Camminando lungo l’antico decumano romano ricalcato dal budello di via Colleoni, non si può non restare affascinati dalle facciate dei palazzi e dalle strutture ad arco che un tempo ospitavano le diverse arti del borgo medioevale.
L’arenaria e il selciato accompagnano i turisti lungo tutta la Corsarola, fino all’ampia apertura che lascia respiro al grande abbraccio con Piazza Vecchia.
Alzando gli occhi, oltre a finestre delicatamente adorne di fiori o a piccoli archi soffocati nella pietra, si può notare un’insegna in ferro dorato sporgere lungo la via. E’ l’insegna della Cooperativa di Città Alta – meglio nota come “Circolino” – fortemente voluta dai soci e dal Consiglio di Amministrazione.
Disegnata da Andrea Mandelli – uno dei soci fondatori della Cooperativa – e forgiata in piazza Mercato del Fieno nella fucina del fabbro Scuri, maestro dell’arte sapiente del ferro, campeggia sull’angolo con il vicolo S. Agata dal 1991, a volte turbata dal vento, a volte valorizzata dai raggi del sole.
Il cartiglio ripropone la chiesa di S. Agata vista di lato, con l’abside e il campanile, alternandosi nei colori della ruggine arricchita dalla doratura in oro zecchino apportata nel novembre del 2007.
La composizione rimarca la funzione primaria che la Cooperativa ha voluto portare nel quartiere, quella di ristoro, un luogo dove condividere l’intimità di ogni giorno e mantenere vivo il senso civico di appartenenza.
In realtà il complesso di Sant’Agata si sviluppa lungo una zona planimetrica ben più ampia degli spazi occupati dal Circolino ed è distribuita in tre corpi di fabbrica di ampiezze assai diverse e in un corpo in muratura mista di pietre e mattoni.
La Cooperativa (Circolino) risiede nella parte rivolta a mezzogiorno e ricalca il piano di calpestio dell’antica chiesa di Sant’Agata, la cui origine si perde agli inizi dell’alto medioevo, essendo antecedente all’anno Mille.
Una chiesa, inizialmente di poche anime (citata già nel 908 come “Sancte Agatae de terra vitata”), edificata presso l’antica cinta muraria romana e ben presto divenuta chiesa vicinale (1): presieduta dapprima dall’ordine religioso degli Umiliati, poi dai frati Militi Gaudenti, incaricati di garantire la pace fra le fazioni cittadine e, a partire dal 1357, dai Padri Carmelitani, che la ampliarono nel 1450. Insieme alla sua consacrazione nel 1489, il Vescovo Lorenzo Gabrieli ne ufficializzò l’investitura parrocchiale, considerato che la vicinia contava ormai un congruo numero di abitanti.
Sappiamo che prima dell’arrivo in S. Agata dei Padri Teatini, la chiesa era dotata di un ampio cimitero verso sud (attuale cortile del Circolino) e che custodiva sepolture anche all’interno, come risulta da un atto del 1443.
Nel 1536 (visita pastorale del Vescovo Pietro Lippomano) la chiesa è descritta come piccola e a tre navate, fornita di un altare centrale e due laterali nonché di una cappella con tribuna. Vi ha inoltre sede la scuola del SS. Sacramento. Una trentina d’anni dopo, nel 1575 (visita di Carlo Borromeo) la chiesa è descritta come abbastanza grande ma poco ornata; è dotata di quattro altari, tra cui quello della Vergine Maria e del Corpo di Cristo.
L’arrivo dei Padri Teatini
Nel 1608 i Carmelitani vennero spodestati dai Padri Teatini (qui giunti dopo una breve permanenza iniziata nel 1598 presso la chiesa di S. Michele all’Arco), che vi restarono per quasi duecento anni sino ai tempi delle soppressioni napoleoniche.
Una volta stabiliti nella vicinia di S. Agata, nel 1608 avviarono a valle della chiesa stessa la dispendiosa fabbrica del monastero: un cantiere che durò per anni. Nell’agosto del 1609 la parrocchia fu loro definitivamente assegnata per volontà di papa Paolo V e con il consenso del Vescovo di Bergamo Giovanni Battista Milani, che nel 1590 era stato preposto generale dell’ordine.
Nel 1676 Donato Calvi, nella sua Effemeride, riporta che il monastero comprende 24 celle più una sala, una stanza per la portineria, una per il vestiario, una per la nutrita libreria, una per il refettorio, una per la cantina e una per la cucina, con poco giardino. Con ogni probabilità in quegli anni il monastero aveva già assunto la sua conformazione finale e non avrebbe più subito significative modificazioni fino alla conversione in “casa di forza”.
Venne affidato loro il compito della cura d’anime della parrocchia (fino ad allora retta da padre Lanfredo Maffeis) nonchè quello di confessori dei conventi femminili della città, fatto che non risparmiò ai Teatini l’invidia da parte di altri enti religiosi cittadini.
I Padri presero così ad ampliare ed arricchire la chiesa preesistente, della quale sembra non essere rimasta testimonianza evidente in quanto venne abbattuta nel primo decennio del Settecento dagli stessi Teatini, per poi essere ricostruita nelle forme odierne.
Il rifacimento della chiesa
Nel 1630 la chiesa di S. Agata viene ristrutturata come ex voto per la fine della peste. Nonostante ciò, ben presto la chiesa così “degnamente posseduta” (4) dai Padri Teatini, non più sufficiente a soddisfare le esigenze della vita religiosa della parrocchia viene demolita nel primo decennio del Settecento in favore di una nuova, che verrà costantemente trasformata ed abbellita dall’Ordine nel corso del secolo e che, escluse le superfetazioni e le modifiche dell’Otto e Novecento, è ancor’oggi riconoscibile nella sua quasi totalità.
Vengono demolite le tre navate per ridurle ad una sola; la chiesa ha un’abside semicircolare ed è coperta con una volta a botte che vede l’intervento dall’architetto bergamasco Giovanni Battista Caniana; vi sono poi cinque cappelle laterali, tre a nord e due a sud, laddove in luogo di una cappella si apriva il portale in asse col vicolo d’accesso.
Riguardo i cinque altari, la visita pastorale del Vescovo Redetti del 1740 precisa, oltre all’Altare Maggiore, quello della Beata Vergine del Buon Successo (con la statua portata in fino in piazza Nuova presso le case dei Benaglia), quello di S. Gaetano (fondatore dell’Ordine, festeggiato nel giorno della sua ricorrenza), quello di S. Agata e quello di Sant’Andrea Avelino.
Le fonti dell’epoca la descrivono ben tenuta, molto bella e decorata, con arredi sacri, suppellettili, reliquie nonchè opere pittoriche di Cignaroli, Salmeggia, Lattanzio, Gambara, Bianchi, Quaglio.
Scrive il Pasta che già prima del 1775 la volta della chiesa reca riquadri a fresco raffiguranti la vita e le opere di S. Gaetano da Thiene eseguite dal milanese Salvatore Bianchi. Come pure “alcuni stucchi che ritroviamo nei sott’archi quale quello tra la navata e il presbiterio con l’emblema dl SS. Sacramento, culto che l’ordine teatino promosse con particolare impegno” e di cui era attiva una Scuola, oltre a quella della dottrina cristiana maschile (quella femminile si teneva al Carmine).
La soppressione del monastero e la conversione in “casa di forza”
Alla fine del Settecento però gli echi della Rivoluzione francese e soprattutto l’avvento dell’età napoleonica segnarono il destino della Parrocchia annessa al monastero di S. Agata, soppressa nel novembre nel 1797. Con questo atto si chiuse il lungo arco temporale che aveva visto il complesso monastico occupato dalla sua destinazione originaria.
Strano destino, quello del monastero dedicato alla martire di Catania, che si ritrovò vittima di se stessa, con una condanna da scontare in carcere.
Nel 1799, fra i numerosi edifici sottratti agli ordini regolari, il Direttorio esecutivo della Cisalpina stabilì, per via della notevole estensione del fabbricato, di destinare a carcere l’ex monastero, per collocarvi gli imputati in attesa di giudizio in ottemperanza alla legge 5 fruttidoro anno VI (22 agosto 1798). Legge che, con l’intenzione di porre fine all’indistinta carcerazione dei prigionieri ritenne opportuno distinguere le case di semplice custodia ed arresto degli inquisiti dalle case di detenzione dei condannati (5).
L’ambizioso progetto (presentato nel 1802) di concentrare nell’ex monastero tutte le carceri della citta’, venne affidato all’architetto austriaco Leopoldo Pollack (1751-1806), allievo del Piermarini e autore a Bergamo di altre importanti realizzazioni come il Teatro Sociale (1803-1806) e Villa Agliardi a Sombreno, nonché, appunto, autore del primo progetto organico per la conversione del complesso monastico in casa di forza, nel quale si cimentò in una delle sue ultime elaborazioni sperimentali.
Il progetto prevedeva la costruzione di una parte nuova e un consistente adattamento e restauro della vecchia fabbrica, cui aggiungere un’infermeria e luoghi annessi (i muri colorati in nero sono quelli esistenti mentre i muri in rosso riguardano le parti da costruire ex-novo). Pollack disegnò un edificio che si sviluppava su tre piani principali, rappresentando un modello carcerario ideale in un cui lo spazio a disposizione veniva sfruttato con geometrica razionalità. Erano infatti previsti quartieri separati all’interno del fabbricato, con celle comuni per i condannati, alcune delle quali destinate alle donne di primo arresto, e celle segrete, di cui dodici da costruire ex novo al pianterreno, affacciate sul cortile e destinate agli imputati in attesa di giudizio. Inoltre, durante le ore notturne i condannati sarebbero stati separati per gradi di colpa, essendo stato progettato un dormitorio per i colpevoli di minori infrazioni nonché uno per i condannati a pene di lunga durata o a vita. Apposite guardine avrebbero permesso a custodi e a secondini di sorvegliare accuratamente tutti i prigionieri. La sicurezza dei locali sarebbe stata garantita da muri più solidi, inferriate sulle finestre, doppi serramenti e serrande sulle porte. Nell’intenzione poi di conciliare le finalità deterrenti dell’arresto e della pena con il rispetto umanitario della personalità dei rei, vennero progettati interventi atti a garantire la salubrità e l’igiene dei locali, come la riparazione di latrine, la costruzione di pozzi, cisterne e camini, la creazione di “corsie di disimpegno” cioè di corridoi sufficientemente larghi e ventilati. Inoltre, al fine di garantire l’assistenza sanitaria ai prigionieri malati, il Pollack ideò una tripartizione verticale dell’ex chiesa dei Teatini (mediante l’inserimento di una struttura ad archi e volte a vela) pensando di adibire ad infermeria per gli uomini il piano più elevato e di edificare due ampie celle comuni nei piani inferiori. Anche per le donne sarebbe stata creata un’apposita infermeria (6).
Così come si presentava sulla carta il progetto era ben congegnato nella struttura e funzionalità dei suoi elementi costitutivi. Tuttavia, una volta approvato venne realizzato solo in parte a causa della scarsità dei fondi delle casse dipartimentali. Così nel corso dell’età napoleonica la sua realizzazione poté procedere solo a piccoli lotti, intralciata da difficoltà burocratiche e finanziarie.
Nel frattempo la sovrabbondante popolazione carceraria continuò ad essere sistemata alla meglio nei tre separati edifici di Sant’Agata, di San Francesco e di Piazza Vecchia, che mantennero la loro distinta funzione di casa di custodia, casa d’arresto (e carcere militare) e casa di pena.
Vennero poi eseguiti solo quei piccoli lavori di riattamento ritenuti indispensabili a garantire le minime esigenze di igiene, sicurezza e solidità dei fabbricati, assecondando la logica della maggior convenienza, spesso a discapito del materiale edilizio esistente.
Per adibire gli spazi a penitenziario, a partire dal 1802 nel monastero si susseguirono una serie di modifiche, che interessarono dapprima la sacrestia, poi la chiesa ed infine gli altri locali, dove vennero murate porte e finestre, forgiate e montate pesanti grate in ferro battuto e realizzati muri divisori. Gli ambienti interni, seppure frazionati in seguito alla realizzazione delle celle, conservano gli orizzontamenti originari, costituiti da un ricco campionario di strutture voltate, a botte, a crociera, lunettate.
Quando nel 1814 Bergamo passò alla dominazione Austriaca, l’opera di gestione e manutenzione delle carceri venne affidata all’ufficio del Genio Civile di Bergamo, che vi eseguì interventi edilizi sino circa al 1870.
Tra le varie opere di adeguamento, spicca, nel luglio del 1844, la costruzione di un porticato con loggia superiore al lato di levante del cortile, che testimonia l’occupazione dell’ala centrale dell’ex convento da parte del carcere, e che ancora oggi si può individuare sopra al termine delle paraste che corrono lungo il prospetto a est della corte.
Vennero presi provvedimenti per impedire che i detenuti potessero fuggire (come la soffittatura della gronda posta nell’ala di ponente del cortile, soffittata da assi in larice) e a metà Ottocento venne pure costruita la raggiera panottica per il passeggio isolato dei reclusi nella corte.
La struttura sarà demolita pochi anni più tardi e il cortile diviso in due con un muro sormontato da una torretta di controllo per i detenuti.
A cavallo tra il 1870 e il 1871, a seguito della demolizione di casa Secco Suardi, dove ora trova posto il giardino che affaccia sulla Fondazione Colleoni e sull’omonima via, per impedire la fuga dei detenuti attraverso la terrazza del carcere e il tetto del passaggio “dei luoghi pii”, venne realizzato il muro sovrastante la portineria, e acquistato il fabbricato dei luoghi pii realizzando gli interventi necessari.
Di qui fino allo smantellamento del carcere non furono apportate variazioni significative all’impianto edilizio dell’ex monastero, salvo opere di manutenzione ordinaria realizzate nei primi decenni del Novecento.
E ciò sino a che non cominciò a farsi evidente l’inadeguatezza degli spazi e delle strutture di detenzione, tanto che nel 1977 l’istituto penitenziario venne trasferito alla casa circondariale di via Gleno, costruita nel rispetto delle moderne e migliori normative di natura edilizia.
La situazione dopo la chiusura del carcere
Con il trasferimento del carcere l’edificio perse la funzione che l’aveva interessato per più di un secolo e mezzo.
Gli oltre 5000 metri quadri del vecchio monastero tacquero per circa quattro anni, lasciati all’incuria dell’oblio e del tempo, popolati solo da qualche bestiola in cerca di riparo, protetti dal verde manto di un’edera selvatica.
Questo silenzio irreale veniva a volte turbato solo dal colpo secco di qualche boccia degli avventori del Dopo Lavoro di mussoliniana memoria, sviluppato nell’area esterna adiacente.
Poi, nel 1981, i rumori divennero più frequenti, più assordanti, accompagnati dal vernacolo degli operai. Il piano di calpestio del vicolo S.Agata venne occupato dal Comune, che in quella che fu la sala capitolare dei monaci insediò la Terza Circoscrizione del Comune, l’ufficio per i vigili urbani e il centro socio-sanitario.
Le sale si rianimarono, cambiarono volto, abbandonarono le vecchie funzioni. Era il 1982 e con i lavori intrapresi dall’amministrazione comunale per rivalutare gli spazi in base alle nuove esigenze del quartiere, sul calpestio dell’antica chiesa dedicata alla martire di Catania, la sede della Cooperativa Città Alta (Circolino) riportava in vita una porzione del complesso, mentre il padiglione esposto a nord, oltre il cortile dell’ora d’aria, restavano in disuso, frequentati solo dalla polvere del tempo.
Con gli anni e con i ribaltamenti dell’amministrazione pubblica, ad uno ad uno i locali dell’ambulatorio, dei vigili urbani e della Circoscrizione vennero nuovamente svuotati.
Restava a presidiare l’antico complesso solo il Circolino, con il brusio degli avventori fra i tavoli e le voci concitate delle partite a carte, finché nel 2008 la cooperativa ottenne i permessi da Palafrizzoni, previo parere positivo del proprietario (l’Agenzia del Demanio) di ampliare i locali, recuperando gli spazi che un tempo erano adibiti ad ambulatorio (paralleli alle sale del ristorante) per ricavarne un angolo pizzeria e un ampio salone.
Proprio durante i lavori di ristrutturazione il vecchio monastero volle far sentire la sua voce, riportando alla luce un meraviglioso affresco realizzato sulla volta della sala principale al tempo in cui ad abitar Sant’Agata furono i Padri Teatini, la congregazione dalla dottrina virtuosa, che conduceva una vita austera.
Consunto dal tempo e dall’usura ma ancora vivido e ben delineato, facevano capolino fra i calcinacci del controsoffitto il volto di un uomo canuto, angeli, elementi naturali, lembi di cielo, come se dopo tanti anni di abbandono l’affresco volesse ancora godere dell’ammirazione altrui.
Ora nel grande salone ristrutturato, grazie all’impegno della cooperativa campeggia una preziosa scena biblica restituita alla bellezza originaria, impreziosita da una delicata cornice d’intonaci, dove al centro campeggia un uomo canuto che osserva rapito un cielo ricco di nuvole, con le immagini di Dio e dei suoi Angeli.
L’uomo in estasi allunga una mano in cerca di risposte e l’Arcangelo Raffaele gli offre a dell’acqua e una pagnotta per ristorarsi. Spiccano i toni caldi dell’oro, il rosso acceso dei mantelli celesti e il verde intenso della vegetazione.
Altre sorprese arrivarono più tardi, quando riapparve, miracolosamente quasi integra, l’imponente decorazione delle quattro campate dell’antica volta della chiesa, oggi corrispondente al secondo piano dell’edificio. Dobbiamo il suo ritrovamento al provvidenziale crollo della controsoffittatura che la occultava totalmente.
Di essa si ha menzione tanto nel Pasta che nel Bartoli, ma la fonte più circostanziata ed attendibile è senza dubbio Francesco Maria Tassi che la riferisce al “Cavalier Salvatore Bianchi di Varese”: uno dei numerosi artisti itineranti che giunsero a Bergamo all’inizio del Settecento forse, come dice il Lanzi, a causa della “penuria di pittori propri di rilievo dediti alla pittura aulica (8).
L’artista ha ingiustamente goduto di scarsa fortuna critica nella nostra città, tanto da non guadagnarsi neppure una breve monografia nella quasi onnisciente collana sui Pittori Bergamaschi.
Ne sono responsabili il numero limitato delle opere lasciate nella città ma anche la diffusione del cognome e, paradossalmente, il titolo nobiliare, che il Bianchi ha condiviso con pittori omonimi approssimativamente coevi operosi nel Settentrione d’Italia, dai quali è stato distinto con difficoltà dalle fonti locali.
Al pittore, rivalutato per il discreto spessore artistico, è stato attribuita con assoluta certezza la paternità degli affreschi, databili nel secondo decennio del Settecento e comunque non anteriori al 1706 (anno in cui i monaci Teatini che ne erano proprietari, chiedono un prestito per l’ampliamento dell’edificio), né posteriori al 1727 (anno della morte di Salvatore Bianchi).
E’ il periodo in cui la pittura del maestro giunge a piena maturità e a cui risalgono le sue imprese più prestigiose e riuscite. Ed è anche il periodo in cui comincia la sua collaborazione con il figlio Francesco Maria, di cui sembra di poter cogliere qualche traccia nelle soluzioni più lievi e briosamente rococò del ciclo di Sant’Agata (9).
Gli affreschi ritrovati, sicuramente non sono né i primi né gli ultimi dei tesori nascosti che il complesso racchiude. Sicuramente una rara ricchezza che conserva silenziosamente i segreti della storia e che ci tiene ancora e per fortuna legati ad essa. Sicuramente una delle fortunate possibilità in cui conciliare la gola con lo spirito: non capita tutti i giorni di pranzare sotto un affresco settecentesco.
Note
(1) A Bergamo l’organizzazione della città in vicinie è documentata dagli statuti cittadini che ne riferiscono i nomi e ne tracciano i confini a partire dal 1251. In quell’anno la città era divisa in diciassette vicinie e la vicinia di S. Agata comprendeva anche quella di Arena, che sarebbe diventata autonoma prima del 1263 mantenendo “intatti i diritti sulla chiesa di S.Agata e sul suo cimitero” (FORNONI 1905, p.70).
(2) Secondo Angelo Mazzi si ha la prima memoria dell’esistenza di questa chiesa nel 908, in una carta di permuta ove abbiamo questa espressione: “in un pezzo di terra a vite posto entro la stessa città nel luogo detto sotto S.Agata (subtus sancte Achate). La seconda menzione cade nel 924. In un’altra carta di permuta abbiamo pure: “una casa con corte di proprietà della chiesa di S.Alessandro posta entro la città di Bergamo, vicino a S.Agata” (MAZZI 1870). E’ inoltre documentata in altre due pergamene conservate presso l’Archivio Capitolare di Bergamo, relative agli anni 1004 e 1066. Elia Fornoni ne conferma l’esistenza nell’anno 1176 precisando che “i canonici di S. Vincenzo andavano a celebrarvi i vespri (FORNONI (?), Bergomensis vinea, vol. IV, pp. 197-199. ACVB).
(3) Come da statuti cittadini del 1331 e del 1491.
(4) CALVI 1676, p.#.
(5) B. Carissoni, cit. In bibliografia.
(6)Ibidem.
(7) Giulio Quaglio nasce nel 1668 circa a Laino, località della comasca valle d’Intelvi da un famiglia dedita all’arte per molte generazioni. Abile frescante, il pittore si forma in ambiente emiliano ed arricchisce la propria arte con influssi veneziani e barocchi, facilmente rintracciabili nella sua produzione. Sulla base di queste esperienze il Quaglio elabora una pittura di estrema piacevolezza decorativa anche se, a causa della tendenza a frammentare le volte in molteplici medaglioni incorniciati da stucchi, essa non risulta aggiornata sulle ultime tendenze, che prevedevano un’unica ampia decorazione che sfondasse illusoriamente il soffitto nel cielo. Tenuto in ampia considerazione dai contemporanei e a capo di una bottega assai vasta ed articolata, che avrà un peso sempre maggiore con il passare degli anni, l’artista può assolvere ad un numero veramente elevato di commissioni, non solo in Lombardia, ma anche in Friuli, in Slovenia ed in Austria. Muore a Laino nel 1751.
(8) Salvatore Bianchi nasce nel 1653 in prossimità del Sacro Monte di Varese, in quel tempo proficuo crogiuolo di artisti di varia provenienza ed orientamento artistico. Inizia ben presto a lavorare per Arona, Milano e Torino, specializzandosi nella pittura a fresco e acquisendo il titolo di Pittore di Sua Altezza Reale per aver lavorato nella reggia sabauda di Torino. È probabilmente proprio la frequentazione della corte torinese che lo induce ad approfondire la conoscenza della pittura genovese, forse anche tramite la mediazione del Legnanino. In particolare sembra orientarsi verso Gregorio de Ferrari, da cui desume il senso scenografico dell’impianto compositivo, l’ostentata esuberanza decorativa, il dinamismo della stesura pittorica e soprattutto il cromatismo vivido e brillante. Tale orientamento rimane il sostrato imprescindibile della pittura del Bianchi, che ad esso sovrapporrà influssi barocchi romani, mitigati da una vena di classicismo marattesco o di matrice emiliana. Cultura complessa e poliedrica quindi quella del maestro, che forse proprio grazie a questo suo eclettismo riesce ad aprirsi precocemente verso le tendenze rococò, che si stavano facendo strada nei primi anni del Settecento. Un orientamento che va precisandosi fra il primo e il secondo decennio del secolo, allorché il maestro lavora nei cicli del Cusio, di Busto Arsizio e, probabilmente, di Bergamo. L’artista muore nel paese natale nel 1727.
(9) Sant’Agata, immagini dal passato – Cooperativa Città Alta in collaborazione con il Liceo Artistico Statale “Giacomo e Pio Manzù” di Bergamo.
Bibliografia essenziale
SPINELLI G., Gli ordini religiosi dalla dominazione veneta alle soppressioni napoleoniche (1428-1810), in Storia religiosa della Lombardia. Diocesi di Bergamo, a cura di A. Caprioli, A. Rimoldi, L. Vaccaro, Brescia, La Scuola, 1988, pp. 213-234.
BENI Francesca, 1981-2011 Cooperativa Città Alta Un sogno divenuto realtà. L’azzurro srl. Ottobre 2011.
CARISSONI Barbara, Il sistema carcerario a Bergamo in età napoleonica. In Archivio Storico Bergamasco. Ed. Junior, 1995.
OGGIONNI Davide, RANGHETTI Matteo, REGAZZONI Paolo, Recupero del monastero di S. Agata in Bergamo.Tesi di laurea. A.A. 2009-2010.
Nota di servizio
Le fotografie di Evelina Lorenzi sono tutte scattate all’interno di ExSA, la porzione di Sant’Agata affidata al progetto dell’Associazione Maite, attivo dal 2015 (dal 2017 regolato da un Patto di Collaborazione), che ospita ed ha ospitato numerosi eventi, convegni e laboratori, trasformando uno spazio abbandonato in luogo vivo.
Alcune delle suddette fotografie, ritraggono specifiche istallazioni di opere curate nel corso dell’iniziativa “M’innamoravo di tutto, correvo dietro ai cani” dedicata a Fabrizio De André.
Avete la mattinata tutta per voi e volete spenderla passeggiando tra natura, monumenti e chiese, soli o con la vostra dolce metà, proprio come nella canzone di Battisti?
La giornata non è un granché ma non rinunciate all’idea di respirare l’aria di primavera, sgranchirvi e smaltire quel chiletto accumulato, ritemprando la mente, spesso affaticata da mille incombenze quotidiane.
Inerpichiamoci allora, lasciandoci stupire dalle bellezze racchiuse nella bucolica valletta di Valverde, volgendo lo sguardo alla ricerca dei particolari anche più nascosti che arricchiscono un paesaggio così bello da sembrar dipinto dalla mano di un pittore
A Valverde si arriva da oriente attraverso la valle del Morla, il torrente ammesso per centinaia d’anni nella nomenclatura dei fiumi, un tempo così limpido da sembrare acqua sorgiva: le massaie la utilizzavano per lavare la biancheria, che stendevano sulle rive in attesa che la luce e il calore del sole la rendessero candida come la neve. Con l’argilla estratta dal suo alveo venivano fabbricate eccellenti stoviglie, fra le migliori della Bergamasca.
Lo incontriamo nuovamente lungo via Maironi da Ponte, dove svolta fiancheggiando pigramente la pista ciclopedonale della Green Way, che in Valmarina si raccorda a via Ramera (da dove si impenna verso il Sentiero dei Vasi o S. Vigilio), oppure passa il testimone al Sentiero d’Ilaria, la pista che attraversa il versante settentrionale fino a Sombreno in compagnia del torrente Quisa: un percorso totalmente immerso nel bosco, dove il tamburellare del picchio la fa da padrone. L’avete mai provato? Da fare, magari alla prossima occasione.
Ma noi proseguiamo, diretti alla conquista della minore tra le aperture delle Mura, inerpicandoci decisi verso l’anfiteatro di Valverde, con le sue “ville di delizia” e alcune cascine ancora intatte, circondate da prati in declivio, alberi secolari e terrazze coltivate a vite e ulivo.
Superato l’imbocco della Green Way incontriamo l’ottocentesca chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta – edificata su una chiesetta di cui si ha notizia dal 1494 -, preceduta dalla serie dei teschi esposti nella piccola sagrestia, a ricordo della pestilenza del Seicento (la via si chiamava infatti “strada comunale dei morti di Val Verde”). Nella chiesa vi sono alcuni stendardi, dipinti da Giuseppe Carnelli (1838-1909) ed esposti in particolari ricorrenze, che hanno per soggetto il prete, il re, il soldato, l’artista e il contadino, raffigurati sotto le sembianze di scheletri, sulla scia di una tradizione pittorica conforme a quelle tendenze macabre che si trovano di frequente nella Bergamasca.
Dopo aver sorpassato il lavatoio pubblico, del 1933, un affioramento di arenaria sulla destra ricorda le attività delle antiche cave di arenaria presenti nelle vicinanze e ci indica la via Roccolino, strada che prende il nome dal roccolo di proprietà dei conti Roncalli (il cui palazzo sorge in Colle Aperto), di cui non conosciamo l’ubicazione, ma che è ricordato nel biglietto da visita dell’omonimo ristorante. La via è chiamata anche “dei Cavalieri”, forse a ricordo delle ronde che pattugliavano l’esterno delle Mura.
Lasciamo quindi alla nostra destra la suggestiva stradetta ciottolata di via Roccolino, dove si sviluppa il baluardo di Valverde, “il lato oscuro delle mura”, sommerso dalla vegetazione.
Superata la strettoia, abbracciamo finalmente con lo sguardo tutta la conca adagiata ai piedi degli edifici, il cui profilo si fa ora nitido, grande e incombente, lasciandoci pregustare i suoi innumerevoli tesori.
Da sopra fa capolino il Castello di Valverde, un raffinato relais adagiato sul cucuzzolo del colle di Fabriciano, originatosi da un fortilizio medioevale che comunicava con le torri di avvistamento di Sorisole e della Maresana. Divenuto nel Cinquecento residenza di campagna del capitano veneziano, è chiamato Casa Quarenghi dal nome dell’architetto bergamasco ritenuto il progettista dell’attuale edificio: da lì si gode di una vista strepitosa, alla quale la prossima volta non potremo rinunciare.
Quel brividino che di tanto in tanto avvertiamo non è casuale: siamo nel versante più fresco dei colli punteggiato qua e là da limpide acque sorgive, la cui presenza disegna sul fondo della valletta un reticolo di seriole che in passato hanno fatto della conca di Valverde – il cui nome deriva dallo storico torrente – il regno delle lavandaie: un regno ancora testimoniato dalla presenza della “Ca’ del sòi”, la cascina appartenente da cinque generazioni alla famiglia Cerea.
In tempi a noi lontani, la ricchezza di queste meravigliose sorgenti assicurava, ancor prima della realizzazione di acquedotti in quota, una riserva sicura anche in caso di periodi particolarmente siccitosi, consentendo uno svolgimento redditizio delle attività agricole.
Sul crinale il rifornimento d’acqua era poi assicurato, probabilmente sin dall’epoca romana, dalle sorgenti che conosciamo per l’essere state raccolte nella fontana del Vagine (descritta in versi da Mosè del Brolo), nella Boccola, nel Lantro e nel Corno, anche se ciò è documentato solo a partire dall’età comunale.
A queste sorgenti possiamo aggiungere quella delle Noche, nella valletta di Colle Aperto (che alimentava dal Cinquecento l’acquedotto di Prato Baglioni), nonché la fontana delle Pirole in via Solata. E se pensiamo che ben cinque fra quelle citate – e purtroppo in buona parte esaurite – sgorgavano da sopra le nostre teste, il gioco è fatto!
La porta della Boccola, oltre a consentire al borgo di aprirsi verso Valverde, permetteva anche l’accesso all’omonima fonte, che sgorgava proprio sotto le mura medioevali. La sua protezione era garantita dalla tonda “turrisella”, ancora in gran parte esistente, che controllava l’accesso da Valverde.
Acqua come fonte di vita quindi ma anche acqua come elemento capace di forgiare il territorio, se immaginiamo che nel corso di milioni di anni la sua azione incessante ha modellato i profili di questa valle, dove, in corrispondenza delle attuali Mura, si elevava una rupe massiccia che conferiva al luogo un aspetto arcigno, molto diverso rispetto all’attuale.
Possiamo osservare ciò che ne rimane nel paramento del baluardo di San Lorenzo, costruito inglobando la roccia, che è stata scalpellata ad arte per evitare onerosissimi costi di sbancamento. Dov’è stato possibile, su questa roccia i costruttori hanno “appoggiato” le Mura settentrionali, da S. Agostino fino a S. Vigilio!
Sotto questa roccia, così resistente da essere impiegata per realizzare grosse macine, corre un potente banco di Arenaria di Sarnico che ha formato lo zoccolo del ripido pendio settentrionale e che, ricercata per la sua compattezza e resistenza, ha fornito per secoli materiale da costruzione soprattutto per grandi monumenti come Porta S. Agostino e S. Maria Maggiore.
Si tratta di una pietra grigio-azzurra chiamata anche Arenaria di Castagneta dalla località in cui veniva estratta, tanto che nei pressi delle sorgenti (ben sei) che alimentano il primo tratto dell’acquedotto dei Vasi, esiste tuttora una località chiamata “Cavato”, con evidente riferimento all’attività di estrazione. La si estraeva anche all’esterno del baluardo di Valverde, dove si rintracciano i segni di ben due cave, e la vediamo affiorare percorrendo i boschi del versante settentrionale, fino a Sombreno.
Tornando invece al nostro baluardo e alla sua vecchia rupe (la “rupe di S. Lorenzo”), basterà aggiungere che questa durissima formazione prosegue sullo spalto con la piccola elevazione della “Montagnetta”, un vero e proprio sito geologico che rimanda a tempi lontanissimi.
All’epoca della costruzione delle Mura, nonostante le intenzioni iniziali e pur causando difficoltà nella manovra dei pezzi, la Montagnetta non fu demolita perché costituiva una buona difesa nel caso di tiro nemico da S. Vigilio.
Su quella stessa roccia, alla quale siamo ormai affezionati, sorgeva la primitiva chiesa di S. Lorenzo, risalente all’VIII secolo e atterrata bruscamente nel 1561 – insieme a 59 case del borgo – a causa della costruzione della cinta fortificata veneziana (1561-1595).
Questa comportò lungo tutto il circuito la demolizione di numerose case, cascinali, scalette, viottoli, chiese e conventi, fra i quali ricordiamo con rimpianto l’antica Basilica di S. Alessandro e l’attigua chiesa di S. Pietro, il Convento di S. Stefano dei Domenicani, la chiesa di S. Giacomo e quella dei santi Barnaba e Lorenzino nelle vicinanze della porta di S. Giacomo nonché la fognatura d’epoca romana. Si salvò invece la chiesa di Sant’Agostino, grazie al versamento di un congruo contributo che modificò i piani iniziali di costruzione.
Fortunatamente, possiamo ancora ammirarla, benché sfregiata dal segno nerastro che ne decreta la fine, nella veduta di Alvise Cima realizzata perché rimanesse memoria visiva della forma urbis di Bergamo, prima che la Città venisse profondamente sconvolta con la costruzione delle nuove mura.
Descritta dalle fonti come ragguardevole, la chiesa (secondo il Mazzi la più antica della città) si trovava entro la muraglia medioevale all’imbocco del borgo, dove segnava il confine tra le vicinie di Canale e S. Lorenzo. Era affiancata da un ospedaletto (non indicato nella veduta), che nel 1458 confluì nell’Ospedale Grande di S. Marco.
La veduta ci restituisce la città medioevale con i suoi cinque borghi che allungati dolcemente verso il piano (“come le dita di una mano aperta”) lungo le antiche strade di accesso alle porte medievali, presero il nome delle rispettive chiese. Nel dipinto, il distrutto borgo di San Lorenzo, sviluppatosi fuori dalle mura medioevali, è cinto da una propria muraglia (un ampliamento), allungandosi verso il declivio fin verso la porta di Valverde; un borgo, ormai perduto, che le cronache descrivono “copioso d’honorate, e vaghe abitationi”, quasi “da sembrare un’altra città”.
Tramite l’imponente opera di “svuotamento” di ingenti quantità di terreno, operata per ragioni di sicurezza ai piedi del circuito bastionato, si è spezzata bruscamente la linea naturale dei declivi lungo i quali erano radicati secolari e rigogliosi giardini, alberature, vigneti, frutteti, ortaglie e broli, che foraggiavano la città al piano.
Tra un baluardo e l’altro si sono così formate una serie di vallette, che hanno acquisito la loro denominazione in base agli elementi salienti che vi si sono trovati inclusi, e che hanno con il tempo riacquistato una nuova e straordinaria bellezza paesaggistica. Per comprendere il loro susseguirsi conviene ricorrere al disegno datato 1693 e firmato Alvise Cima, dove compaiono nell’ordine la Valle Verde, la Valle delle Noche, la Valle Avogadri e la Valle S. Agostino.
Nelle pareti delle Mura si nascondono tante storie, molte delle quali “narrate” dal materiale di risulta proveniente dalle demolizioni degli edifici: perché tutto serviva, purché si potesse portare avanti l’imponente monumento che oggi cinge gelosamente i nostri tesori.
Nella scarpa della faccia est del baluardo di Valverde, mimetizzati nella muraglia e soffocati dalla vegetazione, sono incastonati alcuni frammenti marmorei – del più candido Zandobbio ma anche di un tenue color rosa -, attribuiti alla classicità romana e – forse – facenti parte di un grandioso portale. Generalmente i pezzi di risulta venivano inseriti “voltati” così da esporre le superfici levigate e prive di appigli alle palle di cannone del nemico; ma forse anche il “proto” – l’architetto di allora – fu colpito dalla bellezza delle decorazioni raccomandando ai manovali di metterle in bella vista, anche se in quel settore delle mura pochi avrebbero potuto ammirarle: forse pensava a noi, cittadini di oltre quattro secoli dopo?
Il baluardo di Valverde si staglia all’estremità opposta della valle sottostante Colle Aperto e rappresenta una porzione inferiore del Forte di S. Marco, una “fortezza nella fortezza” realizzata per reggere un potenziale assalto nemico alla Città dalla parte del colle di San Vigilio, permettendo una sicura via di fuga tramite il varco aperto nella Porta del Soccorso: la quinta e più sconosciuta del circuito murario veneziano, camuffata da comune portone!
E’ possibile visitarla attraversando le vie Roccolino e Beltrami, da dove si diparte la via Sotto le Mura di S. Alessandro: una suggestiva stradetta che si inerpica a fianco di via Cavagnis (strada panoramica per S. Vigilio), dove la Porta compare “nascosta” in un cortile privato. Proseguendo lungo il tratto movimentato da morbide contropendenze, si ricalca il perimetro esterno del forte di S. Marco superiore.
Ciliegina sulla torta è la Porta di S. Lorenzo, la più “campestre” di tutte, eretta in sostituzione della porta originaria ch’era collocata sotto il viadotto in corrispondenza dell’attuale.
La vecchia porta (la prima ad essere costruita) era stata chiusa dai veneziani già nel 1605 perché ritenuta troppo isolata e di difficile sorveglianza, ma soprattutto perché spesso allagata dalle abbondanti acque che vi affluivano dalle sorgenti poste più a monte: un problema che richiese la realizzazione di un sistema di canalizzazione per lo scarico delle acque, visibile alla base della cortina, sul lato ovest.
Dopo la sua chiusura, i cittadini della Val Tegeta (Valtesse) e dei paesi limitrofi, costretti a lunghi giri per entrare in città, raccolsero e versarono alla Serenissima la cifra di 4.000 ducati d’oro allo scopo di far costruire il viadotto rialzato e la nuova porta (risalente al 1627), che, più modesta delle altre, venne collocata proprio “sopra” la vecchia consentendo nuovamente il transito. Alle sue spalle, la casermetta per il presidio (su cui apparivano lacerti di antichi affreschi) e, all’esterno, una fontana dove venivano convogliate le acque.
Il passaggio fu dunque riaperto ma, rispetto alle altre, la nuova porta era di dimensioni più ridotte, cosicché tutte le operazioni di dazio dovevano avvenire all’aperto con gran lagnanza delle guardie esposte alla pioggia e al gelo.
Da qui fecero il loro ingresso l’8 giugno del 1859 Giuseppe Garibaldi e i Cacciatori delle Alpi. Sereno Locatelli Milesi racconta che il generale vi arrivò verso le sette del mattino; l’impiegato del dazio aprì la porta e lo accolse come glorioso liberatore, mentre le guardie presentavano le armi. Una lapide sotto il fornice ricorda la fine della pestilenza nel 1630, periodo in cui il capitano Giovanni Antonio Zen rappresentò l’autorità pubblica. La porta mostra ancora sulla trabeazione le fenditure per le catene del ponte levatoio
Sotto il viadotto è ancora visibile l’imbocco della vecchia porta, il cui nome, poi trasmesso a quella attuale, ricorda la demolita chiesa di S. Lorenzo, che è stata riedificata poco più a monte inglobando la fonte del Lantro.
Da sempre la più bistrattata e dimenticata delle Porte delle nostre Mura, quella di San Lorenzo non si fregia da alcuna scultura ed è ormai completamente cancellato è il leone un tempo affrescato sopra l’arco d’ingresso.
Eppure la Porta di San Lorenzo, imbocco diretto per le valli bergamasche, era il punto di partenza della Strada Priula tracciata dai Veneziani nel 1593 per ottimizzare i traffici verso la Valtellina e il Nord Europa attraverso il passo di S. Marco. La nuova strada consentiva di evitare l’attraversamento dei territori appartenenti allo Stato di Milano, in mano agli Spagnoli.
Nel frattempo l’asfalto ha lasciato spazio all’acciottolato. Prima di varcare la porta è difficile resistere alla tentazione di volgersi all’indietro e gustare la luminosa bellezza di questa conca che – miracolosamente – conserva uno degli angoli di bellissimo verde che impreziosisce ancor di più le pendici di Città Alta.
Ora, riposati dalla lunga sosta prepariamoci ad affrontare l’erta ma panoramica salita che in breve ci proietta sugli spalti; bypassiamo la scaletta alla nostra destra svoltando in via S. Lorenzo 21 presso Casa Palma Camozzi Vertova (già Tini Guerinoni).
Si tratta di un bellissimo esempio, unico nel suo genere, di complesso fortificato medioevale a disegno triangolare, su cui si è innestato il palazzo nel Cinquecento, emergendo dal terrapieno occorso per l’erezione delle Mura e del bastione di S. Lorenzo: il piano terra della vecchia abitazione, allora posta a livello della strada medioevale ed oggi corrisponde alle cantine, racchiude un pozzo ancora funzionante.
A lato, dove la via si biforca con il viale delle Mura sorge l’umile chiesetta affrescata dedicata alla Beata Vergine Addolorata, meglio conosciuta come chiesetta dell’ultimo respiro. Qui erano condotti, mani e piedi incatenati, i condannati a morte: Venezia condannava all’estremo supplizio ladri ed assassini; l’Austria condannava alla pena capitale i cospiratori favorevoli all’unità d’Italia e la forca era eretta poco distante sul piazzale della Fara.
Proseguendo verso la Boccola, ci ritroviamo faccia a faccia con la colonna di San Lorenzo, eretta nel 1627 in memoria della primitiva chiesa di S. Lorenzo, distrutta per la costruzione delle Mura e ricostruita entro la fine del 1600 a pochi passi dalla colonna. Sopra il cartiglio, ormai abraso, è scolpito uno scudo con giglio, emblema del santo protettore della città.
La colonna, benedetta dal vescovo Priuli, fungeva da riferimento per il calcolo delle distanze lungo la Strada Priula tra la fortezza e la Valtellina, misurate in 44 miglia fino a Morbegno (circa 71 km).
Mentre le nuvole corrono nel cielo creando strani giochi di luce, continuiamo il nostro tour ricalcando il percorso della cinta medioevale imbattendoci, poco dopo la colonna, nella fontana del Lantro affiancata dalla cinquecentesca chiesa di S. Lorenzo e dall’oratorio dei Morti della Peste del 1630.
La chiesa è stata riedificata sopra la cisterna della Fontana del Lantro, che, originariamente posta all’aperto, si è trovata ad essere inglobata in un atrio interrato, al di sotto della chiesa stessa.
Alla fine dell’Ottocento la fontana venne sostituita dal nuovo acquedotto civico, rimanendo utilizzata soltanto come lavatoio fino agli anni Cinquanta, quando venne progressivamente abbandonata per un lungo periodo per poi essere recuperata dal gruppo speleologico “Le Nottole” di Bergamo.
La chiesa è affiancata da una cappelletta dedicata ai morti della peste del 1630, preceduta da un portico. Nel lunettone che sovrasta la porta d’ingresso, una composizione macabra e una lastra tombale dipinta al centro, reca la scritta: RIPOSANDO QUI DALLA CHIESA TRASLOCATE LE OSA DEI NOSTRI FRATELLI PREGATE ALLE LORO ANIME REFRIGERIO LUCE E PACE
Sul lato destro la morte con la falce accanto e a sinistra un dolente, entrambi appoggiati alla lastra stessa. Teschi, corone di fiori, faci spente e fogliame completano la composizione monocroma eseguita da un giovanissimo Emilio Nembrini nel 1936, in sostituzione di un’altra precedente ridotta a pallida ombra.
Secondo una tradizione tramandata oralmente dagli abitanti del borgo, il macabro scomparso apparteneva al pennello di Vincenzo Bonomini, pittore molto versato nell’esecuzione di scheletri.
A metà salita ci imbattiamo nel fronte di nuda pietra del secentesco monastero di S. Agata, convertito a carcere nel 1798 e come tale perdurato fino al 1977. Il corpo di fabbrica a nord, lungo via del Vagine (nell’immagine sottostante), ospitava la sezione maschile, mentre buona parte dell’ala sud del convento, compresa la chiesa, costituiva la sezione femminile, oggi occupata dal bar/ristorante “Circolino”. Il complesso, purtroppo molto degradato e con gravi problemi di natura statica, attende da tempo una nuova destinazione d’uso.
Più avanti, poco prima che la salita s’impenni sostiamo al cospetto delle grandi arcate sovrastate dalla mole dell”ex complesso del Carmine: un tratto residuo del perimetro difensivo altomedioevale, poggiante su resti d’epoca romana. Sappiamo che gli inizi del Seicento alle arcate erano state addossate, oltre alle case, la “barberia” e la “foresteria” del monastero, una fila di botteghe, tamponate in età moderna.
Luigi Angelini descrisse il Carmine come un’opera edilizia il cui chiostro è tra i più tipici e forse il più caratteristico per eleganza di forme architettoniche ed armonia di misure nei vani dei portici e nella linea delle arcate.
Poco oltre, incontriamo la Fontana del Vàgine, alimentata da una sorgente che sgorgava sotto via Salvecchio e che anticamente aveva scavato una valletta fino all’altezza delle grandi arcate, poi colmata mediante apporti di terreno, calibrati nel tempo in base alle necessità che man mano si presentavano: sia quelle legate alla disponibilità dell’acqua della fonte dentro o fuori la città e sia quelle legate alla necessità di fortificare il nucleo urbano sulla scorta delle esperienze di assedio subite.
Proprio questa incertezza riguardo l’altimetria del pendio impedisce di tracciare con certezza i percorsi seguiti dalle antiche mura in questa porzione di città, dove peraltro sono state costruite almeno due cortine difensive: una in epoca romana ed in seguito una cinta medievale il cui andamento è stato ipotizzato dal Fornoni: la più antica doveva partire leggermente più a sud dell’attuale porta del Pantano e raccordarsi con le arcate del Vagine per poi proseguire passando circa a metà di quel che oggi è il chiostro del monastero di S.Agata.
La seconda cortina si può ancora seguire con esattezza: partiva dalla porta del Pantano e passava di fronte alla fontana del Vàgine, poi pigliando per l’attuale via della Boccola rasentava il giardino di casa Tassis, passava sotto il Seminarino e sotto le case della parte inferiore della via Tassis, toccava il Lantro e raggiungeva la porta S. Lorenzo.
Incassata nel primo degli archi a tutto sesto che si susseguono verso le ex carceri di S. Agata è la fontana del Vagine, tra le prime documentate nella storia della città.
Pare che la sorgente godesse di grande fama e che i forestieri si recassero ad ammirarla per le sue qualità curative. Secondo le descrizioni di Mosè del Brolo in Liber Pergaminus (1120-1130), le sue volte, il pavimento e le pareti erano ricoperte di marmo.
Al termine della breve ma scoscesa salita sbuchiamo in Piazza Mascheroni, in un’area intensamente frequentata sin dalle epoche più antiche e modificatasi nei millenni per necessità urbane, economiche e di potere.
In angolo tra la Boccola e la piazza, il Relais S. Lorenzo cela al suo interno importanti testimonianze di una parte della ricca storia di Bergamo, visibili e fruibili in giorni ed orari prestabiliti.
Proprio qui vi era un tempo la più antica Hostaria della città, detta della Croce Bianca, citata nel 1596 da Giovanni Da Lezze e descritta da Tommaso Bottelli nel 1758, alle cui mura verranno accostate quelle ad uso militare della “Munizione della Paglia”: una trattoria con vasti locali di deposito paglia, che forse serviva per le stalle destinate ai cavalli, poste dirimpetto proprio sotto l’alloggio dei soldati presso la Cittadella.
La piazza si trova al livello del pianoro ondulato sul quale è stato edificato l'”hospitium magnum” della trecentesca Cittadella viscontea (alloggiamenti per la guarnigione e il comando), il grande recinto murato costruito su terreno vergine che includeva l’intero colle di San Giovanni dividendo in due parti la città.
L’arcigna fortificazione era protetta esternamente da un fossato che nell’area dell’attuale piazza Mascheroni creava una larga fascia inaccessibile, colmata nel Cinquecento con la realizzazione della piazza Nuova.
E’ appunto nel 1520 che la piazza assume la rigorosa forma attuale, quando cioè Venezia decide di trasferirvi una parte del mercato pubblico che si teneva in Piazza Vecchia (granaglie e biade per foraggiare il bestiame), designandola come “Piazza Nuova” per distinguerla dalla precedente, divenuta centro politico-amministrativo della municipalità veneziana.
A tale scopo fa edificare la Loggia mercantile (inglobata nel Settecento nella facciata dell’attuale Palazzo Roncalli e tornata alla luce nei restauri del 1981), utilizzata per le contrattazioni e per appendervi i bandi e le sentenze criminali, nonché un’ininterrotta fila di botteghe commerciali addossate al lato orientale della Cittadella viscontea. Nello stesso anno la piazza viene selciata.
La nuova piazza affiancata all’hospitium magnum (divenuto residenza del capitano veneziano), diviene così un nuovo polo economico-commerciale per la città e resterà luogo di mercato fino alla metà dell’Ottocento, quando le botteghe sul lato della Cittadella verranno demolite in attesa che la piazza assuma una nuova configurazione.
La loggia e tutti i fronti degli edifici attigui vennero decorati con affreschi di cui restano brani sul palazzo porticato e a destra della Torre della Cittadella.
Il pittore brembano Giovanni Busi detto Cariani (allievo del Giorgione) affrescò le due teste di leone dalla folta criniera poste accanto ai peducci delle arcate isabelliane nonché il busto di uomo con scettro, realizzati in uno splendido monocromo.
Del Cariani anche le decorazioni alla destra dei peducci, con la scena di una Venere distesa insidiata da un satiro e il giovinetto intento a suonare il flauto, posto all’estremità della facciata. Di particolare interesse, sul fronte laterale del palazzo, altri affreschi attribuiti al Cariani eseguiti probabilmente dopo il 1528 durante il suo secondo soggiorno bergamasco. In una delle due lunette, due uomini accanto a due sacchi tengono fra le mani dei chicchi di grano, che stanno guardando e valutando: una normale operazione che si svolgeva dove il grano era commercializzato e generalmente posto nelle parti alte delle case, dove poteva essere più arieggiato e conservato.
Per la sua conformazione piana, la piazza ospitava anche giochi, gare, giostre e tornei, fra i quali il Calvi ricorda, nel 1567, la festa per “caccia dei tori e dei cani” durante la quale due tori inferociti, fuggiti al di sopra dello steccato per la Corsarola, ferirono gravemente parecchie persone: una tradizione che raccoglieva l’antica eredità dell’area, occupata dagli edifici da spettacolo sin dall’epoca romana (teatro e anfiteatro), che si è protratta fino all’Ottocento interrompendosi quando la Cittadella, divenuta sede dell’I.R. Deputazione Provinciale, cambiò nome e assunse quello di Piazza del Lino.
In asse con la Corsarola, la via che attraversa la città, s’erge la porta-torre viscontea d’ingresso alla Cittadella (l’unica conservatasi nella parte piana), con una terminazione settecentesca ad arco e con cinque singolari cuspidi di gusto sloveno ed una campanella, aggiunte probabilmente nel ‘800 durante l’occupazione austriaca. La torre viene chiamata oggi torre della campanella e presenta sopra il poggiolo uno stemma con al centro un’aquila bicipite (simbolo in stretta connessione con lo stemma del Sacro Romano Impero), adottata come proprio emblema dal casato degli Asburgo, Al centro dell’aquila uno scudo inquartato con i simboli alternati della Serenissima e dei Visconti ossia il leone alato ed il biscione.
Al centro della piazza campeggia una vera da pozzo ottagonale in marmo di Zandobbio; l’opera risale al periodo della dominazione veneta, quando alle fontane vicinali si aggiunsero alcune importanti opere di ampliamento e di abbellimento, fra le quali si annoverano anche la cisterna di Piazza Mercato delle Scarpe, la sostituzione della fontana della vicinia di S. Pancrazio con quella più elegante fontana davanti all’omonima chiesa ed infine la costruzione della fontana Contarini in Piazza Vecchia, la più famosa tra le fontane della città.
Chiudiamo la nostra visita alla piazza con la medioevale porta del Pantano inferiore, che sottopassa il breve andito diretto in Colle Aperto e che insieme alla distrutta porta del Pantano superiore – le due antiche porte disposte sul lato di via Boccola – costituiva l’unico possibile passaggio (sorvegliato da una piccola guarnigione che richiedeva anche il dazio), stretto fra il fianco nord dell”‘hospitium magnum” e le mura settentrionali.
Ma perché Pantano? Perché fin dall’antichità la zona posta alle sue pendici era pressoché paludosa ed insalubre, e certamente il fossato difensivo che proteggeva la Cittadella non ne aveva migliorate le condizioni.
Giunti al culmine della nostra passeggiata e rinvigoriti da tanta bellezza, torniamo sui nostri passi ripercorrendo la Boccola fino alla Fontana del Lantro, dove notiamo sulla destra un andito curioso: è il Passaggio dedicato dalla municipalità a Beccarino da Pratta, un modestissimo caporale della Serenissima che esattamente in questo punto sventò il tradimento del conestabile a guardia della porta, impedendo alle truppe dei Visconti di penetrare nottetempo in città da porta San Lorenzo.
In un amen l’esigua scorciatoia ci catapulta lungo la salita di S. Lorenzo dove, proprio al di sopra dell’imbocco del passaggio rendiamo omaggio a Santo patrono della vicinia (uno dei più venerati in tutto il mondo), affrescato sulla facciata del civico 32. La passione di San Lorenzo, martirizzato a Roma nel III secolo, è una delle più note nell’agiografia cristiana.
La via S. Lorenzo, da mettere in stretto collegamento con la costruzione del trecentesco convento di S. Francesco, collegava anticamente il centro della città al borgo Fabriciano (Valverde) e alle valli Imagna e Brembana attraverso la porta medievale di S. Lorenzo, demolita nel 1829 ma di cui possiamo vedere l’imposta del pilastro appena superato l’imbocco di via Tassis, quasi in fronte al civico 24a.
Poco più avanti incrociamo la curiosa casa dai mille caminetti (un tempo casa di piacere): la leggenda narra che ogni comignolo ricordava il campanile di una chiesa abbattuta per far posto alla costruzione delle mura veneziane.
Ma soprattutto, sulla via S. Lorenzo c’erano un tempo numerose osterie e botteghe, cadute in disgrazia in seguito all’erezione delle Mura veneziane e al crollo del ponte romano della Regina, che attraversava il Brembo nei pressi di Almenno S. Salvatore. Delle insegne che segnalavano la presenza di osterie è rimasta quella dell’antico ristorante dell’Angelo, parzialmente riadattata.
A fine corsa sfioriamo con lo sguardo la vertiginosa torre del Gombito – dal latino compitum, ossia incrocio o crocicchio -, punto d’incrocio del cardo e del decumano di romana memoria e torre più alta della città.
Torniamo infine sui nostri passi per una sosta all’area archeologica di vicolo Aquila nera (dal nome curioso di una vecchia locanda), spiando da dietro le vetrate un incredibile spaccato della storia della città antica, dell’insediamento protourbano del V secolo a.C. ad oggi.
Noteremo i resti della domus romana (di cui rimangono parte dei muri e dei pavimenti), il pozzo e reperti risalenti a un periodo compreso tra il I secolo avanti Cristo e il II dopo Cristo, sui quali, in epoca medievale, è stata edificata un’altra abitazione, in parte ancora visibile.
La visita è gratuita ma è necessaria la prenotazione: magari la prossima volta?