Diversamente da Arlecchino e da Brighella, maschere “internazionali” e d’alto lignaggio che ormai da tempo parlano il dialetto veneziano, Gioppino appartiene alla più genuina tradizione popolare bergamasca dalla connotazione local e “sovranista”: coerente con sé stesso, ha sempre parlato il dialetto della sua terra ed è rimasto un popolano fiero, sagace, patriota e religioso.
Gioppino fa la sua comparsa proprio quando, con i moti degli anni trenta dell’800, il popolo bergamasco non si identifica più in Arlecchino ed in Brighella e reclama un nuovo eroe, che presto diventa popolare per il tenace spirito d’indipendenza e per l’abitudine a risolvere ogni contesa a suon di randellate.
Il suo abito verde con bordature rosse – chiaro riferimento ai colori della bandiera italiana – gli fa assumere esplicitamente toni a favore degli ideali risorgimentali e critici nei confronti del potere costituito rappresentato dagli stranieri invasori: gli Austriaci.
Da noi assume una tale popolarità da designare con il suo nome i burattini in generale, e grazie al poeta Pietro Ruggeri da Stabello (1797-1858), che Luciano Ravasio definisce il “promoter di Gioppino”, “la figura del burattino trigozzuto e l’aggettivo ‘gioppinorio’ diventano l’equivalente di tutto ciò che è bergamasco (1).
Proprio grazie a un suo componimento del 1842 (“Gran sògn gioppinorio”), apprendiamo che la sua patria è Zanica (Sanga), che ha compiuto quarant’anni, vanga, zappa e fa il facchino.
E’ nato da Bortolo Söcalonga e Maria Scatoléra; ha un fratello, Giacomì, mentre la moglie si chiama Marietta detta Margì (che ama, anche se non disdegna la compagnia di altre donne) e dalla loro relazione nasce il Bortolì de Sanga detto anche Pissambràga. I suoi nonni materni sono Bernardo e Bernarda.
Ciò che lo rende immediatamente riconoscibile sono i tre grossi gozzi che gli deformano il collo e che egli chiama orgogliosamente “granate” o “splendidi coralli”, ostentandoli non come un difetto fisico ma come veri e propri gioielli o persino come un blasone di famiglia, che vorrebbe tramandare al figlio.
Considera i suoi gozzi le sedi della propria sapienza e ne fa motivo di lazzi e argute trovate, suscitando ilarità: “L’è la tropa inteligènsa chè la ga stàa mia ‘ndèl sèrvèl, è alura ol Padre Eterno al ma la mètida chè sota”.
Questa caratteristica, creduta erroneamente causata da cretinismo, è dovuta all’ingrossamento della ghiandola tiroidea, provocato da un’alimentazione povera di sali iodio, malattia un tempo molto diffusa nella Bergamasca per effetto della denutrizione.
Curiosamente, anche se non c’è nessuna connessione, la malformazione di Gioppino è stata spesso associata allo stemma araldico della famiglia di Bartolomeo Colleoni, che in analogia con il patronimico raffigura nientemeno che tre testicoli, divenuti simbolo del potere, della virilità e della forza militare del condottiero che nel Quattrocento fu a servizio di Venezia.
Oltre ai gozzi, ciò che lo rende facilmente riconoscibile è la corporatura tozza e robusta, con quel faccione rubicondo e gioioso su cui si dipinge una bocca spalancata in un costante sorriso.
Incarna il classico contadino sempliciotto, amante delle donne, del vino e del buon cibo, rozzo nei modi e nel linguaggio e pronto a suonarle di santa ragione ai prepotenti e a chi cerca di ostacolare i suoi piani, anche se in fondo è di buon cuore ed è sempre protettivo verso i deboli e gli oppressi.
Se la tradizione legata alla maschera di Arlecchino e Brighella nasce con la Commedia dell’Arte verso la fine del Cinquecento, non possiamo che chiederci da dove spunti la figura di Gioppino, la cui tradizione sembra essersi radicata nel corso dell’Ottocento con la tipica figura del “burattino gozzuto, tarchiato e rozzo, famelico e beone, fannullone e bastonatore” (2), che appare negli spettacoli burattineschi di Piazza Vecchia, in piena dominazione austriaca.
Eppure sembra comparire qualcosa di molto simile già nel 1531, quando il pittore Fermo Stella realizza il grande affresco della Crocefissione, conservato presso la chiesa di S. Bernardino a Caravaggio dove, ai piedi della croce compare un soldato dal viso grottesco e dal petto scoperto, che innalza verso il Cristo una lancia sormontata da una spugna intrisa di aceto: il milite esibisce tre grossi gozzi (patologia notoriamente orobica) e una stupefacente somiglianza con Gioppino.
Probabilmente Fermo Stella, caravaggino soggetto a Milano, affida tale compito a un bergamasco perchè Milano è acerrima nemica dell’avamposto “venetorobico” (3).
Sempre nel Cinquecento, ritroviamo un altro possibile riferimento a Gioppino in un sonetto bergamasco (inneggiante vernaccia e casoncelli), dove non manca un’allusione a un certo Jopilach (4).
Nel Carnevale del 1662 descritto dall’abate Angelini compare poi un certo Tone, i cui segni distintivi, le salsicce e il fiasco di vino in mano, ricordano molto da vicino quelli della maschera di Gioppino: “chi si traveste, al nostro dir, da Tone con la salsiccia e con un’otre in mano, parla milenso e gira dondolone” (5).
Ma se vogliamo esagerare e scavare ancor di più alla ricerca del suo “progenitore ancestrale”, dobbiamo rivolgerci ancora una volta al mito dell’Uomo Selvatico (“om di bosch” nella Bergamasca) descritto da Umberto Zanetti, il quale afferma che al di là dell’aspetto esteriore di Gioppino, che risponde a quella dei contadini dei tempi andati e che del selvatico conserva ormai solo l’inseparabile bastone (cui dovette aggiungersi il gozzo per colmo d’irrisione), “il suo contegno, le sue ingenuità, la sua rustica semplicioneria frammista ad insospettabili soprassalti d’astuzia, le sue improvvise accensioni, le sue ironie, il proverbiale appetito, l’incondizionata ammirazione per il gentil sesso sono tutti tratti distintivi derivati dal selvatico. Si è sempre ritenuto che il burattino bergamasco sia nato fra la fine del Settecento ed i primi dell’Ottocento ma la sua genesi dovrebbe risalire ad un’epoca ben precedente se rispondente all’intento di ridicolizzare la memoria del selvatico presso i ceti popolari” (6).
Note
(1) Luciano Ravasio, Gioppino, scarpe grosse e cervello fino
(2) Umberto Zanetti, Bergamo d’una volta. Ed. Il Conventino, Bergamo, 1983.
(3) Luciano Ravasio, Gioppino, scarpe grosse e cervello fino
(4) Ibidem.
(5) Bergamo in terza rima di Giovan Battista Angelini del 1720. Da: Francesca Frantappiè, “Per teatri non è Bergamo sito – La società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ‘600 e ‘700”. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo – Collana Studi di Storia della Società, dell’Economia e delle Istituzioni Bergamasche.
(6) Umberto Zanetti, Il mito dell’Uomo Selvatico nella montagna bergamasca. Museo della Valle di Zogno.
Sitografia
Lingua e dialetto come espressione dell’altro nella commedia del Cinquecento, Manuela Caniato, K.U.Leuven.
“Ol Giopì de Sanga”, associazione zanichese che valorizza la figura dell’eroe trigozzuto, intraprendendo anche l’esperienza di lavoro in “baracca.
“Il Teatro del Gioppino”, compagnia d’attore di Zanica, propone commedie dialettali in musica, sempre con riferimenti diretti a Gioppino.