Domenico Lucchetti: l’Archivio di una vita presso il Museo delle Storie di Bergamo

La nostra città deve moltissimo a Domenico Lucchetti, scomparso nel febbraio del 2008, che voglio ricordare per quanto ha rappresentato sul piano culturale e umano. In decenni di attività, ha svolto un appassionato e insostituibile lavoro di ricerca fotografica e documentaria restituendoci preziose testimonianze storico-culturali dell’intera città e della provincia, riguardo a personaggi, monumenti, vicende, vita civile, lavori e mestieri.

Con spirito di liberalità e condivisione, Lucchetti ha sempre reso disponibile il suo prezioso materiale, consentendo la realizzazione di di iniziative culturali – allestimenti, esposizioni, testi – altrimenti impossibile.

1903. Bergamo, gita alla Maresana, probabilmente della famiglia Moroni

Il fotografo e collezionista, nel 2006 ha voluto donare parte del suo materiale storico-fotografico all’Archivio fotografico Sestini, depositato presso l’allora Museo Storico di Bergamo (oggi Museo delle Storie di Bergamo), che due anni dopo, in memoria di Lucchetti  ha organizzato la mostra fotografica “La città visibile”.

La donazione è avvenuta non solo a scopo conservativo ma anche per realizzare un grande desiderio di Lucchetti: gettare le basi per la creazione di una fototeca cittadina, con ampi squarci su Bergamo e su tutto il mondo.

1910 circa. Bergamo, ciclisti

La cospicua porzione rimanente ha invece continuato ad esistere nell’Archivio Storico Fotografico Domenico Lucchetti, del quale egli ha continuato ad incrementare il fondo grazie ad un costante lavoro di ricerca.

Alla sua scomparsa, il copioso Archivio di Lucchetti è stato trasmesso alla famiglia, alle eredi che tuttora lo mantengono attivo mediante esposizioni, prestiti o collaborazioni con il Museo stesso o con enti locali, come Archivio privato Storico Fotografico Famiglia Domenico Lucchetti.

Fine XIX secolo. Capitano del Regio esercito italiano

Guidato dalla profonda convinzione che ogni immagine, ogni singola fotografia, evocando “un momento di vita” non potesse venir distrutta o dimenticata ma dovesse essere tramandata, Lucchetti ha accompagnato la sua preziosa donazione con una bellissima lettera, una sorta di testamento nel quale rintracciamo insieme all’amore per la fotografia e per la sua città, l’enorme bagaglio professionale e umano del fotografo-collezionista bergamasco.

Un archivio, una vita.
L’archivio Lucchetti presso il Museo delle Storie di Bergamo

Se anche nel collezionismo di oggetti apparentemente banali esiste un significato storico, riconducibile alla creatività dell’uomo, in quello relativo alle immagini fotografiche i significati si moltiplicano, emergendo in vari campi (arte, documentazione, etnografia, antropologia, psicologia, ecc.) divenendo con ciò profonda espressione intellettuale.

1908. Bergamo, famiglia Fuzier

Grazie al padre, un eccellente fotografo dilettante presente in concorsi nazionali ed internazionali, acquisì confidenza con gli strumenti del mestiere “ma soprattutto con le non convenzionali immagini fotografiche che realizzava: affascinanti ed emozionanti” e determinato a praticare l’attività di fotografo, dopo un periodo di apprendistato presso lo studio del grande Umberto Da Re, Lucchetti si mise in proprio aprendo uno studio nella sua città, in Piazza Vecchia.

Domenico Lucchetti nel suo studio in Piazza Vecchia (Bergamo)

Qui svolse per anni la sua attività, provvedendo alla conservazione delle sue negative.

La fotografia quale fonte di emozione

Nonostante le molte riflessioni, Lucchetti non seppe mai spiegarsi “se non in modo empirico, come mai un pezzo di carta con un po’ di gelatina più o meno annerita” potesse “recare certe sensazioni”.

Ritenne che la risposta si trovasse nel campo della psicologia e cioè nella capacità dell’immagine fotografica di porsi come “uno straordinario messaggero di sentimenti” sin dalla metà dell’Ottocento, quando, grazie all’evoluzione dei brevetti fotografici, vi fu un’enorme diffusione delle “cartes de visite”, cartoncini fotografici di cm. 6X10.

Intorno al 1860, con la scoperta delle negative al collodio secco divenne molto più facile eseguire fotografie e stampare copie in grande quantità. Vi fu allora un vero e proprio “boom” della fotografia, con un’enorme diffusione delle cartes de visite che, secondo la tendenza di allora, sostituirono il classico biglietto da visita.  La carte de visite, eseguita dal fotografo Capitanio nel 1885,  mostra il Palazzo della Ragione e il Duomo con la facciata incompleta. Lo studio di Capitanio era al 1402 di Borgo Pignolo (da Bergamo nelle vecchie fotografie, Domenico Lucchetti)

Su questi deliziosi cartoncini si soleva far imprimere il proprio ritratto, che si inviava all’amato o all’amata “quale segno di sensitiva partecipazione. Sensitiva poiché il ricevente, captato dalle fedeli sembianze amiche, gioiva e si emozionava; mentre poteva anche perdere il concetto di spazio-tempo, per divagare tra vivi ricordi”.

Oltre all’immagine, altamente evocativa, rimaneva all’amato/a “anche l’oggetto fotografia, che diveniva feticcio, da conservare come si conservano le reliquie corporee dei santi”, o che, nei casi peggiori, poteva venire strappata in seguito a una delusione amorosa.

Carte de visite – fronte (da “Album di antiche cartoline bergamasche”, Domenico Lucchetti, Grafica Gutenberg Bergamo)

 

Carte de visite – retro. Questo tipo di Carte de visite venne concepita appositamente per mettere a disposizione dell’utente uno spazio per la scrittura (da “Album di antiche cartoline bergamasche”, Domenico Lucchetti, Grafica Gutenberg Bergamo)

Ma grazie al suo forte oggettivismo l’immagine fotografica ha anche il potere di fissare o fermare il tempo e permettere “di capire in molte circostanze più di quanto si possa capire osservando direttamente la fuggevole realtà”.

Comunque, al di là dei molteplici aspetti della fotografia, per identificare la molla che può spingere un collezionista alla ricerca, “basta aver messo l’accento sui suoi valori sensitivi ed emozionali” che essa sottende.

Le ragioni del collezionismo

1936. Bergamo, squadra dell’Atalanta

“L’iniziativa di raccogliere e salvare anche fotografie di altri è sempre stata per me implicita alla mia attività; soprattutto con riferimento a quelle negative o stampe fotografiche soggette a deperimento. Ritenendo che le immagini fotografiche possono evocare irripetibili momenti di vita, non tollero la loro dispersione o distruzione.

Inizio del XX secolo. Provincia di Bergamo, famiglia contadina

Quando seppi che la vedova di un noto fotografo della Valdimagna aveva sepolto nel pollaio tutte le lastre del marito ne ebbi un dolore fisico. Il migliore spirito del collezionista è quello che ti porta sì a possedere, ma anche a sapere in buone mani il materiale che non possiedi.

1939. Bergamo, Il Ballo dell’Orso – Autore: Diego Lucchetti. La Fotografia è tratta dal volume “Un bambino di Piazza Mascheroni in tempo di guerra”, di Domenico Lucchetti

La ricerca del materiale fotografico è stata per me lenta e paziente, ma sempre rivolta con grande attenzione alle occasioni favorevoli. Ho cercato di non farmi prendere dal ‘morbo del collezionista’, che di solito porta alla ricerca dei soli pezzi originali. Perciò, senza trascurare la raccolta di opere autentiche, ho dato molta importanza ai contenuti, eseguendo migliaia di riproduzioni. Per fare questo mi sono rivolto a varie istituzioni o collezionisti in possesso di originali importanti, ma soprattutto ho seguito le diverse esposizioni provinciali o rionali, spesso frutto di una locale ricerca porta a porta. Ho poi riprodotto archivi privati, frequentemente legati a famiglie nobili. Ho pure razzolato tra mercatini, solai di famiglie disponibili e studi fotografici in liquidazione.

1915. Bergamo, ricoverati alla Pia Casa di Ricovero detta la ‘Clementina’

Mi sono mosso in particolare per il reperimento di materiale d’interesse bergamasco, anche se non mi sono lasciato sfuggire opere d’interesse nazionale e internazionale, il tutto con aspetti economici oscillanti tra il molto, il poco e il gratuito […].

1898. Gioco delle bocce

Comunque l’aspetto più commovente della mia collezione è scaturito dalle donazioni. Spesso gli amici donatori hanno accompagnato i loro gesti generosi con la frase: “Ti omaggiamo questo materiale perché sappiamo che lo curerai e lo conserverai adeguatamente”. Una frase moralmente impegnativa che mi ha accompagnato in questi ultimi anni col pensiero, essendo io in età matura, di dare continuità al mio archivio”.

La creazione di una fototeca pubblica: un sogno realizzato

Anni ’50 del XX secolo. Bergamo, Pellegrina. Fotografia di Domenico Lucchetti

“In merito, la riflessione più ovvia e credo più saggia è stata quella che mi ha portato alla decisione di poter collocare il materiale raccolto in una pubblica fototeca”.

Anni ’20 del XX secolo. Bergamo, via Verdi

Il desiderio si è tradotto concretamente attraverso l’incontro con Mauro Gelfi, direttore dell’allora Museo storico della città, l’intervento del sindaco Veneziani, dell’assessore Marabini e soprattutto della benemerita Fondazione Sestini, grazie ai quali, presso il Museo sono ora depositati, provenienti dall’archivio di Domenico Lucchetti, circa ventimila soggetti fotografici di interesse bergamasco.

Gli aspetti legati alla gestione della fototeca

Anni ’50 del XX secolo. Bergamo, Reduce della Grande guerra

Per quanto riguarda i problemi legati alla conservazione delle opere (archivio conservativo), soprattutto se originali, Lucchetti diede precisi suggerimenti in particolare per il trattamento delle delicate negative su vetro e delle stampe fotografiche, prevedendo anche la realizzazione di un gabinetto di restauro per il materiale deteriorato.

1930. Bergamo, Porta nuova, partenza per la colonia-bagni di sole

Previde inoltre la sala delle riproduzioni e la camera oscura, necessaria per poter eseguire le varie stampe fotografiche, nonostante oggi vi sia “la concreta possibilità di creare un archivio fotografico elettronico, sia partendo da negative che da stampe positive”.

Due parole sull’elettronica (un ammonimento)

Anni ’60 del XX secolo. Bergamo, Ragazze che fumano

“A tale proposito mi si conceda di esprimere un pensiero che esula o quasi dal tema fototeca. Sia benvenuta l’elettronica, ma si faccia attenzione, poiché entrando nella spirale degli automatismi si rischia di perdere l’inimitabile ‘sapore’ del lavoro artigianale, quel sapore che spesso è sinonimo di creatività. Con l’elettronica (e non è poco) si salva il documento, ma si rischia di non dare ‘vita all’opera’.

Anni ’30 del XX secolo. Bergamo

La stessa fotografia tradizionale ha sofferto con l’arrivo degli apparecchi fotografici completamente automatici e con il materiale da stampa dal supporto plastico. La qualità ha spesso lasciato il posto al dozzinale! E’ un problema di consapevolezza; quando questa esiste anche il computer può divenire uno straordinario mezzo creativo”.

Quale il materiale depositato

Anni ’60 del XX secolo. Bergamo, Malpensata. Manifestazione di ‘Servire il popolo’

Il materiale depositato presso il Museo si divide sostanzialmente in tre categorie: stampe fotografiche originali (alcune ultracentenarie), negative originali e negative riprodotte da altri archivi, per ognuna delle quali Lucchetti ha lasciato precise disposizioni anche riguardo la catalogazione, la riproduzione, la stampa, la schedatura cartacea od elettronica, da inserire in un eventuale circuito multimediale.

Anni ’30 del XX secolo. Bergamo, una famiglia numerosa

Pensò anche a come affrontare il problema della fornitura del materiale richiesto dagli utenti.

Anni ’60 del XX secolo. Bergamo, alunno di una classe ‘differenziata’

Il materiale venne consegnato già schedato su carta (circa ottomila schede) ed organizzato secondo uno schema piramidale, con al vertice i tre gruppi principali: Bergamo città, Bergamo provincia e Bergamo vita.

Il gruppo “Bergamo città” ha come sottovoci: vie e piazze, cappelle, chiese, edifici privati, edifici o locali pubblici, fiera vecchia e fiera nuova, monasteri e chiostri, monumenti e fontane, mura e porte, panoramiche città bassa, panoramiche città alta, documentazione di mostre specifiche.

Il gruppo “Bergamo provincia” ha come sottovoci le indicazioni delle varie località, siano esse comuni o frazioni.

Il gruppo “Bergamo vita” è certamente il più variegato poiché molte sono le sottovoci e anche perché spesso si ricollegano ai primi due gruppi. Esse sono: animali, archeologia, attività amatoriali, calamità/guerre, cartoline illustrate, condizioni igienico-ambientali, corsi d’acqua, castelli, costume/costumi, dipinti e stemmi, folclore, fotografi, locali caratteristici, località anonime, manifestazioni/cerimonie, monumenti vari, opere d’arte, paesaggi boschivi/natura, personaggi e gruppi vari, persone particolari, ponti, stampe e mappe, teatro e teatri, umorismo, usi e costumi di altre nazioni. Tutte queste sottovoci a loro volta sono nuovamente suddivise sino a giungere ai singoli soggetti.

XX Secolo. Bergamo

La sua mente organizzata e lungimirante pensò anche alla creazione di locali per la catalogazione, ad una biblioteca storico-scientifica, a locali per accogliere gli utenti ed anche per un piccolo museo della fotografia.

Anni ’40 del XX secolo. Bergamo, sposi contadini

“Essendo una fototeca un polo culturale ne deriva che in essa, tra l’altro, si svilupperanno specifici studi, che troveranno supporto in seminari o gruppi di lavoro. Anche una eventuale edizione periodica a stampa potrebbe portare notevoli contributi. I temi da trattare saranno più che molteplici, visto che l’immagine fotografica è presente da molti decenni in ogni frangente della vita dell’uomo, persino nei suoi momenti fetali.

Anni ’50 del XX secolo. Bergamo, Giocatori alla Maresana. Autore: Diego Lucchetti. La Fotografia è tratta dal volume “Un bambino di Piazza Mascheroni in tempo di guerra”, di Domenico Lucchetti

Ho forse esternato i miei pensieri con accenti troppo ‘passionali’ e per questo chiedo ai lettori amichevole comprensione”.

Domenico Lucchetti

Note

Le immagini si riferiscono alla mostra “La città visibile” (i Volti nella Città), organizzata nel 2008 dal Museo Storico di Bergamo (oggi Museo delle Storie di Bergamo).

Le fotografie presenti in questo post appartengono al Museo delle Storie di Bergamo.

Nel volume “Un bambino di Piazza Mascheroni in tempo di guerra”, realizzato da Domenico Lucchetti nel 2002 e pubblicato nei quaderni del Museo Storico di Bergamo, l’autore racconta della propria infanzia, della famiglia e di Città Alta durante gli anni della guerra.

Alberto Vitali e Bergamo. Una storia d’arte e di nascosta bellezza

Un capitolo a parte scrisse nella silente solitudine di città Alta, Alberto Vitali, nato proprio al limitare dell’Ottocento. Con la sua sensibilità vicina alla pittura di Carrà, Tosi, Rosai, Casorati, Morandi, s’impose in modo particolare per l’originalità delle soluzioni palesate dalle sue commoventi “Mascherate” in Piazza Vecchia o Mercato del Fieno, serie già in nuce nel suo dolente e spaesato “Arlecchino” del 1931 e, per certi versi, conclusa da un altro “Arlecchino”, l’acquerello insuperato del 1971 con la maschera popolare che gioca con dei bambini indicando uno stormo d’uccelli

 

A Marta Vitali, nipote di Alberto Vitali, amica e compagna del Liceo

Alberto Vitali e Bergamo. Una storia d’arte e di nascosta bellezza fu il titolo della rassegna allestita tra novembre 2014 e gennaio 2015 nella Sala delle Capriate di Palazzo della Ragione.
Dopo la mostra postuma cittadina risalente al 1975 e la retrospettiva alla Permanente di Milano nel 1985, a quasi quarant’anni dalla scomparsa di Alberto Vitali, Bergamo rese omaggio alla produzione dell’Artista bergamasco con la prima monografica: una corposa retrospettiva, fortemente voluta dalla GAMeC: una storia di bellezza nascosta tra i segni morbidi, che definiscono paesaggi bergamaschi, celata dietro maschere di Carnevale e dentro l’intimità domestica.

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia

L’esposizione dedicata alla produzione pittorica di Alberto Vitali era composta da 80 dipinti collocati entro una panoramica artistica compresa tra gli anni Venti  – periodo in cui Vitali iniziò a dipingere – agli anni Sessanta del Novecento.
Le opere, accostate ad altri dipinti di artisti italiani, provenivano da alcuni musei italiani quali la Pinacoteca e Accademia di belle arti di Brera, il museo milanese del Novecento, il museo Morandi di Bologna, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e il museo civico e Pinacoteca di Alessandria, da istituzioni pubbliche, quali Provincia e Camera di Commercio di Bergamo, nonché da collezionisti privati.

La nostra visita presso le sale dell’Ateneo nel dicembre 2014

La rassegna si arricchì di una selezione di 60 incisioni dell’artista (arte cui egli si è dedicato con continuità insieme alla pittura), esposta nelle eleganti sale dell’Ex Ateneo di Scienze, Lettere e Arti; mentre lo spazio Caleidoscopio in GAMeC, raccolae una selezione di acquerelli di Vitali.

Alberto Vitali – Soglio Val Bregaglia – 1967. Gli “Acquerelli d’Engadina” sono in mostra nello spazio Caleidoscopio in GAMeC. Dopo gli anni Sessanta Vitali abbandona progressivamente la pittura, rispondendo col silenzio ai mutamenti di un mondo in cui non si riconosce e che gli appare dominato dall’aspetto commerciale. Fa eccezione la serie degli acquerelli dell’Engadina, dal 1968 al 1971, raccontati nel libro di Vanni Scheiwiller (Acquerelli d’Engadina di Alberto Vitali, Scheiwiller, 1984, uscito nello stesso anno della mostra milanese per il decennale della morte, con la sigla “All’insegna del pesce d’oro”) (1)

Considerazioni sulla propria biografia
(a piè di pagina la biografia completa)

Se riesco cercherò ora di spiegarmi: nato il 21 aprile 1898 mio padre esercitava un piccolo negozio di vinaio; melanconici ricordi di infanzia; fatta la quinta elementare a dodici anni venni posto in uno stabilimento-costruzioni-mobili, intagliatore. Ho frequentato in quei tempi fino al 1916 scuole serali per artieri. A contatto di operai intellettuali. Letture di Valera, serata futurista comizi di Corridoni, conferenze Podrecca, oratori socialisti, – interessa all’arte e allo sport.
1915, ragazzo, a manifestazioni dell’intervento.
1916 presumendo prossima la mia chiamata mi sono ingaggiato come operaio zona di guerra, per vedere come era lassù.
1917, andato in fanteria prigioniero di guerra, non ho mai fatto niente di eroico.
La guerra, ella sa, è anche terribile, però, comandato, anche a costo di morirne di paura avrei obbedito.
Congedato nel 1920 continuando col mio mestiere, la domenica e altro tempo libero mi son posto in campagna a dipingere, come in da ragazzo avevo pensato, visto che codesta attività era mia propria, sono ancora lì e le difficoltà sono tutt’altro che scemate.
Nel 1925, morta mia madre, mi sono ammogliato, una cara figliola ignorante, ma non tanto, che non mette il becco nelle cose dell’arte; da quest’anno al 1927 la famiglia, morto il babbo, ridottosi bidello delle scuole comunali con altre disgrazie è andata distrutta. Ammogliato, traevo mezzo per vivere, oggi ho tre figli, esercitando per mio conto e da solo il mestiere, restaurando mobigilo antico. Da anni debbo subire periodi di lunga disoccupazione e, se non avessi da parte qualche centinaia di lire chissà cosa sarebbe di me; per la pittura quasi niente ne ho mai ricavato, né me ne curo.
(Lettera inviata a Mino Maccari nel 1931 dal pittore Alberto Vitali)

Alberto Vitali – Paesaggio (particolare), Collezione permanente della Provincia di Bergamo

Autodidatta di umili origini, uomo di grande cultura, amante della solitudine e del riserbo, attento ai valori artistici ma anche umani, uomo onesto “e sempre costretto a fare i conti con una nera miseria e con la mancanza di vero “successo”, nonostante i numerosi e prestigiosi riconoscimenti critici” (l’artista “ha sempre seguito con la più strenua intransigenza il suo ideale d’arte, nel rifiuto più totale per ogni compromesso, “dilettantismo” e interesse personale”), la figura di Alberto Vitali, uno dei nomi più significativi del Novecento, è stata a torto sottovalutata anche a causa del suo esilio volontario, perchè Bergamo fu la città dove scelse di restare.

Un ricordo di Neno Vitali, figlio di Alberto, sull’uscio del suo atelier nella Corsarola di Bergamo Alta

[…] passo buona parte dei miei giorni in campagna, una frazione del comune di Bergamo ad un’ora di cammino dalla città e, quando vi sono, se non fossero di mezzo i guai della pittura, tra quella gente che parrà al primo capitato grossolana e volgare, a me che da tanti anni la frequento appare, a tratti, di remota verginità e, talvolta, mi sono concessi attimi di felicità. Purtroppo il senso autocritico addirittura inumano non mi ha concesso, dopo tanti anni di studio, che fugaci o meglio nulle soddisfazioni personali. Mi considero come pittore, quasi mancato anche se generalmente vengo rimbrottato di eccesso di umiltà, infallantemente mi propongo compiti superiori se non erro alle mie forze. Un mio orgoglio, giacché non ne sono del tutto esente, è l’amore all’arte nel quale non mi ritengo secondo a nessuno. […] Non mi sono mai dilettato di pittura, né‚ preso le cose alla leggera e, campassi cento anni, mediocre ma insoddisfatto. Isolato come sono tendo alla pensosità e alla solitudine”.
(Lettera inviata a Mino Maccari nel 1931 dal pittore Alberto Vitali).

Una delle celebri “mascherate” di Alberto Vitali, ispirate alla Commedia dell’Arte

Profondamente radicato nell’ambiente culturale bergamasco (in stretto contatto con Gianandrea Gavazzeni, Bartolomeo Calzaferri, Luigi Agliardi o il fotografo Mario Finazzi..) e nelle atmosfere della sua Bergamo – emblematiche del suo intimo rapporto con la città -, in un ambiente certamente sfavorevole Vitali intraprende una considerevole ricerca artistica, consapevole del proprio valore quanto del proprio isolamento culturale, ottenendo più volte riconoscimenti artistici a livello nazionale (non è affatto sufficiente citare per tutti il Premio Bergamo, la prestigiosa manifestazione, definita da G.C. Argan un premio “della buona pittura”) ed internazionale, come attestano le diverse partecipazioni alle Biennali internazionali d’arte a Venezia.
Mantenendo un colloquio proficuo con i maggiori protagonisti del Novecento (Carrà, l’amico Morandi..) Alberto Vitali s’inserisce quindi a pieno titolo nel novero dei maestri della pittura italiana del Novecento, non solo nei rimandi a Cezanne, Carrà, Rosai ed altri (attraverso cui Vitali esprime l’amore per la realtà e la plasticità delle forme) esprimendosi tuttavia mediante una “sensibilità personalissima, cui si aggiunge una dimensione materica del quadro e dei bellissimi colori che rimandano alla formazione artigiana dello stesso Vitali, già intagliatore di mobili dopo le scuole elementari e poi corniciaio e restauratore di quadri”.

Nell’opera d’arte, sia essa espressa sulla tela o su foglio d’incisione, egli dà forma di immagine con una naturalezza quasi commovente.

Alberto Vitali – Veduta di Bergamo – 1944

Mirando Haz, che conobbe a fondo l’artista, nel catalogo in mostra descrive così il suo studio, aiutando a comprendere la ricchezza del mondo interiore del Maestro: “Lo studio di Alberto Vitali era un ambiente carico di poesia, di mistero, di solitudine. Gli arredi modesti e ricoperti di un sottile strato di polvere, i quadri rivolti verso il muro, venivano scostati soltanto per essere mostrati a visitatori privilegiati: il banco da falegname, sua matrice artigiana, troneggiava nella stanza, con un carico di bottiglie, bottigliette e vasetti, colmi di vernici dalla ricetta personale, elaborata e segreta. Antiche cornici si ammucchiavano, negli angoli bui e, al centro, un armadio massiccio chiudeva i tesori più intimi dell’artista”.

NEL PALAZZO DELLA RAGIONE
Alberto Vitali e Bergamo. Una storia d’arte e di nascosta bellezza

Proprio nella tela Mascherata in piazza Mercato del fieno del 1937, usata a icona della mostra monografica, “si scorge la maturità pittorica di Vitali che con poesia rilegge la cultura bergamasca ritraendo, in una sospesa e vuota Città Alta, gente in maschera, eco iconografico della tradizione degli Arlecchini e della commedia dell’arte” (M. Cristina Rodeschini)

Al Palazzo della Ragione, le 80 opere esposte furono come detto relative al periodo compreso tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del Novecento, periodo in cui il Maestro decise di rallentare i ritmi di una produzione capace di armonizzare nel segno di un naturalismo poetico esteriorità ed interiorità: quasi una risposta concreta ad un mondo artistico che faticava sempre più ad accettare, tanto era schiacciato da logiche commerciali, poco avvezze a premiare il talento.

Il percorso espositivo, articolato per temi, fu suddiviso in sei sezioni dedicate ai generi prediletti dal pittore: i Paesaggi, le Vedute di Bergamo, le Nature morte, le Mascherate, gli Interni con figure, i Ritratti e gli Autoritratti, dal cui dialogo pittorico è emersa la profonda cultura visiva e letteraria di Vitali, arricchita dalle relazioni personali di alto profilo intrecciate con alcuni dei protagonisti dell’arte italiana del Novecento, per ricordare i quali il percorso espositivo ha accolto dipinti di Carlo Carrà, Mario Sironi, Arturo Tosi, Ottone Rosai, Giorgio Morandi (di cui sono esposte due nature morte); una preziosa opera di James Ensor segnalava le affinità elettive di Vitali.

Alberto Vitali – Autoritratto. Nella Sala delle Capriate del Palazzo della Ragione, la successione degli Autoritratti di Alberto Vitali, sembra quasi creare un filo invisibile tra lo spettatore e l’artista

 

Alberto Vitali – Autoritratto – 1964. “Pittore onesto” come Emilio Vedova scrisse sulla dedica di un ritratto dedicato al nostro nel ’46, non solo il concittadino “massimo interprete delle istanze novecentiste” (definizione di Francesco Rossi), ma anche un poeta, del segno e del colore, capace di leggere la sua città come la sua anima” (Marco Roncalli – Corriere della Sera)

Le Nature morte di Vitali sono state messe in relazione con quelle di Morandi.

Alberto Vitali – Natura morta – 1926

 

Alberto Vitali – Natura morta – 1949

I Paesaggi e le Vedute di Bergamo sono stati accostati a quelli di Carlo Carrà, Mario Sironi, Arturo Tosi e Ottone Rosai, con cui il pittore è stato accomunato anche nella sezione dedicata agli Interni.

Alberto Vitali – Estate – 1942

 

Alberto Vitali – Vecchia Bergamo – 1942.

 

Alberto Vitali – Interno con figure – 1937

Per le Mascherate si sono invece rintracciate affinità elettive con il pittore James Ensor.

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia – 1948

 

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia – 1948

 

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia – 1950

 

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia – 1950

 

NELLE SALE DELL’ATENEO
L’OPERA INCISA

Alberto Vitali – Autoritratto – 1944

L’ Ex Ateneo di Scienze, Lettere e Arti  ha invece ospitato una selezione di 60 incisioni dell’artista, arte cui egli si è dedicato con continuità insieme alla pittura (2).

Considerazioni sulle tecniche incisorie
Caro signor Maccari, la ringrazio del tono confidenziale, di cui mi tengo onorato, della premura che si è preso nel rispondere alla mia richiesta in relazione al rinnovo dell’abbonamento al Selvaggio e della lettera che mi ha diretto allorché ricevette le mie incisioni. Se invece del paio di incisioni che avevo offerto, in cambio dell’abbonamento ne ho inviate di più, ciò è perchè sarei stato indeciso nella scelta non per fare del preziosismo. I legni sono eseguiti col procedimento che ella dice, siccome volevo provare un’incisione diversa dalla xilografa e non avendo mezzi per procurarmi lastre metalliche, cosi ho preso delle tavolette di legno duro, giacché questo e ll mio elemento, lucidate con un ferro ad angolo e poi, per la stampa, ho provveduto con gli scarsi mezzi del mio mestiere. ln quel tempo, visitando la mostra di Soffici da Bardi, da questi vennero mostrate a Soffici mie stampe, che ebbe a lodare fin troppo, rammaricandomi, invece, io stesso, dei trucco di aver proceduto ad un effetto spurio di puntasecca e lui, Soffici, ad obiettarmi che non sono i mezzi che contano. In seguito, abbandonato il legno, mi sono provveduto in un negozio di ferrareccia di lastre di zinco che, a modo, riduco, di volta in volta, di superficie, incido poi a puntasecca e ad acquaforte e stampo, a fatica, con un torchietto primordiale che mi sono costruito. Alcuni esemplari di queste le ho inviato, e, a me, parevano migliori dei legni. Non vorrei che ella, visto arrivare un mucchio di roba mia; per questo mi chieda se avessi piacere che talune delle mie cose vengano riprodotte nel suo giornale. Ella può far ciò, ma se torna ad onore del Selvaggio non per fare piacere a me.
(Lettera inviata a Mino Maccari nel 1931 dal pittore Alberto Vitali).

L’esposizione comprendeva soggetti e tematiche cari all’artista, spesso presenti anche nei suoi dipinti: le Vedute urbane, i Paesaggi, la realtà degli umili, la Natura morta, gli Adolescenti, gli Autoritratti, le Mascherate – secondo un immaginario che ha tratto spunto dalla vita quotidiana, interpretata da Vitali con una personale sensibilità.

Alberto Vitali – Veduta di Bergamo (da Valverde) – 1949

Un excursus ventennale (dal 1929, anno della prima incisione, al 1951) che include opere che mostrano il caleidoscopio dei sentimenti umani – donne impegnate nelle mansioni domestiche o colte nella tenerezza del ruolo materno -, i luoghi storici della città di Bergamo (le case, le torri, le cupole delle chiese; il paesaggio urbano che Vitali ha abitato divenendo la sua principale fonte d’ispirazione) e Piazza Vecchia, luogo d’incontro e palcoscenico di animati cortei mascherati.

“Rispetto alla pittura, l’acquaforte appare maggiormente intima, più pronta al racconto e alla divagazione. Cose che in pittura sembrerebbero inspiegabili sono invece a loro agio nel campo della grafica. Inoltre l’incisione sa di appartenere a una tradizione specifica, che è quella della carta e deIl’inchiostro e dunque dell’illustrazione, nella quale letteratura e immagine si fondono.
Guardando l’opera di Vitali, può essere interessante il confronto tra due composizioni sorelle, una in pittura e l’altra in acquaforte. Nel grande dipinto intitolato Sabato in trattoria, architrave e colonna ritmano la composizione e assegnano i luoghi del colore, meravigliosamente equilibrato.
Nell’incisione, tutto diventa meno astratto, i personaggi si fanno più veri e più vera e logica è ora l’architettura, dalla colonna alle volticine, persino nella sedia in primo piano, che ora e descritta nella sua struttura elementare.

Alberto Vitali – Sabato in trattoria

l personaggi, che nel dipinto hanno un loro quattrocentesco stupore che li rende immobili, nella versione cartacea sono caratteri di un teatro in azione. Tutto ciò è ottenuto con un tratteggio ora più denso, ora più rado, graffito sulla lastra, evidentemente, con andamento sinistrorso, che però nella stampa prende la direzione opposta, poiché una stampa, a differenza di un disegno, non è ciò che traccia la mano con azione immediata, ma l’impronta di quanto con sapienza la mano ha già segnato.
Si veda come il tratteggio, in questa stampa di Vitali, accarezza la colonna e le dà peso e volume (Carlo Bertelli da “Vitali grafico”, manifesto esposto nella sala dell’Ateneo).

Da un disegno di Alberto Vitali

Gran parte del primo periodo di Vitali, dal 1929 al 1934, è occupato dai vicoli di Città Alta, le scene di lavoro, qualche ritratto e nature morte.

Alberto Vitali – Mietitura – 1931

“Quando riprende le incisioni, nel 1941, i temi si spostano lievemente: ritratti dei familiari o autoritratti, paesaggi di campagna, le bellissime meditazioni sui fiori.
Anche il “segno” appare diverso, più rotto, impetuoso e accentuato dalla morsura che evidenzia i neri. Le lastre sono state tutte distrutte: Vitali le riutilizzava “raschiandole”, non potendo permettersi di acquistarle ogni volta, e le poche restanti furono da lui stesso gettate nel punto più profondo del lago d’Iseo.

Alberto Vitali – Passeggiata sulle mura

Se aggiungiamo poi che le tirature sono limitate a sei, sette esemplari, a volte meno (solo nove incisioni sono tirate a poco più di dieci copie e una sola a quindici) ci rendiamo conto di quanto l’aspetto economico dell’arte fosse alieno a Vitali, che pure raggiunse livelli altissimi, tanto da poter contare su estimatori del calibro di Bartolini e Morandi, per citarne un paio”.

Vitali preannuncia le sue “Mascherate” (riproposte anche nell’opera pittorica) con la fantastica incisione di Arlecchino nella Piazza Vecchia del tutto deserta del 1931, tema che riprenderà dal 1937 al 1956.

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia

 

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia. Nel tema del Carnevale e delle maschere “si respira una sorta di inedito spaesamento, senza gente festante, colle maschere sole quasi estraniate, mondo fantastico e un po’ dolente che ripopola la Città Alta in assenza dei suoi consueti e chiassosi abitatori”

 

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia

“La Piazza Vecchia si trasforma in teatro per la mai dimenticata commedia dell’arte, cui proprio Bergamo fornì maschere intramontabili. Vitali ritorna più volte su questo tema che tanto ama, cui forse confida gli sfoghi della sua vena polemica, ma in cui vede soprattutto la possibilità di saggiare le variazioni sullo stesso motivo tematico. Dalla lastra alla stampa, variando le carte e gli inchiostri, per poi tornare a dipingere e saggiare cosa vuol dire il colore rispetto al chiaroscuro, cosa cambia con la posizione della piazza sullo sfondo, altrimenti con le maschere in primo piano, infine con le maschere nel bel mezzo del palcoscenico. La stampa concede vari stadi, la pittura richiede che ogni volta si rifaccia tutto da capo.
Chi avranno voluto deridere, quelle maschere ora allegre, ora litigiose, che agitano bandiere in una notte di luna o si sfidano a duello?
Ciò che è certo, come attestano le testimonianze di Mirando Haz, e che Vitali non tratteneva la lingua e anche le sue maschere appaiono assai loquaci. Un’altra cosa è certa. Ed e che, scorrendo le date, Vitali non segue supinamente le mode, ma si guarda intorno e verifica, con ammirevole indipendenza. È l’indipendenza che dà freschezza alle sue opere”.
Carlo Bertelli

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia

 

BIOGRAFIA di Alberto Vitali (Bergamo 1898 – 1974)

Figlio di Pasquale Vitali ed Elisa Mazzoleni, nasce a Bergamo il 21 aprile 1898 da una famiglia di umili origini. Dopo l’istruzione primaria, inizia a lavorare (dal 1910) come apprendista intagliatore, corniciaio, doratore, restauratore in un mobilificio e contemporaneamente frequenta a Bergamo i corsi serali della Scuola d’arte e di disegno applicato presso il Seminarino. La sua formazione artistica avviene da autodidatta.
Nel 1916 si arruola come volontario, partecipando alla prima guerra mondiale; viene fatto prigioniero in Germania e congedato quattro anni dopo. Rientrato a Bergamo riprende negli anni Venti il suo lavoro di artigiano del legno ed inizia a dipingere e ad arricchire la sua cultura con intense letture di classici: da Thomas Mann a Kafka, da Proust a Puskin.
La morte della madre (1925) e del padre (1926) lo costringono a intensificare l’attività come restauratore, doratore e intagliatore. Sono anni di miseria poco redditizi ma continua a dipingere con passione pur non ricavando benefici economici.
Il 1927 e 1928 sono gli anni dell’esordio pubblico. Espone per la prima volta l suoi dipinti a Milano nel 1927 all’Esposizione Primaverile della Società Belle Arti.
Il suo legame con il capoluogo lombardo si fa stretto grazie all’amicizia con il gallerista Pier Maria Bardi che gli organizza, nel 1928, la prima mostra personale.
Accostatosi alla corrente pittorica del “NOVECENTO”, s’impone per l’originalità e il fascino delle sue mascherate ambientate nella Piazza Vecchia di Bergamo.
Ancora nel 1928 Vitali partecipa con due opere alla XVI Biennale Internazionale d’Arte di Venezia (manifestazione alla quale esporrà nelle edizioni del 1930, 1934, 1936, 1940, 1948, 1950) e alla I Mostra del Sindacato Regionale Fascista di Belle Arti, in occasione della quale il dipinto Siccità verrà premiato e acquistato dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano.
Nel 1929 all’attività di pittore comincia ad affiancare quella di INCISORE. Attratto
soprattutto dalle tecniche della punta secca e dell’acquaforte, si dedica all’incisione negli anni compresi fra il 1929 e il 1934 e successivamente fra il 1941 e il 1951.
Con due legni incisi e un dipinto partecipa nei 1929 alla seconda mostra promossa dal Novecento italiano, promossa da Margherita Sarfatti.
Alla Biennale di Brera dello stesso anno viene premiato con medaglia d’oro dal Ministero per l’Educazione Nazionale.
Nel corso degli anni Trenta frequenta Ardengo Soffici e Mino Maccari, fondatore con Leo Longanesi del periodico satirico ‘Il Selvaggio’.
Nel 1931 partecipa allaI Quadriennale di Roma, manifestazione alla quale esporrà in tutte le edizioni sino all’inizio degli anni Cinquanta (1951).
Nel 1932 il dipinto Il mendicante, alla III Mostra d’arte del sindacato, è insignito del Premio Cassani. Nella medesima occasione riceve il Premio Stanga per l’acquaforte.
Alla VII Mostra del Sindacato Interprovinciale Fascista presso la Permanente di Milano (1936) viene premiato con la medaglia d’oro dal Ministero per l’Educazione Nazionale per il dipinto Il podere.
Dal 1935 al 1937 lavora come restauratore presso lo studio di Mauro Pellicioli (a tal proposito si ricorda che restaurò gli affreschi della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Gravedona e che in una lettera scritta da Morandi a un collezionista, egli ammette che solo Vitali sarebbe stato capace di intervenire su una sua opera, essendo anche restauratore»).
Nel 1939 è fra i partecipanti al l PREMIO BERGAMO, in occasione del quale ottiene un riconoscimento per il dipinto Paesaggio bergamasco.
La partecipazione alla manifestazione Bergamasca, il più interessante concorso nazionale di pittura del periodo, sostenuto da Giuseppe Bottai (Ministro per l’Educazione Nazionale) si riscontra anche nelle tre edizioni successive.
Sempre nel 1939 vince a Milano il Premio Principe Umberto e nello stesso anno viene insignito del primo e secondo premio al Concorso per l’interpretazione di Bergamo antica.
Nel 1940 organizza con Attilio Nani la sua prima mostra personale a Bergamo e l’anno dopo una personale a Milano alla galleria Mascioni.
Lascia definitivamente il lavoro di artigiano restauratore per dedicarsi solo alla pittura e incisione e nel 1943 è di nuovo a Milano con una personale alla Galleria del Milione.
Negli anni Quaranta Vitali si produce in un’intensa attività artistica con la partecipazione a mostre collettive, a premi – nel 1950 ottiene il Premio Roma. La Galleria Gian Ferrari di Milano gli dedica nel 1946 una personale.
Nel 1946 vince il premio Tre Stelle grazie al quale soggiorna a Burano presso lo studio di Romano Barbaro.
Nel 1948 tenne una memorabile personale alla Galleria della Rotonda di Bergamo.
Nel 1950 partecipa alla Biennale di Venezia e il dipinto Paesaggio viene acquistato dal Comune di Milano per la Galleria d’Arte Moderna.
Nel 1951, e l’anno successivo, è chiamato a far parte della Commissione d’esami dell’Accademia Carrara.
L’ultimo periodo della sua carriera è segnato da un lento e progressivo abbandono della pittura e da un allontanamento dal mondo delle grandi mostre.
Nel 1951 si conclude la sua attività di incisore. Nel 1960 abbandona anche la tecnica della pittura a olio per prediligere l’acquarello.

Alberto Vitali – Acquerelli in Engadina, gli acquerelli nati fra il 1968 e il 1971, durante alcuni soggiorni in Svizzera, dove l’artista si reca spintovi dall’amico Arturo Brivec, tra Poschiavo, Samaden, Celerina, St. Moritz, Sils, Soglio…, luoghi immersi in atmosfere evocanti Rilke o Giacometti padre e figlio o Segantini

Negli anni successivi il soggetto paesaggistico diventa prevalente nella sua produzione.
Le opere di questa fase sono realizzate soprattutto durante i soggiorni sul lago d’Iseo e in Engadina dove l’artista trascorre lunghi periodi fra la fine degli anni Settanta e il 1971.
Nel 1973, con la sua partecipazione, l’amico e allievo Amedeo Pieragostini (Mirando Haz) cura la pubblicazione del catalogo della sua opera incisa nonché la pubblicazione del bel volume relativo, Le incisioni di Alberto Vitali, Bolis, 1973, colle riproduzioni delle 124 incisioni realizzate tra il 1929 e il 1951.
Spentosi il 10 aprile 1974, nel 1975 il Comune di Bergamo dedica alla figura del suo cittadino una mostra postuma nel Palazzo della Ragione nel cui catalogo appare, insieme all’introduzione di Raffaele De Grada (Alberto Vitali, Bolis, 1975), uno scritto rivelatore di Amedeo Pieragostini (Mirando Haz) che permette di riscoprire l’Alberto Vitali pittore, riportando alla luce quadri come Siccità, Paesaggio bergamasco, Il mendicante, Interno con figure.
In occasione della retrospettiva del 2014/’15, è stato invece pubblicato il nuovo catalogo dedicato all’artista (3).

L’Ateneo

 

La targa apposta dall’amministrazione civica alla parete esterna del Duomo, nella via che oggi porta il nome di Alberto Vitali, non lontano dal suo studio-soffitta in piazza Reginaldo Giuliani

 

La targa affissa sulla parete dell’edificio che ha ospitato lo studio di Alberto Vitali in piazza Reginaldo Giuliani, lo ricorda quale “mirabile interprete dell’anima bergamasca nella inquietante suggestione dei luoghi e delle maschere” nonché “maestro illustre del Novecento italiano”

 

Note

(1) Mirando Haz, nel racconto della genesi delle opere di Vitali, parla dell’ospitalità di un amico di Vitali che gli fece conoscere il paesaggio svizzero tramite una serie di soggiorni a Soglio, Sils, Poschiavo, Samaden e altre località. Distillati di colore puro, cielo, montagne, laghi, gli acquerelli svizzeri testimoniano il ritorno dell’amore mai sopito per l’arte e per la natura, che si risvegliava prepotentemente al di fuori di una “logica” in cui l’artista non si riconosceva più. In uno degli ultimi acquerelli, del 1971, ricompare infine Arlecchino, che gioca con dei bimbi indicando uno stormo di uccelli nel cielo. Di lì a poco sopraggiungerà la malattia e, nel 1974, la morte.
(2) A quarant’anni dalla pubblicazione de Le incisioni di Alberto Vitali, a cura di Amedeo Pieragostini (Edizioni Bolis, Bergamo 1973), la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo presenta il catalogo Alberto Vitali – L’opera incisa (edito GAMeC Books), che documenta la serie completa degli originalidel maestro e include testi di Carlo Bertelli, Amedeo Pieragostini, M. Cristina Rodeschini.
(3) La bibliografia su Vitali potrebbe tranquillamente fermarsi qui, almeno fino ad oggi. Ci sono però altri due libri di Fernando Rea, relativi ad esposizioni in gallerie private: il primo (Galleria S. Marco, 1984) è il catalogo dell’esposizione bergamasca che si tenne in parallelo a quella organizzata a Milano al Palazzo della Permanente nel 1984, decennale della morte di Vitali. Premesso che chiunque capirebbe l’inopportunità di organizzare due mostre sullo stesso artista in contemporanea e a 50 km di distanza (il fatto che la mostra sia in una galleria privata genera sospetti di natura “commerciale”) e che in alcuni passaggi del libro si leggono in controluce piccole rivalità prive di senso, oggi e forse anche allora, questo libro può avere un suo interesse per chi voglia “arricchire” il catalogo iconografico dei quadri di Vitali (ci sono riproduzioni a colori diverse da quelle presenti in De Grada) e perché aggiunge comunque alcune informazioni biografiche e bibliografiche; le stesse motivazioni si possono esporre per l’ultimo libro (Galleria d’arte Bergamo, 1989).

Alberto Vitali – Natale 1951. Un altr’anno è caduto dietro le nostre spalle. E a noi fresca sovviene nell’aria di questo Natale, con il chiaro delle nubi, una luce di favola antica, che rinnova la fede dei mattini che ci vengono incontro

La Colonna ai Lupi di Toscana davanti la caserma Montelungo

La caserma Montelungo sorge su un’area occupata dall’inizio dell’Ottocento dalla “Caserma delle Orfane, S. Raffaele e Convertite”, dal nome delle tre preesistenti opere di Carità presenti in loco dal XVI secolo. Dopo la seconda metà del’Ottocento il complesso architettonico ha subito numerosi mutamenti che l’hanno portato all’assetto con cui si presenta oggi. Numerosi anche i cambiamenti di nome: nel 1843, come risulta da una mappa dell’Archivio di Stato, la caserma venne contrassegnata con il nome di caserma “S. Giovanni”, dopo l’Unità d’Italia prese il nome di “Umberto I”, per assumere poi quello di “68° Fanteria”, di “Legnano” ed infine di “Montelungo”. Il presidio militare è stato sciolto definitivamente nel 1998 e contemporaneamente l’area e gli immobili sono stati dismessi e poi abbattuti

I Fanti della Brigata Toscana quando conquistarono il monte Melino, nell’ottobre 1915, furono definiti “Lupi” dai difensori austriaci in fuga. L’allora Capitano Ottorino Bonini, che comandava una delle Compagnie impegnate nello scontro, nella sua rievocazione ricorda come quest’appellativo divenisse per il Reggimento quasi una seconda fiammante bandiera.
Nella Grande Guerra la Brigata Toscana era chiamata “Bergamo” (poi denominata 78° Rgt. Fanteria che aveva il suo deposito di guarnigione alla Caserma “Umberto I” Montelungo) e il 77°, che aveva sede a Brescia alla Caserma Alessandro Monti (poi intitolata all’eroico Maggiore Giovanni Randaccio).

Dopo la vittoriosa battaglia sull’altipiano di Asiago e la conquista di Col del Rosso e di Cima d’Echele, nel 1917, i “Lupi” formularono il voto di erigere un Monumento che ricordasse il sacrificio dei Caduti e l’eroismo di tutto il 78° Reggimento Fanteria. A Bergamo, nel 1924, dopo due gare d’appalto, viene finalmente scelto il bozzetto dell’architetto Giulio Paleni. È una colonna trionfale romana di stile corinzio, a scanalature, che si alza per oltre 11 metri da un basamento quadrangolare (1).
Quella stessa colonna la cui familiare sagoma spicca ancor’oggi sul sagrato prospiciente l’ormai demolita caserma Montelungo, innalzata quando la caserma era intitolata ad Umberto I.

La caserma Montelungo in un’immagine d’epoca

Dopo la proclamazione del Regno d’Italia si costituì una nuova brigata granatieri di Toscana, il cui secondo reggimento prese il nome di 78° Reggimento Fanteria, partecipando alla guerra del 1866, alla campagna di Eritrea (1887/’88) e alla guerra italo turca (1895/96).

Esercitazioni di tiro nei campi di Seriate (fotografia anteriore al 1895, eseguita dal Dr. Giovanni Piccinelli) – (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

 

Esercitazioni di tiro nei campi di Seriate (probabile foto conte Gerolamo Medolago) – (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

 

Manovre militari del 1895: passeggiata davanti al palazzo Frizzoni (fotografia eseguita dal Dr. Giovanni Piccinelli) – (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

La storia eroica del Reggimento però inizia con la prima guerra mondiale.
Molte furono le azioni di valore e di ardimento compiute dai fanti del 78°, e la fredda determinazione con cui le portavano a termine meritò l`appellativo di “Lupi”.

I “Lupi di Toscana” ebbero tre citazioni nel bollettino del Comando supremo, due decorati al valor militare di Savoia, 44 medaglie d’argento e 182 medaglie di bronzo.

Grande però fu il tributo di sangue pagato da quegli ardimentosi: più di 6.000 uomini rimasero uccisi o feriti.
Gli ufficiali morti furono 73, 143 i feriti, 50 i dispersi; i militari di truppa morti furono 878, i feriti 3.845 e i dispersi 1.573.
La bandiera del Reggimento andò letteralmente distrutta.

Dopo la vittoriosa battaglia detta “degli altipiani” nei giorni di Natale del 1917, i Lupi, considerate le grandi perdite subite nelle varie azioni di guerra, formularono il voto di erigere un monumento che ricordasse il sacrificio dei caduti e l’eroismo di tutto il Reggimento.

La promessa venne mantenuta: nel 1924, dopo due concorsi, il comitato formato da reduci e varie personalità e presieduto dall’on. Paolo Bonomi, scelse, per la realizzazione, il bozzetto dell’arch. Giulio Paleni e si diede subito inizio ai lavori.

Il monumento consiste in una colonna trionfale romana a scanalature, di stile corinzio, tratta da un sol blocco di marmo di Zandobbio, che si eleva per oltre 11 metri e 50 da un basamento quadrangolare.
Il capitello è in stile classico modernizzato, con delle figure di fante fra le volute.
ll basamento, che a sua volta poggia su una breve gradinata, presenta nella parte anteriore un bassorilievo in bronzo (in realtà un altorilievo, n.d.r.) , opera dello scultore bergamasco Cattaneo, rappresentante l’Italia, avvolta nella bandiera, che tiene fra le mani un ramo di alloro piegato destinato ai vincitori; ai suoi piedi un branco di lupi pronti all’attacco.

La caserma Umberto I, poi Montelungo, con il nuovo monumento ai Lupi di Toscana: la colonna trionfale romana di stile corinzio, a scanalature, che si alza per oltre 11 metri da un basamento quadrangolare. Intagliata in un blocco unico di marmo di Zandobbio, la colonna è sovrastata da un capitello che riproduce figure di Fanti tra le volute

Nella parte superiore del bassorilievo si legge l’esametro latino dettato dal condottiero della terza armata, il duca d’Aosta, che lo assegnò “in un giorno di battaglia come motto agli ardenti lupi del 78° reggimento”:TUSCI AB HOSTIUM GREGE LEGIO VOCATI LUPORUM.
La colonna ha incisi, lateralmente, i versi di Gabriele D’Annunzio, che così definì la fulminea conquista del monte Sabotino:
«Fu come l’ala
che non lascia impronte
il primo grido
avea già preso il monte»

Il basamento, posato su una breve gradinata, sulla parte anteriore esibisce un altorilievo in bronzo dello scultore bergamasco Edmondo Cattaneo che rappresenta l’ltalia vittoriosa avvolta nella Bandiera, protetta da una schiera di lupi pronti all’attacco. Sopra i lupi il motto latino del Duca d’Aosta: “Tusci ab hostium grege Legio vocati Luporum” (Legione di Lupi i Toschi fur detti dal gregge nemico). Sopra il celebre distico di Gabriele d’Annunzio dedicato alla folgorante conquista del monte Sabotino

e la motivazione della medaglia d’oro alla bandiera del Reggimento:
“con impeto irrefrenabile assaltarono e travolsero le più formidabili posizioni con orgogliosa audacia cercarono e sostennero la lotta vicina fieramente spezzando i più gravi sacrifici di sangue ed acquistando fama leggendaria si che il nemico sbigottito ne chiamò “Lupi” gli implacabili fanti (Velikj – Faitj 1 – 3 novembre 1916, Flondar-San Giovanni di Duino, Foci del Timavo 23-30 maggio 1917; 2 agosto – 3 settembre 1917; Tagliamento 2 – 3 novembre 1918)”.

Sugli altri lati del basamento, sono affisse le lapidi con la dedica “Ai gloriosi Caduti del 78° Reggimento Fanteria” con le date della prima e della seconda guerra mondiale, la motivazione della Medaglia d’Oro al Reggimento, le località gloriose della GRANDE GUERRA: Sabotino, Velikj, Col del Rosso e Cima d’Echele e quelle della SECONDA GUERRA: Malj Tabajani, Golico e Africa settentrionale

Per reperire i fondi necessari alla realizzazione del monumento, il comitato si affidò alle offerte volontarie degli ex combattenti e dei singoli cittadini, ma i fondi si rivelarono insufficienti e il comitato dovette organizzare, nel gennaio del 1925, un grande concerto per devolverne il ricavato all’opera intrapresa.
Superato l’ostacolo finanziario e terminato il monumento, il comitato si preoccupò di dare un carattere particolarmente solenne alla sua inaugurazione.

Approfittando del fatto che in Bergamo erano state portate a termine alcune costruzioni del centro piacentiniano e che l’Associazione Madri e Vedove dei Caduti e Dispersi aveva approntato il nuovo Gonfalone municipale, si pensò i riunire questi importanti momenti della vita cittadina in un’unica cerimonia con la presenza del re Vittorio Emanuele III.

La Camera di Commercio il 1° novembre 1925, giorno della sua inaugurazione alla presenza di Re Vittorio Emanuele III (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

Così a Bergamo, il 1° di novembre del 1925 si era in attesa del re; il programma prevedeva:

ore 8,30 Arrivo di S. M. alla stazione. Presentazione e formazione corteo.

ore 9 Inaugurazione nel piazzale della caserma Umberto I del monumento ai caduti del 78° reggimento fanteria “Lupi di Toscana” e del Gonfalone della città, offerto dalle signore bergamasche, ad iniziativa dell’Associazione Madri Vedove e Parenti dei Caduti e Dispersi in guerra. Distribuzione delle drappelle dei trombettieri offerte da un comitato di signore fiorentine alla brigata toscana.

ore 10 Inaugurazione del palazzo di Giustizia.

ore 10 Inaugurazione nuova sede della Camera di Commercio.

Ore 11 Ricevimento dei signori Sindaci della Provincia, delle Autorità e Rappresentanze delle Associazioni nel Palazzo Provinciale.

“1925 circa: sfilata di reduci in via Torquato Tasso” (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

I luoghi in cui avvenivano le cerimonie ufficiali erano tanto ristretti da consigliare un limitato numero di invitati, inoltre, ciascuno di essi non poteva assistere che ad una cerimonia.
Una fitta barriera di carabinieri e militari era stata posta lungo il percorso stazione-caserma Umberto I; la più stretta sorveglianza impediva a chiunque di entrare nei luoghi sopra indicati se non munito di apposito cartellino-invito. Notizia di cronaca curiosa può essere il fatto che questi cartellini differivano per colore in relazione al sesso dell’invitato ed alla manifestazione alla quale poteva partecipare.

Giunto a Bergamo, il Re fu ricevuto dai ministri Rocco e Belluzzo, dal conte Suardo, dal commissario prefettizio Franceschelli, dal generale Segré, dal prefetto e da altre personalità, quindi, a bordo di una “Isotta Fraschini”, di color giallo, raggiunse la caserma Umberto I fra due ali di folla acclamante.

Il Monumento ai Lupi di Toscana fu inaugurato con una fastosa cerimonia dal Re Vittorio Emanuele III il 1° novembre 1925. Giunto a bordo di una Isotta Fraschini, raggiunge la Camera di Commercio accolto dalle Autorità locali e nazionali tra gli applausi scroscianti di una folla imponente

 

Re Vittorio Emanuele III a bordo dell’Isotta Fraschini durante la visita a Bergamo nel 1925

I vecchi “Lupi”, venuti da tutte le città d’Italia (fra essi 500 trinceristi guidati da Franco Gagliani, il garibaldino del Sabotino) sfilarono con i petti fregiati dalle medaglie al valore, preceduti dal loro gagliardetto inaugurato la settimana prima al Vittoriale da Gabriele D’Annunzio.

Il Re, affacciato al balcone, inaugura la Camera di Commercio nel nuovo centro cittadino ideato da Marcello Piacentini. Nello stesso giorno egli inaugurerà anche il Palazzo di Giustizia

Dopo la breve cerimonia dell’inaugurazione del monumento, prese la parola il comandante del reggimento, colonnello Gritti, che brevemente ma incisivamente illustrò le eroiche imprese dei “Lupi”; a lui fecero seguito il generale Martinengo e l’On. Paolo Bonomi.
Al termine, donna Alessandri Ginammi, presidentessa dell’Associazione Madri e Vedove dei Caduti, consegnò al commissario prefettizio il nuovo gonfalone della città al quale era appesa la medaglia d’oro concessa da Umberto I per i gloriosi fatti del 1848.

Il palco per le autorità eretto di fronte alla colonna dei “Lupi”. Nella Caserma “Umberto I” il Re s’intrattiene con i gloriosi “vecchi Lupi”, guidati dal Generale Francesco Gagliani, Comandante storico della Brigata Toscana. Assiste quindi alla parata del 78° Rgt. Ftr. seguito dai Reduci che sfilano con i petti fregiati dalle Medaglie al Valore e con l’azzurro gagliardetto dei Lupi di Bergamo inaugurato la sera del 24 ottobre da Gabriele d’Annunzio al Vittoriale

La cerimonia si concluse nell’interno della Caserma, dove il Sovrano passò in rassegna e si intrattenne con i soldati e i reduci del reggimento.
Recentemente l’Associazione del Fante e dei Lupi di Toscana ha sostituito le tre lastre di marmo infisse nel monumento per incidere i luoghi e le date delle ultime gesta dei Lupi di Toscana nella seconda guerra mondiale.

Mali Tabaianj gennaio 1941
Golico marzo 1941
Africa Settentrionale 1942 (2)

Fonti
(1) Per la prefazione seguita da alcune didascalie poste a corredo delle immagini: “Bergamo restaurato il monumento ai Lupi di Toscana”, da “Il Fante ‘Italia” n. 1 del 3/2012.
(2) Per il testo integrale: Arnaldo Gualandris, “Monumenti e colonne di Bergamo”, a cura del Circolo Culturale G. Greppi. Bergamo, 1976 (con introduzione di Alberto Fumagalli).

Gironzolando per Bergamo alla ricerca dei battiporta più belli

Oltre alle tante dimore nobiliari che ricalcano i tracciati più antichi, capita spesso di scorgere,  nelle viuzze dei borghi distesi lungo i fianchi della città, antiche abitazioni esternamente arredate da elementi decorativi sopravvissuti allo scorrere del tempo, che regalano una vera e propria dimensione di bellezza.

 

 

 

è il caso dei battenti, così come di molti altri elementi decorativi realizzati per lo più  in ferro battuto, in ghisa o in bronzo, come cancellate, ringhiere, scansaruote, lampioni, pomoli..

 

 

 

 

Una dimensione estetica ed evocativa capace, ovunque, di fare la differenza suscitando emozioni.

 

 

 

 

 

 

Il battiporta  (o battente, o picchiotto) viene chiamato, a seconda del luogo d’origine, anche battaglio, mazzapicchio, o bussarello e serve ad avvertire dell’arrivo di un visitatore nonchè sovente a fungere da ausilio nella chiusura di porte spesso pesantissime.

 

 

 

 

 

Nato nel periodo classico come oggetto d’uso per soddisfare esigenze di praticità, il picchiotto assume con il tempo anche una valenza artistica e decorativa: da strumento dalla foggia semplice e rudimentale – un martelletto o un anello di ferro – il battiporta arriva sino a noi  nelle forme più disparate superando l’avvento dell’elettricità nelle città,  assumendo quindi un aspetto sempre più elegante e ricercato sino a divenire un vero e proprio oggetto d’arte rappresentativo anche della tipologia della dimora.

 

 

 

 

Non più quindi solo strumento d’uso comune, ma anche oggetto decorativo, di cui moltissimi esemplari, realizzati sia in ferro battuto finemente scolpito e sia in bronzo, risalgono al periodo rinascimentale.

 

 

In epoca neoclassica si diffusero in Europa molti modelli di battenti in ghisa dalle forme più svariate, di cui alcuni esemplari sono ispirati all’antico Egitto (sfingi), oppure al mondo animale (leoni o meduse..) o a decori floreali, con testa di donna o rappresentanti una mano nell’atto stesso di battere alla porta (vi sono addirittura alcuni esemplari con mani di donna con un prezioso anello al dito).

 

 

 

 

 

Ma l’aspetto più affascinante di questi bellissimi strumenti è che, sin dai tempi più remoti, si attribuì ai battiporta il potere prodigioso di allontanare e vanificare le influenze maligne che potessero danneggiare la casa e chi vi dimorava: è questo il motivo per cui la maggior parte dei battenti raffigurano volti minacciosi o animali feroci.

 

Ph Giampiero Fumagalli

Le bocche delle denunce a Bergamo e qualche luogo comune da sfatare

Forse a qualcuno è sfuggita la rocambolesca vicenda che qualche anno fa si è svolta nel Consiglio comunale di Bergamo: un’interrogazione presentata dalla Lega Nord, che ha avuto per protagonisti Palazzo Calepio, edificio storico ubicato in via Osmano angolo via Porta Dipinta (nonchè abitazione del sindaco Gori) e una lapide risalente all’epoca veneta, che sembrava svanita nel nulla.

La lapide cui si alludeva, non era altro che un resto della “Bocca delle denunce segrete”, una sorta di buca delle lettere in pietra, con una feritoia orizzontale, nella quale ai tempi della Serenissima i delatori introducevano messaggi anche anonimi. Si tratta di una versione semplificata delle più elaborate “Bocca delle denunzie segrete” presenti in discreto numero a Venezia. Nella foto, la lapide com’era prima della ristrutturazione di Palazzo Calepio, avvenuta qualche anno fa (Credits Photo Bergamosera)

Nell’interrogazione Ribolla, consigliere della Lega, sottolineava l’importanza storica della lapide che rappresenta una “Bocca delle denunce segrete”, un manufatto “citato in particolare nell’estratto della carta tecnica comunale Pr8-Vincoli e tutele, vincolo 89, del piano delle regole del Pgt. E nei libri di Bortolo Belotti ‘Storia di Bergamo e dei bergamaschi’ e di Vanni Zanella ‘Bergamo città’ del 1977”, come si legge nell’articolo dell’Eco di Bergamo.

Ribolla chiedeva a sindaco e assessori se non ritenessero “opportuno accertare quanto prima gli eventi che hanno portato alla presunta eliminazione della storica lapide da Palazzo Calepio, sottoposto a vincolo culturale, auspicando che tale lapide non sia andata perduta e che, al contrario, sia al più presto ripristinata”.

La querelle fu prontamente risolta dal sindaco Gori, che in serata replicò rassicurando il consigliere leghista con una fotografia della storica lapide, scattata di persona, e dichiarando che in realtà la lapide “È sempre lì”, sulla facciata nord del palazzo in cui si trova il mio appartamento” (1).

La lapide delle denunce segrete di Palazzo Calepio, immortalata dal sindaco G. Gori. Le buche delle delazioni erano destinate a ricevere le denunce più svariate: contro “bestemmiatori e irriverenti contro la Chiesa”; contro usurai e “contrati usuratici”; contro “danneggiamenti dei boschi de la provincia”; contro “contrabandieri e trasgressori di pane e farine” (E. Roncalli per www.ecodibergamo.it). Bortolo Belotti nella sua “Storia di Bergamo e dei bergamaschi” scrisse che le pene previste passavano dalla bastonatura ai tratti di corda, dalla bollatura allo strangolamento, fino allo squartamento

Com’era dunque possibile che un manufatto di tale portata, che si trova sotto il davanzale di una delle finestre della facciata, potesse sfuggire allo sguardo indagatore del consigliere Ribolla (e non solo)?

La risposta è alquanto semplice e dipende dal fatto che un tempo la bocca era raggiungibile a livello della strada in quanto il terreno circostante era maggiormente elevato, mentre le trasformazioni avvenute la rendono oggi in posizione elevata e poco visibile.

Cassela o bocca di pietra, con maschera ed epigrafe (Treviso, Casa da Noal, Via Canova)

L’antica pratica della Denuncia Segreta (2), che garantiva l’accusatore da un’eventuale vendetta da parte del denunciato, era una consuetudine molto diffusa nella Repubblica di Venezia, ma nonostante tale sistema incentivasse la delazione (“per la gioia di corvi e spioni, traditori e sicofanti, informatori e confidenti”), bisogna tenere presente che esso era soggetto ad un rigoroso – almeno sulla carta – sistema di “autoregolamentazione” in quanto le denunce, pur garantite dal segreto, non potevano rigorosamente essere anonime, pena la loro distruzione (“rigettate e subito bruciate”).

Al di là della correttezza o meno dell’applicazione delle leggi, va comunque considerato che la segretezza della denuncia restava una condizione necessaria alla sicurezza dello Stato (uno Stato comunque più evoluto rispetto a molti altri stati dell’epoca), e quando le denunce anonime riguardavano il suo interesse, esse venivano sottoposte all’attento vaglio del Consiglio dei Dieci(massimo tribunale preposto alla sicurezza dello Stato che a Venezia amministrava l’attività penale della giustizia), che in caso positivo procedeva seguendo la medesima prassi delle denunce firmate o presentate personalmente (3).

“Cassela” o bocca di pietra senza maschera, con epigrafe, Venezia, Palazzo Ducale (già loggia ovest, piano terra, ora deposito museale). I Savi dei Dieci e i Consiglieri dei Dieci accettavano le denunce anonime solo se si trattava di affari di Stato, con l’approvazione dei cinque sesti dei votanti. Era necessario indagare scrupolosamente per stabilire la verità, con giustizia e chiarezza, non giudicare nessuno in base ai sospetti, ma ricercare le prove concretamente, ed alla fine pronunciare una sentenza pietosa

In questo caso il povero imputato era costretto a difendersi da solo, non avendo diritto alla difesa (4).

Bocca di Leone per le Denontie secrete contro chi occulterà gratie et officii o colluderà per nasconder la vera rendita d’essi (denunce segrete contro l’occultamento di rendite provenienti da grazie e doveri concessi o esigiti dallo Stato). L’immagine ritratta in fotografia si trova lungo Riva degli Schiavoni all’interno dei portici di palazzo Ducale a Venezia (dove l’attività penale della giustizia era amministrata dal Consiglio dei Dieci), il luogo che presumibilmente i dogi di Venezia avevano adibito a raccolta di denunce per segnalare antichi evasori fiscali. Accanto al Consiglio dei Dieci esercitavano anche gli Inquisitori di Stato, la cui costituzione avvenne nel 1539 col nome di “tre inquisitori sopra qualunque si potrà presentir di haver contrafatto alle leggi, et ordini nostri circa il propalar delli segreti”. Il rito inquisitorio instaurato dal Consiglio dei Dieci era fondato sulla segretezza in ogni fase del procedimento. Con le formalità procedurali ridotte al minimo e senza poter contare sulla difesa di alcun avvocato, in completa balia degli Inquisitori, l’imputato aveva l’onere della prova. In tutto ciò gli accusatori e i testimoni restavano segreti (Tarocchi e inquisitori)

La denuncia segreta si attuava mediante particolari contenitori (chiamati “cassele”), simili alle odierne cassette postali, disseminati per la città di Venezia e in particolare nei pressi e all’interno del Palazzo Ducale, destinati a raccogliere le denunce segrete destinate ai Magistrati.

Cassetta postale a “bocca di leone” per le denunce segrete nel Sestiere di Dorsoduro a Venezia. Dal 1310, dopo la congiura di Baiamonte Tiepolo furono costruite a Venezia diverse Bocche di Leone o Bocche per le denunce segrete, distribuite almeno una in ogni sestiere, vicino a collocazioni della Magistratura, a Palazzo Ducale o alle chiese, e servivano a raccogliere notizie, delazioni o segnalazioni contro coloro che si macchiavano dei crimini più vari. Solo i Capi del Sestiere potevano accedere al retro del muro dove erano poste le varie cassette, le cui chiavi venivano tenute dai Magistrati, ed ognuna di esse raccoglieva le delazioni per un tipo diverso di reato: dalle accuse di evasione delle tasse, a quelle che riguardavano i bestemmiatori, e varie altre (Venezia Nascosta)

Nelle “cassele” i delatori introducevano segnalazioni dei reati più svariati, dalle bestemmie agli illeciti contro il patrimonio, alla corruzione, ai brogli elettorali, contro i fabbricanti di gazzette – monete dal valore di due soldi –  false, ecc., e sebbene molto spesso si trattasse di delazioni prive di ogni fondamento, dovute all’invidia o all’odio di una persona verso l’altra, altre volte queste segnalazioni salvarono anche la stessa sicurezza della Serenissima.

Un esempio di Bocca delle denunce segrete in materia di religione

Il nome di bocche deriva dal fatto che tali contenitori recavano spesso, esteriormente scolpito, l’aspetto di fauci spalancate, al disopra della dicitura del tipo di denunce che erano destinate a raccogliere.

Il fatto, poi, che spesso tali bocche fossero rappresentate in forma di muso leonino, a ricordare il leone di san Marco, simbolo dello Stato veneziano, è all’origine del comune nome di Bocche di Leone (in veneziano: Boche de Leon), o Bocche per le Denunce Segrete (Boche per le Denunzie Segrete), entro cui l’accusatore introduceva il suo messaggio.

Cassetta postale a “bocca di leone” per le denunce segrete, nella Chiesa di San Martino a Venezia, dove le bocche per le denunce segrete si possono tutt’ora ammirare, per la loro spettacolarità, anche sul muro della chiesa di S. Maria della Visitazione alle Zattere e quella di S. Moisè a San Marco

Si vocifera che a Bergamo vi fossero almeno altri due esemplari di Bocche delle denunce segrete: uno nel rione di Boccaleone in via Gabriele Rosa (da cui per qualcuno deriverebbe il toponimo della località), mentre l’altro pare fosse collocato sul muro dell’antico ospedale San Marco (poi ospedale Maggiore), che probabilmente in virtù della sua vicinanza all’edificio della Fiera, recava incise le seguenti parole: “Denonzie segrete in materia di biave e castagne”.

Ma il toponimo “Boccaleone” era già in uso nel 1200, quando si chiamava “Oris Leonis” e poi “Bouchalionum”, molto prima quindi dell’avvento a Bergamo della Repubblica di Venezia.

Un esemplare in bergamasca di “Bocca delle denunce” perfettamente conservato, si trova invece a lato di un portone di ingresso del palazzo di Clusone, dove si può notare ancora la lapide delle “Denonzie secrete in materia di sanità anno 1795”.

Piazza dell’Orologio e facciata meridionale del Palazzo Comunale, Clusone. “Accanto al portone principale d’ingresso possiamo trovare l’urna per le “denonce secrete”: Clusone è stata soggetta al dominio della Serenissima (all’interno del cortile troviamo una lastra marmorea che ricorda la dominazione veneta) e qui, come in gran parte dei territori, c’erano delle buche per le denunce anonime alle Autorità. Quella nei pressi del portone principale del palazzo comunale di Clusone riguarda la violazione delle norme sulla sanità” (5). (Credits Photo: i3sbox)

 

Clusone, Palazzo Comunale: bocca delle denunce segrete in tema di sanità. (Credits Photo i3sbox)

E per concludere, una curiosità.
L’atto primo dell’opera La Gioconda di Amilcare Ponchielli s’intitola “La bocca del leone” perché uno dei personaggi, Barnaba, durante il monologo “O monumento!”, inserisce proprio in una bocca di Leone una denuncia che accusa i due amanti Enzo e Laura.

Note
(1) Da www.ecodibergamo.it
(2) La pratica della Denuncia Segreta è riscontrabile negli Statuti medievali di moltissime città. Vari sono i termini che denotano questo tipo di denunciante: persona secreta, fin’hora secreta, per hora secreta, ecc. “Lo storico Paolo Preto ci informa su questo particolare tipo di denuncia: «Come si scrive e si inoltra una denuncia segreta? Il denunciante secreto, o chi agisce per conto di persona secreta che si riserva di comparire in un secondo momento, scrive, o si fa scrivere da altri, se è analfabeta o non vuol correre il rischio di far riconoscere la propria calligrafia, la polizza, cedola, scrittura, denuncia, su un foglio di carta e lo chiude in una busta con il nome della magistratura, o del magistrato in carica in quel momento; se chiede una taglia, una voce liberar banditi o altro compenso previsto dalla legge, precisa che comparirà, o di persona o tramite terzi, per la riscossione, e munisce la denuncia di un contrassegno, stracciando un lembo del foglio (o di un altro piccolo foglio allegato) su un riquadro dove è disegnato un ghirigoro e si trattiene lo scontro o incontro (cioè il lembo stracciato), che poi esibirà, o farà esibire, “per conseguir il premio ed beneficio”: oppure pratica un taglio circolare, della dimensione di una lente di occhiale, e trattiene la “particola” di carta. Spesso la denuncia viene inoltrata direttamente al magistrato, o al suo segretario, in ufficio o anche nella sua abitazione, chiusa in una sopracoperta, cioè una doppia busta, per meglio conservare la riservatezza o l’anonimato; talvolta è consegnata a un nobile estraneo alla magistratura cui si riferisce, il quale poi la consegna ai Dieci. C’e chi la manda per posta ordinaria (ma è caso raro), chi tramite un amico o un fante della magistratura; chi risiede in terraferma, e non si fida (caso frequente) di consegnarla a un rettore o altro magistrato locale e neppure di infilarla in una cassella o bocca di pietra, la manda per corriere, in sopracoperta, ai Dieci o agli Inquisitori, o ai loro segretari e fanti, o a un amico veneziano, che poi ne cura l’inoltro” (Tarocchi e inquisitori).
(3) “E occorreva il giudizio positivo dei 5/6 del Consiglio ( che in realtà era formato da almeno 17 persone) perché la segnalazione anonima fosse mandata avanti e non respinta. L’azione giudiziaria si apriva poi con un’altra ballottazione che doveva ricevere i 4/5 dei consensi e che poteva ripetersi fino a cinque occasioni successive. Solo a questo punto l’indagine seguiva la prassi comune alle denunce firmate o presentate personalmente”(Andreina Franco Loiri Locatelli per Bergamosera).
(4) “Ben diverse erano le procedure riguardanti denunce di reati privi di risvolti politici. Eliminate le segnalazioni anonime, quelle firmate facevano il loro corso presso i tribunali ordinari dei diversi gradi. Le prove venivano in genere escusse in pubblico e gli imputati avevano diritto alla difesa. I non abbienti venivano difesi da avvocati d’ufficio. L’istituto del gratuito patrocinio fu presente a Venezia fin dal Duecento e considerato obbligatorio anche per i rei confessi o per gli imputati che rifiutavano la difesa” Andreina Franco Loiri Locatelli per Bergamosera).
(5) Bergamogreen, “Clusone: fra arte, religione e cultura”.