A Bergamo, l’antica tradizione del “rasgamènt de la ègia”, antico retaggio pagano, fu ripristinata nel 1923 quando Rodolfo Paris, “addobbatore di mestiere e suonatore di piano, a orecchio”, decise di organizzare il cosiddetto “rasgamento” dapprima con un gruppo di amici e successivamente, nominato primo Duca del Ducato di Piazza Pontida, aprendo la manifestazione a tutta la provincia sotto l’egida del Sodalizio del Ducato, la cui nascita merita di essere raccontata.
Era la gelida notte di S. Silvestro del 1923 e già da mesi la Torre dei Caduti ergeva la sua mole a dominare il nuovo centro cittadino ma, forse per ragioni burocratiche o forse per scongiurare disordini, da mesi non giungeva il nullaosta (e con esso l’atteso Mussolini) per l’inaugurazione ufficiale.
La Torre dei Caduti scontava intanto la pena di quelle titubanze e di quei timori e ciò contrariava non pochi Bergamaschi, ormai stanchi di aspettare.
Tra questi, un bel tipo di poeta dialettale, Rodolfo Paris, “addobbatore di mestiere e suonatore di piano, a orecchio”, decise di rompere gli indugi sostituendosi alle “autorità’ fantasma”.
Radunò in Piazza Pontida una “bella brigata di popolo” con non pochi artisti e buontemponi e organizzò un corteo che, fanfara in testa, s’incamminò per via XX Settembre fra spari, bengala, brindisi e inni patriottici.
Di quell’allegra brigata faceva parte, certamente, lo scultore Alfredo Faino con l’avvocato Davide Cugini, il pittore Dante Montanari, il giornalista Ferruccio Vecchi, l’avvocato Arturo Cattaneo, lo scultore Cesare Archenti, il pittore Umberto Marigliani, l’avvocato Angelo Astolfi, il burattinaio Steeni, i poeti dialettali Renzo Avogadri, Ferruccio Grasselli e Giuseppe Mazza.
Quando la truppa di uomini intabarrati giunse in Piazza Vittorio Veneto, all’ultimo rintocco della mezzanotte Rodolfo Paris avanzò ai piedi della Torre dei Caduti e, tra un rispettoso silenzio generale (“non si sentivano che i cuori a battere”), con un largo gesto si tolse il caratteristico cappello a fungo declamando con voce commossa: “Regordém i màrtiri de la Patria… La tór la resta issê inaügürada!”. Chinò il capo e stette un attimo con le mani giunte, in atteggiamento di preghiera.
Nel buio della notte una voce si levò all’indirizzo del capo della brigata esclamando: “Viva il Duca di Piazza Pontida!”. Il grido echeggiò nella piazza e la Torre dei Caduti fu cosi inaugurata “fra un delirio di popolo”, che accorse a demolire la staccionata.
L’appellativo di “duca” affibbiato al Paris – buontempone arguto e spiritoso – scaturiva dall’essere il padrone incontrastato della piazza: il Paris una sera si era divertito a illuminare i portici di Piazza Pontida “facendo penzolare sotto gli archi dei gusci di lumache, che contenevano l’olio e il lucignolo”.
Pare assodato che fu proprio da quella esclamazione, udita all’alba del 1923, a scaturire l’idea di incoronare un duca ed istituire effettivamente un Ducato.
Il 15 marzo 1924, al ristorante dell’Angelo in Borgo Santa Caterina “un carnascialesco convito di artisti, di letterati e di cultori della poesia dialettale” si riunì per istituire ufficialmente il Ducato di Piazza Pontida e per l’incoronazione di Rodolfo Paris, primo Duca col nome di Rodolfo ü (uno):
“Dopo un lauto banchetto nella sala addobbata con gli emblemi gioppinori, ecco finalmente l’atteso momento dell’incoronazione: Rodolfo Paris sedeva in posizione centrale mentre una damigella graziosissima, Lina Rota, modello di fanciulla e modella per gli artisti, s’avanzava solennemente con la corona di latta posata sul tagliere (basgèta) della polenta. Nell’atto di alzare la ducal corona, due delle cinque molliche di pane, infilate nelle cinque punte, si staccarono e scivolarono sul tavolo. Qualcuno vide nel fatto un auspicio di dubbio significato e venne ordinato di riattaccarle, ma sotto la corona. Subito lo scultore Cesare Archenti si munì di due fili di ferro e li attaccò alla corona con le due palline lasciandole penzolare nel vuoto. Dopo di che la corona venne posata sul capo di Rodolfo Paris tra i ripetuti brindisi e le ripetute generali acclamazioni.
La corona divenne poi l’emblema ufficiale del Ducato e ancora oggi campeggia sulla testata del “Giopì”, organo ufficiale del Ducato di Piazza Pontida” (2), “sodalizio di cultura, arte, folklore e tradizioni bergamasche”, come recita la denominazione ufficiale.
Ma nella notte di San Silvestro del 1923, mentre si inaugurava a furor di popolo la Torre dei Caduti, chi proruppe nel grido acclamante che elevò il Paris ai fastigi ducali? Fu forse Alfredo Faino, autore dell’egregia statua della Vittoria che faceva bella mostra di sé sulla torre?
Egli, che più d’ogni altro fremeva per i continui rinvii della cerimonia d’inaugurazione, aveva dovuto farsi promotore della manifestazione spontanea di quella brigata di popolo, incontrando la solidale affettuosa adesione del Paris, che sicuramente conosceva sin dai primi anni del secolo.
QUANDO LA MÈZA QUARÉSMA SI TENEVA IN PIAZZA PONTIDA
Rodolfo Paris fu fra i più attivi organizzatori di quella festa popolare che un tempo aveva nell’albero della cuccagna la sua principale attrazione e che negli anni goliardici della nascita del Ducato di Piazza Pontida culminò nella riesumazione dell’antica costumanza medioevale del rogo (o rasgamento) della “Vecchia”, in occasione della Mezza Quaresima.
La “vecchia”, quel fantoccio che nell’antica tradizione popolare comune a mezza Italia e diffusa da Asti a Pordenone, raffigura la quaresima – e quindi il digiuno e l’astinenza -, venne caricata dal Paris, dal Faino e dagli altri adepti del nascente Ducato, di significati satirici e polemici, simboleggiando di volta in volta una “magagna” riguardante la vita cittadina: un fatto di costume, un personaggio, un ente, un’istituzione, un provvedimento o una norma da mettere in ridicolo o da togliere di mezzo.
Ol rasgamènt, ormai in uso da 95 anni, ha subìto nel tempo alterne fortune: sicuramente in uso nel marzo del 1869 (quando Antonio Tiraboschi scriveva: “A mezza Quaresima as rasga la ègia”), è stato con ogni probabilità reintrodotto nel primo dopoguerra dal Ducato di Piazza Pontida – con una interruzione dal 1940 al 1945 con la soppressione del Ducato -, per poi scomparire già a metà Novecento.
Solitamente, l’argomento prescelto per l’ignominia del rogo riguarda la vita cittadina e il tema – deciso di anno in anno dal Duca di Piazza Pontida, fra quelli che gli vengono sottoposti dai dieci saggi del “Consiglio della Corona” -, viene opportunamente illustrato nel testamento della “Vecchia”, letto coram populo prima che il fuoco avvampi.
Come non bastasse l’onta delle fiamme, un’enorme sega viene mossa per tagliare in due la “Vecchia”, una figura enigmatica che in molte tradizioni agrarie è sostituita da un albero, trasparente riferimento fallico che rimanda alla simbologia della fertilità degli antichi riti pagani: un gruppo di contadini si muoveva di casale in casale inscenando l’abbattimento dell’albero, che veniva poi segato. Il tutto si concludeva con la simbolica resurrezione, fra danze e canti, che evocava la cacciata dell’inverno e la ripresa dei lavori agricoli. Ecco perchè si parla di “segare” la vecchia.
Oggi il rito del rasgamènt si tiene di sabato in piazza Matteotti, ma un tempo si teneva di GIOVEDI’:
“La sera del giovedì di mezza Quaresima, per simboleggiare la fine della prima parte di questa, ma anche a scopo di satira su avvenimenti politici o d’interesse cittadino, in Piazza Pontida, per iniziativa e a spese degli esercenti del luogo e dei ‘vassalli’ del così detto ‘Ducato di Piazza Pontida’ (specie di società di individui amanti del ridere, mangiare e bere nonché della poesia dialettale), si allestisce uno spettacolo pirotecnico affatto gratuito, rallegrato da una banda musicale a cui assiste sempre una folla strabocchevole accorrente da ogni punto della città.
Un grande pupazzo rappresentante una vecchia, dopo essere stato portato attraverso le vie della città, viene innalzato, verso sera, sul fondo della piazza, tra un apparato di cartoni dipinti e di pali che reggono molteplici girandole più o meno grandi e più o meno complicate che si accendono successivamente, tra il fragoroso scoppio di altri fuochi d’artificio.
Alla fine, mentre dalla terrazza del palazzo retrostante trabocca un’abbagliante cascata al magnesio, una simbolica sega luminosa fa rovesciare all’indietro e scomparire tra le fiamme di un cratere, tra scoppi e fischi assordanti, la parte superiore del pupazzo.
Dopo di che la folla si disperde commentando allegramente, mentre si spengono le ultime luci e le ultime note della banda”.
Il fantoccio della “Vecchia” veniva prima segato e poi messo al rogo attraverso uno scoppiettante e chiassoso spettacolo pirotecnico.
Oggi dell’antica usanza non ne resta che il dettato: il “segamento” è solo simbolico (per darne la sensazione il pupazzo è sostituito da un gigantesco cartellone che viene tagliato a metà da una metaforica sega luminosa).
..”nonostante di quando in quando spunti qualche moralista scrupoloso a deprecare tanto sfarzo di fuochi artificiali e tanta sana ilarità popolare, in nome dell’austerità (che gli scimmiottatori anglomani hanno stupidamente tramutato in austerity) e dei tempi calamitosi. «Guardiamoci da chi non sa ridere», diceva Giovanni Banfi”.
Le stesse suggestioni di allora, rivivono in una poesia del primo Duca di Piazza Pontida, Rodolfo Paris (la traduzione nella didascalia seguente):
I giràndole, i fontane, föch in aria, póm granàcc, che i se dèrv e i furma grane de brilàncc bèi facetàcc: Vrach, zach, tach; pò öna grand lüs de bengài che i góta arzènt, che i ris-ciara, che i sberlüs, e la zét che fà moimènt … E intramèss a lüs e ciàs, chèsta Ègia pitürada la par quase dré a speciàs per vèss bèla e cincinada, ma ’n d’ü tràcc la s’ dèrv in dù e del còrp ghe é fò i moscù. Dopo chèst, dò o trè bombade, pò ’n de l’ombra l’ turna töt … Vià la zét per i contrade, ol Piassàl l’è quiét, l’è öd: gloria, onùr, föch e bordèl, töt a l’ passa, ol bröt e ’l bèl
Esilarante fu il “segamento” del sole di Giovanni Paneroni, Superastronomo. La sua frase più ricorrente era: “La terra non gira o bestie!”.
Si fermava spesso fuori dai licei per bloccare gli studenti, intrattenendoli con le sue strambe teorie: “Dicono che l’aria ci sostiene. Ma bestiacce! È la salute che ci sostiene. Provate a tirare una rivoltellata nella testa a uno e vedrete se l’aria lo sostiene. Cadrà di certo per terra!”.
Pubblicò persino un giornale con questa testata: “NUOVlSSlMA TREMENDA GEOGRAFIA DI PANERONl”: Copernico e Galileo sbagliarono – La terra è piana infinita ferma – il sole è largo 2 metri colla velocità di 2000 chilometri all’ora gli circola sopra e conservando sempre l’altezza di mille chilometri – Sembra a tutti che levi e tramonti – Questo grande divertente profondo studio costa soltanto lire “una” – Vale dei milioni”.
Venne “segato” sulla pubblica piazza senza pietà.
Ma il rogo da molti anni non si tiene più in Piazza Pontida.
A sera sotto i quattrocenteschi portici dei Gentiluomini, a Occidente, e quelli settecenteschi della Gallinazza, a Settentrione – edificati in sostituzione delle baracche di legno dei negozi trecenteschi -, si profilano le ombre delle colonne.
La vita non ferve più come un tempo nell’antica Piazza della Legna.
A notte fonda, quando si è placato il fragore del traffico urbano e la piazza è completamente deserta, potresti forse intravedere due figure evanescenti, Rodolfo Paris, infagottato nel vecchio tabarro, la larga tesa del cappello a fungo calata sulla fronte, e Alfredo Faino, in doppiopetto, la giannetta dal pomello eburneo stretta fra il braccio e il fianco, mentre si recano a salutare Pietro Ruggeri, solo e dimenticato sul piedistallo marmoreo all’angolo delle Ortolane.
Riferimenti
Umberto Zanetti, Bergamo d’una volta
Pilade Frattini, Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo.
* Ringrazio Laura Ceruti per l’originale raffigurante i portici di Piazza Pontida.
Con il trattato di Campoformio, dopo circa tre mesi dal suo stabilimento, la Repubblica Bergamasca (subentrata alla caduta del dominio veneziano su Bergamo) entrava a far parte della Repubblica Cisalpina (promulgata nel luglio del 1797), ponendo fine alla breve esperienza di autogoverno cittadino: Bergamo, in qualità di capoluogo del Dipartimento del Serio, veniva ora a dipendere dal potere centrale milanese assumendo un nuovo ruolo rispetto al passato: da città di confine entrava in diversa relazione con il resto della Lombardia.
Intanto in Europa si stava preparando la prima coalizione contro la Francia. Mentre Napoleone di trovava in Egitto, nella primavera del 1799 scendevano in Lombardia gli Austro-Russi, comandati da Suvarow.
Il Direttorio bergamasco della Cisalpina si scioglieva e i suoi membri emigravano. I cosacchi entravano in Bergamo da Porta Broseta il 24 aprile spargendo terrore nella città. L’evento è ricordato in due dipinti di Marco Gozzi, collocati in una cappella del Santuario di Borgo Santa Caterina.
Ma questo stato di cose durò breve tempo: nel novembre Bonaparte ritornava dall’Egitto a Parigi, veniva eletto primo console; nella primavera del 1800 piombava nuovamente in Italia; sconfiggeva nel giugno gli austriaci a Marengo e il territorio orobico entrava a far parte della seconda Cisalpina (1800-1802). Con la Consulta di Lione del 1802 si emanava una nuova costituzione e nasceva così sotto la Vice-Presidenza di Francesco Melzi d’Eril la Repubblica italiana (1802-1805), che alla proclamazione del maggio 1805 di Napoleone Imperatore dei Francesi, doveva divenire Regno d’Italia (1805-1814) sotto il comando del Vice-Re Beauharnais.
Se con la prima Cisalpina si era affermata una classe dirigente composta da uomini già politicamente attivi nei mesi della repubblica democratica (con Marco Alessandri e Girolamo Adelasio nel Direttorio), con la proclamazione della Repubblica italiana e quindi del Regno d’Italia venne realizzato un apparato statale fortemente centralizzato, che determinò la fine della autonoma organizzazione della municipalità di Bergamo, tanto che nel 1805 l’albero della libertà scomparve dalle piazze cittadine per decreto sovrano.
Il regime chiedeva ora la collaborazione di notabili più moderati e conservatori, scelti fra i proprietari terrieri, la borghesia ricca dei commerci e delle professioni, gli intellettuali, i gradi alti dell’esercito, a cui concedeva cariche di prestigio, onorificenze e titoli nobiliari, col proposito di allargare le basi del consenso e di ridurre la resistenza al nuovo assetto statuale.
In contrasto con l’atteggiamento personale del vescovo Dolfin, che appoggiava la politica francese, il clero continuava ad opporsi esplicitamente al governo, esercitando una forte influenza su una popolazione saldamente ancorata ai principi religiosi.
Tale opposizione si era avviata nel periodo “giacobino” (1797), con le soppressioni di conventi e monasteri e relativo incameramento dei beni (nel 1810-1811 si giunse alla soppressione di tutti gli istituti religiosi), la chiusura del seminario, le requisizioni di argenti, le proibizioni di processioni e di altre manifestazioni esteriori di culto, che avevano cominciato ad offendere il sentimento religioso di gran parte del popolo; ma proseguì anche negli anni successivi, quando Napoleone cercò la riconciliazione con la Chiesa quale mezzo indispensabile per la stabilità politico-sociale, nonostante in nome della difesa della laicità dello stato e della razionalizzazione della vita religiosa e della cura pastorale, Napoleone avesse anche decretato la riduzione del numero delle parrocchie, che a Bergamo scesero da 15 a 7.
A tali provocazioni, il clero locale rispose con la scarsa disponibilità a collaborare e con la diffidenza, ma anche con l’opposizione oltranzista di carattere politico operante attraverso l’attività clandestina delle congregazioni di San Luigi o Mariane.
In quell’epoca contrassegnata, con Bonaparte, da rivolgimenti sociali, politico-amministrativi e militari, nell’arco di pochi anni non solo mutarono le strutture politiche e si ridefinirono le classi dirigenti, ma si crearono anche istituzioni di gestione dell’economia e del “soddisfacimento del bisogno sociale” che ebbero un valore epocale, e non ultima la nascita del Codice di Commercio e delle Camere di Commercio. La prima sede della Camera di Commercio a Bergamo, è la “sala maggiore del Palazzo Civico” (attuale sede della Biblioteca A. Mai), dove già aveva esercitato la Camera dei Mercanti.
Cambiò il corpus legislativo e amministrativo; al Comune vennero assegnati compiti nei campi dell’istruzione, dell’assistenza, del controllo anagrafico, che erano prima di quasi esclusiva competenza di organismi caritatevoli ed ecclesiastici. Vennero completamente riorganizzati gli uffici comunali, introdotta la nuova figura del Segretario generale e l’uso del protocollo nella scrittura degli atti comunali.
Venne aggiornata secondo nuovi e più moderni criteri la fiscalità, e con l’introduzione della registrazione catastale delle proprietà immobiliari, venne imposta una perequazione fiscale più razionale ed omogenea (prima di allora la tassazione era basata sulle denunce dirette dei proprietari).
Si procedette alla realizzazione di un nuovo ordinamento territoriale, strutturato secondo una più ordinata geografia dipartimentale, e in linea con un’ottica tutta urbano-centrica si procedette persino ad una ricognizione urbana ed extraurbana del territorio circostante, con l’evidente finalità di procedere verso la costituzione di un regesto generale dei beni architettonici, archeologici e ambientali di maggiore risonanza popolare.
A tale scopo, il pittore bergamasco Marco Gozzi (1759-1839) ricevette l’incarico, prima dal governo francese e poi da quello austriaco, di fornire annualmente all’amministrazione quadri di paesaggi che rilevassero topograficamente alcuni spazi di vedute e paesaggi del territorio lombardo, e con lui si inaugurò il filone del paesaggio moderno lombardo.
I diversi provvedimenti adottati in materia sociale, assistenziale, religiosa, culturale, scolastica, sanitaria (questi ultimi determinando la costruzione di campisanti fuori dall’abitato) e urbanistica, produssero evidenti effetti sulla struttura della città, che subito dopo il passaggio delle truppe francesi si vide cambiare volto attraverso una serie di opere pubbliche, concepite secondo un ottica di decoro cittadino.
DUE PAROLE SULLA FIERA
Il periodo della dominazione napoleonica segna l’ampliamento delle dimensioni del commercio fieristico, preparando l’economia bergamasca ad entrare nel più vasto mercato lombardo e a trarne presto vantaggi, per confronto concorrenziale con la dinamica presenza industriale milanese.
Tra i provvedimenti per il miglior funzionamento, l’ordine e l’organizzazione generale della fiera, nel 1809 si provvede a spostare le botteghe del ferro e nel 1810 il mercato dei bovini, trasferito dal Lazzaretto alla fiera.
Insieme agli altri, anche i provvedimenti di decoro pubblico contribuiscono a fare della fiera un luogo d’incontro e di cultura di tutta la popolazione bergamasca.
D’altro canto però le guerre aggravano anzitutto il problema dell’insufficiente produzione di frumento e gli eventi europei incidono negativamente anche sullo scarso sviluppo della rete viaria (il commercio di transito che da Venezia alla Svizzera, Germania e Olanda passava per la dogana di Bergamo, era via via scemato anche a causa della mancata manutenzione della strada della Val S. Martino e della Ca’ S. Marco).
LA CITTA’ NEL PERIODO NAPOLEONICO
In seguito alla soppressione di tutti gli istituti religiosi, avviata nel 1797 e portata a termine nel 1810-1811 con relativo incameramento dei beni, nell’ottica della riorganizzazione dei centri di potere i conventi e i monasteri vengono convertiti in caserme, uffici doganali, carceri, case di lavoro, ospedali, ospizi (mentre il previsto nuovo manicomio presso il Convento di Astino non verrà realizzato).
All’architetto viennese Leopoldo Pollack è affidata la risistemazione ad uso di carcere dell’enorme complesso edilizio dell’ex convento di S. Agata, anche se il progetto verrà realizzato solo per piccoli lotti a causa di difficoltà burocratiche e finanziarie.
Il principio della concentrazione delle opere di beneficenza nella Congregazione di carità (1807) comporta l’unificazione nella Casa del Conventino dell’Istituto delle orfane.
Il cosiddetto bando della mendicità (era fatto divieto ai mendicanti di questuare per le strade) determina l’istituzione dell’Ospedale della Maddalena per incurabili ed inabili al lavoro.
Il convento dei francescani di S. Maria delle Grazie viene trasformato nel 1811 in Albergo per i poveri (casa di ricovero delle Grazie), fuori delle Muraine.
La legislazione scolastica, che prevede tra l’altro l’apertura di scuole pubbliche presso ogni sede parrocchiale (1801), porta con la riforma del nuovo liceo dipartimentale all’acquisto dell’ex convento di Rosate (1803) e alla fondazione dell’Istituto musicale (1805).
Sull’onda rivoluzionaria che diffondeva certo aggiornamento ad una modernità con opere utilmente pubbliche, entro il primo decennio dell’Ottocento si eressero una serie di edifici, che rientravano in quel processo di espansione delle infrastrutture e dei servizi che è proprio della politica urbanistica napoleonica.
Si completava così il maggior teatro della città in piano, il teatro Riccardi, ricostruito da Bortolo Riccardi dopo un terribile incendio e riaperto al pubblico nel 1799.
Nel 1797, mentre cadeva la repubblica di Venezia era in corso di costruzione del grande Palazzo Grumelli-Pedrocca (lungo l’attuale via S. Salvatore) su progetto di L. Pollack: un estremo aggiornamento stilistico in una Bergamo alta che aveva ormai perso la funzione di centro cittadino e dove – ironia della sorte – i nobili che in gran parte la occupavano si riconoscevano nelle colte intuizioni linguistiche dell’architetto viennese.
Ed è proprio alla presenza dell’aristocrazia che si deve il più importante intervento architettonico realizzato in Bergamo alta nei quindici anni della presenza napoleonica, quando, nel 1803, una società di nobili appositamente formatasi, commissiona al Pollack il progetto di un teatro (teatro della Società o dei Nobili, oggi noto come Teatro Sociale) che sostituisca la poco dignitosa sistemazione provvisoria (dal 1797) di un teatro nel Palazzo della Ragione e faccia concorrenza all’unico vero teatro della città (esistente dal 1770 davanti alla fiera).
L’area prescelta, alle spalle dell’ex Palazzo del Podestà e affacciata sulla via principale (attuale via B. Colleoni), è significativa della volontà di rilanciare la “centralità” (se non altro mondana) di Bergamo alta; e in effetti, con la restaurazione austriaca sul Lombardo-Veneto Bergamo alta verrà ad essere interessata da una serie di interventi che la riproporranno, se non come unico polo della centralità urbana, come uno dei luoghi di più alto interesse della vita cittadina, il primo dei quali, nel 1818, sarà la sistemazione a sede dell’“Ateneo di Scienze, Lettere e Arti”, laddove il portico, costruito nel 1759 sul fontanone visconteo (a est di S. Maria Maggiore), sembra voler indicare nelle sedi istituzionali della cultura uno degli strumenti per la rivitalizzazione della città alta: una tendenza che persisterà nel successivo periodo austriaco (1).
(1) A questi interventi seguirà infatti l’’apertura del Conservatorio musicale, la sistemazione a biblioteca del Palazzo della Ragione, la costruzione della grande sede del liceo-ginnasio sul sito dell’appositamente demolito convento di S. Maria di Rosate, oltre che la nuova sede del Seminario vescovile e gli interventi volti a restituire il circuito delle mura veneziane all’uso civile.
Ai margini della città antica, nello storico borgo San Tomaso, l’Accademia, voluta dal conte Giacomo Carrara, assume più nobile forma su disegno di Simone Elia, concludendosi nel 1810.
Da leggere invece nell’ottica nella celebrazione del potere sono i progetti che si susseguono per la trasformazione dell’Obelisco di Prato, che viene dedicato a Napoleone…
…nonché i diversi monumenti di architettura effimera che nel periodo vengono eretti in città e l’abbellimento di porta Osio, all’incrocio tra via Moroni e via Palma il Vecchio, che ora rappresenta la nuova direttrice principale verso Milano.
Si fa progettare dall’architetto G. Quarenghi un disegno per costruire fuori Porta Osio un arco di trionfo da erigere per l’arrivo imminente a Bergamo di Napoleone Bonaparte. Il progetto non fu mai realizzato.
Si provvede all’edificazione della strada di Circonvallazione fuori delle Muraine.
Con la caduta di Venezia e la conquista napoleonica, perduto il ruolo di città di frontiera Bergamo vede ulteriormente indebolito il ruolo strategico-militare della cinta murata cinquecentesca; venute meno tutte le preoccupazioni di carattere difensivo, la poderosa macchina bellica abbandona la funzione di struttura militare e a poco a poco prende a trasformarsi in un privilegiato luogo di passeggio, affacciato sulla città e la pianura.
Nelle vedute settecentesche come quella di Fossati, riprese dal Fortino presso la chiesa di S. Maria del Giglio, cogliamo la perdita ormai imminente della funzione militare delle Mura: benché ancora dotate di un forte risalto protettivo, le vedute ci restituiscono un’atmosfera serena, con figure che passeggiano e cavalieri.
Sulla scia di una tendenza ormai in atto, nel 1781 il podestà Alvise Contarini propone di trasformare in passeggiata le Mura da S. Giacomo a S. Agostino, tratto che doveva essere molto frequentato se nel 1795 si doveva già provvedere al restauro dei “divisati deliziosi passeggi e giardini pubblici”, e all’abbassamento del tratto di vecchie mura pericolanti fuori Porta S. Giacomo, lungo la strada che porta a Borgo S. Leonardo (2).
(2) Monica Resmini, Le Mura, cit. in bibliografia.
Scompaiono i cannoni, vengono tolte le garitte e demoliti i terrapieni. I ponti lignei di accesso alle porte delle Mura vengono sostituiti da ponti in muratura, e le porte definitivamente aperte.
Le idee illuministiche di decoro urbano, legate a uno sfruttamento più razionale degli spazi, portano con sé nuovi canoni estetici che impongono l’ampio utilizzo del viale alberato.
Lungo la cinta bastionata, il primo ad essere piantumato, a ippocastani e platani, è il tratto tra Porta S. Agostino e Porta S. Giacomo; resi più accessibili e “alla moda”, i baluardi cominciano ad animarsi di cittadini a passeggio.
Dopo la piantumazione di questo primo tratto, viene sistemata a verde l’area nei pressi della Porta di S. Alessandro. Il modello del viale alberato sperimentato sulle Mura verrà adottato anche nei nuovi rettifili realizzati in città.
Acquisiti da parte dell’amministrazione comunale i terreni degli spalti, si provvederà a piantumare il tratto da Porta S. Giacomo a Porta S. Alessandro.
Verranno effettuati degli imponenti interventi neoclassici, in linea con la tendenza che per tutto il Settecento vedrà l’apertura, nella città sul colle, di cantieri privati per la trasformazione o l’edificazione di palazzi signorili.
Con il tempo, anche il colle di S. Vigilio, posto al culmine della città, si ricoprirà di una folta cortina alberata e di una serie di ville di delizia, sorte per godere dell’invidiabile posizione panoramica.
Nelle aree poste ai piedi delle Mura, orti e vigneti si riappropriano dei pendii collinari, assediandoli con le loro volute e tappezzandoli di calde policrome: svanito il timore che eventuali nemici possano mimetizzarsi nella macchia e avvicinarsi senza essere visti, la severa e fredda cinta di pietra si trasforma in un bucolico giardino pensile.
La Pianta della città e del territorio di Bergamo, realizzata da Stefano Scolari nel 1680, mostra la doppia cortina presente nella città: le mura venete, che circondano l’abitato sul colle, e la barriera daziaria delle Muraine, che dalle Mura scende a contenere i borghi come abbracciandoli.
Quasi due secoli dopo, le mappe ad opera dell’ingegner Manzini, realizzate a cinquant’anni di distanza l’una dall’altra (1816 e 1863), rifletteranno i mutamenti avvenuti per le infrastrutture e l’estensione dell’edificato nella parte centrale dell’Ottocento, mutamenti che hanno seguito i vincoli imposti dalle cinte murarie ma hanno anche sottolineato la necessità e la possibilità di un loro superamento.
L’EVOLUZIONE DEI CONFINI DELLA CITTA’ IN UN ARTICOLO
Nonostante la vicenda territoriale del Comune di Bergamo suggerisca l’immagine di un nucleo che si allarga o si ritrae senza spostare il suo centro né il suo asse, soprattutto negli ultimi due secoli la storia dei confini del Comune di Bergamo è abbastanza tormentata.
“Il tramonto del XIV secolo coglieva Bergamo nel pieno della signoria viscontea, dopo aver sostanzialmente esaurito un’esperienza municipale durata oltre due secoli.
Negli statuti cittadini – che ancora si emanavano nonostante le mutate condizioni politiche – le comunità di Colognola, Daste, Dalcio, Palazzo, Grumello e Calvi erano invece riportate come Comuni autonomi.
Anche la descrizione confinaria del 1392 escludeva la maggior parte di queste entità – dai limiti non sempre ben precisati – mentre comprendeva i territori di Torre Boldone e di Rosciano, ora frazione di Ponteranica. Colognola e le altre comunità citate, insieme con Lallio e Curnasco, sarebbero comunque state presto annesse al territorio di Bergamo, che sotto il dominio veneziano non subì cambiamenti di rilievo.
Le «grandi manovre» iniziarono nel 1797 quando Valtesse, Redona, Torre Boldone, Colognola, Grumello del Piano, Curnasco e Lallio si costituirono in Comuni autonomi.
Il decreto del 1805, che favoriva – ma sarebbe meglio dire imponeva – l’accorpamento dei piccoli municipi, avrebbe ispirato però una decisa inversione di tendenza.
Fu infatti il periodo napoleonico a segnare, per pochi anni soltanto, la nascita di una «grande Bergamo» che aveva accorpato ben 28 comuni della cintura (compresi Ponteranica, Seriate e Stezzano) e vedeva la circoscrizione cittadina confinare direttamente con Nembro, Zanica e Zogno.
Si era creato un maxi distretto amministrativo- dove il Comune coincideva con il cantone bergamasco – che era anche il simbolo del ruolo preminente affidato al capoluogo.
I provvedimenti legislativi seguiti alla Restaurazione si preoccuparono di restituire a tutti i Comuni della cintura la loro autonomia.
Intorno al Comune cittadino, ora confinato territorialmente al centro città, si costituiva in municipio il Circondario dei Corpi Santi, corrispondente ai Comuni censuari di Valle d’Astino, Boccaleone e Castagneta.
La nuova entità amministrativa – che riesumava una partizione territoriale del periodo veneziano – ebbe però vita brevissima perché nel 1818 fu di nuovo incorporata alla città.
L’inizio del ’900 vide il riproporsi dei tentativi di aggregazione dei Comuni finitimi. Nel 1918 il Municipio di Bergamo deliberò la richiesta di annettere a sé i territori di Valtesse, Redona, Colognola, Grumello del Piano e in parte di Ponteranica, incontrando l’ovvia opposizione dei Comuni interessati.
Non se ne parlò più fino al 1927, quando la commissione reale incaricata della riorganizzazione municipale diede parere favorevole a tutte le richieste d’annessione, eccezion fatta per quella del Comune di Seriate.
Nemmeno il dopoguerra vi operò modifiche importanti, eccezion fatta per una permuta del 1954 con Orio al Serio, necessaria alla ricostruzione del cimitero distrutto per far posto al campo di aviazione, e per una rettifica di confine con Ponteranica nel 1969.
L’ultima variazione in ordine di tempo risale al 1983, con l’annessione della borgata di Nuova Curnasco e di alcune aree appartenenti a Treviolo. Da quel momento Bergamo raggiunse l’attuale estensione di 3960 ettari” (3).
(3) Prove tecniche di “Grande Bergamo” – Paolo Oscar. L’Eco di Bergamo, 8 ottobre 2000.
Conclusa la breve esperienza di autogoverno cittadino (Repubblica Bergamasca) nel luglio del 1797 Bergamo veniva a dipendere dal potere centrale milanese, in qualità di capoluogo del Dipartimento del Serio.
Nel periodo napoleonico, le gravi congiunture politiche ed economiche, il continuo regime di guerra, il peso della tassazione (le imposte francesi erano circa sette volte maggiori rispetto a quelle venete) e l’introduzione nel 1802 della coscrizione obbligatoria, fecero precipitare il conflitto tra le popolazioni e l’autorità politica, tra la città e soprattutto le valli, dove le divergenze continuarono a permanere per tutto l’Ottocento.
Con la coscrizione, ogni dipartimento doveva fornire un contingente anno per anno, proporzionale alla popolazione e in rapporto alle esigenze belliche. Gli uomini fra i 18 ed i 50 anni dovevano prestare servizio presso la Guardia Nazionale per 1 lira e 15 soldi al giorno. Era prevista la possibilità di farsi sostituire a proprie spese da altri, possibilità che potevano cogliere solo le classi sociali più abbienti, le uniche in grado di pagarsi un sostituto (come avvenne per Gaetano Donizetti e l’amico Dolci). La nuova coscrizione (1802) impose l’assenza da casa per quattro lunghi anni in tempo di pace e per un tempo indefinibile in stato di guerra, e non pochi bergamaschi furono partecipi alla infelice campagna di Russia; tra il 1797 e il 1814, dei 200.000 uomini che combatterono nelle milizie italiche, 125.000 morirono in battaglia o per cause connesse alla guerra.
Così, all’obbligo del servizio militare – novità resa ancora più impopolare dalla pratica della supplenza -, si rispose massicciamente con la diserzione, aggravando di conseguenza l’endemico brigantaggio locale che, alimentato anche dal contrabbando del sale e del tabacco, era sempre operativo nel territorio e particolarmente nelle valli, dove bande organizzate saccheggiavano case, terrorizzando le popolazioni. Orde di briganti furono segnalate in Val Camonica, in Val di Scalve, in Val Caleppio (1).
I disordini, già difficilmente controllabili in un dipartimento di confine e per di più prevalentemente montuoso come quello orobico, furono tali da determinare nel 1805 l’attivazione di un tribunale speciale e la nomina di un commissario d’alta polizia, al fine di controllare l’ordine pubblico.
E non si può parlare di briganti senza pensare all’inafferrabile Vincenzo Pacchiana detto Pacì Paciana, verso la cui figura, storia, leggenda, tradizione e verità continuano a intrecciarsi, tanto che ognuno lo dipinge ad esclusivo piacimento: chi come eroe, disertore e bandito coraggioso e spregiudicato, e chi come famigerato delinquente.
In realtà Vincenzo Pacchiana, nato verso il 1776 presso il ponte di Romacolo, a Poscante (frazione di Zogno) e vissuto sotto i francesi, non fu altro che uno dei tanti malfattori di strada che infestarono la Val Brembana, favoriti dalla vicinanza con il confine.
Data la dura pressione fiscale adottata per sostenere le campagne napoleoniche, il popolino finì con l’identificare la sua figura con quella di un vendicatore dei soprusi, che rubava ai ricchi per dare ai poveri: una sorta di Robin Hood brembano che andò a rappresentare il simbolo della giustizia per i valligiani, che lo chiamavano ol padrù d’la Val Brembana.
I documenti lo descrivono come un uomo facile all’ira e d’idole facinorosa, molto “scafato” e disposto a commettere delitti, in qualche caso ben disposto ad aiutare o blandire qualcuno: e in effetti, pur essendo il Pacì feroce all’occorrenza, i conterranei lo aiutarono, in parte per timore ma sicuramente anche per simpatia.
Di corporatura ordinaria, Pacì era piuttosto alto, i capelli corvini intrecciati alla fronte e alle orecchie come si usava allora, con coda legata alla francese; barba nera e solitamente rasa, colore della pelle olivastro, occhi brillanti. Amava camuffarsi per sfuggire alla cattura, travestendosi di volta in volta da vecchio contadino, da prete e persino da donna. Parlava il bergamasco con influenza veneta per via della passata dominazione della Serenissima ed era immancabilmente armato di coltelli, pistole e fucile a schioppo a due canne: questo il suo ritratto, secondo il prontuario della polizia dell’epoca.
Era ammogliato (si nomina una compaesana, Angela Sonzogni), la qual cosa non gli impediva di coltivare relazioni illecite.
La sua leggenda vuole che si fosse dato al brigantaggio per un’ingiustizia subita. Si racconta che divenne un brigante quando, non ancora trentenne, per difendersi da due imbroglioni che lo avevano derubato regolò l’affronto con una sonora scarica di legnate ai due manigoldi e incredibilmente per questo subì la sua prima denuncia.
Per non farsi incarcerare da quel potere che schiacciava sempre i piu’ deboli, si dette alla latitanza nei boschi meno accessibili della Val Brembana, che lui conosceva benissimo perche’ per tirare a campare pare esercitasse oltre al mestiere di taglialegna anche quello del contrabbandiere di tabacco.
Da qui inizia la sua storia di giustiziere della Val Brembana, perchè ovunque ci fossero ingiustizie, soprusi o da ridistribuire equamente ricchezze, interveniva lui, il Pacì, che a suon di schioppettate si faceva rispettare e soprattutto temere da usurai e da quelli che lui riteneva prepotenti e opportunisti.
Intanto il suo mito cresceva a dismisura e la sua fama di imprendibile diveniva leggendaria; le sue gesta erano considerate eroiche da pastori, contadini, viandanti, insomma da tutto il popolo che non amava i gendarmi, che non capivano e non parlavano la loro lingua: il bergamasco.
La coscrizione obbligatoria aveva peggiorato il malumore dei valligiani e il vento di ribellione giungeva sino alla città di Bergamo, nella quale pure non mancavano gli estimatori del Pacì, tant’è che ricorrente era la frase: “un Pacì Paciana per ogni paese”.
Innumerevoli le imboscate delle guardie per catturarlo e memorabile lo scontro a fuoco a Endenna, frazione di Zogno, con un paio di morti tra le forze dell’ordine.
Da quei conflitti Pacì ne usciva sempre indenne, anche grazie ad uno speciale farsetto antiproiettile d’acciaio che portava sotto il mantello, che lo rendeva “invincibile”.
Per catturarlo e cancellarne il mito, le truppe francesi organizzarono un’imboscata nei pressi del ponte di Sedrina, da dove il Pacì si sarebbe gettato nel Brembo beffando i gendarmi, rimasti con un palmo di naso: un episodio ricostruito nel 1870 da Mosè Torricella, forse con l’aiuto di alcuni parenti, che il Pacchiana l’avevano conosciuto.
“Tutta la sbirraglia si mise in moto, capitanata da un individuo di Bergamo, venuto appositamente a prendere il bandito, condurlo in carcere, papparsi la taglia e ritornare placidamente a casa, quasi fosse la cosa più naturale del mondo. A mezzo di spie, seppe che il Pacì in tal giorno sarebbe andato a Sedrina. Infatti, appostata parte della sbirraglia al di là del ponte sul Brembo, col restante si cacciò in una casa al di qua del fiume. Il Pacì poco stette ad attraversare il ponte, quando si vede dietro una comitiva di sbirri, affretta il passo ma lo chiudono nel mezzo altri armati. Era un affar serio; si ferma, ed appoggiandosi alla sponda, attende.
– “Dunque ci siamo una buona volta, eh? diceva il capo, così si pigliano anche le volpi vecchie”.
– “Ma non però vecchie come me…. rispose il Pacì, spiccando un tremendo salto, e per l’orrido vuoto precipitando a piombare nelle acque che gorgoglianti l’inghiottirono”.
La leggenda dice che miracolosamente il Pacì riuscì a guadagnare la riva del fiume e si diede di nuovo alla macchia, ma qualcuno dice che l’episodio del salto nel Brembo non avvenne, o addirittura che non avvenne presso i ponti di Sedrina: casomai al ponte di Ambria.
Resta il fatto che in Val Brembana il malfattore da troppo tempo teneva in scacco la Gendarmeria, senza che questa, peraltro disorganizzata e disunita, potesse ridurlo in forze.
Al di là di quel misto di verità e leggenda giunto sino a noi, i fatti furono indagati da Bortolo Belotti, che spulciò nei documenti conservati all’Archivio di Stato di Milano riguardo i rapporti di Diego Guicciardini, direttore generale della polizia del Regno d’Italia (1805 -1814).
Ne risulta che le autorità competenti, intenti a soffocare questo simbolo di libertà, emanano dei bandi di cattura, con “una taglia di cento zecchini a favore di chi lo prende vivo e di sessanta a chi lo uccide”, essendo sfuggito alla Gendarmeria “uccidendo due guide e lasciando feriti tre gendarmi ed un’altra guida”.
Allettato dalla taglia che pendeva sulla testa del Pacchiana, il bandito dal nome forse finto di Cartoccio Cartocci detto Carcino, d’accordo con la polizia si associò a Pacì Paciana e insieme batterono le montagne comasche nei pressi di Gravedona, dove, il 4 agosto del 1806, sedotto dalle promesse di premio il Carcino uccideva con un colpo di trombone il compare immerso nel sonno.
In tal frangente tra l’altro il Guicciardi arrestava un certo Cattaneo, che aveva tentato di servirsi del nome temuto del Paccini (il Pacchiana), per estorcere a sua volta denaro.
Il Carcino, per dimostrare l’uccisione del Pacchiana gli tagliò la testa e la consegnò alle autorità, che per certificare al popolo la definitiva scomparsa del bandito la espose sotto la “ghigliottina della Fara”, dove si giustiziavano i delinquenti: il piazzale di S. Agostino infatti, nel periodo napoleonico era divenuto il luogo delle esecuzioni capitali, che in precedenza venivano eseguite in Piazza Vecchia.
Finiva qui la storia di questo leggendario personaggio della Valle Brembana, la cui leggenda venne tramandata dai racconti e dai teatri dei burattini, che se ne impadronirono facendone il vendicatore dei torti e delle ingiustizie subite dai più deboli: il bandito leale e generoso, in perenne lotta contro i gendarmi, espressione armata di un governo oppressore.
Note
(1) La connessione tra diserzione e brigantaggio è tanto più esplicita negli anni di particolare tensione politico militare, quali il 1809 e il 1813. Nel maggio del 1809, nel corso dell’insorgenza popolare antifrancese che esplode in Valle Camonica all’annuncio dell’aumento dei prezzi del sale, i disertori fanno causa comune con i ribelli e attaccano alcuni paesi della valle per rifugiarsi poi sulle montagne. Nel 1813, di fronte alla requisizione straordinaria decisa dal viceré Eugenio, il ribellismo dilaga, si organizza in consistenti e pericolose bande armate e giunge a minacciare città e contado.
Riferimenti Fondazione Bergamo nella Storia
Centro Studi Valle Imagna – Antonio Martinelli, Bergamo. Itinerari nella Storia della città e del suo territorio dalle origini al ventesimo secolo. Bergamo, Grafica Monti, aprile 2014.
Poscante e dintorni ieri e oggi – Tarcisio Bottani
L’avvento di una Repubblica di ispirazione giacobina ha una preparazione negli anni che la precedono; la posizione strategica del territorio bergamasco, crocevia tra l’Alta Italia, la Svizzera e l’Austria, favoriva il passaggio di “stampe massoniche eterodosse ed antiautoritarie” che, attraverso le valli, si insinuavano nello Stato Veneto. Agitazioni tra il popolo cominciavano a registrarsi a Nese e alla Ranica fin dal 1793; l’anno successivo, c’è una ribellione a Sarnico contro l’operato delle guardie daziarie.
La penetrazione delle nuove massime rivoluzionarie provenienti dalla Francia si accompagnava a rilevanti problemi in campo economico e fiscale.
Ma saranno soprattutto gli sviluppi della guerra che i Francesi stanno conducendo contro gli Austriaci a coinvolgere Venezia, accusata di appoggiare indirettamente l’Austria permettendo il passaggio delle truppe austriache nel suo territorio.
Bergamo, la città più lontana e più esposta della Repubblica Veneta, era il punto in cui l’esercito francese poteva inserirsi sulla strada per Venezia.
Napoleone stava concludendo la sua prima campagna d’Italia (1796-1797) che terminerà con la proclamazione della Repubblica Cispadana (Bologna, Ferrara, Modena, Reggio E.) del 29 giugno 1797.
Gli eventi vennero annotati dal campanaro del Campanone, Michele Bigoni, morto in tarda età, nel 1871 (sei quaderni in totale, oggi custoditi nella Biblioteca Civica “Angelo Mai”) e illustrati dall’amico-pittore Vincenzo Bonomini (1757- 1839), lasciandoci una preziosa testimonianza degli avvenimenti convulsi che accompagnano e seguono la proclamazione della Repubblica Bergamasca, travolgendo gli antichi equilibri: dalla Serenissima ai “giacobini”, dagli Austro‑russi alla grandeur napoleonica, fino al lungo sonno austriaco. Vista dal Campanone, la vita della città è un andirivieni quasi impazzito di nobili e funzionari, muratori e facchini, musicisti e musicanti, canonici e vescovi, spesso in scene notturne, con le fiaccole dei servi che illuminano le arcate del Palazzo della Ragione e gli androni nobiliari, disegnando, negli ultimi periodi, ombre improvvise e inquietanti. Mentre scrive, con la sua scrittura incerta e faticosa, Bigoni non resiste alla tentazione di descrivere e di giudicare, a volte con acidità, piú spesso con bonarietà popolare, le vicende del suo tempo.
A Bergamo i Francesi arrivarono alla fine del ‘96; il 25 Dicembre occuparono i locali della Fiera e il Castello di S. Vigilio, punto militarmente strategico e la guarnigione veneta venne ritirata dalla Rocca, in attesa di occupare ufficialmente la città.
All’assedio, il Capitano e il Vicepodestà di Bergamo Alessandro Ottolini non furono in grado di opporre una risposta militare ai Francesi: vi fu un periodo di estenuante attesa tra le parti. L’Ottolini fece chiudere il Teatro della Cittadella, per impedire l’ingresso dei soldati Francesi nel suo palazzo come spettatori, e spostò la stagione teatrale invernale al teatro Riccardi. Cinque giorni dopo, un incendio distrusse completamente il teatro. “Per non restare senza teatrale spettacolo nel Carnevale si combinò di aprire nel giorno tredici di gennaio il Teatro Riccardi posto in Prato, ora Campo di Marte; ma nel giorno tredici del Teatro Riccardi non erano che nude muraglie”, annota nelle sule Memorie storiche lo Zuccala (1).
Responsabile dell’incendio, considerato doloso, fu immediatamente ritenuto l’Ottolini. Ma gli avvenimenti incalzavano.
Il 12 marzo i rivoluzionari (esponenti della nobiltà locale, intellettuali e uomini dei ceti medi) imposero ai deputati del Consiglio minore di sottoscrivere il voto per la libertà e l’annessione alla repubblica Cispadana (2); nella notte tra il 12 e il 13 in una sala di Palazzo Roncalli venne ufficialmente proclamata la Repubblica Bergamasca (3) e nominata la nuova Municipalità; la mattina seguente il podestà Ottolini, ultimo rappresentante veneto a Bergamo, venne allontanato dalla città senza spargimento di sangue. Anche il vescovo Dolfin sancì con il suo voto la legittimità del nuovo governo, divenendo poi, con il clero cittadino, agguerrito sostenitore della Repubblica.
Nell’arco di poche ore, si erano consumati in modo irreversibile tre secoli e mezzo di storia che avevano legato Bergamo a Venezia: vennero cambiate leggi e strutture amministrative e fiscali, sconvolti gli ordinamenti politici, le categorie sociali, le consuetudini quotidiane e culturali.
Bergamo era la prima delle città venete di terraferma a ribellarsi a Venezia e la prima a costituirsi in repubblica autonoma.
Per i borghi e per le vie della città un asino trasportò le parrucche requisite ai nobili filoveneziani e alla sera vennero bruciate insieme con le bandiere veneziane.
Vennero atterrati i simboli del passato regime: statue, iscrizioni, medaglie di Guglie, etc. Il leone alato di S. Marco fu scalpellato dalle porte e da sopra il balcone del Palazzo comunale, i simboli araldici tolti dagli antichi palazzi nobiliari. Il 16 marzo si trovarono spezzate e travolte le statue dei Rettori veneti innalzate sull’area di Prato.
Si salvò la piramide dirimpetto a Santa Marta, cui venne posto in capo il berretto frigio.
Il 17 marzo venne innalzato in Piazza Vecchia il primo albero della libertà (4), un’aristocratico pino prelevato dai rivoltosi dal giardino dei conti Benaglio in San Matteo. Venne innalzato con il popolo in festa, al suono del Campanone e con qualche dispensa pubblica di pane, vino e denaro. Simbolo stesso della Rivoluzione, il palo fu dipinto di bianco, rosso e verde e adornato con nastri tricolori e la gente si riunì attorno ad esso per festeggiare la fine del passato.
Narrano le cronache del tempo che le danze furono aperte dalla caffetteria Sanà a cui subito fece seguito la cittadina ex Marchesa Terzi col macellaio Alebardi e col crescente ritmo di coreografico tripudio durò la festa fino alle ore tarde della notte alla luce delle candele e delle torce.
Alberi della libertà furono eretti in molte piazze dei paesi e della provincia. Ovunque vennero abbattuti stemmi, statue e simboli veneziani. I bergamaschi, attraverso la festa, esprimevano la loro gioia per un lungo e desiderato cambiamento sociale, la conseguente riforma della struttura politica, il livello di coinvolgimento che le varie classi sociali ebbero nel determinare la ribellione al regime veneziano, durato a Bergamo quasi 400 anni.
L’imposizione dei nuovi emblemi risignificarono politicamente la città. In quei giorni, Vincenzo Bonomini fu sistematicamente chiamato a sovrapporre nuovi emblemi politici a quelli da lui stesso dipinti pochi anni prima
Nei mesi successivi alla proclamazione della Repubblica Bergamasca, venne attuata una vera e propria campagna di propaganda rivoluzionaria (feste civiche, pranzi patriottici, catechismi, opuscoli di pedagogia politica, stampe satiriche, queste ultime mezzo di comunicazione di immediata comprensione anche per le masse analfabete), al fine di radicare la nuova realtà e il suo portato ideologico nella popolazione, che soprattutto in provincia si era opposta violentemente all’avvenuto cambiamento di governo.
Dopo la proclamazione delle Repubblica Bergamasca infatti, aumentò l’opposizione delle popolazioni del territorio, soprattutto delle valli, dove il basso clero diffondeva le idee controrivoluzionarie dei nobili filo-veneti.
La città si sentì presto assediata dai valleriani o marcolini, soprattutto attivi nelle valli Brembana e Imagna, la Valle Santa, e nella valle San Martino. Questi non accettavano il cambiamento di governo della città, operato soprattutto da alcuni nobili e da elementi progressisti del clero come il Mascheroni, e favorito, di fatto, dall’attendismo del vescovo mons. Dolfin. Dietro premevano anche gli interessi dell’aristocrazia terriera tradizionale, da sempre favorita dal Governo Veneto nel territorio.
Così, se almeno in città la rivoluzione avvenne senza spargimento di sangue, fuori città i rivoltosi presero a fucilate i “cittadini” che cercavano invano di fermarli e ferirono Gerolamo Adelasio, uno dei protagonisti nelle vicende bergamasche nei decenni successivi.
Da tutte le valli i valleriani, con l’effigie di S. Marco nel cappello e col Crocefisso sul petto, erano scesi minacciosi fino alle porte della città e presso Longuelo, alla confluenza tra le attuali Strada Vecchia e via San Martino della Pigrizia, vi fu uno scontro a fuoco tra repubblicani-cittadini e pro-veneziani valligiani, questi ultimi ridotti alla sottomissione solo dal pesante intervento delle truppe francesi.
I morti furono una decina: tre di loro esposti per un giorno intero, dalla sera del 30 marzo stesso, in piazza della Legna, accanto all’albero della libertà, fra canti, balli e fiaccolate.
La festa per la vittoria fu ricordata in una stampa che esaltava il coraggio del popolo di Bergamo il quale, “assaltato da turba infame accorsa dalle valli….andò ad incontrarla, la vinse, la disperse”.
Il fatto di Longuelo segnò l’inizio del declino della resistenza delle valli e del territorio contro la Repubblica Giacobina della città; i valdimagnini, Lovere, la Val Cavallina, soprattutto la Val Seriana, con Clusone e Gandino, cedettero progressivamente ai Francesi. Intanto venivano liberati, in aprile, i contadini fatti prigionieri a Longuelo. La dominazione veneta era finita.
La controrivoluzione, sedata dalle truppe francesi, è emblematica del dissisio esistente tra città e campagna verso la Repubblica Bergamasca, determinato dall’irreligiosità della rivoluzione, ma anche da profonde divergenze di cultura, tradizioni, interessi, sentimenti.
Chi era la nuova classe dirigente? Esponenti della borghesia, sostenuta da mercanti sempre più dediti al contrabbando e oppressi dall’aumento delle tasse imposte da Venezia su molti prodotti (lana, seta, pane, vino); una parte della nobiltà, appartenente a famiglie che avevano acquisito il titolo tra la fine del 600 ed il 700, interessata allo sviluppo degli interessi economici legati al settore della seta; infine artigiani.
I religiosi vennero costretti a donare alla Municipalità metà degli argenti presenti nelle chiese, nei monasteri e negli oratori. Vennero quasi totalmente soppressi i monasteri e i conventi (in città ricordiamo S. Marta, S. Benedetto, Matris Domini, S. Leonardo..); i beni di S. Paolo d’Argon e Astino passarono nel 1797 all’Ospedale, quelli di Pontida finirono l’anno successivo ai privati. Seguì la cancellazione delle confraternite e delle processioni e l’introduzione del divorzio, atti che contribuirono a rendere insanabile il conflitto tra le popolazioni e l’autorità politica (e che si accrebbe durante il periodo napoleonico con la coscrizione obbligatoria).
In questo momento di grande cambiamento nacquero i ‘circoli culturali’, formati da esponenti della borghesia e della nobiltà ‘illuminata’, che si ritrovavano nei caffè a discutere i valori rivoluzionari; contemporaneamente, venne pubblicato (1797) il primo giornale locale, “Il patriota bergamasco”, seguito da “Il giornale degli Uomini Liberi” e, l’anno seguente, da “Il Foglio Periodico del Dipartimento del Serio”.
Attraverso i confini territoriali (Passo San Marco) ci fu una vera e propria circolazione di nuove idee (ad es. la vendita dei libri provenienti dalla Francia operata dagli editori bergamaschi massoni come l’Ambrosioni e l’Antoine), particolarmente sensibili al tema della progressiva alfabetizzazione culturale delle masse, pubblicando a tale scopo l’almanacco popolare (brevi articoli su vari argomenti), che ebbe un ruolo di primo piano nell’educazione delle classi meno agiate.
In pieno periodo repubblicano il Piano generale di pubblica istruzione (di cui era componente anche Lorenzo Mascheroni) produsse una riforma anche nella scuola, sostenendo che l’istruzione pubblica fosse la base di tutte le democrazie.
Da qui l’esigenza di istituire, con le lezioni caritatevoli, scuole elementari serali e festive per i ceti più bassi (sostenute dagli istituti religiosi e dalla Società Industriale Bergamasca per quanto riguardava la parte laica).
Questo complesso di elementi politici, sociali e culturali, impensabili solo fino a pochi anni prima, permise al musicista bergamasco Gaetano Donizetti, figlio di semplici tessitori, di essere ammesso alle lezioni di musica tenute da J. S. Mayer, maestro di cappella.
Con la Repubblica venne proclamato il libero esercizio delle arti e dei mestieri, si abolirono alcuni dazi e si stabilirono nuove imposte per la lavorazione della seta, sulla quale era basata l’intera economia locale.
Con la promulgazione nel luglio del 1797 della costituzione della prima Repubblica Cisalpina terminava l’esperienza di autogoverno cittadino (Repubblica Bergamasca) e Bergamo, in qualità di capoluogo del Dipartimento del Serio, veniva a dipendere dal potere centrale milanese. Con la Rivoluzione Bergamasca si erano poste comunque le premesse, sia sul piano ideologico sia su quello politico-istituzionale, delle successive lotte per l’indipendenza e per l’unificazione nazionale.
Pochi anni dopo, nel periodo napoleonico, le gravi congiunture politiche ed economiche, il continuo regime di guerra, il peso della tassazione e l’introduzione nel 1802 della coscrizione (leva) obbligatoria, fecero precipitare il conflitto tra le popolazioni e l’autorità politica, costringendo tanti uomini alla diserzione, alla clandestinità e al Brigantaggio: e non si può parlare di briganti senza pensare all’inafferrabile Vincenzo Pacchiana, detto Pacì Paciana.
Note
(1) G. Battista Locatelli Zuccala, Memorie storiche di Bergamo dal 1796 al 1813.
(2) Il 12 marzo 1797, settecento persone, tra nobili e non, firmarono la loro adesione per la cacciata del conte Ottolini. M. Gelfi, Tra la fine dell’età moderna e l’inizio dell’età contemporanea: la Repubblica bergamasca, in “Atti dell’Ateneo di scienze, lettere e arti di Bergamo”, 1996-1997, vol. LX.
(3) La Rivoluzione bergamasca si ispirava ai principi della Rivoluzione francese. La costituzione (approvata il 24 marzo), ossia la legge fondamentale dello Stato, scritta dai bergamaschi giacobini, si rifaceva ai valori espressi dalla Dichiarazione dei Diritti Universali (1789), con cui i francesi riconoscevano la libertà di parola e di religione e l’uguaglianza degli uomini di fronte alla legge, invitando tutti gli uomini ad una fraternità universale. Dopo aver esautorato l’ultimo rettore veneto Alessandro Ottolini, un gruppo di giacobini della città di Bergamo e proclamata la Repubblica Bergamasca il 13 marzo 1797, “istituisce un governo provvisorio, composto da una municipalità da 24 membri. I primi atti della nuova amministrazione riguardano la modifica dell’assetto amministrativo ed economico dell’ex provincia veneta, la ripartizione del territorio in 14 cantoni, l’abolizione dei privilegi giurisdizionali e fiscali, la costituzione di comitati per alcune materie (polizia, finanza, sicurezza, sanità, vettovaglie, commercio, milizie). Nei mesi successivi viene reclutata una guardia repubblicana e si estende il controllo politico al territorio orobico” (Archivio di Stato di Bergamo – DIPARTIMENTO DEL SERIO 1797-1814 Introduzione generale al fondo archivistico).
(4) Usato come simbolo di libertà durante la Rivoluzione francese, simbolo pagano adottato come segno di rinascita, di vita nuova e di felicità, l’albero della libertà era un lungo palo ricavato da un grande albero; alla sua sommità veniva posto un berretto frigio (a cono floscio) con la punta ricadente in avanti, di origine anatolica (Asia Minore) utilizzato dagli schiavi liberati dell’antica Roma (gli antichi Frigi).
Bruno Brolis, Tullio Pizzigalli (coordinatori), Corso di aggiornamento anno 2000. La Repubblica bergamasca 1797.
Centro Studi Valle Imagna – Antonio Martinelli, Bergamo. Itinerari nella Storia della città e del suo territorio dalle origini al ventesimo secolo. Bergamo, Grafica Monti, aprile 2014.
Cornello dei Tasso è noto per aver legato il suo nome a quello dell’antica famiglia dei Tasso, conosciuta non solo per aver dato i natali ai due grandi letterati Bernardo e suo figlio Torquato ma anche per aver fondato il sistema postale, instaurando una fitta rete di collegamenti tra centinaia di città europee e dando al borgo un ruolo di rilievo rafforzato dalla fama del casato locale.
Ma la fama del borgo è dovuta anche all’importante ruolo di mercato rivestito lungo il percorso della Via Mercatorum, la sola che fino alla fine del Cinquecento permise di raggiungere le terre d’Oltralpe, facendo di Cornello la sede di floridi commerci.
Prima della costruzione della Strada Priula, che correva diritta sul fondovalle, Cornello era un luogo di passaggio obbligato, fungendo da cerniera fra la media e l’alta Valle Brembana situata ‘Oltre la Goggia’: la rupe su cui si trovava formava una stretta gola sul fiume Brembo impedendo il transito di uomini e merci ed obbligando a salire sui suoi ripidi dirupi discendendo dalla parte opposta.
Superato l’erta rupe del Cornello, i mercanti potevano scendere ripidamente alla contrada di Orbrembo, proseguire fino al passo San Marco e raggiungere la Valtellina – un tempo terra svizzera del Canton dei Grigioni – ed i valichi diretti verso l’Europa centrale.
Questa necessaria deviazione fece del borgo il crocevia di mercanti provenienti da tutta Europa.
La realizzazione a fondovalle di un tratto della Priula, garantì un percorso lineare ed agevole, permettendo di evitare la salita fino all’abitato.
Fino a quando la costruzione della Priula non lo escluse dai grandi traffici, il borgo di Cornello continuò ad essere sede di un importante mercato (secoli XV e XVI) (3), oltre che fulcro nel sistema viario postale che coinvolgeva l’intera Val Brembana, essendo stazione postale e di transito posta su lunghi percorsi: ed è proprio nel Quattro-Cinquecento, in piena dominazione Veneta, che si riscontra il momento di maggior sviluppo del borgo (come si evince del resto dalla ceramica rinvenuta sotto le rovine della più antica dimora dei Tasso e dagli affreschi quattro e cinquecenteschi conservati nella chiesa).
In seguito alla realizzazione della Priula, dopo tre secoli di fiorente attività, escluso dai grandi traffici che si svolgevano lungo la viabilità maggiore della valle il borgo perse le funzioni di luogo di sosta. Insieme a Cornello venne trascinato nell’oblio anche il borgo di Oneta, ad esso collegato lungo la Mercatorum, e i paesi in quota vennero lasciati in mano ai mercanti locali.
Divenuto marginale nel nuovo assetto viario, il centro perse attrattiva e vitalità e si innestò un processo di decadimento e parziale abbandono, che tuttavia permise la conservazione dell’originario tessuto urbanistico, restaurato nella seconda metà del Novecento.
E’ appunto grazie a tale requisito che Cornello ha potuto essere inserito nella lista dei “Borghi più belli d’Italia” (4).
IL BORGO DI CORNELLO
Stretto nell’esiguo spazio tra lo strapiombo sul fiume e la cima del monte, il borgo crebbe compatto ed estremamente raccolto, anche grazie alla disposizione a ferro di cavallo delle case, costruite assecondando le ondulazioni del terreno e formando un tutt’uno con il sistema viario.
Oltre ai condizionamenti naturali la struttura dell’abitato di Cornello è stata plasmata dalle attività che ne hanno caratterizzato la storia, data la duplice funzione di stazione postale e di mercato: la necessità di controllare e difendere le attività locali ha impresso al luogo il carattere di abitato fortificato. Una difesa rafforzata anche dalla presenza di un certo numero di armati, elencati a fine Cinquecento in 6 soldati archibugieri, 4 picchieri, 1 moschettiere insieme a 5 galeotti.
UNA “VISITA GUIDATA” A CORNELLO DEI TASSO
Il borgo è raggiungibile dopo aver percorso i pochi tornanti che lo separano dal fondovalle, seguendo le indicazioni attigue al piccolo parcheggio da cui si diparte la mulattiera lastricata che dolcemente introduce all’ingresso settentrionale.
Ma ancor più bucolico è imboccare la via Mercatorum all’uscita di Oneta, raggiungendo Cornello attraverso suggestive contrade immerse in ampie e quiete distese prative.
Il percorso ricalca le orme degli antichi viandanti, accompagnato dal fragore del Brembo che serpeggia gonfio e spumeggiante ai piedi della rupe del Cornello.
La solida via acciottolata dalle pietre levigate dall’uso, ben radicate, ben connesse l’una all’altra, è collaudata da innumerevoli inverni di neve: larga quanto basta per una cavalcatura con la sua soma, ripida quanto occorre per procedere senza affanno a passo sicuro, la breve mulattiera ha salvato Cornello dalla penetrazione dell’automobile: ed è incredibile come da subito s’intuisca l’armonia del luogo e la cura che gli abitanti dedicano al loro piccolo, prezioso sito.
Finalmente, in vista del suggestivo porticato meridionale, preceduto dai ruderi della più antica dimora dei Tasso, è possibile saggiare l’emozione di ripercorrere l’antica “Via dei Trafficanti”, lungo la quale trovavano riparo le carovane dei mercanti e dei corrieri postali.
Osservandolo a distanza, è evidente quanto Cornello sia rimasto quale appare nelle antiche stampe: un borgo alpestre dalla struttura compatta e dal carattere fortificato, abbarbicato su un declivio affacciato sul Brembo, lungo il quale si sviluppano tre file parallele di case in pietra grigia, ben adattate l’una all’altra come i sassi della mulattiera e disposte dal basso verso l’alto assecondando le pieghe del terreno: una sequenza che culmina nella bella e caratteristica chiesa romanica col suo campanile pendente, al centro di una magnifica e silenziosa radura.
Nella parte più bassa, rivolta verso valle e a strapiombo sul Brembo, corre ininterrotta una schiera compatta di abitazioni che evidenziano l’originaria caratteristica di fortificazione del borgo.
Parallela all’ardita schiera delle abitazioni corre la strada porticata, lunga un centinaio di metri e splendidamente mantenuta dai pochi abitanti rimasti.
Il portico riceve luce grazie alle arcate a tutto sesto dei cortili, contornate da possenti pietre di macigno scuro, tufo e puddinga.
Questa “galleria” dove il tempo sembra essersi fermato, è delimitata alle sue estremità dai due archi monumentali di accesso, originariamente affiancati da due possenti torri di guardia, di cui si è mantenuta solo quella posta a nord del borgo.
Nelle incisioni ottocentesche, la torre meridionale è raffigurata accanto alla primitiva dimora dei Tasso, di cui oggi restano i ruderi: un alto edificio fortificato distribuito su più terrazzamenti a strapiombo sul fiume, protetto da uno spesso muro di cinta e con poche aperture verso la valle.
La primitiva dimora dei Tasso, leggermente discosta dal nucleo compatto del borgo, risale all’epoca feudale e potrebbe aver ospitato i primi esponenti della famiglia Tasso, mandati in Valle Brembana in qualità di vassalli di feudatari di Almenno.
La posizione decentrata e rivolta a valle dell’antica dimora dei Tasso, permetteva di controllare le più importanti strade di accesso al paese: quella di fondovalle proveniente da S. Giovanni Bianco e quella da Dossena (da cui si raggiungeva la città) nonchè la strada a mezzacosta che attraversando Oneta portava in Valsassina, dall’altra parte della giogaia.
Nel contempo, la vicinanza con le aree commerciali connesse al servizio postale e di mercato, assicurava il controllo su tutte le attività economiche che si svolgevano nel borgo; un borgo che negli anni delle lotte tra Guelfi e Ghibellini, forse costituiva il centro di potere e di controllo territoriale della famiglia Tasso, che ne avrebbe fatto un centro difensivo: numerosi avanzi di antichi fortilizi in Val Brembana testimoniano le lotte intestine condotte con saccheggi e rapine, ai tempi in cui Cornello era spiccatamente Guelfo(5).
Al riparo del porticato si allineano le aperture delle antiche botteghe che costituivano il cuore commerciale del paese, con alloggi, osterie, depositi di mercanzie e di posta, e con stalle e scuderie in cui si provvedeva al cambio dei cavalli. In ogni ambiente, dietro ogni ruvido portone segnato dal tempo, si intrecciano le mille vicende accadute nel borgo, di cui pare di sentire ancora l’eco.
Lasciamo il livello inferiore dell’abitato per dirigerci nel cuore del borgo, approfittando dei suggestivi camminamenti interni: uno degli artifici adottati per permettere agli abitanti di comunicare tra loro senza avere contatti con l’esterno: i vani interrati o posti lungo la via porticata comunicavano con le sovrastanti parti abitative tramite botole ed esistevano camminamenti sotterranei e trasversali che mettevano in comunicazione abitazioni anche poste su diversi livelli.
Il secondo livello dell’abitato è posto a metà tra la via porticata e la chiesa; è formato da una caratteristica schiera di case, strette l’una all’altra ed affacciate su una contrada vivace ed animata, dove trova posto l’ufficio turistico e filatelico nonché l’antica Trattoria Camozzi.
Sulla via sterrata, si affacciano pittoresche logge in legno, che insieme agli attrezzi agricoli appesi ai muri riportano ad un mondo semplice e intimamente legato ai cicli naturali, quando sui travetti si essiccavano i prodotti agricoli e boschivi, e le arcatelle erano stipate di fieno o di derrate alimentari.
Molto suggestiva la visita serale al borgo, comprensiva di pernottamento presso la Trattoria Camozzi, dove assaggiare prelibati piatti tipici della tradizione locale, ed in primis eccellenti salumi e casoncelli, seguiti da succulenti brasati annaffiati da buon vino.
La contrada si collega al sagrato della chiesa, che un tempo doveva ospitare il piccolo cimitero del paese.
Dall’altro lato, la bella contrada si collega al gruppo delle case “signorili” che racchiudono il borgo a meridione, tra cui spicca quella della famiglia Bordogna, con i due stemmi di affrescati sulla facciata. Le linee architettoniche indicano il prestigio dei Bordogna, una delle famiglie più importanti del paese.
Vi sono poi naturalmente gli edifici appartenuti al casato dei Tasso: proprio alla testata del borgo vi è il palazzo di famiglia, mentre i due edifici attigui sono allestiti a Museo dal 1991.
Il palazzo dei “Tasso del Cornello” è riconoscibile dal grande stemma dipinto. Al suo interno conserva i fregi dipinti, gli affreschi e un soffitto a cassettoni. In alcune stanze stanze è presente una raccolta di strumenti e oggetti di vita contadina oltre al caminetto con lo stemma di famiglia. Nel palazzo tornò a vivere i suoi ultimi anni Davide Tasso (uno dei quattro fratelli che subentrarono agli zii nella gestione delle linee postali imperiali), dopo aver avviato la posta imperiale a Venezia (6).
Accanto, il Museo dei Tasso e della Storia postale è distribuito in due diversi edifici: uno raccoglie documenti relativi ai Tasso del Cornello e delle contrade vicine e più in generale alla storia del borgo; l’altro offre alla visione del pubblico il vasto repertorio documentario sul casato dei Tasso nella specifica attività postale con le vicende che si svolsero a dimensione europea dalla fine del secolo XIII alla metà del secolo XIX: in tutto circa 300 documenti, tra lettere, mappe dei percorsi postali, manifesti e libri antichi. Ad ingresso gratuito, il Museo è aperto tutto l’anno dal mercoledì alla domenica.
Saliamo ora al terzo ed ultimo livello, caratterizzato dalla presenza della chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano, protetta ad ovest dal monte. La divisione a livelli dell’abitato permise anche la caratterizzazione dei tre aspetti principali della vita sociale di Cornello: quello commerciale, quello civile e quello religioso.
La chiesa (XII-XIII secolo), con il suo campanile pendente rappresenta uno degli elementi di maggiore interesse romanico in Valle Brembana. Fu creata, sostenuta e gestita dalla famiglia Tasso di Camerata, la cui presenza è attestata dal loro altare privato, dai due affreschi dedicati a Santa Caterina D’Alessandria (patrona dei corrieri postali), dalle dedicazioni degli affreschi e dal loro stemma primitivo, con il corno postale e il tasso, che compare sulla cornice della pala con la Crocifissione, nella prima campata a sinistra.
La chiesa era inoltre collegata alla via meridionale di accesso al paese mediante un un sottopasso a gradoni (ora chiuso), intuibile dalle tracce di un arco leggibile nella sezione inferiore della casa che la fronteggia (oltre la piazza).
LA CHIESA ROMANICA DEDICATA AI SANTI CORNELIO E CIPRIANO
Giunti alla sommità del borgo, si raggiunge la piazzetta principale con la chiesetta romanica a navata unica, anticipata dal sagrato che un tempo fungeva probabilmente da cimitero e completata dal suggestivo campanile pendente, alleggerito da quattro aperture a bifora, ognuna con colonnina centrale. La copertura a piode è tipicamente montana.
La facciata, rivolta a mezzogiorno, è semplice ed ha un impianto in pietra squadrata. Il bel portale venne aperto in sostituzione di quello laterale tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, epoca a cui risalgono anche le finestrelle dalle cornici trilobate in facciata e sul lato nord.
Così come oggi appare, la chiesa è quasi certamente il risultato della radicale trasformazione di un precedente edificio che doveva esistere già intorno ai secoli XII-XIII, e di cui sono rimaste poche tracce. Venne notevolmente trasformata, probabilmente anche nell’impianto, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, grazie all’importanza che Cornello aveva assunto dal punto di vista economico come via di passaggio per l’Oltralpe. E’ a questo periodo infatti che risalgono gli affreschi, alcuni dei quali databili al 1475.
All’interno, la navata è divisa in tre campate da alti archi a sesto acuto, coperta da travature lignee; le pareti interne sono pressoché interamente affrescate.
Ritroviamo i Santi Cornelio e Cipriano, patroni della chiesa, nell’affresco dell’abside, concepito come un grande polittico: una Madonna in trono e santi, dipinti in eleganti proporzioni di linee, forme e colori.
Sulle pareti laterali, un variopinto ciclo di affreschi realizzato tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, presenta scene della vita di Cristo e numerosi santi dalla spiritualità semplice ed umile, accanto a soggetti che riproducono esempi tipici di vita popolare, accostati a personaggi in abbigliamento sfarzoso.
Vengono così riproposte le figure legate al borgo, animato da una maggioranza di contadini e di piccoli artigiani, così come da alcune famiglie di rango elevato: un piccolo spaccato della vita sociale ed artistica della Valle Brembana.
Questo ciclo, per la complessità dei temi e il notevole gusto stilistico, è considerato uno dei più pregevoli tra quanti adornano le chiese della Valle, ed avvalora l’ipotesi che tra gli esecutori vi siano i Baschenis di Averara.
Fra i soggetti religiosi, risultano di particolare interesse le figure di S. Agata, S. Stefano, S. Giorgio, che rimandano ad età paleocristiana e longobarda: un dato curioso ma del tutto insufficiente a ricondurre l’origine del borgo fortificato all’altomedioevo.
Strettamente connessa alla vita locale e di notevole valore storico è la figura di S. Eligio (590-660), orafo e cesellatore vissuto presso la corte merovingia. Il Santo, protettore dei maniscalchi, è rappresentato nell’atto di ferrare un cavallo sull’uscio di una bottega nella quale fanno bella mostra tutti gli strumenti del mestiere (incudine, chiodi, tenaglie): un chiaro riferimento ad ambienti, costumi ed attrezzi da lavoro dell’epoca.
Vi è inoltre una pregevole Adorazione dei magi ed una Crocifissione conservatasi solo in parte, mentre sono ormai scomparsi i lacerti degli affreschi che affiancavano il portone, raffiguranti San Cristoforo (diffuso e venerato nelle vallate alpine) e Sant’Antonio: figure che ricorrono anche nel vicino borgo di Oneta, dove un forzuto San Cristoforo che guada i fiumi con Gesù Bambino sulle spalle, è raffigurato sul porticato della chiesa del Carmine, fatta costruire intorno al 1473 dalla famiglia Grataroli, anch’essa in rapporti con Venezia.
S. Cristoforo è infatti generalmente dipinto sulle facciate delle chiese, messo lì a protezione dei viandanti della Via Mercatorum. Ed anche noi, come gli antichi viandanti proseguiamo il nostro viaggio incamminandoci lungo un sentiero che conduce alla borgata di Bretto.
DAL CORNELLO ALLA CONTRADA DI BRETTO
Perchè salire a Bretto? Perchè da lassù si può godere di un’ampia vista panoramica e perché la borgata è legata a quella di un ramo della famiglia Tasso: i Tasso di Bretto.
Questo ramo dei Tasso vi si stabilì nella prima metà del Trecento, staccandosi dal ceppo originario dei Tasso del Cornello e dando origine a una dinastia che fu coinvolta nella gestione dei collegamenti postali per conto di Venezia, protrattasi fino alla prima metà dell’Ottocento. Fra costoro, Giovanni Battista acquistò il Palazzo di Comonte, nei pressi di Seriate, che fu adottato come residenza principale della femiglia.
Il minuscolo borgo, suddiviso in due contrade, è circondato da prati e boschi al cui centro si trova la chiesa di San Ludovico di Tolosa, concessa in juspatronato alla famiglia Tasso.
Segni tangibili della presenza dei Tasso in questo luogo, sono anche il palazzo signorile all’ingresso di Bretto alto, arricchito da alcuni affreschi tra i quali compare lo stemma dei Tasso…
…nonchè l’antico palazzo Tasso nella contrada di Bretto basso, in cui è ancora visibile lo stemma del casato al centro della facciata principale.
Gli edifici in precarie condizioni che si affacciano sulla piazzetta antistante il palazzo, erano un tempo pertinenze dell’abitazione padronale.
Nel Settecento i Tasso del Bretto acquisirono anche il titolo nobiliare di conti del Monte Tasso, attraverso l’infeudazione dei loro beni in questa località. La fine del secolo pose fine alla presenza della famiglia a Bretto, in quanto le ultime discendenti del ramo – Maria Teresa Tasso e Livia Maria Tasso – vendettero tutte le proprietà che possedevano nel borgo e si stabilirono definitivamente a Bergamo.
Volendo proseguire, per gli amanti del trekking è possibile imboccare un sentiero, che da Bretto conduce alla minuscola contrada di Pianca, abbarbicata sotto le nude rocce del Concervo, oppure piegare per Oneta concludendo il verdeggiante giro ad anello.
In entrambi i casi, sarà un’ottima occasione per godere degli albori di primavera.
DUE PAROLE SUL TASSO DEL CORNELLO E LE POSTE
Il Cinquecento è il secolo dello sviluppo dei commerci a largo raggio, che intensificano gli scambi e le comunicazioni fra le grandi città, le corti europee e il Levante.
Il commercio dei mercanti veneziani avveniva nei grandi mercati e nelle fiere d’Europa, dove essi portavano le merci che acquistavano in Oriente, molto ricercate da tutti i popoli europei. In questi luoghi non poteva mancare la presenza dei corrieri, che veicolavano velocemente le notizie di carattere economico, riguardanti i prezzi, le merci, la presenza dei mercanti, essenziali per il buon risultato degli scambi.
Tra i corrieri che esercitavano questa attività, si distinsero alcuni che provenivano dal bergamasco, in particolare dalla Val Brembana e tra questi alcuni della famiglia Tasso del Cornello, che portarono a Venezia la loro esperienza già acquisita in passato e dove i vari rami del casato svolsero dapprima un ruolo importante nella fondazione e nella gestione della Compagnia dei Corrieri veneti (nata nel 1306), la società commerciale composta da 32 soci, quasi tutti bergamaschi, che gestì i collegamenti postali per conto della Serenissima fino alla fine della Repubblica.
In breve tempo, la loro abilità nel trasportare corrispondenza non fece che accrescere la loro fama, tanto che dopo il 1460 alcuni esponenti della famiglia furono chiamati a organizzare le Poste pontificie, incarico che ricoprirono fino al 1539.
Nel frattempo altri Tasso, e in particolare i fratelli Francesco e Janetto, ottenevano i primi appalti per comunicazioni postali nel Tirolo, ad opera di Massimiliano I d’Asburgo, incarichi poi confermati e ufficializzati nei primi anni del Cinquecento dal figlio Filippo il Bello e dal nipote, il futuro imperatore Carlo V, con una serie di trattati postali.
Fu l’inizio della grande epopea che vide questi intraprendenti personaggi, originari della montagna bergamasca, ricoprire per secoli l’incarico di mastri generali delle Poste imperiali, rappresentando una delle prime imprese multinazionali europee.
Con tale ruolo i Tasso crearono una fitta rete di collegamenti tra centinaia di città europee, dando vita ad un’impresa – un vero e proprio monopolio del servizio postale – che in breve raggiunse i vertici del potere finanziario, garantendo ai suoi esponenti onori, privilegi e blasoni.
Nel Seicento il ramo tedesco della famiglia, noto con il nome di Thurn und Taxis, ottenne dagli imperatori il titolo principesco.
Il tutto partendo da questo piccolo borgo montano, splendidamente sospeso tra natura e storia.
COME ARRIVARE
PER CORNELLO DEI TASSO Per chi arriva con l’autostrada A4, si esce a Dalmine proseguendo poi sulla Statale in direzione di Villa d’Alme’ – Valle Brembana, si attraversano Zogno, San Pellegrino Terme, San Giovanni Bianco. Dopo circa 35 Km a Camerata Tasso si lascia la statale per deviare a sinistra verso Cornello dei Tasso e dopo un paio di tornanti si arriva al parcheggio: il paese di Camerata Cornello e’ raggiungibile a piedi dopo 5 minuti di comoda passeggiata.
PER BRETTO Vi si accede dalla comoda strada asfaltata che da Camerata Cornello conduce alla Brembella, dopo circa 3 km bivio a sx per il Borgo del Bretto, a pochi metri da questo bivio la strada si dirama sulle due contrade, Bretto alto e Bretto Basso, distanziati fra loro da poche centinaia di metri.
Note
(1) Camerata è citata per la prima volta come Camarata in una pergamena conservata all’Archivio vescovile della Curia di Bergamo datata al 9 gennaio 1181, benchè di Camarata non vi sia menzione negli Statuti di Bergamo del 1331. Solo negli statuti del 1353 si ricorda un comune “de S.ta Maria de Camerata”, cui spettava insieme ad altri centri la manutenzione della strada che dal ponte della Morla conduceva in Val Brembana. Queste denominazioni sicuramente identificano l’attuale comune di Camerata Cornello (P. Marina De Marchi, Antonio Zavaglia, Il caso di Cornello del Tasso in Val Brembana (Bergamo).
(2) Documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Bergamo e la Parrocchia di Camerata Cornello comprovano che la famiglia Tasso era originaria del Cornello: il primo esponente, Omodeo (Homodeus de Taxis de Cornello, morto nel 1290), è citato già nel 1251. Secondo un’altra fonte, il primo documento che menzioni la famiglia de Tassi di Camerata risale al 1233; un de’ Taxis è ricordato con il titolo di consul di Cornello e in questa veste pubblica partecipa ad una riunione che stabiliva le modalità di verifica di misure e pesi ogni tre anni. Altre fonti riportano che nel 1313 un membro della famiglia Torriani di Milano si rifugiò a Cornello prendendo il cognome de’ Tassi (P. Marina De Marchi, Antonio Zavaglia, Il caso di Cornello del Tasso in Val Brembana (Bergamo).
(3) La presenza del mercato a Cornello è fatta risalire a un’età precedente al 1430 (attribuita a Cornello da Pandolfo Malatesta, signore di Bergamo, e ribadita dai Veneziani nel 1451, allo scopo di riattivare l’attività economica dopo gli scontri tra la repubblica di Venezia e i Visconti di Milano (B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, Bergamo 1960, vol. 3, pp. 17, 49, 89). Nello Statuto della Val Brembana si legge che la funzione di mercato viene attribuita a Cornello da Pandolfo Malatesta (signore di Bergamo tra il 1409 e il 1418), come atto di ostilità contro altri comuni della valle, oltre la Goggia, protetta dai Visconti. Tale funzione viene ribadita dai Veneziani a favore di Cornello nel 1451, allo scopo di riattivare l’attività economica: nel 1439, a seguito degli scontri tra la repubblica di Venezia e i Visconti di Milano il paese avversario di S.Giovanni Bianco aveva infatti avanzato la richiesta di svolgere questa attività.
(4) Il borgo è formalmente vincolato con D.M. 2 aprile 1965, ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497, che dichiara il “notevole interesse pubblico” del vecchio nucleo abitato di Cornello del Tasso.
(5) In Val Brembana centro di simpatie spiccatamente guelfe erano Giovanni Bianco e i paesi limitrofi, come la parte alta di Zogno, Poscante, Endenna, Camerata, Ponteranica e Sorisole; erano invece ghibelline la parte bassa di Zogno, Stabello, Sedrina, Villa d’Almè e Brembilla, la cui giurisdizione comprendeva un’area molto vasta che includeva gli attuali comuni di Brembilla, Gerosa, Blello, ed anche Ubiale Clanezzo Berbenno, Strozza e Capizzone).
(6) Tarcisio Bottani, responsabile dei servizi educativi del Museo dei Tasso e della Storia Postale).
Alcuni riferimenti
P. Marina De Marchi, Antonio Zavaglia, Il caso di Cornello del Tasso in Val Brembana (Bergamo).
Sergio Stocchi, Sulle vie dei Trafficanti – Un itinerario inedito in Val Brembana. In: L’Umana Avventura, Jaka Book.