Sembrerebbe fantastoria, ma negli inverni nevosi degli anni Trenta i colli vedevano frotte di sciatori caracollare lungo i pendii innevati.
I campioni di belle speranze si cimentavano spesso e volentieri sul pendio sottostante Sant’Agostino in direzione Valtesse, sulla leggera discesa di casa nostra.
Erano semplici amatori di uno sport molto in voga dalle nostre parti, allora come oggi.
C’è chi ricorda che ci si poteva spingere quasi fino alla Sace, ed anche la Boccola in quei periodi si trasformava in una pista da sci. Una cosa davvero difficile da immaginare, oggi.
Poco più su, il campo di pallavolo del parco di Sant’Agostino, già dal 1906 era stato trasformato in una gioiosa pista da pattinaggio per il divertimento dei signori pattinatori e di graziose pattinatrici, disinvolte nelle eleganti acconciature invernali. Era offerta ogni comodità compreso il servizio per il caffè; ed anche di sera, grazie alla luce elettrica era possibile scivolare sulla lucida platea al suono di un’orchestra.
Anche se i più temerari, si sa, non rinunciavamo mai alla grandissima pista naturale del lago d’Endine.
In quell’inverno del 1932, però, la neve non s’era ancora vista.
A metà febbraio c’era già nell’aria il profumo delle viole. Ma verso l’imbrunire di quell’ultimo giorno di carnevale, il cielo si era fatto grigio, gonfio e basso, così basso che il parafulmine del Campanone e le guglie di Santa Maria sembravano volerlo bucare.
Cominciò così il candido sfarfallio di una miriade di petali bianchi, che in breve imbiancarono l’intera città.
La venditrice di viole con il suo gran canestro, seduta sui gradini di San Bartolomeo, parve di colpo un anacronismo: ora, nessuno pensava più alle timide viole di campo.
E nei campi tutto spariva a poco a poco, e tutto era reso uniforme e indistinguibile dalla fitta nevicata che da due giorni scendeva senza sosta.
In quell’inconsueto anticipo di primavera, tutti tornarono al caminetto acceso, un po’ come ai bei tempi, tornando in un sol colpo a soprascarpe, ombrelli, maglie di lana e raffreddori: si era piombati in pieno inverno, un inverno siberiano da vigilia natalizia.
Convenivano i vecchi proverbi “Nedal al Xech, Pasqua al foch”, e molto saggiamente non si erano sbagliati perchè il Natale era stato tiepido e festoso: un lieve tepore aveva baciato i colli da San Vigilio alla Bastia, soffusi di luce armoniosa e nei grandi vasi di legno sulla terrazza della “Montanina”, i germogli degli oleandri avevan fatto capolino.
Fra dicembre e gennaio non c’era stato un quadratino di neve nemmeno fra i mille o i duemila metri, e a metà febbraio ancora non se n’era vista nemmeno in montagna, dove la dama bianca non era mai mancata.
Ma che razza di gennaio era quello, senza freddo, senza pioggia, senza nebbie, senza gelo, senza neve? Ad Ardesio, paese dove i centenari non erano una rarità, lo Zenerù non si era salutato; non si era potuta rinnovare una tradizione vecchia di cent’anni, celebrata da padre in figlio, che cadeva il mese di gennaio. Del resto, che motivo c’era di festeggiare l’inverno che non c’era?
Già alla fine di gennaio coloro che speravano di scorrazzare per i colli con gli sci erano furibondi; la neve tanto invocata non arrivava, tant’è che Bergamo minacciava di diventare una stazione climatica della Riviera; e l’illusione del mare qualche volta la si poteva avere guardando da Città Alta il piano sommerso dalla nebbia.
In città, quelle cinquantamila lire messe da parte dal’amministrazione per la spalatura, erano state ormai destinate alla beneficenza.
E invece….
Scendeva larga e frettolosa, precipitando giù senza posa né misura: cinquanta centimentri in città, settantacinque in Val Seriana, in Valle Imagna e in Valcava. Un metro in Val di Scalve, Val Bondione e alta Valle Brembana.
Le linee telefoniche erano interrotte, c’erano cavi elettrici abbattuti e frequenti cadute in strada, gambe e braccia rotte.
Comunque, tranne i treni che talvolta arrivavano a destinazione “con ritardi persino di un’ora”, la città non lamentava gravi danni, il traffico tranviario e automobilistico continuava a funzionare con una certa regolarità, grazie al regolare e continuo sgombero delle vie cittadine e delle provinciali.
Da giorni erano più di quattrocento le persone impegnate a spalare la neve e cinquanta carri erano impegnati per le strade, con una spesa che cominciava a gravare sulle casse comunali: le cinquantamila lire sfumarono in cinque giorni.
Intanto la neve continuava a scendere: larga, fitta, senza soste. Una nevicata come a memoria d’uomo non se ne ricordava e per la quale erano stati interpellati anche gli ultracentenari: “Ricordate voi una neve così abbondante?”.
La città se ne stava infagottata in casa ad ammirare da dietro i vetri come tutto si copriva di bianco.
I fotografi partivano, scatola a tracolla, a caccia di visioni, di panorami, di particolari, di controluce, di istantanee da catturare, prima che la neve, scomparendo, non lasciasse più neanche un segno del suo tocco fatato.
Uno sguardo d’insieme all’alta città dalla salita di San Vigilio, non era forse una scoperta?
Il candore dei tetti, rotto dalla ragnatela sottile e nera delle viuzze, dava un rilievo aereo e leggero alle torri, ai campanili, alle altane: pareva lo scenario per una rappresentazione cinematografica di un’amorosa storia d’altri tempi.
La Rocca intravista da Castagneta, dai grigi fianchi profilati di bianco, ricordava qualche fosco teatro di un dramma d’appendice. Torquato Tasso, sotto la gronda di Palazzo Vecchio, sembrava malinconicamente rimpannucciarsi come in un manto.
Giù nel borgo, Donizetti, sul marmoreo divano, innanzi al laghetto gelato, Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cucchi, Cavour e Nullo, battevano i denti e non ne potevan più. Là in fondo, Mascheroni, spalle al muro fra una banca e un ristorante, ringraziava Ettore Capuani per averlo voluto lì, discretamente riparato, e guardava con compassione lì”Italia” di Faino, che con cimiero in testa, il petto corazzato e la vittoria in mano, sporgeva dalla sua nicchia nella Torre.
I viali ed i giardini infiocchettati. Viale Vittorio Emanuele era trasformato in una galleria di ovatta;
I giardinetti di Porta Nuova e del Donizetti parevano perdere le loro modeste proporzioni per trasfigurarsi in grandi parchi.
Lo spettacolo, più unico che raro, delle fontane di Piazza Dante, Piazza Vecchia, Piazzetta S. Pancrazio e dei giardinetti di Porta Nuova, tramutate in maestosi fiori di ghiaccio e di neve, in cascate di ghiaccio fermate sulle coppe, sui gigli, sugli orli delle vasche, sui cavalli o sui serpenti marini; fulgenti e trasparenti monumenti di alabastro, blocchi levigati, gibbosi, frangiati di cristallo a migliaia di sfaccettature che, sotto il sole, sprizzavano barbagli di luce da accecare.
Nella Bergamo siberiana, da giorni la neve continuava a cadere a larghe falde, tutto livellando, tutto trasformando come in un vero e proprio paese nordico.
E fu così che i membri del CAI ebbero la geniale, sorprendente idea di organizzare una gara di sci in città, sfruttando le eccezionali nevicate del momento.
Dopo una serie di telefonate arrivò l’autorizzazione. Ed ecco il percorso prescelto: dalla Vetta di San Vigilio alla Porta di Sant’Agostino. Non si trattava di un percorso da principianti, perchè scendere in sci dalla Vetta alla Montanina, aggirarsi per i tornanti sopra Castagneta, precipitare in Colle Aperto e trasvolare il Vagine, non era da tutti.
Venne dato l’ordine di non sgomberare più la neve dal percorso di gara, lungo il quale sarebbe stata spalata ed ammucchiata ai lati delle strade.
Avvenimento eccezionale, che faceva parlare le cronache dei grandi giornali e faceva strillare non pochi cui non pareva giusto veder imbottire di neve il passaggio degli sciatori, mentre altrove si risparmiava la spalatura.
“Insomma” – diceva il giornale – nell’occasione Bergamo non vuole essere da meno di Lake Placid, dove per le Olimpiadi è stata ‘asfaltata’ di neve una strada lunga venticinque chilometri”.
E così, porta neve su, porta neve giù, ne risultò un percorso stupendo, tanto da sembrare “un paesaggio svizzero”, come disse Mazzoleni, il delegato della FIS.
La “Montanina” era stata trasformata in quartier generale, aperto giorno e notte alle frotte goliardiche, che trovavano di assoluta comodità raggiungere il San Vigilio con la funicolare e ridiscendendo in sci, anche se, fra i cinquantadue partecipanti (per regolamento tutti tesserati della Federazioone italiana dello sci), non mancò chi preferì incamminarsi su per la Vetta con gli sci in spalla.
La tassa di iscrizione alla gara aveva il costo di cinque lire.
Il candore era intervallato soltanto dalle bandierine rosse infisse nella neve per meglio segnalare il tracciato agli sciatori. “Un percorso scelto con l’intento di disturbare il meno possibile i cittadini e di essere ideale per la gara”, diceva un articolo.
Giunto l’11 febbraio, giorno prestabilito per la gara, a Bergamo aveva nevicato ancora e si erano raggiunti i 10 gradi sottozero. Tutto era pronto. Al suolo c’erano quaranta centimentri di neve e mentre alla Fara un piccolo esercito di sciatori si divertiva su e giù per la breve discesa, la sezione del CAI di Bergamo dette il via alla prima, storica gara di sci cittadina.
La “Voce di Bergamo” scrisse che “per un giorno Bergamo ha rivaleggiato con Davos, Cortina d’Ampezzo e St. Moritz”.
Prima del via, il pubblico si era raccolto nei punti migliori e più sicuri, in qualche tratto però invadendo anche troppo la pista.
Tutti i cronometristi erano ai loro posti. Il personale di controllo aveva già percorso più volte la pista. Tutto appariva regolare se non con qualche neo, non dovuto comunque agli organizzatori.
La neve era ideale.
A dare il via c’era l’onorevole Antonio Locatelli.
I concorrenti si presentavano con un grande numero sul petto.
Poi tutti giù a distanza di un minuto l’uno dall’altro sfrecciando da via Vetta lungo la panoramica, da via Scalvini a via Cavagnis, da via Sotto le Mura di S. Alessandro a via Beltrami, da Colle Aperto alla Boccola e lungo la Fara a rotta di collo.
Al traguardo arrivarono chi agile ed elegante, chi tardo e pesante, chi sciando, chi camminando nella neve. Nonostante qualche caduta, alla Porta di Sant’Agostino arrivano tutti.
Il vincitore?
Franco Testa in dieci minuti e quarantun secondi; poi Enzo Frigerio a ventitrè secondi; terzo Franco Mai a venticinque secondi; quarto Aldo Bondioli a trentadue secondi; quinto Giulio Pio a trentatrè secondi; sesto Vincenzo Pessina a quarantatrè secondi; settimo Bruno Nicolosi a quarantacinque secondo; ottavo Alberto Botti a cinquantadue secondi; nono Giuseppe Agazzi a cinquantanove secondi. Via via tutti gli altri in tempo massimo (stabilito in un quarto d’ora).
Tempi esagerati? Nient’affatto, se si tiene conto di cosa poteva significare scendere dai numerosi e ripidi tornanti della “panoramica” con gli sci di allora!
Intanto, atri sciatori sciamavano, in maglia e berretto, da tutte le strade dei Colli.
I molli declivi di Valverde, dominata dal suo Castello, erano diventati campi d’assaggio per i neofiti degli sports invernali.
In maglia e berretto, senza pretese di eleganza e senza sfoggi di costumi si era data convegno la folla più varia e più gaia.
Le slitte, a volte formate da due sole assicelle, volavano per le vie; una latta da petrolio eccola trasformata in veloce scivolo, un badile, un pacco di libri, una cartella da scrittoio, tutto ciò che era piano e liscio poteva benissimo tenere il posto del seggiolino da neve.
Capitomboli, salti, rovesciamenti, ammaccature, strappi? Non ebbe importanza, l’anima esultava perchè in cuor suo sapeva che quello era davvero un giorno memorabile.
Riferimenti
Umberto Ronchi, Bergamo in bianco. In La Rivista di Bergamo
Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.