto, mentre si registra un forte aumento per i negozi di abbigliamento, di articoli da regalo e in particolare per bar e ristoranti, si è registrato un calo per fruttivendoli, parrucchieri, antiquari, orefici e panettieri, proporzionale alla variazione della popolazione (+/-35%).
Il destino peggiore ha riguardato soprattutto i negozi di alimentari e drogheria, calati dell’80%: di fatto, ad oggi dentro le mura trovare un idraulico, un meccanico, un elettricista o un restauratore è diventata un’impresa.
Per quanto riguarda la ricettività turistica, dal 1974, con 74 posti letto degli alberghi e locande, si passa nel 2014 ai 320 posti in alberghi e “case per ferie “ (Seminario e suore di via Donizetti) ed i 90 posti tra B&B e “case vacanza“, con un incremento di 336 posti letto pari circa il 500%.
Ed oggi? “La città storica diventa un dormitorio per turisti di lusso: in Città Alta ogni notte dormono 12,4 turisti per abitante, mentre i posti letto sono ormai 30 ogni 100 abitanti”, come affermato da Tommaso Montanari in un articolo recentemente apparso sul Fatto Quotidiano (3).
Le botteghe storiche e i negozi di vicinato sono essenziali per l’aggregazione del delicato tessuto sociale, in particolare per la vita quotidiana delle classi più deboli, anziani in primis, categoria in costante crescita per la quale al disagio di dover raggiungere punti vendita lontani si associa spesso anche quello di non possedere un proprio mezzo di trasporto: cosa per la quale più volte l’Associazione per Città Alta e i Colli di Bergamo, che da tempo si occupa delle problematiche del centro storico, ha sollecitato l’Amministrazione chiedendo l’apertura di un mini Market a prezzi calmierati.
Fece molto scalpore lo sfratto che interessò la storica Latteria Locatelli in Corsarola – unica nel centro storico con questa denominazione – che alla data del 2014 era gestita da 55 anni dalla famiglia Carenini, di cui da tempo si occupava la figlia Emanuela.
Il 14 febbraio 2014, dopo il rischio di chiusura per la Latteria Locatelli, l’Associazione di Città Alta e Colli aveva chiesto l’intervento degli organi competenti per salvaguardare le botteghe storiche e i negozi di vicinato di Bergamo Alta (oltre 50 realtà associative nel 2014), alla luce di quanto dettava il Piano Particolareggiato di Recupero di Città Alta e Borgo Canale (vigente dal 2005), in merito alla salvaguardia dei negozi storici e di vicinato del centro storico.
La vicenda, ampiamente descritta ed analizzata nel semestrale dell’Associazione (Bergamore – anno 22 – n° 34 – Marzo 2014), sebbene da tempo risolta, è a tutt’oggi emblematica di una tendenza che non ha subito la minima battuta d’arresto.
Altro dato che va ad incidere sul triste fenomeno dello spopolamento dipende dal fatto che molti, pur risiedendo dentro le mura di fatto non vi abitano.
Una città per ricchi, dominata da un commercio orientato a soddisfare un turismo “mordi e fuggi” e privata di servizi essenziali, è sminuita e minacciata nell’integrità del suo tessuto sociale ed economico.
La comunità del centro storico rivendica la sua vitalità, Città Alta non deve diventare il museo di se stessa, un corpo estraneo rispetto alla città, ma deve vivere e palpitare nella normalità che le spetta, sempre tenendo conto delle complesse dinamiche legate alla delicatezza del suo tessuto storico.
Sarebbe bello pensare che l’idea di riportare in Città Alta le famiglie normali composte da giovani coppie, bambini e anziani – tutte le famiglie e non selezionate per censo – non restasse solo un sogno. Sarebbe bello poter recuperare quella perduta dimensione di bellezza, di cui tutti i bergamaschi sentono il bisogno.
Note
(1) Tomaso Montanari, Il Fatto Quotidiano, “Bergamo vale più di un parcheggio – La ‘bellezza inutile’ delle città e i sindaci come il renziano Gori”. 05 Nov 2018.
(2)Ibidem.
(3) Ibidem.
Riferimenti
I dati sono estrapolati daI semestrale Bergamore e dalle informative dell’Associazione per Città Alta e i Colli di Bergamo. Molti dati demografici sono stati elaborati da Nino Gandini, membro storico dell’Associazione di Città Alta e i Colli (AMOREBERGAMO – associazionecittaalta.org). Gli aggiornamenti sono riferiti all’articolo apparso su Il Fatto Quotidiano indicato nelle note.
Nota personale
La porzione del presente articolo, scritta e pubblicata dalla scrivente il 16 luglio 2014 è a tutt’oggi presente nel blog Creative Family (insieme alle fotografie originali), non più online ma tuttora esistente.
Come osservato qui, da Vienne, cittadina francese che conserva le spoglie di S. Antonio abate e che dal XII secolo aveva mostrato il potere taumaturgico del Santo, il culto si diffuse rapidamente in tutta Europa (ed oltre), dove fiorirono rapidamente numerose fondazioni antoniane con una serie pressoché infinita di luoghi di culto ed ospedali al Santo dedicati.
In Italia i primi ospitali sorsero lungo la via francigena che collegava Delfinato e Italia, presso la Precettoria di S. Antonio a Ranverso in Val di Susa (ante 1188), poi a Roma, Teano e presso Napoli.
Il culto si diffuse anche nella Bergamasca ed in città vennero fondati due hospitali intitolati al Santo: nel 1208 quello di Sant’Antonio in foris, appena fuori la porta di S. Antonio e all’imbocco di borgo Palazzo e, verso la fine del XIV secolo in luogo dell’attuale Palazzo Frizzoni, l’ospedale di Sant’Antonio “in Prato” (o “di Vienne”), entrambi con annessa chiesa.
La chiesa e l’annesso ospizio per malati e pellegrini si trovavano in Contrada di Prato, sulla strada che dal Prato di S. Alessandro portava alla chiesa di S. Leonardo. Ma esistendo già una chiesa con ospizio nel borgo di S. Antonio, si aggiunse la dicitura di Antonio “in Prato” o di S. Antonio di Vienne per evitare che la dedicazione scelta potesse dare adito a confusione.
I frati antoniani erano giunti a Bergamo verso la fine del Trecento e vi si erano insediati, ma è difficile oggi stabilire se essi siano stati gli effettivi promotori della sua edificazione; di certo l’ospedale fu fondato per iniziativa laica tra il 1380 e il 1382: la tradizione ne fa risalire la fondazione a Gerardo (morto tragicamente nel 1380) della nobile famiglia cittadina dei De la Sale, ma un documento conservato nel fondo pergamene dell’archivio della Mia attesta la contemporanea presenza di un certo frate Francesco, “un armigero di ignota provenienza”, che nel 1382 è citato come edificatore della chiesa e dell’Ospedale di San Antonio in Prato (non era in “habito religioso”, ma “portabat pannos lungos et signum S. Antonii scilicet unum T super pectore”) (1).
(1) Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.
La riunificazione degli ospedaletti medioevali nell’Ospedale Grande di S. Marco: la resistenza dei frati di S. Antonio de Vienne
Così come stava accadendo in altre città, anche a Bergamo verso la metà del Quattrocento si deliberò l’accorpamento di 11 ospedaletti sparsi tra il colle e il piano in un unico grande organismo (l’Ospedale Grande di S. Marco), al fine di ottimizzare i servizi e creare un’unica dirigenza, esercitando così un maggior controllo (2).
(2) Le prime notizie di un sistema ospedaliero compiuto di Bergamo risalgono al 5 novembre del 1457, quando il Vescovo Giovanni Barozzi (1449-1465) approva i Capitula hospitalis novi et magni structi in civitate Bergami. Insieme ai Rettori della città aveva infatti ottenuto l’autorizzazione di fondare un Ospedale Grande che riunisse in sé tutte le strutture di assistenza al malato e tutti i luoghi pii dediti alla cura sanitaria e all’assistenza paramedica. I beni degli ospedaletti avrebbero costituito il fondo economico necessario alla realizzazione del progetto.
Il documento firmato nel 1458, delibera “che il nuovo ospedale dovrà essere costruito nel luogo dell’ospedale di S. Antonio o altrove, qualora lì non fosse possibile”, avviando un’annosa disputa che vede da una parte la resistenza degli antoniani, decisi a difendere strenuamente privilegi e concessioni acquisiti nel tempo (dopo essere stata per un certo periodo in mano alla MIA, nel 1453 i frati di Vienne avevano ottenuto da Papa Nicolò la chiesa e l’ospedale) e, dall’altra, la cittadinanza, che non solo li considera abusivi all’interno della struttura “sorta a vantaggio dei poveri e su iniziativa di una famiglia bergamasca”, ma li rimprovera anche di elemosinare per sostenere la loro comunità e la precettoria d’appartenenza (quella già osservata di Ranverso, in Piemonte), trascurando del tutto l’ospedale e la chiesa.
La diatriba verrà risolta alla fine del Cinquecento, quando il vescovo Barozzi decide di accorpare l’ospedaletto di S. Antonio in Prato all’Ospedale Grande di S. Marco (di cui diviene una dipendenza), permettendo ai frati di restare nella loro sede, dove continuarono a esercitare attività di accoglienza per malati e pellegrini e a celebrare nella loro chiesa, che con l’unione decretata nel 1457 era divenuta parte dell’Ospedale Maggiore.
E poichè la chiesa di S. Marco, costruita (1572) nel perimetro dell’Ospedale Grande era solo chiesa cimiteriale per i degenti del nosocomio ed aveva un battistero per il battesimo degli esposti, per volontà degli amministratori dell’Ospedale Grande nella chiesa di S. Antonio di Vienne veniva celebrata ogni giorno una messa (3).
La chiesa di S. Antonio nel frattempo si era ampliata: “.. era ampia e non disadorna. Aveva quattro altari; la scuola dei Disciplini, che si riunivano in sagrestia; la scuola del Divino Amore, che si riuniva sopra la porta maggiore dove c’era una grande volta in forma di pulpito” (tribuna) (4).
(3) Nella chiesa di S. Marco, costruita 1572 nel perimetro dell’Ospedale Grande, venivano sepolti coloro che nell’ospedale morivano; c’era inoltre un fonte battesimale per il battesimo dei bambini esposti (come da atti della visita pastorale di S. Carlo Borromeo del 1575). C’erano poi due altari, il maggiore e quello di S. Marco, e c’era il SS. Sacramento, ma si celebravano messe solo nel giorno dedicato a S. Marco, poichè, secondo gli accordi presi dal momento dell’unione degli ospedali, una messa quotidiana veniva celebrata nella chiesa di S. Antonio di Vienne in Prato (M. Mencaroni Zoppetti, op. cit.).
(4) A.G. Roncalli, Gli Atti della visita pastorale di S. Carlo Borromeo (1575), Firenze 1937, Vol. I, La Città, parte II, p. 140.
I frati di S. Antonio di Vienne vi rimasero fino al 1586, anno in cui il complesso, che era adiacente al convento femminile di Sant’Agata, fu acquisito dalle monache domenicane provenienti dalla Valle di Santa Lucia Vecchia, che lo ridedicarono alle Sante Lucia e Agata (5).
Dopo le soppressioni napoleoniche attuate alla fine del 1798, tutto il complesso venne acquistato nel primo Novecento dalla famiglia Frizzoni, e demolito per far posto alla loro residenza cittadina poi divenuta Municipio della città di Bergamo.
(5) D. Calvi, Effemeridi sagro profane di quanto di memorabile sia successo in Bergamo sua diocese et territorio, vol. III, p. 398, 11 dicembre 1586 “Le monache di S. Lucia fuori delle mura di Bergamo, havendo fin l’anno passato comprate le habitationi e Chiesa dell’Ospitale di S. Antonio in Prato contiguo a S. Agata, vennero in questo giorno ad habitarvi formandosi delle due chiese di S. Antonio e di S. Agata una Chiesa sola con titolo di S. Lucia e Agata”.
Data l’impossibilità di utilizzare l’ospedale di S. Antonio, su cui erigere l’Hospital Grande di San Marco, nelle sedute comunali si avanzarono le ipotesi più varie finchè, nel 1474, si scelse un’area poco lontana, ai margini dello stesso Prato di S. Alessandro: si trattava di un terreno di proprietà dell’ospedale stesso, sul prato Bertellio (prato di S. Bartolomeo?), in una zona pianeggiante, chiusa a sud dalle Muraine, a monte del luogo dove sin dall’alto Medioevo si svolgeva la grande Fiera annuale dedicata al patrono della città: un punto a cui era possibile convergere da ogni parte dell’abitato e in posizione equidistante rispetto ai borghi di S. Alessandro a ovest e di S. Antonio a est, come indicato nella veduta prospettica di Alvise Cima, dove il complesso ospedaliero e la chiesa annessa sono indicati come PEPITALE S. ANTONIO.
Del grandioso edificio rinascimentale dell’Hospital Grande di San Marco, demolito negli anni Trenta del secolo scorso, il ricordo più vistoso e bello è la chiesa dedicata a San Marco che, costruita nel 1572 nel perimetro dell’ospedale, ha assunto fogge barocche nel corso del Settecento.
Dopo l’ingresso (1586) delle domenicane di S. Lucia Vecchia nel convento di S. Antonio, la messa verrà celebrata nella chiesa di S. Marco (6), che da allora comincerà ad esser nominata “chiesa di S. Antonio” nonostante la sua dedicazione a S. Marco ed alla Vergine, in omaggio alla Serenissima.
(6) E a tal fine verranno mantenuti dall’ospedale un priore e un cappellano (A.G. Roncalli, Gli Atti della visita pastorale… Cit., pp. 158-159).
La chiesa e l’ospedale di S. Antonio di Vienne, come detto verranno acquistati nel primo Novecento dalla famiglia Frizzoni e demoliti per far posto al palazzo di famiglia, oggi Municipio della città di Bergamo, cancellando qualsiasi testimonianza dell’antico complesso.
Bibliografia
Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.
Antonio abate, uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa, nasce a Coma, nel cuore dell’Egitto, intorno al 250 ca. e muore ultracentenario a Tebaide (Alto Egitto) il 17 gennaio 356. Condusse una vita anacoretica per oltre 80 anni.
La sua vita è nota soprattutto attraverso la Vita Antonii, scritta dal suo amico e discepolo Atanasio, vescovo di Alessandria (295-373). L’opera, pubblicata nel 357 ca. e tradotta in varie lingue, divenne popolare tanto in Oriente quanto in Occidente e diede un contributo importante all’affermazione degli ideali della vita monastica.
Antonio fu senz’altro l’esempio più stimolante e noto di coloro che instaurarono una vita eremitica e ascetica ed è considerato il caposcuola del Monachesimo, il grande movimento spirituale che vide un nuovo stuolo di cristiani desiderosi di appartenere solo a Dio e di vivere soli nella contemplazione dei misteri divini, attraverso l’eremitaggio o la vita comunitaria, espandendosi dall’Oriente all’Occidente. A due secoli dalla sua dipartita, la strada del lavoro e della preghiera avrebbe costituito la base della regola benedettina «Ora et labora» e del Monachesimo Occidentale. Del lavoro, perché i frutti del piccolo orto coltivato nel deserto della Tebaide servirono anche al sostentamento di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
L’agiografia racconta le lotte furibonde durante le quali il santo fu più volte aggredito e percosso dal demonio, che lo tentò molto a lungo. E a lungo nel deserto lottò contro l’opportunità di una vita così solitaria, contro le visioni e tutte le tentazioni cui il demonio lo sottoponeva e che superò perseverando, seguendo l’esempio di Gesù che guidato dallo Spirito si era ritirato nel deserto “per essere tentato dal diavolo”. Era infatti comune convinzione che unicamente la solitudine permettesse all’uomo di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio, e diventare così una nuova creatura.
Per due volte lasciò il suo romitaggio per servire la comunità cristiana, sostenendo i confessori della fede durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano ed appoggiando sant’Atanasio nella lotta contro gli ariani. Venne poi il tempo in cui Antonio uscì e cominciò a consolare gli afflitti, ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Così fra quei monti sorsero monasteri; il deserto si popolò di monaci, che sotto la guida di un padre spirituale, abbà, si consacrarono al servizio di Dio (per questo motivo Antonio è considerato il primo degli abati): essi furono i primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente portarono avanti quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
Il culto delle reliquie e la nascita della comunità ospedaliera degli Antoniani
La storia della traslazione delle reliquie di sant’Antonio in Occidente si basa principalmente sulla ricostruzione elaborata nel XVI secolo da Aymar Falco, storico ufficiale dell’Ordine dei Canonici Antoniani.
Dopo il ritrovamento del luogo di sepoltura nel deserto egiziano, le reliquie sarebbero state prima traslate nella città di Alessandria, nella metà del VI secolo – così come espresso da numerosi martirologi medievali che datano la traslazione al tempo di Giustiniano (527-565) –, poi, a seguito dell’occupazione araba dell’Egitto, sarebbero state portate a Costantinopoli attorno al 670.
Successivamente, verso la fine dell’XI secolo, il nobile francese Jaucelin (1), signore di Chateau Neuf d’Albon, nella diocesi di Vienne, le ottenne in dono dall’imperatore di Costantinopoli e le portò in Francia nel Delfinato.
(1) Le testimonianze più antiche identificano Jocelino come nipote di Guglielmo, colui che, parente di Carlomagno, dopo essere stato al suo fianco in diverse battaglie, si era ritirato a vita monastica e aveva fondato il monastero di Gellone (oggi Saint-Guilhelm-le-Désert).
Qui nel 1070 un suo discendente, il nobile Guigues de Didier, fece costruire nel villaggio di La Motte aux Bois (in seguito Saint-Antoine l’Abbaye), nei pressi di Vienne, una chiesa che accolse le reliquie che divennero oggetto di devozione popolare e di pellegrinaggio, soprattutto per la guarigione dal fuoco di sant’Antonio. Inizia da qui a svilupparsi il culto taumaturgico riferito al Santo.
Più tardi, nel 1083, le reliquie vennero poste sotto la tutela del priorato benedettino che faceva capo all’abbazia di Montmajour, vicino ad Arles. Soprattutto le reliquie divennero il riferimento per la fondazione del primo nucleo di quello che poi divenne un ordine ospedaliero (Ordine di Canonici Regolari sotto la regola di Sant’Agostino, ufficialmente riconosciuto da Bonifacio VIII nel 1297), la cui vocazione originaria era quella dell’accoglienza dei malati di herpes zoster (fuoco di sant’Antonio) e di ogni forma di ergotismo, in memoria delle prodigiose guarigioni operate dal Santo.
Nel 1070, un nobile locale, Gaston de Valloire, grazie a un voto espresso per la guarigione del figlio dal fuoco di Sant’Antonio, si unì ad otto compagni e fondò una Confraternita riferita a Sant’Antonio abate e dedita presso un hospitium all’assistenza dei malati che accorrevano in pellegrinaggio. I monaci davano ospizio ai viandanti ma soprattutto assistenza ai malati e in specie crearono un centro di cura per coloro che erano affetti dal “fuoco sacro”, causata dall’ingestione della segale cornuta.
Si legge nel Dizionario degli Istituti di perfezione (2) che gli ospedalieri, laici e senza chiesa, dipendevano dai benedettini dell’abbazia di Montmajour, e professavano norme di vita religiosa primitiva, governati da un gran maestro. Provenivano dalla nobiltà (solo in seguito furono accolti borghesi), si dedicavano ai poveri aiutati da donati o conversi, tra cui alcune donne.
(2) Dizionario degli Istituti di perfezione, ed. Paoline, vol. II, 1995, pp. 134-142 “Canonici regolari di Sant’Agostino di Sant’Antonio di Vienne”.
Nel XIV e nel XV secolo le fondazioni antoniane si diffusero in tutta Europa, ed oltre, con una serie pressoché infinita di ospedali (370 nel XV secolo) e luoghi di culto dedicati a sant’Antonio abate.
In Italia i primi ospitali sorsero lungo la via francigena che collegava Delfinato e Italia, presso la Precettoria di S. Antonio a Ranverso in Val di Susa (ante 1188), poi a Roma, Teano e presso Napoli.
La popolarità e il culto per l’anacoreta egiziano si diffusero anche nella Bergamasca e in città vennero fondati dapprima, nel 1208, l’ospedale di Sant’Antonio in foris, appena fuori la porta di S. Antonio imboccato borgo Palazzo, e, verso la fine del XIV secolo, quello di Sant’Antonio “in Prato” o “di Vienne”, in luogo dell’attuale Palazzo Frizzoni: entrambi dedicati al grande abate ed entrambi con annessa chiesa.
Il piccolo ospizio di S. Antonio in foris, eretto nel 1208 da Giovanni Gatussi di Parre, rivestirà una certa importanza sino al 1458 e cioè fino a quando, insieme ad altri dieci ospedaletti cittadini, verrà assorbito dal nuovo Ospedale Grande di S. Marco per essere poi demolito e trasformato a metà del Settecento in edificio civile; mentre la chiesa verrà utilizzata solo per celebrare la messa quotidiana dai Padri Zoccolanti del vicino convento delle Grazie, remunerati dall’Ospedale Grande di San Marco. Sarà sconsacrata nell’Ottocento ed adibita ad uso civile.
I monaci antoniani erano facilmente identificabili dall’abito: alla sinistra del petto era appuntato un distintivo di panno celeste a forma di tau, la gruccia o furcilla alaria, detto la potenza di Sant’Antonio.
Questi religiosi vivevano di elemosine e lasciti, spesso causa di abusi e scontri con gli altri ordini.
La ragion d’essere degli antoniani, sempre più divisi da dispute e conflittualità interne, venne meno a partire dal XVII secolo, non solo perché da tempo si era affermato il fenomeno dell’accorpamento degli ospedali gestiti dai vari ordini, ma anche per il miglioramento delle condizioni igieniche in Europa.
Così nel 1774, due anni prima della soppressione dell’Ordine, venne decisa dal Capitolo generale degli antoniani l’unione con l’Ordine di Malta, anch’esso votato all’assistenza e alla cura dei pellegrini. Il 17 dicembre 1776 l’ordine antoniano veniva definitivamente abolito da papa Pio VI e i beni dell’ordine passarono in gran parte all’Ordine di Malta e, nel Regno di Napoli, all’Ordine Costantiniano.
I simboli di Sant’Antonio e il loro legame con i culti pre-cristiani
La malattia che l’Ordine antoniano curava in modo specifico era molto diffusa tra i poveri a causa della cattiva alimentazione: l’ergotismo, provocato dall’ingestione di segale cornuta contaminata da un fungo che sviluppava un alcaloide tossico. Sotto questa malattia ricadeva anche il meno pernicioso herpes zoster, detto anche fuoco di Sant’Antonio, che in alcuni sintomi coincideva con gli effetti dell’intossicazione.
Come emolliente per le piaghe provocate dal fuoco di Sant’Antonio gli antoniani usavano soprattutto il grasso di maiale, perciò nei loro possedimenti allevavano spesso i maiali (simbolicamente raffigurati anche nelle chiese dell’Ordine), che potevano circolare liberamente fra cortili e strade con una campanella di riconoscimento.
Per questo motivo, nella religiosità popolare il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, divenuto il patrono di tutti gli animali domestici probabilmente anche in virtù del legame sotterraneo con le feste per Cerere della Roma pre-cristiana, quando i buoi (il “motore” dei lavori nei campi), lasciati a riposo venivano onorati e addobbati di fiori.
Dalle feste celebrate a metà gennaio nella Roma antica, Sant’Antonio ha quindi ereditato anche il bue, estendendo la sua protezione a tutti gli animali domestici, che garantiscono con il lavoro o con le loro stesse carni la sopravvivenza dell’uomo.
Ancor oggi il 17 gennaio si benedicano le stalle, dove sempre campeggia l’immagine del Santo e dove si ospitano tutti animali “utili”, inclusi il cane ed il gatto che caccia i topi depredatori di grano. La Chiesa li accoglie quindi per la tradizionale benedizione, e per un giorno – com’era nell’era pre-cristiana – gli animali tornano ad essere creature del Padreterno esattamente come l’uomo.
Lo stesso discorso vale per il fuoco, altro elemento ricorrente nell’iconografia antoniana in virtù del potere taumaturgico del Santo nella cura del “fuoco di Sant’Antonio” e di quel “grande Spirito di fuoco” ricevuto dal Santo, e sempre presente nelle molteplici forme delle narrazioni popolari scaturite dall’immaginario collettivo.
Nell’elemento fuoco si ravvisa un sottile legame con gli antichi riti propiziatori di metà inverno legati al trionfo del Sole e all’auspicio in un nuovo raccolto e volti a purificare uomini, animali e campi per favorire il rinnovamento del Cosmo in funzione della fecondazione della Terra.
Tutti elementi che rimandano alle festività pagane di metà inverno che, addomesticate e cristianizzate, sono confluite sul giorno della festa di Sant’Antonio.