Ricordi di Città Alta dalla penna di Anna Rosa Galbiati: “I poie della sciura Cassotti” e “Ol Pipelet”

Quarta puntata (per la puntata precedente, clicca qui)

I poie della sciura Cassotti

Nel caseggiato tetro e umido di Via Rocca numero 8 abitava una dolce e tenera vecchietta, la sciura Cassotti.

Piccola e fragile, con un viso angelico incorniciato da capelli grigi e crespi, tutti i pomeriggi, verso le tre, usciva sulla via a far prendere aria alle sue tre “poie”, che teneva in casa in una stia di legno.

Metteva la sua “scagnina” all’ombra, presso “ol pissadùr”, legava con una lunga corda le zampe delle galline al suo polso e le lasciava andare, libere, a becchettare qua e là.

Tenendole d’occhio, con gli occhiali appoggiati sulla punta del naso, lavorava a maglia: faceva solette per calze, che poi vendeva.

Le galline della sciura Cassotti erano degli esemplari unici e buffissimi: avevano il piumaggio solo sul collo e sul capino, il resto era oscenamente nudo e bitorzoluto. Facevano impressione, povere bestie, sembrava fossero state appena spennate, pronte da cucinare in brodo. Vivendo quasi sempre al chiuso, avevano, senza dubbio, problemi di… penne.

Le tre pollastre, incuranti ed ignare del loro terribile aspetto, chiocciando tutte contente, si muovevano sull’acciottolato rovistando tra i sassi con le loro zampe unghiate e beccando non si sa cosa, perché non c’era un filo d’erba, solo sassi. Spesso beccavano anche il muro del cortile delle suore e ne mangiavano l’intonaco. Il loro più grande sollazzo era però quello di grattarsi il sedere sui ruvidi sassi dell’acciottolato, per calmare il prurito che le infastidiva.

La sciura Cassotti curava con tenerezza le sue tre creature, come un’affettuosa nonnina, e le chiamava per nome: Pinù, Bice e Carmelina.

Da Tito Terzi

D’inverno, la sciura Cassotti scendeva solo quando c’era bel sole, lasciando zampettare le sue gallinelle attaccate alla corda, come se fossero cagnolini. Quando si allontanavano un po’ troppo, strattonando la corda per andare più avanti, la sciura Cassotti le chiamava per nome e quelle, traballanti e ubbidienti, le correvano vicino. Erano furbe, comunque, perché si aspettavano una ricompensa: la sciura Cassotti prendeva infatti dalle tasche dei pezzettini di pane e glieli imbeccava, come fossero zuccherini.

Quando faceva freddo, copriva le loro nudità con delle mutandine di lana fatte da lei su misura. Al riguardo mi spiegò che, se il sedere delle galline si raffredda, non fanno più le uova. Non era possibile trattenere il riso, guardando quelle galline con le braghette a righe nere, grigie, beige! I turisti che salivano alla Rocca, si fermavano sorpresi e divertiti a fotografare o a filmare quelle simpatiche pollastre.

Un pomeriggio, la sciura Cassotti mi disse che si, le galline facevano ridere e non erano belle, però erano speciali, perché nascondevano un tesoro… Erano galline dalle uova d’oro! Io, nella mia ingenuità d’infante, le credetti alla lettera, come credevo alle fiabe.

Curiosissima, un giorno le chiesi se mi faceva vedere un uovo d’oro, poiché non ne avevo mai visti. Lei, divertita, mi sorrise e disse: “Dopo, vieni su con me, che te ne farò vedere uno.”

Quando il campanile di San Pancrazio suonò le sei, la sciura Cassotti si alzò e chiamò le sue poie. Queste accorsero ubbidienti, si accovacciarono ai suoi piedi e si lasciarono prendere in braccio, senza agitarsi.

lo la seguii, tenendole la “scagnina”, su per le strette e buie scale, che non finivano mai. Alla fine, entrammo in una stanza che sembrava una piazza d’armi.

Da una finestrella, l’unica dell’abbaino, si vedeva di fronte la punta del campanile di San Pancrazio.

Pensai: “Come siamo in alto!”

La sciura Cassotti depose sul pavimento le sue gallinelle, che cominciarono a girellare per la stanza a loro agio, apri la “moscaröla” e tolse un cestinetto di ferro con dentro due uova. Le osservai e delusa le dissi: “Ma, signora Cassotti, sono normali, non sono d’oro!” Con un sorriso accattivante mi guardò e mi rispose: “Te ghét résù, ma per me valgono come l’oro, perché con due uova al giorno io vivo da regina”. Capii perfettamente.

Prima di scendere per tornare dalla nonna, la cara sciura Cassotti mi regalò un uovo, mettendomelo tra le mani. lo lo tenni con cautela, per non romperlo.

La ringraziai con calore, salutai Pinù, Bice e Carmelina, che si facevano i fatti loro, e scesi felice, adagio adagio, perché avevo tra le mani un tesoro.

OL PIPELET

Al numero 6 di via Rocca, in un fosco scantinato, miserevole e maleolente, senza alcuna finestra o pertugio, abitava “ol Pipelet”.

Era un vecchio dalla lunga barba bianca e bianchi capelli, il suo aspetto solenne e ieratico ricordava gli antichi eremiti. Era cieco, ormai, e la sua cecità, isolandolo dal mondo esterno, lo elevava a spirito inaccessibile e inattaccabile.

Non vedeva e non diceva una parola, stava muto, immobile e assorto in chissà quali pensieri. Certamente, dietro quegli occhi spenti, balenavano lumi di immagini vive e le sue labbra ora mute avevano un tempo sussurrato parole d’amore e di passione.

Nessuno sapeva nulla di lui, da dove venisse, come si chiamasse in realtà, quali sofferte esperienze avesse vissuto. A tutti sembrava fosse sempre esistito, come i vecchi muri delle case di Città Alta. Era il vecchio Pipelet.

Tutte le mattine, una donna che viveva con lui nel misero tugurio, non so se fosse la moglie o l’amica, una donna dall’aspetto sgraziato lo accompagnava a mendicare, tenendolo sotto braccio fino in Colle Aperto.

Metteva lo sgabello contro il portone della Cittadella, allora sempre chiuso, vi faceva sedere il vecchio Pipelet, gli dava in mano una fisarmonica a soffietto e lo lasciava li fino a mezzogiorno.

La donna, nell’attesa di andare a riprenderlo, si fermava dal Sergì, l’osteria in piazza San Pancrazio, e chiedeva ad ogni avventore “ü càles”, perché aveva sete.

Era un’alcolizzata, che per un bicchiere di vino sopportava i lazzi salaci e scurrili di uomini che si divertivano a farla bere per vederla ubriaca.

Il povero Pipelet, solo, in Colle Aperto, con il cappello per terra, cercava di attirare l’attenzione dei passanti suonando la sua fisarmonica.

Allargando e stringendo il soffietto, emetteva sempre le solite note stridenti: “frin, frin, frin”, sperando di sentire, prima o poi, il tintinnio di qualche monetina nel suo cappello vuoto. Altero e imperturbabile, non dava segni di stanchezza o noia, perché lui viveva altrove. Il Pipelet non era un barbone qualunque, era un asceta in ritiro spirituale, un santone che non si lamentava mai e nascondeva la sofferenza in un dignitoso e altero distacco.

Un giorno, scendendo da via Rocca per andare a comprare il pane dai Nessi, vidi la sagoma del Pipelet, tutto solo, che saliva a tentoni e con fatica la via, tastando il muro, per riconoscere il suo portone di casa.

Mi arrestai turbata per l’improvviso incontro e, dopo un attimo di esitazione, corsi verso di lui e gli chiesi: “Signor Pipelet, vuole che l’accompagni fino al portone?”

“Grazie, grazie”, sussurrò con un filo di voce, e mi afferrò la mano. Il suo portone non era molto distante, lo accompagnai fino alla soglia e gli feci fare il gradino.

Prima di staccarsi da me, mise l’altra mano nella tasca, tolse una monetina e la mise nella mia mano, ripetendo ancora: “Grazie, grazie”

Io, colta di sorpresa, non ebbi il tempo di rifiutare e gli risposi con un: “Buon giorno, grazie”.

Mentre camminavo, però, sentivo in me imbarazzo e vergogna e mi ripetevo: “Perché ho accettato quella monetina, magari l’unica che aveva ricevuto quel giorno?” Quella monetina mi bruciava tra le mani e nel cuore provavo un gran senso di colpa.

Il mattino seguente, senza dire nulla alla nonna, feci una corsa in Colle Aperto, dove trovai il Pipelet al suo solito posto.

Sollevata nel vederlo, mi misi davanti a lui, ascoltai un po’ la sua nenia sofferente e rimisi la monetina nel suo cappello.

Pipelet, 1948

Lo salutai, ma lui non mi rispose, però a me parve di intravvedere un sorriso sulle sue labbra. Ritornai a casa saltellante, con una piacevole sensazione di leggerezza e di liberazione.

L’anno seguente, quando ritornai in via Rocca, non rividi più il povero Pipelet e nessuno sapeva nulla di lui.

Era scomparso nel nulla, come un colpo di vento.

 

Anna Rosa Galbiati, “Acquarelli Bergamaschi” (Sistema Bibliotecario Urbano – Biblioteca circoscrizionale Gianandrea Gavazzeni, Piazza Mercato delle Scarpe – Città Alta).

Nota

Le immagini sono scelte da me.

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