Grazie alla loro collocazione allo sbocco dei due più importanti solchi vallivi, i colli che adornano la Bergamo antica sono il luogo ideale per accogliere splendide specie di passo, stanziali e svernanti, che rispecchiano fedelmente la realtà naturale di Bergamo. Perciò i crinali e le selle sono punteggiati dai tanti roccoli che ricordano l’antica usanza del cacciare con le reti.
Tra le catture più singolari o tipiche: l’Assiolo, il Gufo di palude, il Frosone, il Crociere, la Nocciolaia, il Picchio rosso maggiore, il Canapino maggiore….
Si tratta di una tradizione secolare, tramandata di padre in figlio, che sembra aver avuto origine nella Bergamasca ai tempi in cui l’uccellagione era una fonte essenziale di sussistenza per le famiglie e che talvolta era persino occasione di svago e divertimento per nobili e proprietari terrieri.
Non è un caso dunque se sui nostri colli il vocabolo “roccolo” sia così diffuso: basti pensare a Colle del Roccolo, Colle dei Roccoli, Colle Roccolone e a via del Roccolino o via Colle dei Roccoli; lo ritroviamo persino in alcuni antichi fondi agricoli come Alli Roccoli o Alli Prati dell’Usellande.
Ma come avvenivano la caccia e la cattura da posizione fissa? Avvenivano attraverso un sistema piuttosto complesso che sfruttava le linee naturali di passaggio dei volatili intercettando le cosiddette “passate”, ossia le diverse rotte migratorie e quelle degli spostamenti interni.
Per questo motivo il roccolo non era mai isolato, ma faceva parte di un sistema che “colonizzava” strategicamente il crinale ed i versanti.
Intrecciate perlopiù con legni di rovere e carpino, che adeguatamente disciplinati e potati disegnano sequenze di archi, esedre verdi e corridoi, queste architetture verdi arricchiscono ancor di più i già pregevoli caratteri del nostro paesaggio collinare.
E allora, in alternativa alle classiche passeggiate sui i Colli o alla “vasca” in Corsarola, cosa aspettate a visitare il più bel roccolo del Parco dei Colli?
A una mezz’ora da Colle Aperto, stagliato tra il bosco ed i coltivi vi attende un formidabile roccolo tradizionale da cui osservare bellissimi esemplari di avifauna. Bastano solo un paio di scarpe comode e la voglia di lasciarsi incantare da un angolo intatto e suggestivo: il roccolo Casati, o della “Tavernella”, un esempio di architettura vegetale mirabilmente modellata dalle mani dell’uomo, che domina l’abitato di Castagneta e la valletta sottostante, sospesa tra natura e storia.
Per vederlo, possiamo inoltrarci in via Tavernelle e imboccare un sorprendente sentiero boschivo che nel volgere di poco condurrà alla panoramica per San Vigilio.
Oppure si può percorrere l’incredibile scaletta che da Colle Aperto si inerpica su, per l’Orto Botanico, da dove godere di una magnifica vista che comprende anche il belvedere del ristorante Pianone.
Ma vi si può arrivare – e sarebbe la soluzione migliore – attraverso una “direttissima” di circa un chilometro che si diparte da Colle Aperto.
Lasciata alle spalle l’Orto Botanico e superata la curva di via Beltrami, si imbocca a sinistra la via Sotto Mura di Sant’Alessandro, una stradetta a fondo chiuso che s’inoltra nel bosco dove diviene un suggestivo sentiero.
Il percorso è delimitato a sinistra da un tratto di mura veneziane coperte dalla vegetazione, che celano una porta apparentemente insignificante: si tratta della “Porta del Soccorso”, la quinta della fortificazione di Bergamo Alta, la più piccola e nascosta: siamo nella pancia del Forte di S. Marco
Una volta usciti, ci troveremo su via Cavagnis. Svoltiamo a sinistra e percorriamola fino a quando si aprirà un panorama eccezionale: il roccolo con vista sull’abitato di Castagneta, il campanile e le vecchie cascine recuperate.
Giunti nello splendido contesto attorniato da castagneti e vigneti, il Roccolo Tavernella si eleva in posizione strategica lungo la rotta di migrazione dell’avifauna, ricordando un passato in cui la cattura di richiami vivi era utilizzata per la caccia da appostamento fisso.
L’impianto arboreo è definito da un doppio filare concentrico per lo più in carpini neri e bianchi, appositamente sagomati, che un tempo mascherava le reti a maglia fine per la caccia.
Come tutti i roccoli presenti in ambito collinare e montano, presenta una pianta a ferro di cavallo (con al centro alberi da frutto, bacche e uccelli da richiamo in gabbiette), aperta a monte verso il tipico casello di osservazione, da cui l’uccellatore poteva controllare l’intero impianto grazie alle feritoie.
Dal 1986 al ’98 è stato osservatorio ornitologico della regione Lombardia, fornendo un valevole contributo all’inanellamento di quasi 67.000 uccelli migratori, che sono poi stati nuovamente catturati a migliaia di chilometri di distanza ( in tutta Europa e nel Nord Africa), come attestato dalle schede conservate dal proprietario.
Per chi invece vuole cimentarsi in un vero e proprio percorso ornitologico, l’esperto Marco Mastrorilli ne suggerisce uno che parte da Colle Aperto sino a raggiungere il Santuario della Madonna della Castagna, nella parte occidentale dei colli: un percorso alla portata di tutti, da intraprendere preferibilmente da ottobre ad aprile.
Andando alla scoperta delle tante specie di passo che popolano il magnifico anfiteatro delle colline di Bergamo, percorrerete strade e viuzze lastricate che attraversano boschi, prati e splendidi giardini, in un contesto contornato anche da bellezze artistiche.
L’alternanza di boschi, prati, orti, giardini e vigneti lungo un tracciato percorribile in circa 4 ore – ma suddivisibile anche in due o più parti -, consente di comprendere l’importanza della posizione di Bergamo per le specie di passo e quelle legate alle migrazioni verticali durante la stagione invernale.
Lasciata alle spalle Colle Aperto e imboccata via Costantino Beltrami, al bivio per Castagneta si imbocca la panoramica per San Vigilio (via Cavagnis) in direzione via Vetta, attraverso tortuose ed irte strade, sino al panoramico Monte Bastia (470 m s.l.m.).
Gli studi degli anni ’60 (M. Guerra) ci hanno tramandato una memoria storica sulla preziosa ornitofauna urbana della città, con segnalazioni singolari come l’insolita nidificazione di Civetta capogrosso sul Monte Bastia.
Il canto di Paridi, del Picchio muratore, del Codirosso e persino del Codirosso spazzacamino costituiscono contatti comuni, ma uno tra i fenomeni più interessanti osservabili sul Monte Bastia…
…ed anche sul Colle di S. Vigilio….
è il regolare svernamento di una colonia di Rondini montane, osservabili anche nei mesi di dicembre e gennaio.
Il Dr. Guerra, ex direttore del Museo di Storia Naturale di Bergamo, seguì per numerosissimi anni questo fenomeno che puntualmente ogni inverno si ripete ed è attribuibile ad una felice esposizione e soleggiamento di questi colli termofili, soleggiati anche nei periodi in cui nebbia e freddo intorpidiscono la pianura e isolano la parte alta della città di Bergamo, cullata dal sole.
L’Upupa e il Torcicollo – quest’ultimo altamente mimetico – sono altre specie frequenti che si odono cantare e si osservano nei giardini e persino nei prati e negli orti, vera miniera ornitologica per coloro che amano i colli di Bergamo.
Proseguendo per via S. Orsarola, si prosegue per ombreggiati tornanti sino al colle Ciaregotto per poi giungere al Colle dei Roccoli, uno degli angoli più belli del Parco dei Colli di Bergamo, dove si apre da uno splendido scorcio sulla Val S. Martino.
Lungo le lastricate vie di Bergamo, è possibile inoltre rilevare e osservare, in inverno, altre specie alpine.
Tra i Turdidi, sempre molto diffusi, rinveniamo il Tordo sassello, il Bottaccio, la Cesena e il Pettirosso.
Tuttavia la presenza di conifere nei giardini favorisce anche concentrazioni di diversa entità di Crocieri, Frosoni, Lucarini, Peppole, Fringuelli, Fanelli e nei prati lungo i crinali non mancheranno i Prispoloni, assai comune durante il passo autunnale.
Il raggiungimento del Santuario della Madonna della Castagna permette di unire interessi storici e naturalistici.
Ma se prestiamo attenzione alle aree più aperte intorno al santuario, si può scoprire nelle serate estive la presenza del Succiacapre, specie ben distribuita nel Parco dei Colli.
Dovendo far ritorno a Colle Aperto, la rete viaria e di sentieri pedonali all’interno del parco è talmente ricca di soluzioni che è possibile scegliere sul declivio dei colli almeno 3 o 4 differenti strade parallele che portano comunque in Bergamo Alta, ma è auspicabile imboccare via Fontana che c’introdurrà nella Riserva della Valle d’Astino.
Qui ci aspetta l’ex monastero di Astino, opera dei frati Benedettini, uno dei monumenti di Bergamo più affascinanti, adagiato com’è in un terrazzo prativo circondato da boschi di latifoglie, con prevalenza di castagno.
I pendii più impervi ospitano il Saltimpalo e l’Averla piccola, ma la particolare disposizione dei colli permette di udire il tambureggiamento del Picchio rosso maggiore che nidifica nel vicino bosco….
Presenti anche il Canapino, il Beccafico, lo Zigolo muciatto e nei tratti più soleggiati, in primavera inoltrata, è stato osservato l’Occhiocotto.
Trovandoci nell’area comunale con la maggior concentrazioni di rapaci notturni, troviamo tre coppie territoriali di Allocco, due coppie di Civetta, una di Barbagianni ed una di Assiolo.
Emozioni garantite per coloro che volessero provare un contatto con il metodo del play back.
Sulla via del ritorno, imboccando la via Lavanderio, si sale tra paesaggi incantati sino alla via dei Torni, che ci condurrà alla chiusura del nostro anello.
Qui è stata segnalata la presenza – o nidificazione – del Tordo Golarossa, osservato a dicembre nella conca d’Astino, della Sterpazzolina, che sfruttando il clima mite di alcuni pendii, è stata osservata in periodo riproduttivo nel vicino Pascolo dei Tedeschi e dello Zigolo nero in pieno periodo riproduttivo in località Fontana.
Al termine di una giornata così emozionante e remunerativa, non resta che far ritorno, soddisfatti, in Colle Aperto.
Percorrendo la provinciale della Valle Brembana e superato il paese di San Giovanni Bianco, la strada che si immette in Val Taleggio si dirige verso un grumo di vecchi edifici dove – si dice – sia la casa di Arlecchino, la celebre maschera della Commedia dell’Arte naturalizzata bergamasca (o meglio, brembana).
Vi si arriva in automobile, prendendo una breve deviazione dal sesto tornante della strada che sale a Pianca.
Oppure, la si raggiunge a piedi o in bicicletta immettendosi nella pista ciclopedonale della Valle Brembana, a nord di San Giovanni Bianco, finchè dopo un centinaio di metri non si incontra un pannello indicativo.
Con un sovrappasso, si scavalca la ciclabile per immettersi sull’importante svincolo della storica Via Mercatorum, sul percorso che da Oneta condurrà a Cornello dei Tasso.
Raggiunta la piazzetta centrale del minuscolo borgo di Oneta, ecco quella che dall’Ottocento è detta “Casa di Arlecchino”, una solida dimora signorile in pietra a vista, alla quale si accede mediante una suggestiva gradinata.
La dimora si staglia a baluardo dell’antica Via Mercatorum, che le corre a fianco.
Il palazzo, di origine medioevale, aveva probabilmente una funzione di difesa del borgo collocato lungo la Via Mercatorum, una mulattiera lastricata che durante il medioevo collegava Bergamo alla Valtellina salendo dalla bassa Valle Seriana ed immettendosi nella Valle Brembana percorrendo le poco agevoli Vie Alte, prima che alla fine del Cinquecento la Serenissima realizzasse sul fondovalle il più comodo tracciato della “Priula”, che collegava direttamente il capoluogo alla Valtellina attraverso il passo S. Marco.
La posizione strategica, la struttura delle pareti esterne e la pianta dell’edificio, lasciano intendere che originariamente fosse una casa fortificata; tanto che sulla parete destra del salone interno è ancora visibile una fessura verticale, testimoniante la presenza di una torre di avvistamento affacciata sullo storica via di transito.
Le origini del Palazzo signorile invece risalgono Quattrocento, quando fu ristrutturato e ampliato per essere terminato nel Seicento con l’aggiunta della cucina. I proprietari del palazzo erano i membri della nobile famiglia Grataroli, una potente casata locale il cui cognome è storicamente diffuso in Valle Brembana e in Valtellina.
I GRATAROLI
Già nel XIV secolo i Grataroli occupavano posti di rilievo a S. Giovanni Bianco (1) e alternandosi con i Boselli, altro nobile casato sangiovannese, non lasciarono scoperte neppure le cariche religiose. Con i vicini Tasso del Cornello (quelli che daranno veste d’impresa ai servizi postali in Italia ed in Europa), convengevano poi reciproche intese di nozze e scambio di beni dotali.
Di pari passo anche le mire espansionistiche dei Grataroli andarono ben oltre gli ambiti della valle e già alla fine del Quattrocento la loro residenza a Bergamo non era più solo occasionale (soprattutto se consideriamo che già nel 1286 in città risiedeva un Ottobonus de Gratarolis de Honeta): li ritroviamo in via Pignolo (nel cui borgo si stanziano anche i Tasso), strada d’accesso alla città alta, colonizzata nel Cinquecento da borghesi che si erano arricchiti principalmente grazie al commercio dei panni di lana e delle sete, in prevalenza nuovi ricchi sollevati dalle attività mercantili e nobili residenti entro le mura, che non trovavano spazi per edificare nuovi edifici con giardino.
Bergamo era la prima piazza dove mettere a profitto le loro risorse, e pur non disdegnando l’esercizio della mercatura che li aveva resi fiorenti, furono medici, giuristi, avvocati e notai.
Ovviamente l’ambizione dei Grataroli di Oneta non poteva ignorare Venezia – che allora era ai vertici del panorama culturale ed economico europeo -, dove li ritroviamo dal Quattrocento ascritti al patriziato locale e dove ressero per ben due volte il segretariato dogale (2).
Considerate queste vicende, possiamo perciò immaginare quanto lo status sociale dei Grataroli presupponesse la presenza a Venezia di ben più di un servo condotto a loro seguito, la cui storia si intreccia strettamente con l’esodo dei bergamaschi in laguna.
Ormai lontani dal paese natio, i Grataroli avevano nobilitato il palazzo, dove probabilmente tornavano per la villeggiatura, quasi ad ostentare concretamente il potere acquisito.
LA CAMERA PICTA
I Grataroli fecero decorare la casa con pregevoli affreschi, visibili ancor oggi entrando nel grande salone: la “Camera Picta”. Gli affreschi, anonimi e databili alla seconda metà del XV secolo, testimoniano l’ascesa della famiglia attraverso l’intercessione dei santi guaritori legati alla devozione popolare e con la rappresentazione di un torneo cavalleresco dove i Grataroli, che si distinguono per la presenza di una gratarola (una grattugia) disegnata sul loro scudo, sconfiggono i nemici dimostrando il loro potere alle famiglie nobiliari della Valle, raffigurate negli stemmi che contornano la scena.
La Camera Picta di Casa Grataroli è dunque un esempio unico in Val Brembana per la vivace dialettica sacro-profana che enfatizza l’autorità dei padroni di casa.
Lasciandosi guidare dall’ordine che si snoda in senso orario appena oltre l’ingresso principale, il ciclo compositivo si apre con il più autorevole affresco tra quelli religiosi: Cristo sul sepolcro tra Maria e Giovanni.
Nella rappresentazione del torneo cavalleresco, i Grataroli sconfiggono i nemici dimostrando il loro potere ai maggiori casati della Valle (dai Boselli ai Tasso e dai Torriani ai Rota..), raffigurati nei medaglioni dei fregi decorativi che contornano la scena nella cornice superiore delle pareti. Non è azzardato supporre che in questa camera si celebrasse l’assise del potere locale, che vedeva appunto al vertice i Grataroli.
Nella Camera Picta i Grataroli provano a loro modo a bilanciare diverse ed opposte tendenze, soppesando istanze di ragion pratica con usanze pagane e credenze religiose.
E come in una scena teatrale è sacra l’idea di autorappresentarsi per quello che si è e si vorrebbe essere, senza sfuggire a quello che la storia e gli altri diranno di noi.
SOTTILI LEGAMI TRA I GRATAROLI E GLI ZANNI
Ma tra i Grataroli che approdarono a Venezia, alcuni si dedicarono anche ad attività più comuni, come quell’Angelo Grataroli, che con la moglie Balsarina Tassis gestiva all’inizio del Cinquecento l’osteria “alla Campana” in Rialto, uno straordinario crogiolo di eccentrche diversità, la cui gestione fu bergamasca per più di un tentennio costituendo un punto di ritrovo per gli immigrati bergamaschi: lo apprendiamo da Marin Sanudo, il famoso cronista veneto che ne era proprietario (sua figlia Bianca aveva sposato Angelo Gratarol, forse nipote dell’ostessa Balsarina). Teniamolo bene a mente.
BERGAMASCHI A VENEZIA
Fra Quattro e Cinquecento molti abitanti delle varie città del dominio veneto di terraferma si trasferirono nella ricca Venezia, dove godevano dello stato di cittadini de intus, che permetteva loro di commerciare, di aprire bottega, di esercitare le professioni liberali e di avere accesso alle Arti: erano in prevalenza bergamaschi, che a Venezia formavano una comunità molto numerosa, i componenti dell’Arte della seta e quelli dell’Arte della lana, e molti garzoni bergamaschi erano iscritti in particolare alle Arti “vittuarie”, cioè legate al cibo).
Del loro lavoro la città non poteva fare a meno, tanto più che avevano messo a frutto l’atavica solidarietà montanara, costituendo in laguna efficienti compagnie di lavoro e di mutua assistenza che contribuivano a garantire ai committenti risultati sicuri e soddisfacenti. Si trattava dunque di una comunità coesa ed ben organizzata, attaccata alle proprie radici e alla propria identità.
SERVITORI E FACCHINI
Dalle valli bergamasche arrivavano anche numerosi servitori e facchini addetti al trasporto di merci pesanti (tra questi i brentatori che trasportano vino) e, dal XV secolo in poi, erano tutti e solo bergamaschi gli scaricatori (bastagi) che gestivano il movimento delle merci alla Dogana di mare.
I bastagi, una quarantina alla fine del Quattrocento, sotto la supervisione di officiali nominati dai Savi della mercanzia gestivano tutte le operazioni che si svolgevano in quell’area: scaricavano le merci dalle navi, le pesavano, controllavano i colli e calcolavano l’ammontare dei dazi dovuti.
Ben retribuiti, essi godevano della fiducia delle autorità e da queste ottenevano che l’ingresso nel loro consorzio fosse riservato solo a parenti e compaesani.
DA FACCHINO A ZANNI
Come nasce Zanni, la trasposizione teatrale del facchino bergamasco inurbato a Venezia?
I numerosi valligiani brembani che si inurbavano un po’ da sprovveduti nella raffinata e opulenta Venezia erano abbastanza goffi e non c’è da stupirsi che fossero presi in giro.
Le caratteristiche che li accomunavano, entrarono a far parte della nascente letteratura popolare della laguna, dando pretesto ai motivi caricaturali ripresi nei canovacci della Commedia dell’Arte, con la tipica figura del servitore bergamasco tuttofare – rozza, sguaiata, tonta e dalla parlata rude, aspra e cadenzata – che si afferma sulla scena nel Cinquecento.
Come attori sembravano favoriti perché sapevano condire di briosità tanto i ritmi di lavoro quanto le pause di ristoro e le feste rituali ed inoltre la versatilità pressoché insostituibile del loro linguaggio ben si prestava alla comicità.
Nasce così il tipo comico dello Zanni, versione veneta del nome Gianni, vezzeggiato in Zani, molto diffuso tra i contadini del lombardo-veneto da dove venivano la maggior parte dei servitori dei nobili e dei ricchi mercanti veneziani.
L’OSTERIA “ALLA CAMPANA” IN RIALTO, DI ANGELO GRATAROLI DI ONETA
Marin Sanudo ci fa sapere che nell’Osteria “alla Campana” in Rialto, gestita dal brembano Grataroli con la moglie Balsarina Tassis (poi rimasta vedova), si davano convegno le Compagnie della Calza, formate da giovani patrizi che organizzavano feste, spettacoli di piazza e cerimonie ufficiali della Serenissima, dove i facchini bergamaschi che lavorano a Venezia trasportano e facevano muovere i cavalli di legno, gli animali fantastici, gli apparati scenici, partecipado, a volte, alla messa in scena con balli e canti.
Ed è forse questa loro attività che li lega alla maschera, perchè in quelle occasioni si promuovevano anche recite di commedie alla villanesca e alla bergamasca (poi divenute un vero e proprio genere teatrale, non più patrimonio esclusivo dei bergamaschi), con attori che si facevano apprezzare nell’interpretazione buffonesca dei facchini bergamaschi, al centro della satira popolare (3).
Troviamo quindi un’altra connessione, questa volta reale e concreta, tra i Grataroli e Zanni, il padre putativo di Arlecchino, personaggio dal quale Tristano Martinelli attinge largamente nella Francia del Cinquecento, dove dà forma alla celebre maschera.
DA ZANNI AD ARLECCHINO
Zanni in Francia assume un nuovo nome e si arricchisce nella personalità attraverso la maschera di Arlecchino, che tuttavia ne mantiene i caratteri e le radici.
E se Arlecchino se ne va per conto suo in giro per l’Europa, a Venezia conserva il codice genetico, che prevede l’uso del Bergamasco, “in parte per la rustica assonanza con le origini del tipo e in parte per l’effetto comico di chi s’arrabattava a districarne i suoni con l’ausilio di una vivace mimica espressiva” (4).
Del resto, quando Martinelli approda in Francia, il personaggio di Zanni era già stato ampiamente sdoganato da attori come Alberto Naselli (Ferrara 1543-1585), uno dei primi capocomici della Commedia dell’Arte, di molta fortuna e vasta notorietà, che incontriamo per la prima volta come Zan Ganassa (un’intrigante declinazione di Zanni, scaturita dalla volontà di “dare spasso” e far smascellare – sganassare – dalle risa) nella primavera del 1568 alla corte del duca di Mantova, divenendo famoso presso le corti di Francia e Spagna dove Naselli sfruttò abilmente le caratteristiche emergenti dello zanni bergamasco, che aveva dalla sua il fascino della novità, cui si aprivano varchi altrimenti inaccessibili.
Affermato mediatore tra gli umori di piazza e le raffinatezze di corte, Zan Ganassa danzava alla bergamasca e parlava il “bergamasco internazionale” degli Zanni i servitori bergamaschi che allora affollavano la città lagunare, di cui esisteva una florida letteratura, riecheggiante l’eloquio brembano, a partire dallo spassoso lamento di Alberto Ganassa sopra la morte di un pidocchio, “di lingua bergamasca ridotta nella italiana toscana”, raccolto da Cesare Rao nelle sue “argute e facete lettere” (Brescia, 1584).
Sia lo Zanni del ferrarese Alberto Naselli e sia l’Arlecchino creato dall’attore mantovano Tristano Martinelli appartengono al mondo degli “Zani”, diventando famose in tutta Europa.
Del resto lo stesso Goldoni, esaltando l’utilizzo del dialetto e fissando i caratteri delle maschere principali, induce Arlecchino e Brighella ad adottare definitivamente la lingua ufficiale della capitale della Repubblica: il dialetto veneziano, scrivendo: “Le Pantalon a toujours été Vénitien, le Docteur a toujours été Bolonnois, le Brighella et Arlequin ont toujours été Bergamasques”: l’assenza di documenti che possano comprovare la validità del rapporto tra Bergamo e Arlecchino non può quindi invalidare il perdurare di una tradizione indiscussa e consolidata, avvalorata persino dall’autorità di Goldoni (5).
I MALINTESI RIGUARDO ALBERTO NASELLI IN ARTE ZAN GANASSA…CON SORPRESA
Una radicata tradizione, riferita nell’Ottocento da Ignazio Cantù (non si sa bene sulla scorta di quale fonte), vuole che nella casa di Oneta sia vissuto per qualche tempo il ferrarese Naselli/Zan Ganassa, a lungo creduto erroneamente l’ideatore della maschera di Arlecchino nonchè nativo di Bergamo (e c’è chi lo crede tuttora se dobbiamo dar conto persino di una tesi di laurea, recentemente consultata dalla scrivente), dando luogo all’ipotesi secondo la quale egli sarebbe vissuto nel palazzo di Oneta.
Il termine “ganassa” del resto – afferma Eliseo Locatelli – è così bergamasco da aver tratto a lungo in inganno molti studiosi e critici che lo hanno ritenuto il vero cognome di Zanni, anche perchè nei paesi di Valle Brembana c’era davvero chi rispondeva all’appellativo anagrafico di Ganassa (6).
La vicenda che legherebbe Naselli ad Oneta però riguarda la sua definitiva uscita di scena seguita alla brillante permanenza in Spagna, che Naselli abbandona senza un motivo apparente nel 1584 – all’età di 42 anni – per tornarsene ricco e famoso in Italia, dove se ne perdono immediatamente le tracce.
Una voce lo vorrebbe rifugiato in terra bergamasca nella patria degli Zanni, sotto la protezione di qualche signorotto locale che ne avrebbe custodito l’anonimato: un’ipotesi che non escluderebbe la candidatura della casa di Oneta, nei pressi della quale – udite, udite – tra le insenature dei boschi sovrastanti si trova la località di Nasèi, il cui toponimo potrebbe appunto tradire la sopravvenuta agnazione (legame di parentela in linea maschile, tra i discendenti maschi dello stesso padre) dei Naselli.
Un caso, una coincidenza?
Resta il fatto che i ricercatori non sono riusciti a trovare a Ferrara nessun atto di morte o di successione che lo riguardasse (7).
Carica di queste memorie e di queste considerazioni, la Casa di Arlecchino, pur non potendo rivendicare la naturalità anagrafica della maschera bergamasca, si pone a crocevia di un lungo processo di sedimentazione dei presupposti ambientali e culturali che ne animarono il personaggio, rendendolo protagonista nei teatri di piazza e di corte.
L’UOMO SELVATICO NELLA CASA DI ONETA: UNA NON CASUALE MATRICE ANTROPOLOGICA
Sopra le scale d’ingresso del palazzo, nella sua collocazione originaria attira la nostra attenzione la curiosa figura affrescata di un uomo rude e vestito di pelli che brandisce un bastone, minacciando di prendere a randellate eventuali malintenzionati.
Si tratta probabilmente dell’opera di un buon pittore locale della fine del Cinquecento (quindi coeva o leggermente posteriore rispetto agli affreschi della Camera Picta), il cui originale è oggi custodito all’interno del palazzo, nella cucina.
Gli studiosi lo fanno risalire all’Homo Selvadego, un mito di retaggio celtico, le cui radici sono riconducibili alla preistoria indoeuropea; una figura ancestrale diffusa in entrambi i versanti delle comunità alpine (compresa la montagna bergamasca), la cui immagine veniva talvolta raffigurata all’interno o all’esterno delle case, a scopo apotropaico o intimidatorio (anche Bartolomeo Colleoni aveva il suo “selvatico” presso il castello a Malpaga).
Il Selvatico raffigurato ad Oneta (un esempio unico nella Bergamasca), potrebbe anche tramandarci le sembianze di un proprietario della casa, fattosi raffigurare con i tratti del selvatico per simboleggiare il suo attaccamento alla cultura alpina.
L’espressione del volto lascia trapelare una forte intensità di sguardo. Capelli e barba sono irsuti e rossicci ed anche il corpo è avvolto da un manto villoso. In basso si intravede un paesaggio rurale, mentre in alto, l’intenso blu del cielo è attraversato da bande di nuvole corrugate, quasi a voler disegnare inquietanti visioni oniriche e a dare conferma dell’ammonizione dell’homo selvadego scritta in un cartiglio nella parte superiore della rappresentazione: “Chi no è de chortesia, non intrighi in casa mia. Se ge venes un poltron, ghe darò del mio baston”.
Essendo il palazzo situato lungo la trafficata Via Mercatorum, era opportuno che i viandanti fossero ammoniti a non bussare alla porta senza una valida ragione: quale migliore immagine di quella dell’uomo selvatico per tenere lontani gl’importuni e i seccatori? E chi meglio di lui, che aveva confidenza con la magia, poteva salvaguardare la casa dagl’influssi maligni? (8).
Nella Bergamasca, dove è chiamata òm di bosch, la figura dell’Homo Selvadego è testimoniata da centinaia di leggende raccolte in tempi diversi a Cirano di Gandino, a Cà San Marco, a Santa Brigida, a Gromo, a Selvino e in Val Taleggio.
L’uomo selvatico è una metafora della natura, della vegetazione che nasce e che muore, degli animali che vanno in letargo e si risvegliano. La sua presenza è da ricondurre nelle grotte e negli anfratti inaccessibili, in luoghi isolati di montagna come il bosco. Parlava in rima ed amava i proverbi e conosceva i segreti della natura: era un esperto pastore e un maestro dell’arte casearia (quella che più di altre permetteva di sopravvivere nei territori più aspri ed isolati); era depositario di conoscenze antiche per la conservazione dei cibi e delle carni, il ricorso alle erbe medicinali, l’apicoltura, il taglio dei boschi, la produzione delle carbonaie, l’estrazione dei minerali e la forgiatura dei metalli.
Fu associato a una figura terribile a cui ricondurre le paure, ma fu anche simbolo dell’armonia uomo-natura collocandosi tra l’umano, il selvaggio e il divino. L’Homo Selvadego può essere ricondotto ad alcuni archetipi come il dio Pan, uomo-capro divinità dei pastori e delle greggi; i Satiri, esseri mitologici dalle gambe caprine, coperti di pelo e abitatori dei boschi; il dio Silvano, dio dei boschi, delle campagna e degli armenti; Ercole, eroe dalla grande forza considerato custode e difensore di case e città.
Con l’affermarsi del cristianesimo le divinità della natura furono rilette alla luce delle nuove esigenze culturali e pedagogiche. Alcuni soggetti religiosi furono associati agli ambienti silvestri e nella mentalità popolare mantennero i caratteri dell’Homo Selvadego, creando una confusa sovrapposizione di poteri e ruoli.
Basti pensare alle figure degli eremiti comeSant’ Antonio abate o Sant’ Onofrio spesso rappresentati coperti di pelle di animali oppure irsuti, che ben si adattavano ad essere confusi con l’Homo Selvadego per il tipo di vita che conducevano.
Di nuovo a firma dei Baschenis l’Uomo Selvatico è presente a Sacco di Cosio Valtellino, in Val Gerola, dove non esita a presentarsi: “Ego sonto un homo salvadego per natura chi me offende ge fo pagura”, e tutto intorno sparge massime di saggezza popolare come quella che ad Oneta caratterizza il canto del gallo.
Egli appare accanto al tema devozionale della Pietà, che vede raffigurati San Giovanni Evangelista e Sant’Antonio abate nella classica iconografia di rustico eremita che verrà ripetuta anche a Oneta.
Anche altri santi furono associati all’Homo Selvadego, come San Cristoforo, santo diffuso e venerato nelle vallate alpine, abitante dei boschi, generalmente dipinto sulle facciate delle chiese a protezione dei viaggiatori, come ad Oneta, dove lo vediamo raffigurato sul porticato della chiesa del Carmine, fatta costruire intorno al 1473 dalla famiglia Grataroli: un omone grande e grosso che guada i fiumi con Gesù Bambino sulle spalle, posto a protezione dei viandanti della Via Mercatorum.
Ad Oneta il Selvatico assume così i toni rassicuranti del Santo, a sostegno dei vivi che dovevano affrontare viaggi lunghi e pericolosi.
Del mito dell’uomo selvatico in Bergamasca, chiamato pagano perché verosimilmente legato ad antichi culti precristiani, cogliamo solo qualche debole frammento sopravvissuto a un occultamento, ad una cancellazione avvenuta molto tempo fa e ferocemente perseguita dall’uomo civile, che l’ha demonizzato espropriandolo giorno dopo giorno del suo territorio.
Ed è proprio in questo vasto processo di emarginazione che si è ravvisato un rapporto tra il Sevatico e la figura dell’ Arlecchino delle origini – caratterizzato da una goffa e istintiva animalità – entrambi ridicolizzati e irrisi per i loro aspetti grotteschi: le strane foglie che tappezzano l’abito del primo Arlecchino (quello di Tristano Martinelli), secondo Dario Fo “le ha l’uomo selvaticus, l’uomo della foresta, che era un’altra maschera soprattutto di tutta l’Europa centrale. Allora niente a che vedere con il discorso dell’Arlecchino con le toppe, questo viene molto più tardi..” (10).
In effetti, ”il batocio ligneo che gli pende al fianco richiamerebbe il bastone del selvatico, l’abito versicolore rimanderebbe ai riti pagani del risveglio primaverile della natura feconda: chi apriva la processione nei campi si adornava di strisce di stoffa di vari colori onde propiziare lo sbocciare dei fiori (11), allo stesso modo con cui il Selvatico strepitava nei roghi marzolini per i germogli di primavera.
I roghi marzolini?
Nelle economie rurali i roghi di fine inverno coincidevano con il bisogno di bruciare le sterpaglie accumulate; la cenere avrebbe fertilizzato i campi da cui, al tiepido sole di primavera, sarebbero spuntati i primi fili d’erba.
Ma prima di spegnersi i fuochi disegnavano nell’aria le forme più strane e tutti ne traevano auspici che concordavano o meno con sopite credenze pagane. Le impressioni più strane restavano comunque un segreto che ognuno custodiva con la speranza o il terrore che si avverasse.
Quando i roghi vennero inquadrati in forme di costumanza sociale, anche per arginare possibili devianze malefiche questi passarono dai campi alle piazze dove, nei ritmi incalzanti del carnevale, le fiamme presero ad avvolgere fantocci di paglia e stracci (simboleggianti il Selvatico/òm di bosch), che dovevano rappresentare i mali dell’inverno: un allettante invito a scrollarsi di dosso malaugurati sortilegi (e propiziare l’avvento primaverile come promessa di abbondanti raccolti), che al ritmo di balli infuocati sarebbero stati inghiottiti dalle fiamme che anticipavano l’imminente digiuno quaresimale.
I roghi, passati ormai alle piazze, sono preceduti dalla lettura del bando con cui il Selvatico-Arlecchino bacchetta tutto quello che di volta in volta non va per il verso giusto.
ALLARGANDO LO SGUARDO D’INTORNO
Se la Casa di Arlecchino è il principale investimento di attrazione turistica di Oneta, basta allargare lo sguardo per scoprire che le potenzialità del borgo vanno ben oltre.
Guardiamoci intorno: lo splendido borgo, formato da un grumo di case accoglie il visitatore in un’atmosfera d’altri tempi, con le vie porticate sulle quali si affacciano portali in pietra e ballatoi in legno rusticamente intagliati.
La chiesa del Carmine, fatta costruire dai Grataroli e intitolata inizialmente alla Natività di Maria, con il suo grande e già osservato San Cristoforo, posto a protezione dei viandanti della Via Mercatorum.
Stretta tra le viuzze e i selciati pietrosi, la piccola chiesa custodisce due tele di Carlo Ceresa (XVII secolo) e pregevoli affreschi eseguiti dai pittori erranti della Val Brembana, divenuti famosi in tutta Europa.
Sotto alla Casa di Arlecchino vi è poi una Taverna, che invita il visitatore a deliziarsi con prodotti locali di altissima qualità: provare per credere.
LA VALLE BREMBANA, UNA VALLE APERTA ALLE INFLUENZE EUROPEE
La visita al borgo offre innumerevoli possibilità in uno scenario insolito e ricco di bellezze tutte ancora da scoprire, offrendo suggestivi spunti anche dal punto di vista escursionistico proprio grazie alla sua felice collocazione lungo la Via Mercatorum, dove transitavano i mercanti che risalivano le valli verso i Grigioni e il Nord Europa, prima che venisse realizzata la Strada Priula.
Lungo questa strada, percorribile da carovane di muli, i viandanti potevano trovare ospitalità e ristoro nelle stazioni che si trovavano presso Trafficanti, Serina, Cornello (luogo di mercato), Piazza Brembana, Averara e il valico di S. Marco.
Dopo aver percorso suggestive borgate, una volta raggiunta Oneta il tracciato prosegue, ben conservato, verso Cornello dei Tasso, in età medioevale sede di un importante mercato (testimoniato dal percorso porticato) e luogo di passaggio obbligato in quanto cerniera fra la bassa Valle Brembana, e la valle ‘Oltre la Goggia’.
Lungo il facile tragitto, prevalentemente pianeggiante, si attraversano prati e boschi d’incanto, ruscelli e cappelle, fino a che il sentiero selciato, oltrepassato un ponticello raggiunge il culmine del dosso sul quale sorge la piccola chiesa di Sant’Anna – posta a circa metà percorso – in contrada Piazzalina.
Dalla chiesa di Sant’Anna il percorso prosegue in discesa, attraversa la Valle dei Mulini e giunge al borgo di Cornello dei Tasso.
Una volta raggiunto il borgo di Cornello è possibile seguire un nuovo itinerario che si snoda lungo le contrade legate alla famiglia Tasso (e non solo), o proseguire lungo la Via Mercatorum verso i passi e le antiche dogane venete, che pongono questa valle come punto di riferimento per tutti gli antichi commerci e scambi culturali dell’Italia con il resto d’Europa: potrete così immaginare, volendo, anche le carovane delle compagnie comiche itineranti della Commedia dell’Arte.
Sono davvero tanti i borghi, le cascine, le chiesette, i grumi di case e le contrade che questi luoghi verdissimi e silenziosi offrono al visitatore desideroso di armonizzarsi con un contesto dove il tempo pare essersi fermato: le bellezze di Oneta e dei suoi dintorni, ricchi di preziose valenze storiche, paesaggistiche e naturalistiche, valgono ben più di una visita ed è sicuro che ne rimarrete contagiati.
CULTURA E TURISMO
La Casa conserva una selezione di maschere dei personaggi della commedia dell’arte e ospita, dal 2015, un teatro stabile di burattini della Compagnia del Riccio, in cui sono messe in scena brevi storie in occasione delle visite guidate delle scolaresche e di eventi particolari. Funge da palcoscenico naturale per numerose rappresentazioni legate al festival teatrale tematico dal titolo “Le Vie della Commedia”, che si svolge ogni anno, da Luglio ad Agosto, nell’intento di riscoprire e consolidare le vere potenzialità artistiche e storiche della Valle. E’ inoltre in procinto di ospitare la preziosa tradizione Ottocentesca e Novecentesca dei Burattini Artigianali della Valle Brembana, in collaborazione con l’Università di Bergamo, la Fondazione Benedetto Ravasio dei Burattini storici bergamaschi ed altri enti di ricerca e documentazione.
Il Museo è inoltre sede di laboratori didattici e di visite guidate (riconducibili a diversi itinerari, ad esempio verso il borgo di Cornello o Dossena), seguendo la Via Mercatorum. Laboratori e visite guidate sono organizzati dal Polo Culturale “Mercatorum e Priula / vie di migranti, artisti, dei Tasso e di Arlecchino”, nato nel 2015 da una convenzione firmata dai Comuni brembani di Camerata Cornello, San Giovanni Bianco e Dossena per valorizzare i beni artistici, architettonici, storici, ambientali del territorio.
Note
(1) Secondo le fonti dell’Archivio Storico di Bergamo, nel 1310 è console a San Giovanni Bianco Guglielmo de Gratarolis e nel 1313 si conferma nello stesso ruolo un tale Pasino de Gratarolis (Eliseo Locatelli, Arlecchino che parla bergamasco. Ed. Corponove, Bergamo, 2016).
(2) Gli annali della Serenissima registrano nel 1640 Gerolamo Grataroli come segretario del doge Francesco Erizzo ed altrettanto sarà nel 1691 per Pietro Antonio Grataroli, nominato segretario del doge Francesco Morosini (Eliseo Locatelli, Op. cit.).
(6) Per gli atti dell’archivio parrocchiale di Serina, “Ganassa” era il vero cognome; per altri era semplicemente un soprannome (come Buratinus e Maschera – degni di altrettanti etimi zanneschi – estrapolati da T. Salvetti dalle carte del notaio sangiovannese Giovan Francesco Raspis, della prima metà del Cinquecento (Eliseo Locatelli, Op. cit.).
(10) A cura di Rosanna Brusegan, Premessa di Dario Fo, in “La scienza del teatro – Omaggio a Dario Fo e Franca Rame” – Atti della Giornata di Studi (Università di Verona, 16 maggio 2011). Bulzoni Editore, 2013.
(11) Umberto Zanetti, Ibidem.
Bibliografia e sitografia
Tarcisio Salvetti San Giovanni Bianco e le sue contrade Ferrari Editore
Felice Riceputi, Storia della Valle Brembana. Dalle origini al XIX secolo, Corponove, Bergamo, 2011.
Eliseo Locatelli, Arlecchino che parla bergamasco. Ed. Corponove, Bergamo, 2016.
Diversamente da Arlecchino e da Brighella, maschere “internazionali” e d’alto lignaggio che ormai da tempo parlano il dialetto veneziano, Gioppino appartiene alla più genuina tradizione popolare bergamasca dalla connotazione local e “sovranista”: coerente con sé stesso, ha sempre parlato il dialetto della sua terra ed è rimasto un popolano fiero, sagace, patriota e religioso.
Gioppino fa la sua comparsa proprio quando, con i moti degli anni trenta dell’800, il popolo bergamasco non si identifica più in Arlecchino ed in Brighella e reclama un nuovo eroe, che presto diventa popolare per il tenace spirito d’indipendenza e per l’abitudine a risolvere ogni contesa a suon di randellate.
Il suo abito verde con bordature rosse – chiaro riferimento ai colori della bandiera italiana – gli fa assumere esplicitamente toni a favore degli ideali risorgimentali e critici nei confronti del potere costituito rappresentato dagli stranieri invasori: gli Austriaci.
Da noi assume una tale popolarità da designare con il suo nome i burattini in generale, e grazie al poeta Pietro Ruggeri da Stabello (1797-1858), che Luciano Ravasio definisce il “promoter di Gioppino”, “la figura del burattino trigozzuto e l’aggettivo ‘gioppinorio’ diventano l’equivalente di tutto ciò che è bergamasco (1).
Proprio grazie a un suo componimento del 1842 (“Gran sògn gioppinorio”), apprendiamo che la sua patria è Zanica (Sanga), che ha compiuto quarant’anni, vanga, zappa e fa il facchino.
E’ nato da Bortolo Söcalonga e Maria Scatoléra; ha un fratello, Giacomì, mentre la moglie si chiama Marietta detta Margì (che ama, anche se non disdegna la compagnia di altre donne) e dalla loro relazione nasce il Bortolì de Sanga detto anche Pissambràga. I suoi nonni materni sono Bernardo e Bernarda.
Ciò che lo rende immediatamente riconoscibile sono i tre grossi gozzi che gli deformano il collo e che egli chiama orgogliosamente “granate” o “splendidi coralli”, ostentandoli non come un difetto fisico ma come veri e propri gioielli o persino come un blasone di famiglia, che vorrebbe tramandare al figlio.
Considera i suoi gozzi le sedi della propria sapienza e ne fa motivo di lazzi e argute trovate, suscitando ilarità: “L’è la tropa inteligènsa chè la ga stàa mia ‘ndèl sèrvèl, è alura ol Padre Eterno al ma la mètida chè sota”.
Questa caratteristica, creduta erroneamente causata da cretinismo, è dovuta all’ingrossamento della ghiandola tiroidea, provocato da un’alimentazione povera di sali iodio, malattia un tempo molto diffusa nella Bergamasca per effetto della denutrizione.
Curiosamente, anche se non c’è nessuna connessione, la malformazione di Gioppino è stata spesso associata allo stemma araldico della famiglia di Bartolomeo Colleoni, che in analogia con il patronimico raffigura nientemeno che tre testicoli, divenuti simbolo del potere, della virilità e della forza militare del condottiero che nel Quattrocento fu a servizio di Venezia.
Oltre ai gozzi, ciò che lo rende facilmente riconoscibile è la corporatura tozza e robusta, con quel faccione rubicondo e gioioso su cui si dipinge una bocca spalancata in un costante sorriso.
Incarna il classico contadino sempliciotto, amante delle donne, del vino e del buon cibo, rozzo nei modi e nel linguaggio e pronto a suonarle di santa ragione ai prepotenti e a chi cerca di ostacolare i suoi piani, anche se in fondo è di buon cuore ed è sempre protettivo verso i deboli e gli oppressi.
Se la tradizione legata alla maschera di Arlecchino e Brighella nasce con la Commedia dell’Arte verso la fine del Cinquecento, non possiamo che chiederci da dove spunti la figura di Gioppino, la cui tradizione sembra essersi radicata nel corso dell’Ottocento con la tipica figura del “burattino gozzuto, tarchiato e rozzo, famelico e beone, fannullone e bastonatore” (2), che appare negli spettacoli burattineschi di Piazza Vecchia, in piena dominazione austriaca.
Eppure sembra comparire qualcosa di molto simile già nel 1531, quando il pittore Fermo Stella realizza il grande affresco della Crocefissione, conservato presso la chiesa di S. Bernardino a Caravaggio dove, ai piedi della croce compare un soldato dal viso grottesco e dal petto scoperto, che innalza verso il Cristo una lancia sormontata da una spugna intrisa di aceto: il milite esibisce tre grossi gozzi (patologia notoriamente orobica) e una stupefacente somiglianza con Gioppino.
Probabilmente Fermo Stella, caravaggino soggetto a Milano, affida tale compito a un bergamasco perchè Milano è acerrima nemica dell’avamposto “venetorobico” (3).
Sempre nel Cinquecento, ritroviamo un altro possibile riferimento a Gioppino in un sonetto bergamasco (inneggiante vernaccia e casoncelli), dove non manca un’allusione a un certo Jopilach (4).
Nel Carnevale del 1662 descritto dall’abate Angelini compare poi un certo Tone, i cui segni distintivi, le salsicce e il fiasco di vino in mano, ricordano molto da vicino quelli della maschera di Gioppino: “chi si traveste, al nostro dir, da Tone con la salsiccia e con un’otre in mano, parla milenso e gira dondolone” (5).
Ma se vogliamo esagerare e scavare ancor di più alla ricerca del suo “progenitore ancestrale”, dobbiamo rivolgerci ancora una volta al mito dell’Uomo Selvatico (“om di bosch” nella Bergamasca) descritto da Umberto Zanetti, il quale afferma che al di là dell’aspetto esteriore di Gioppino, che risponde a quella dei contadini dei tempi andati e che del selvatico conserva ormai solo l’inseparabile bastone (cui dovette aggiungersi il gozzo per colmo d’irrisione), “il suo contegno, le sue ingenuità, la sua rustica semplicioneria frammista ad insospettabili soprassalti d’astuzia, le sue improvvise accensioni, le sue ironie, il proverbiale appetito, l’incondizionata ammirazione per il gentil sesso sono tutti tratti distintivi derivati dal selvatico. Si è sempre ritenuto che il burattino bergamasco sia nato fra la fine del Settecento ed i primi dell’Ottocento ma la sua genesi dovrebbe risalire ad un’epoca ben precedente se rispondente all’intento di ridicolizzare la memoria del selvatico presso i ceti popolari” (6).
(5) Bergamo in terza rima di Giovan Battista Angelini del 1720. Da: Francesca Frantappiè, “Per teatri non è Bergamo sito – La società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ‘600 e ‘700”. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo – Collana Studi di Storia della Società, dell’Economia e delle Istituzioni Bergamasche.
Le maschere di Arlecchino e di Brighella, nate da Zanni e dalla Commedia dell’Arte
Le maschere storiche che occupano un posto d’onore nella tradizione bergamasca sono Arlecchino, Brighella e Gioppino. Ma mentre le prime due nascono nel Cinquecento con la Commedia dell’Arte (1) ed emigrano a Venezia, quella del trigozzuto Gioppino, nato nell’Ottocento, è interamente bergamasca; sono tutti personaggi che non nascono all’improvviso, ma sono piuttosto il frutto di una lunghissima elaborazione che va al di là della rappresentazione scenica per intrecciarsi con una moltitudine di vicende, umane e storiche.
Le maschere di Arlecchino e Brighella si originano, per così dire, dallo sdoppiamento della figura dello “zanni”, tipo fisso da cui nasceranno alcune delle maschere più importanti della Commedia dell’Arte.
Chi è Zanni
Il termine “zanni”, un diminutivo di Giovanni (strorpiato in Gianni, Zani) indicava nel Rinascimento gli uomini di fatica, che nella Commedia dell’Arte impersonavano i servi buffoni: personaggi rozzi, sguaiati e istintivi, rappresentativi di un’umanità animalesca alla quale si richiedeva in continuazione la trovata comica, il lazzo.
Per essere distinti dagli altri personaggi di ceto più elevato, gli zanni usavano normalmente la lingua incomprensibile e gutturale dei montanari bergamaschi, che insieme alle azioni balorde colpiva la fantasia degli spettatori, sia colti che popolani. Ed è probabile che la parlata “rozza” dei montanari bergamaschi, portasse a considerarli appartenenti a classi sociali inferiori.
Fu soprattutto Venezia la città in cui gli zanni vennero portati sulla scena, come una sorta di parodia dei tanti servi bergamaschi che popolavano la città lagunare, nella quale formavano una vera e propria comunità legata alle proprie radici e alla propria identità.
Dallo zanni della Commedia scaturiranno due varianti: il primo zanni, e cioè il servo astuto (come Frittellino, Beltrame e Brighella), e il secondo Zanni, il servo sciocco (come Arlecchino, Pulcinella, Mezzettino e Truffaldino).
Come vengono rappresentati a Venezia?
Il primo ad essersi inurbato e che rapidamente fa il suo ingresso in laguna è Brighella, la maschera più importante derivante dal Primo zanni della Commedia.
Nato a Bergamo Alta (come egli stesso tiene a precisare), il suo nome deriva dal verbo “brigare”: infatti impersona il servo tuttofare, intrigante, scaltro e opportunista, campione nell’ordire intrighi, insolente con i sottoposti e pronto a beffare il padrone, con il quale è insopportabilmente ossequioso senza preoccuparsi di danneggiare persino i suoi stessi amici.
Tenta di accoppiarsi con le donne (o meglio le servette), senza tanti preamboli. E’ agile, aggressivo e con la parlantina sciolta, facile all’ira e a menar le mani.
Arlecchino (derivante dal Secondo zanni) è il protagonista della seconda urbanizzazione, e al suo arrivo si pone alla ricerca di un proprio connazionale (con il quale possa parlare la lingua natale o il dialetto), che possa ospitarlo, trovargli un lavoro o suggerirgli un modo veloce per riempirsi la pancia o sbarcare il lunario: sulla scena questo amico è Brighella.
Già il vestito rappresenta una prima antitesi caratteriale: mentre Arlecchino è colorato, simbolo di libertà, Brighella è vestito con la livrea di colore bianco e con strisce verdi, metafora di appartenenza al padrone: costume che si vanta di indossare e col quale esercita il suo potere sui servitori semplici.
Arlecchino è bastonato dal padrone ed è l’ultimo dei servi. Brighella è invece il capo e con il padrone è servile.
Arlecchino è agile fisicamente (per evitare le bastonate). L’agilità di Brighella è nel pensare.
Rimane però nel loro cuore la nostalgia di Bergamo, e spesso la ricordano anche nelle commedie di Goldoni.
Grazie alla bravura degli attori che li rappresentano nella Commedia dell’Arte, a divenire più famosi e graditi al pubblico sono i secondi Zanni come Arlecchino, una maschera controversa e ovunque contesa, per l’altissimo lignaggio che si allarga a comprendere vaste aree europee.
Eh sì, perchè una parte di lui è veracemente bergamasca, mentre l’altra è ancor più remota ed affonda le radici in un mito che appartiene all’Europa intera.
La paternità di Arlecchino: Zan Ganassa o Martinelli?
Se il bergamasco Alberto Naselli in arte Zan Ganassa, è stato a lungo creduto l’ideatore della maschera di Arlecchino, studi recenti confermano che la paternità della celeberrima maschera è frutto dell’intuizione geniale di un attore mantovano, Tristano Martinelli (1557-1630), protagonista di prim’ordine della Commedia dell’Arte.
Ad attestarne la paternità può bastare la figura di Arlecchino proposta da Dario Fo nel 1985 nello spettacolo Hellequin Harlekin Arlekin Arlecchino, elaborata grazie ad una ricca ricerca documentale e drammaturgica, condotta in collaborazione con studiosi specialisti di Commedia dell’Arte con l’intento di offrire al pubblico un personaggio più vicino all’Arlecchino delle origini.
Un Arlecchino che non nasce dalla penna di un autore, ma che viene direttamente portato sulle scene, nella Parigi del 1584, da Tristano Martinelli, il quale ne farà il proprio personaggio lungo tutto il corso di una carriera che si dipana tra Cinque e Seicento, portandolo trionfalmente in giro per le principali corti, sui palcoscenici e nelle piazze d’Europa – dalle Fiandre a Londra, da Parigi a Madrid, da Venezia a Firenze – diventando perciò ricco e famoso.
In seguito, dopo che altri l’hanno interpretato nei teatri europei, si è cancellata la memoria di colui che per primo lo aveva portato sulle scene.
La monografia di Siro Ferrone, “Vita e avventure di Tristano Martinelli attore”, uscita nel 2006, si propone di colmare la vistosa lacuna critica legata al creatore di Arlecchino, facendo chiarezza riguardo una maschera dal cammino teatrale luminoso, ma dalla genesi storica oscura. E lo fa attraverso una ricca ricerca documentaria (documenti d’archivio scovati anche nelle biblioteche di mezza Europa, lacerti epistolari e tracce letterarie), interrogando dipinti cinquecenteschi e disegni dell’epoca.
Tristano Martinelli, in fuga dalla peste che nel 1576 travagliava Mantova, non ancora ventenne si reca in tournée in Francia con la sua compagnia (tra cui suo fratello maggiore Drusiano con la moglie Angelica Alberghini), passando per Anversa, una specie di “Venezia del nord” che in quegli anni doveva apparire una sorta di paese della cuccagna “agli attori girovaghi, ai ciarlatani, ai montimpanca, agli acrobati, agli intrattenitori di ogni specie che vi si dirigevano emulando, affascinati, i traffici di merci e di denari” (2).
Nel suo studio Siro Ferrone mostra uno stretto legame tra un documento (un atto di polizia stilato ad Anversa nel settembre 1576, dove Tristiano e il fratello sono costretti a giustificare la loro presenza nelle Fiandre in un periodo particolarmente turbolento per le guerre di religione) e un dipinto fiammingo conservato presso il Museo Baron Gérard di Bayeux, in cui compare un giovanissimo attore dalle fattezze molto somiglianti a quelle di un Tristano Martinelli verosimilmente “non ancora integrato in nessuno dei ruoli fissi della compagnia”.
Il giovane, che nel dipinto “si stringe nelle spalle”, ha già lasciato cadere l’abito cupo che connotava socialmente il facchino, conservando però l’anonima camiciona a falde dello zanni, pezzata di pallidi colori: questo lascia supporre che in quel periodo Tristano avesse già iniziato ad elaborare l’abbigliamento della maschera che lo renderà celebre nel mondo (3).
La compagnia, dopo essere stata a Lione e in Inghilterra giunge a Parigi, dove Tristano partorisce il personaggio di Arlecchino, presentandolo al carnevale del 1584 in un’esibizione nel sobborgo di Saint-Germain alla Foire: un avvenimento annuale divenuto alla moda, sempre più ricco ed affollato, frequentato dal popolino, aristocratici e persino regnanti, che lì si recano per acquisti sfiziosi.
Ed è proprio qui, alla Foire di Parigi che il ventisettenne Tristano esibisce il personaggio da lui creato, attingendo al contesto storico-spettacolare della terra che lo sta ospitando.
Per distinguersi dai tanti zanni in circolazione, Tristano riprende la maschera del povero zanni – che ben conosce per averla chissà quante volte interpretata – e la adegua al gusto dei francesi ma arricchendola di tratti unici ed inediti e caricandola di nuove attrattive, anche grazie alla sua prestanza fisica.
Il suo Arlecchino infatti, se da un lato si ispira molto strettamente alla tradizione degli zanni, dall’altro trova ispirazione nelle maschere della tradizione medievale francese, che rappresentano quell’Hellequin – il diavolo-buffone delle mascherate medioevali -, con cui deve aver familiarizzato nel corso della sua tournée in Francia.
Elabora così una maschera di successo, che s’imporrà nelle corti di tutta Europa.
Riguardo l’origine del nome di Arlecchino, questo si ispira al folclore nordico evocando quello di Hellequin de Boulogne, il cavaliere franco della caccia selvaggia (4), la cui tradizione si sarebbe innestata su quella ancor più antica dell’infernale Herla King, mitico condottiero bretone a capo “di una masnada vagante di spiriti dannati preceduta da una feroce muta di cagnacci latranti” (5).
Una figura diabolica, che le leggende “pongono a capo di masnade composte da torme di fantasmi, spettri, demoni, anch’essi mascherati, osceni, rumorosi, vestiti con colori squillanti, apparizioni notturne e invernali, provenienti dai boschi e dalle profondità della terra, da un altrove indefinito” (6), e che ritroviamo anche nella mitologia scandinava (con Härlenkönig) e nell’Inferno di Dante, dove il diavolo Alichino appare come capo di una schiatta diabolica incaricata di ghermire i dannati.
Diventata un tutt’uno col “re dei diavoli”, la maschera diviene così più “paurosa” ma anche più prestante, grazie alle tante abilità del Martinelli.
Se i principi italiani e stranieri si deliziavano della volgarità animalesca con cui si esprimevano gli zanni dalla parlata bergamasca, Tristano si distingue adottando il suo idioma natale, il mantovano (una lingua aperta a sfumature venete, emiliane, lombarde), prendendo magari a prestito nuove parole straniere acquisite strada facendo, e dando vita a strampalate cacofonie, allitterazioni, onomatopee di sicuro effetto comico.
In scena il linguaggio del corpo si avvantaggia della discreta statura e della guizzante muscolatura che rende Tristano flessuoso e capace di acrobazie di grande effetto (è anche un bravissimo funambolo). Dello zanni conserva perciò le leggere scarpette senza tacco, che gli permettono di compiere le acrobazie tipiche del personaggio.
Sempre in quel carnevale parigino del 1584, abbandona l’anonima camiciona a falde dello zanni – pezzata di pallidi colori – a favore di una sorta di tuta aderente che gli disegna la corporatura ed enfatizza al contempo la sua bravura tecnica. Accentua i colori dei suoi stracci, che moltiplica in omaggio all’abito dei giullari della tradizione francese.
Dello zanni conserva anche la maschera animalesca con i due fori rotondi, la barbetta selvatica, la scarsella e il bastone attaccato alla cintura (il “batòcio”), che utilizza per minacciare ed aggredire i suoi rivali e per accaparrarsi il cibo. Ne risulta una maschera dallo spirito villanesco, che imprime al personaggio una natura quasi bestiale, mossa più da passioni e bisogni elementari che filtrata dalla ragione.
Così la bautta nera che gli ricopre il volto può celare un ghigno satanico, il bitorzolo rosso in fronte è il residuo di un corno satiresco e la barbetta selvatica ricorda le raffigurazioni medievali in tema demoniaco.
L’Arlecchino di Tristano Martinelli è è ora costruito “e la sua ascesa al trono di re ‘dei diavoli, dei pazzi o degli spettri che dir si voglia’ è garantita (8).
L’evoluzione di Arlecchino
La maschera subirà nel tempo un graduale adattamento alla recitazione e ai costumi della tradizione francese, andando via via arricchendosi, nelle diverse esperienze di viaggio, di nuove sfumature, E ciò a seconda delle diverse qualità degli interpreti che più gli han dato voce, corpo, sentimento e a seconda del gusto del pubblico che di applauso in applauso ne ha forgiato l’archetipo popolare.
Dopo Martinelli e dal 1661, Domenico Biancolelli, un italiano naturalizzato francese, ingentilisce il personaggio cambiandogli completamente carattere. L’antico vestito dalle mille toppe viene sostituito da un costume che ricorda le squame di un serpente e che verso il Settecento acquisterà una sempre maggior definizione, permettendo anche una più ampia libertà di movimento. Ma dovremo arrivare a Goldoni per vedere le vere losanghe del costume di Arlecchino (9), che hanno trasformato in ricamo l’antico rattoppo.
Il personaggio di Martinelli è un Arlecchino primordiale, destinato ad evolversi e a spaccarsi nella duplice identità franco-spagnola e in quella, diametralmente opposta, veneziana.
Perchè se nelle raffinate corti di Francia e di Spagna Arlecchino diventa più aggraziato nei modi e nell’aspetto, diventando simbolo di simpatia, scaltrezza e gioiosità, a contatto con la nobiltà veneziana andrà a incarnare l’indole dei Brembani di allora.
Arlecchino in laguna
In laguna Arlecchino acquisisce la semplicità, la rozzezza e la furberia animalesca del mondo contadino bergamasco, di cui porta anche la naturalezza.
Le sue peripezie teatrali, mimiche ed acrobatiche hanno il sentore di quella fame e di quelle privazioni dei suoi conterranei Brembani, che nel Cinquecento lasciavano le valli bergamasche per trovare di che sfamarsi a Venezia, dove svolgevano lavori umili e faticosi e dove venivano scherniti per i modi grossolani e il linguaggio “ridicoloso” e incomprensibile (sarà poi Goldoni, a metà Settecento, ad esaltare l’utilizzo del dialetto e fissare i caratteri delle maschere principali, inducendo Arlecchino e Brighella ad adottare definitivamente la lingua ufficiale della capitale della Repubblica: il dialetto veneziano).
Nella Commedia dell’Arte egli impersona dunque il montanaro orobico giunto a Venezia coi facchini in cerca di lavoro: dimentica il suo dialetto e assume quello lagunare per farsi accettare dai suoi padroni, servendoli e campando la vita (“galantuomo bergamasco” egli si proclama in una nota commedia goldoniana).
E al di là dell’origine fiammingo-piccarda del suo nome, “rimane bergamasco nelle sue origini di zanni della vallata, accoppiato a Brighella, cittadino e smaliziato. Lo attesta tutta la tradizione”, compresa quella dello zanni Alberto Ganassa… (10).
Quella di Arlecchino diventa così una maschera naturalizzata bergamasca, a dispetto del retroterra demoniaco del suo nome e della metamorfosi europea della maschera.
E malgrado ogni passata controversia (11) Bergamo festeggia ancora il Carnevale rievocando e rivivendo le peripezie del “suo” Arlecchino: quel misto di balordaggine e arguzia del contado bergamasco, sposato alla colorita parlata della città lagunare: un veneziano, in fin dei conti, molto “internazionale”.
Note
(1) La nascita della Commedia dell’Arte, coincidente con quella dell’attore professionista, è “stabilita convenzionalmente dalla data di stipula del primo contratto di costituzione di una compagnia di comici. A Padova il 25 febbraio 1545 Ser Maphio, detto Zanini da Padova, e alcuni suo compagni si riuniscono in “fraternal” sodalizio sino alla Quaresima dell’anno successivo, concordando un regolamento per dividere spese e guadagni della loro attività spettacolare” (A cura di Rosanna Brusegan, Premessa di Dario Fo, in “La scienza del teatro – Omaggio a Dario Fo e Franca Rame” – Atti della Giornata di Studi (Università di Verona, 16 maggio 2011). Bulzoni Editore, 2013).
(2) Laura Diafani, L’Arlecchino del Grand siècle, in: Caffè Michelangiolo – Rivista di discussione. Fondatore e direttore Mario Graziano Parri, Pagliai Polistampa. Quadrimestrale – Anno XI – n. 1 – Gennaio-Aprile 2006. Accademia degli Incamminati. Modigliana.
(3) Rosanna Brusegan, Ibidem.
(4) In una commedia, composta ad Arras nel 1276, Le Jeu de la Feuillée di Adam de a Halle, irrompe sulla scena per la prima volta la caccia infernale di Hellequin, “il cavaliere franco della caccia selvaggia, condannato con il suo lugubre seguito di armigeri spettrali ad inseguire eternamente la selvaggina senza mai raggiungerla” U. Zanetti, cit.).
(11) Nel 1904 I Bergamaschi insorsero con tanto di petizioni e manifestazioni di piazza contro le tesi di uno studioso tedesco, Otto Driesen, che voleva Arlecchino originario del Nord Europa e vi fu anche un recente tentaativo, peraltro non riuscito, di “mantovanizzare” la maschera: una maschera della quale Goldoni, ne “Il teatro comico” precisava: “le Brighella et Arlequin ont toujours été Bergamasques”.
Riferimenti essenziali
L’Arlecchino del Grand siècle, di Laura Diafani, in: Caffè Michelangiolo – Rivista di discussione. Fondatore e direttore Mario Graziano Parri, Pagliai Polistampa. Quadrimestrale – Anno XI – n. 1 – Gennaio-Aprile 2006. Accademia degli Incamminati. Modigliana.
A cura di Rosanna Brusegan, Premessa di Dario Fo, in “La scienza del teatro – Omaggio a Dario Fo e Franca Rame” – Atti della Giornata di Studi (Università di Verona, 16 maggio 2011). Bulzoni Editore, 2013.
Lingua e dialetto come espressione dell’altro nella commedia del Cinquecento, Manuela Caniato, K.U.Leuven.
Sembrerebbe fantastoria, ma negli inverni nevosi degli anni Trenta i colli vedevano frotte di sciatori caracollare lungo i pendii innevati.
I campioni di belle speranze si cimentavano spesso e volentieri sul pendio sottostante Sant’Agostino in direzione Valtesse, sulla leggera discesa di casa nostra.
Erano semplici amatori di uno sport molto in voga dalle nostre parti, allora come oggi.
C’è chi ricorda che ci si poteva spingere quasi fino alla Sace, ed anche la Boccola in quei periodi si trasformava in una pista da sci. Una cosa davvero difficile da immaginare, oggi.
Poco più su, il campo di pallavolo del parco di Sant’Agostino, già dal 1906 era stato trasformato in una gioiosa pista da pattinaggio per il divertimento dei signori pattinatori e di graziose pattinatrici, disinvolte nelle eleganti acconciature invernali. Era offerta ogni comodità compreso il servizio per il caffè; ed anche di sera, grazie alla luce elettrica era possibile scivolare sulla lucida platea al suono di un’orchestra.
Anche se i più temerari, si sa, non rinunciavamo mai alla grandissima pista naturale del lago d’Endine.
In quell’inverno del 1932, però, la neve non s’era ancora vista.
A metà febbraio c’era già nell’aria il profumo delle viole. Ma verso l’imbrunire di quell’ultimo giorno di carnevale, il cielo si era fatto grigio, gonfio e basso, così basso che il parafulmine del Campanone e le guglie di Santa Maria sembravano volerlo bucare.
Cominciò così il candido sfarfallio di una miriade di petali bianchi, che in breve imbiancarono l’intera città.
La venditrice di viole con il suo gran canestro, seduta sui gradini di San Bartolomeo, parve di colpo un anacronismo: ora, nessuno pensava più alle timide viole di campo.
E nei campi tutto spariva a poco a poco, e tutto era reso uniforme e indistinguibile dalla fitta nevicata che da due giorni scendeva senza sosta.
In quell’inconsueto anticipo di primavera, tutti tornarono al caminetto acceso, un po’ come ai bei tempi, tornando in un sol colpo a soprascarpe, ombrelli, maglie di lana e raffreddori: si era piombati in pieno inverno, un inverno siberiano da vigilia natalizia.
Convenivano i vecchi proverbi “Nedal al Xech, Pasqua al foch”, e molto saggiamente non si erano sbagliati perchè il Natale era stato tiepido e festoso: un lieve tepore aveva baciato i colli da San Vigilio alla Bastia, soffusi di luce armoniosa e nei grandi vasi di legno sulla terrazza della “Montanina”, i germogli degli oleandri avevan fatto capolino.
Fra dicembre e gennaio non c’era stato un quadratino di neve nemmeno fra i mille o i duemila metri, e a metà febbraio ancora non se n’era vista nemmeno in montagna, dove la dama bianca non era mai mancata.
Ma che razza di gennaio era quello, senza freddo, senza pioggia, senza nebbie, senza gelo, senza neve? Ad Ardesio, paese dove i centenari non erano una rarità, lo Zenerù non si era salutato; non si era potuta rinnovare una tradizione vecchia di cent’anni, celebrata da padre in figlio, che cadeva il mese di gennaio. Del resto, che motivo c’era di festeggiare l’inverno che non c’era?
Già alla fine di gennaio coloro che speravano di scorrazzare per i colli con gli sci erano furibondi; la neve tanto invocata non arrivava, tant’è che Bergamo minacciava di diventare una stazione climatica della Riviera; e l’illusione del mare qualche volta la si poteva avere guardando da Città Alta il piano sommerso dalla nebbia.
In città, quelle cinquantamila lire messe da parte dal’amministrazione per la spalatura, erano state ormai destinate alla beneficenza.
E invece….
Scendeva larga e frettolosa, precipitando giù senza posa né misura: cinquanta centimentri in città, settantacinque in Val Seriana, in Valle Imagna e in Valcava. Un metro in Val di Scalve, Val Bondione e alta Valle Brembana.
Le linee telefoniche erano interrotte, c’erano cavi elettrici abbattuti e frequenti cadute in strada, gambe e braccia rotte.
Comunque, tranne i treni che talvolta arrivavano a destinazione “con ritardi persino di un’ora”, la città non lamentava gravi danni, il traffico tranviario e automobilistico continuava a funzionare con una certa regolarità, grazie al regolare e continuo sgombero delle vie cittadine e delle provinciali.
Da giorni erano più di quattrocento le persone impegnate a spalare la neve e cinquanta carri erano impegnati per le strade, con una spesa che cominciava a gravare sulle casse comunali: le cinquantamila lire sfumarono in cinque giorni.
Intanto la neve continuava a scendere: larga, fitta, senza soste. Una nevicata come a memoria d’uomo non se ne ricordava e per la quale erano stati interpellati anche gli ultracentenari: “Ricordate voi una neve così abbondante?”.
La città se ne stava infagottata in casa ad ammirare da dietro i vetri come tutto si copriva di bianco.
I fotografi partivano, scatola a tracolla, a caccia di visioni, di panorami, di particolari, di controluce, di istantanee da catturare, prima che la neve, scomparendo, non lasciasse più neanche un segno del suo tocco fatato.
Uno sguardo d’insieme all’alta città dalla salita di San Vigilio, non era forse una scoperta?
Il candore dei tetti, rotto dalla ragnatela sottile e nera delle viuzze, dava un rilievo aereo e leggero alle torri, ai campanili, alle altane: pareva lo scenario per una rappresentazione cinematografica di un’amorosa storia d’altri tempi.
La Rocca intravista da Castagneta, dai grigi fianchi profilati di bianco, ricordava qualche fosco teatro di un dramma d’appendice. Torquato Tasso, sotto la gronda di Palazzo Vecchio, sembrava malinconicamente rimpannucciarsi come in un manto.
Giù nel borgo, Donizetti, sul marmoreo divano, innanzi al laghetto gelato, Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cucchi, Cavour e Nullo, battevano i denti e non ne potevan più. Là in fondo, Mascheroni, spalle al muro fra una banca e un ristorante, ringraziava Ettore Capuani per averlo voluto lì, discretamente riparato, e guardava con compassione lì”Italia” di Faino, che con cimiero in testa, il petto corazzato e la vittoria in mano, sporgeva dalla sua nicchia nella Torre.
I viali ed i giardini infiocchettati. Viale Vittorio Emanuele era trasformato in una galleria di ovatta;
I giardinetti di Porta Nuova e del Donizetti parevano perdere le loro modeste proporzioni per trasfigurarsi in grandi parchi.
Lo spettacolo, più unico che raro, delle fontane di Piazza Dante, Piazza Vecchia, Piazzetta S. Pancrazio e dei giardinetti di Porta Nuova, tramutate in maestosi fiori di ghiaccio e di neve, in cascate di ghiaccio fermate sulle coppe, sui gigli, sugli orli delle vasche, sui cavalli o sui serpenti marini; fulgenti e trasparenti monumenti di alabastro, blocchi levigati, gibbosi, frangiati di cristallo a migliaia di sfaccettature che, sotto il sole, sprizzavano barbagli di luce da accecare.
Nella Bergamo siberiana, da giorni la neve continuava a cadere a larghe falde, tutto livellando, tutto trasformando come in un vero e proprio paese nordico.
E fu così che i membri del CAI ebbero la geniale, sorprendente idea di organizzare una gara di sci in città, sfruttando le eccezionali nevicate del momento.
Dopo una serie di telefonate arrivò l’autorizzazione. Ed ecco il percorso prescelto: dalla Vetta di San Vigilio alla Porta di Sant’Agostino. Non si trattava di un percorso da principianti, perchè scendere in sci dalla Vetta alla Montanina, aggirarsi per i tornanti sopra Castagneta, precipitare in Colle Aperto e trasvolare il Vagine, non era da tutti.
Venne dato l’ordine di non sgomberare più la neve dal percorso di gara, lungo il quale sarebbe stata spalata ed ammucchiata ai lati delle strade.
Avvenimento eccezionale, che faceva parlare le cronache dei grandi giornali e faceva strillare non pochi cui non pareva giusto veder imbottire di neve il passaggio degli sciatori, mentre altrove si risparmiava la spalatura.
“Insomma” – diceva il giornale – nell’occasione Bergamo non vuole essere da meno di Lake Placid, dove per le Olimpiadi è stata ‘asfaltata’ di neve una strada lunga venticinque chilometri”.
E così, porta neve su, porta neve giù, ne risultò un percorso stupendo, tanto da sembrare “un paesaggio svizzero”, come disse Mazzoleni, il delegato della FIS.
La “Montanina” era stata trasformata in quartier generale, aperto giorno e notte alle frotte goliardiche, che trovavano di assoluta comodità raggiungere il San Vigilio con la funicolare e ridiscendendo in sci, anche se, fra i cinquantadue partecipanti (per regolamento tutti tesserati della Federazioone italiana dello sci), non mancò chi preferì incamminarsi su per la Vetta con gli sci in spalla.
La tassa di iscrizione alla gara aveva il costo di cinque lire.
Il candore era intervallato soltanto dalle bandierine rosse infisse nella neve per meglio segnalare il tracciato agli sciatori. “Un percorso scelto con l’intento di disturbare il meno possibile i cittadini e di essere ideale per la gara”, diceva un articolo.
Giunto l’11 febbraio, giorno prestabilito per la gara, a Bergamo aveva nevicato ancora e si erano raggiunti i 10 gradi sottozero. Tutto era pronto. Al suolo c’erano quaranta centimentri di neve e mentre alla Fara un piccolo esercito di sciatori si divertiva su e giù per la breve discesa, la sezione del CAI di Bergamo dette il via alla prima, storica gara di sci cittadina.
La “Voce di Bergamo” scrisse che “per un giorno Bergamo ha rivaleggiato con Davos, Cortina d’Ampezzo e St. Moritz”.
Prima del via, il pubblico si era raccolto nei punti migliori e più sicuri, in qualche tratto però invadendo anche troppo la pista.
Tutti i cronometristi erano ai loro posti. Il personale di controllo aveva già percorso più volte la pista. Tutto appariva regolare se non con qualche neo, non dovuto comunque agli organizzatori.
La neve era ideale.
A dare il via c’era l’onorevole Antonio Locatelli.
I concorrenti si presentavano con un grande numero sul petto.
Poi tutti giù a distanza di un minuto l’uno dall’altro sfrecciando da via Vetta lungo la panoramica, da via Scalvini a via Cavagnis, da via Sotto le Mura di S. Alessandro a via Beltrami, da Colle Aperto alla Boccola e lungo la Fara a rotta di collo.
Al traguardo arrivarono chi agile ed elegante, chi tardo e pesante, chi sciando, chi camminando nella neve. Nonostante qualche caduta, alla Porta di Sant’Agostino arrivano tutti.
Il vincitore?
Franco Testa in dieci minuti e quarantun secondi; poi Enzo Frigerio a ventitrè secondi; terzo Franco Mai a venticinque secondi; quarto Aldo Bondioli a trentadue secondi; quinto Giulio Pio a trentatrè secondi; sesto Vincenzo Pessina a quarantatrè secondi; settimo Bruno Nicolosi a quarantacinque secondo; ottavo Alberto Botti a cinquantadue secondi; nono Giuseppe Agazzi a cinquantanove secondi. Via via tutti gli altri in tempo massimo (stabilito in un quarto d’ora).
Tempi esagerati? Nient’affatto, se si tiene conto di cosa poteva significare scendere dai numerosi e ripidi tornanti della “panoramica” con gli sci di allora!
Intanto, atri sciatori sciamavano, in maglia e berretto, da tutte le strade dei Colli.
I molli declivi di Valverde, dominata dal suo Castello, erano diventati campi d’assaggio per i neofiti degli sports invernali.
In maglia e berretto, senza pretese di eleganza e senza sfoggi di costumi si era data convegno la folla più varia e più gaia.
Le slitte, a volte formate da due sole assicelle, volavano per le vie; una latta da petrolio eccola trasformata in veloce scivolo, un badile, un pacco di libri, una cartella da scrittoio, tutto ciò che era piano e liscio poteva benissimo tenere il posto del seggiolino da neve.
Capitomboli, salti, rovesciamenti, ammaccature, strappi? Non ebbe importanza, l’anima esultava perchè in cuor suo sapeva che quello era davvero un giorno memorabile.
Riferimenti
Umberto Ronchi, Bergamo in bianco. In La Rivista di Bergamo
Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.