A coronamento del centro storico di Bergamo, esiste un vasto territorio collinare fatto di campi, prati e boschi, costellato di antiche vestigia e innervato da una fitta rete di bucolici percorsi, sentieri, viottoli e scalette. Il percorso qui proposto, compreso fra le località di Valmarina e Castagneta lungo il versante orientale della collina, conduce alla riscoperta di una delle porzioni più suggestive di questo meraviglioso patrimonio paesaggistico di natura e cultura. Si tratta di un itinerario che oltre a costituire una variante al classico tour ciclopedonale Green Way del Morla – Sentiero di Ilaria (ciclovia dei torrenti Morla e Quisa), consente di muoversi in un ambiente che conserva, all’interno di un considerevole patrimonio faunistico e floristico, la presenza di edifici rurali e manufatti storici di pregio quali l’ex monastero benedettino in Valmarina e i manufatti dell’acquedotto dei Vasi, l’impianto che per secoli ha costituito parte integrante della primitiva rete di distribuzione delle acque della città di Bergamo. L’acquedotto, di cui le prese d’acqua sono già documentate e rilevate in alcuni manoscritti del Settecento, raccoglie lungo il suo tragitto le acque sorgive dislocate tra gli avvallamenti boscosi posti dalle pendici del Monte Bastia ai fianchi del crinale, spingendosi sin verso Valmarina, da cui risale per Gallina e Castagneta. Il nostro itinerario, attraversando pressoché interamente un’area boschiva consente di praticare agevolmente attività sportive anche nella stagione più torrida.
Il percorso ideale qui proposto si diparte dal tratto della Green Way del Morla che si innesta da via Maironi da Ponte nella località di Valverde, giungendo a Valmarina all’ombra delle pendici boscose di Castagneta ed assecondando le pieghe del torrente tra ponti e divertenti passerelle lignee.
La vista si apre all’improvviso sul grandioso anfiteatro di Valmarina, accarezzando le morbide pendenze su cui poggia l’antico monastero, magicamente sospeso fra prati, boschi rigogliosi e terrazze tenute a vite.
Non troppo distante dalla viabilità principale, ma lontano quanto basta da costituire un’oasi a parte, l’antico monastero campeggia placido nella radura, splendidamente fuso con il tessuto che lo circonda in verde abbraccio.
Fra scorci di rara bellezza, il suo caldo color nocciola – ancor più vivo quando il sole lo accarezza – è come un bagno tiepido e benefico per gli occhi, invitandoci alla sosta.
Fondato nel XII secolo da una piccola comunità di monache benedettine è oggi sede del centro direzionale del Parco dei Colli, al centro di un ambiente ideale dove natura, cultura e attività sportive si coniugano in perfetta armonia.
In questa splendida conca suburbana – irrinunciabile polmone verde cittadino – l’antico monastero esibisce i due momenti salienti della sua storia secolare, mostrando i locali “canonici” della vita benedettina e cioè la chiesa, il refettorio e la sala del capitolo – il lato interamente affacciato sulla strada per la Val Brembana -, con le aggiunte realizzate dalla fine del Settecento per adattare il complesso ad aia rustica.
Dalla fine del Quattrocento, da quando le monache si trasferirono dentro le muraine, il monastero ormai abbandonato fu riadattato a cascina, subendo interventi che ne snaturarono soprattutto la parte interna.
Dalla fine del Settecento dunque, l’aggiunta progressiva di nuove volumetrie ha finito col raddoppiare le dimensioni dell’antico recinto fino a formare la grande corte chiusa che vediamo oggi: una tipologia inconsueta in una zona collinare – qual è quella di Valmarina -, dove le cascine hanno generalmente i corpi di fabbrica giustapposti, disposti a L, oppure contrapposti.
Comunque sia, specialmente nel lato est il complesso conserva ancora un notevole fascino, con ciò che resta della primitiva chiesetta romanica incorporata nello spigolo settentrionale del complesso.
La parete piena e compatta della chiesa è alleggerita da due elegantissime monofore, dallo slancio quasi gotico, separate da una lesena sottile entro la quale alcune porzioni di calda arenaria richiamano la parte superiore delle monofore.
Al di sopra di queste, due piccoli oculi catturano la luce dall’esterno e allo stesso tempo ammiccano verso valle, quasi a richiamare l’attenzione verso il bel monastero, intriso di storia secolare.
Il porticato, addossato al nucleo originario, trova precisa corrispondenza in complessi rustici che ritroviamo in diversi punti del territorio, dalle pendici della Maresana al castello della Moretta, in quel di Sorisole.
All’interno, fra un anfratto e l’altro sono conservati gli antichi arnesi impiegati nelle attività rurali e la loro semplicità riporta piacevolmente alla memoria quei frangenti di vita contadina vissuti in questo luogo sino a pochi decenni or sono.
Dall’osservazione dei particolari, emerge con chiarezza la filosofia che ha accompagnato ogni fase del magistrale restauro, che ha saputo calibrare perfettamente la conservazione di ogni singola parte con i nuovi adattamenti, mantenendo intatto il fascino e le suggestioni del manufatto antico.
Lasciata alle spalle questa piccola valle della Biodiversità – consorella della valletta di Astino – dove è preservato anche il più minuscolo gambero di fiume, imbocchiamo in salita la vera via dei Vasi, un viottolo a tornanti da non confondere con l’omonimo sentiero che frequentiamo abitualmente nei fine settimana, e che raccorda Valmarina alla località Cascina Costa, situata nella parte mediana di via Ramera.
“Questa” via dei Vasi, è così nominata perché il suo tracciato cela un condotto dell’antico acquedotto che da Valmarina, proprio al di sopra dell’antico monastero, si dirige sino all’uschiolo della valle dei Romanelli (di cui oggi si sono perse le tracce), concludendosi in località Gallina.
Dopo aver percorso la piccola serie di tornanti che si snodano fra la boscaglia, si raggiunge località Cascina Costa con il breve slargo posto a crocevia fra la ciclopedonale della Quisa e la via Ramera.
Pieghiamo decisamente verso la parte alta di via Ramera, che si impenna impietosamente lasciando brevi attimi di respiro ma ripagandoci, almeno inizialmente, con una vista impagabile su Valmarina.
Percorriamo l’ertissima salita sino alle pendici del Monte Bastia, e cioè sino a che non incontriamo la “cisterna del fontanino”: una fonte oggi ridotta a un rivolo, alimentata dalle sorgenti della Noce e dallo Scudo. Qui un pannello illustrativo indica l’inizio del sentiero 912, che procedendo in leggera pendenza lungo la valle della Costa ricalca il percorso dell’acquedotto lungo il Sentiero dei Vasi, percorso interamente boschivo che si raccorda alla località Gallina, in quel di Castagneta.
Il tracciato del sentiero 912, un percorso ombreggiato e pianeggiante, ideale per attività sportive svolte en plein air, coincide con l’antica “via del Canale”, secondo la denominazione riportata nelle mappe catastali del 1853.
VASO è un termine antico per indicare un canale adibito al trasporto dell’acqua: entrambe le denominazioni indicano appunto con evidenza la presenza in loco di un acquedotto, il cui tracciato, benché testimoniato già in epoca medievale, ricalca probabilmente il percorso di un precedente manufatto di epoca romana.
Lungo il sentiero è possibile osservare alcune parti dell’antico manufatto, che nonostante la condizione di attuale abbandono ancora denota la cura che nei secoli passati si riservava ad opere decisive come quelle idriche: il vaso maestro (la condotta principale), cisterne di raccolta e decantazione, uschioli d’ispezione, tombini, lastricati nonché un interessante sistema di condutture minori, in parte sopravvissute, che raccoglievano le acque delle sorgenti convogliandole dalle vallette nel “Vaso” principale.
I canali (realizzati in blocchi squadrati di pietra legati con malta di calce e cocciopesto) presentano mediamente di 25 x 40 cm; ogni canale era inserito in un cunicolo ispezionabile di 90 cm d’altezza e 70 cm di larghezza controllato periodicamente dai “fontanari”, gli addetti alla manutenzione di acquedotti e fontane, che ancora sul finire dell’800 ivi svolgevano lavori di manutenzione e restauro.
Lo apprendiamo grazie ad alcune date incise nei cunicoli che tuttora si snodano, in eccezionale stato di conservazione, negli orti delle case “Colombà” lungo la via Castagneta.
Una lapide inserita nel muro medioevale, in prossimità della località Gallina, ricorda che nel 1329 il podestà Beccaro Beccaris provvide a far effettuare la pulitura dell’acquedotto di Castagneta.
Presso una casa, sempre in località Gallina è stata rinvenuta una traccia della scritta AQ che dal 1728 costituiva, talvolta accompagnata da una croce, la sigla identificativa di tutti gli acquedotti facenti capo alla città di Bergamo.
Lungo il sentiero, il bosco, ricchissimo di Castagni e funghi, attira sovente nella mite e variopinta stagione autunnale, intere comitive intente alla raccolta.
Raggiunta l’estremità meridionale del sentiero dei Vasi in località Gallina all’altezza del segnavia 912, il condotto, ricongiungendosi con il canale proveniente dalla sezione inferiore di via Castagneta, si dirige verso la cisterna del baluardo di S. Alessandro percorrendo il nucleo di Castagneta.
Entrambi gli insediamenti, allungati lungo la strada percorsa attraverso i secoli dall’acquedotto dei Vasi, presentano i caratteri tipici della zona collinare di Bergamo.
Dalla località Gallina, l’acquedotto inizia, tra tratti incerti e non, a seguire il percorso di via Castagneta sino a via Beltrami, che percorre per un breve tratto, prima di infilarsi nelle Mura, attraversandole nello spalto di S. Pietro.
Fuoriesce poi nella seguente via Sforza Pallavicino, dov’è rimasta un’antica fontana.
Da qui riattraversa la via Beltrami, passa davanti alla polveriera superiore, attraversa il vicolo Colle, e attraversando il baluardo di S. Gottardo raggiunge la porta di S. Alessandro; la percorre lungo la parte superiore prima d’entrare nell’omonimo baluardo e raggiungere la cisterna in cui avviene il congiungimento delle sue acque con quelle portatevi dall’altro acquedotto, quello di Sudorno.
Anticamente, proprio qui, in prossimità dell’antica porta di S. Alessandro queste acque si univano nella fontana-serbatoio del “Saliente”, andata distrutta in occasione della costruzione delle Mura veneziane. Nonostante la sua distruzione, il nome di “Saliente” rimase per un certo periodo ad indicare l’intero acquedotto.
Dopo la costruzione delle Mura, il punto di confluenza venne spostato all’altezza del baluardo di Sant’Alessandro ma nel 1892 si procedette ad una nuova canalizzazione, resasi necessaria per ridurre l’inquinamento delle acque dovuto al passaggio della condotta all’interno delle case e sotto la sede stradale.
Al n°12 di Via Porta Dipinta si apre il portale d’ingresso di Palazzo Moroni, che, con la sua facciata sobria e quasi severa, non lascia presagire le decorazioni degli ambienti interni, considerate una delle espressioni più significative dell’arte barocca in Bergamo.
Il palazzo è sorto intorno alla metà del Seicento per volontà di Francesco Moroni, nato nel 1606 nel cuore di Città Alta, dove mezzo secolo prima i Moroni si erano trasferiti da Albino, luogo d’origine di questa nobile famiglia, le cui memorie risalgono al XIV secolo.
I Moroni divennero una delle più prestigiose famiglie lombarde grazie alla vivace attività nel mondo dell’architettura civile e militare e dell’ingegneria, e si distinsero per le innate capacità tecniche ed intellettuali di alcuni loro illustri rappresentanti.
A partire dal 1600 il nome dei Moroni si legò soprattutto alla coltivazione del gelso – indispensabile per la formazione dei bozzoli dei bachi da seta – e al conseguente ruolo di primo piano assunto nella fornitura di materia prima per il ramo tessile.
Questa pianta appartiene alla storia della famiglia anche per un’altra curiosa ragione: il gelso infatti è chiamato in latino morus e in bergamasco murù, parole che ricordano per il loro suono il nome della famiglia. Per questo motivo la pianta di gelso compare sullo stemma Moroni già nel Quattrocento; ad essa si aggiunse nel 1783 l’aquila imperiale, che rappresenta il titolo di conte e cavaliere conferito ad Antonio Moroni dal Duca di Sassonia Weimar(1).
Le fortune di Francesco, il matrimonio con Lucrezia Roncalli da Chignolo nel 1631 e i numerosi figli che ne seguirono, lo indussero alla costruzione del Palazzo sul terreno di “Porta Penta”, l’attuale Porta Dipinta, vendutogli dalla famiglia dei conti Pesenti, poi estinta.
La Fabbrica di Porta Penta
I lavori della grandiosa “fabbrica di Porta Penta”, durati dal 1636 al 1666, furono eseguiti da Battista della Giovanna, un impresario bravo ma non particolarmente illustre, che probabilmente non si curò di stilare o conservare un vero e proprio progetto poiché la struttura del Palazzo non prevedeva particolari soluzioni architettoniche: di fatto l’edificio, disegnato non per essere guardato dall’esterno, si distingue soprattutto per la fantasia e la professionalità degli artisti che lo hanno internamente abbellito nel corso del tempo.
Al momento della sua costruzione infatti, la vista sulla città bassa era ostacolata dal dirimpettaio Palazzo Marenzi, acquistato dai Moroni nel 1878 per poi essere demolito, creando l’ampia panoramica sulla pianura.
Per questo motivo il portale d’ingresso è in posizione asimmetrica rispetto alla facciata, che unita alla dimensione non eccessiva del Palazzo – insolita per le abitudini del tempo – e alla sobrietà dell’impostazione, non anticipa la monumentalità e la ricchezza decorativa degli spazi interni.
L’ingresso a Palazzo rivela comunque splendidi scorci e innumerevoli suggestioni, culminanti nella prospettiva progettata da Lorenzo Redi, che trova il suo punto di fuga nella nicchia a grotta in cui troneggia una statua di Nettuno, posta al centro di una massiccia parete in bugnato.
La massicciata è coronata da una balaustra in pietra, ornata da anfore, che delimita il primo terrazzo dei giardini, di impianto seicentesco, aperto sul parco come un autentico polmone verde che si allunga sino ai piedi del Colle di Sant’Eufemia.
Sotto la volta dell’androne, fino alla prima meta dell’Ottocento vi era dipinta una bilancia con due piatti in perfetto equilibrio; su uno di essi v’era una costruzione e sull’altro un mucchio di denari ed accanto un’iscrizione : “Aequa lance librandum” (“si deve agire con i piatti della bilancia in equilibrio”), come a dire che non si deve costruire una casa se non si ha denaro a sufficienza per terminarla: una massima che sottolinea l’operosità e la saggezza della famiglia Moroni.
Il disegno può essere considerato anche la premessa a ciò che si trova nello Scalone d’Onore – cui si accede a destra dell’androne d’ingresso -, dove il meraviglioso mondo affrescato dal fecondo pittore cremasco Gian Giacomo Barbelli (1604-1656) appare con le sue imprevedibili soluzioni spaziali che formano sulle pareti e sui soffitti visioni lontane di ampio respiro.
Il programma iconografico di questo ambiente, reso spazioso dalle decorazioni, è un’evidente celebrazione delle virtù dei Moroni. Sulle pareti, nove figure allegoriche rappresentano le qualità di questa famiglia, degna di essere ricordata nei secoli: l’Antichità, la Nobiltà, la Santità, il Valore, la Fortuna, la Ricchezza, la Dignità, l’Onore e la Sapienza: tutte inserite in riquadri dipinti da Giovan Battista Azzola.
Disposte dalla prima alla seconda rampa di scale, fra fregi, pilastri e scorci di architettura dorica, le nove statue bronzate presentano sul basamento il motto che le contraddistingue.
Il meraviglioso soffitto e il fregio ospitano invece i principali episodi della Favola di Amore e Psiche, narrata da Apuleio nelle Metamorfosi. Un’affascinante storia d’amore, ma anche di riscatto: come Psiche riesce ad ottenere dopo una serie di prove l’immortalità, così i Moroni celebrano la propria ascesa sociale, raggiunta con fatica grazie alle numerose abilità e alla forte determinazione.
Il Mezzanino
Lo Scalone conduce al mezzanino, quindi al piano nobile.
Delicatamente affrescato alla fine del Settecento da Paolo Vincenzo Bonomini, il mezzanino è, nonostante la sua funzione di servizio, un ambiente di grande eleganza, testimonianza del gusto e dell’amore per il bello della famiglia Moroni. Particolarmente raffinato è un piccolo ambiente voltato a botte e interamente affrescato, sulle cui pareti è raffigurata un’illusionistica balconata, decorata da putti e vasi di fiori, affacciata su un verdeggiante paesaggio. Un vero capolavoro di finzione prospettica, che dona allo spazio luminosità e atmosfera.
Le grandi Sale del piano nobile
Il piano nobile del Palazzo può essere suddiviso in due settori, da un lato le maestose sale di rappresentanza e, dall’altro, quello più intimo e privato: un insieme luminoso e scevro da pesantezza, grazie alla levità dei delicati stucchi veneziani sulle pareti e al seminato veneziano per la pavimentazione, introdotti nel XIX secolo per adattare gli ambienti alla moda del tempo.
Insieme agli affreschi che decorano la splendida teoria delle sale del piano nobile, si ammirano gli arredi e le preziose collezioni d’arte acquisite nei secoli dalla famiglia Moroni, tuttora proprietaria del palazzo. Degna di nota è la quadreria costituita da un nucleo significativo di dipinti del Rinascimento lombardo, tra cui spiccano tre ritratti di Giovan Battista Moroni (1523-1578): il Cavaliere in rosa, celebre capolavoro dell’artista, il raffinato Ritratto di Isotta Brembati e il Ritratto di donna anziana seduta, opera più matura di grande intensità. A questo primo nucleo appartengono inoltre una Maddalena penitente del Giampietrino, allievo e seguace di Leonardo da Vinci, e un Ritratto di famiglia del bergamasco Andrea Previtali.
La presenza dei ritratti a figura intera eseguiti dal Moroni non confonda però il lettore: il pittore non è direttamente imparentato con la famiglia ma appartiene alla discendenza dei Sereni (detti “Mori”), di cui capostipite fu Moro Moroni.
Più consistente è la sezione ottocentesca, costituita principalmente da paesaggi, molti dei quali opera di Pietro Ronzoni, ma anche da bellissimi ritratti di Cesare Tallone e Giuseppe Sogni. Non mancano infine testimonianze della pittura barocca, come i paesaggi di Pietro Roncelli o le stravaganti bambocciate di Enrico Albricci.
Eccezionali sono le dueconsole settecentesche della Sala da ballo, i cui piani sono costituiti da mosaici provenienti da Villa Adriana a Tivoli; particolarmente interessanti sono inoltre i mobili provenienti dalle botteghe illustri dei Caniana, dei Fantoni e del milanese Giuseppe Maggiolini.
Molto ricca è la collezione di ceramiche, che raccoglie oggetti realizzati da alcune tra le principali manifatture europee attive tra Sette e Ottocento, tra cui Meissen, Wedgwood, Sèvres e Capodimonte, e opere provenienti dal lontano Oriente, unico custode per secoli del segreto della porcellana.
Gli affreschi del Barbelli nelle grandi Sale del piano nobile
I suggestivi ambienti costituiti dalle grandi Sale di Palazzo Moroni conservano un meraviglioso ciclo di affreschi ispirato alle Metamorfosi di Ovidio, realizzato dal 1649 al 1654 da Gian Giacomo Barbelli, qui coadiuvato dai quadraturisti Giovan Battista Azzola e, nella Sala della Caduta dei Giganti, da Domenico Ghislandi, padre del celebre fra’ Galgario.
Dalla Sala dell’Età dell’Oro, custode dei capolavori della quadreria, si accede all’illusionistica Sala della Caduta dei Giganti e alla curiosa Sala dell’Apoteosi di Ercole, in un susseguirsi di meraviglie, ricche prospettive e squarci di cielo nel soffitto.
Gli antichi miti, tanto cari ai pittori del Seicento, lasciano il posto nella grande Sala da Ballo alle gesta degli eroi della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso.
Suggeriti dal committente Francesco Moroni, i soggetti degli affreschi, sia nelle grandi Sale del piano nobile così come nell’ambiente dello Scalone, ebbero come ispiratore ed interprete il contemporaneo padre Donato Calvi, priore del vicino convento di Sant’Agostino. Preziosa testimonianza del programma iconografico della dimora è un libretto, scritto e pubblicato dall’erudito nel 1655, intitolato Le Misteriose Pitture di Palazzo Moroni, nel quale sono descritte e spiegate con precisione e dovizia di dettagli le decorazioni degli ambienti di rappresentanza (2).
§§§
Nella Sala dell’Apoteosi di Ercole, l’eroe mitologico è su una quadriga dorata; con una mano impugna una clava e nell’altra le redini dei destrieri al galoppo. Gli fanno da contorno sulle nubi Giove, Giunone, Mercurio e Pan.
Nella Sala dell’Età dell’Oro (o Sala delle Stagioni), si nota subito l’imponenza di Saturno circondato da putti al centro del plafone, mentre nelle aperture della quadratura, sotto forma di personaggi femminili seduti su basamenti, quattro illustrazioni simboleggiano l’Allegrezza, la Semplicità, l’Abbondanza e la Pace, doti suggerite dai committenti. Sotto di essi vi sono le relative storie, mentre per le pareti, l’Azzola ha usato la medesima tecnica mostrata al Palazzo Terzi, con colori ricorrenti nelle varie rappresentazioni che abbiano un nesso logico.
Nella Sala della Caduta dei Giganti, decorata dal Barbelli con quadrature di Domenico Ghislandi, ciò che colpisce di più il visitatore è l’immagine dei Colossi che, fulminati da Giove, cadono verso il suolo con gli stessi macigni che si erano portati come armi. Il disegno plastico dei grandi corpi che cadono e l’insieme della composizione regalano un effetto suggestivo, tanto da accentuare l’azione di gravità terrestre e dare l’impressione di un autentico precipitare.
Il Salone, dedicato a Torquato Tasso e alla sua “Gerusalemme liberata” è il più ricco di decorazioni. Il soffitto, affrescato in modo da conferire all’ambiente l’illusione di una maggior altezza, raffigura l’atto in cui il Padre Eterno comanda all’Arcangelo Gabriele di informare Goffredo della missione che dovrà compiere in Terra Santa; e quello in cui l’Arcangelo informa Goffredo e un gruppo di angioletti che circonda l’Onnipotente, il quale appare fiducioso di quanto le truppe cristiane si apprestano a compiere.
Il plafone è solo l’inizio di un “racconto”, che continua sulle pareti secondo una stretta concatenazione di eventi-rappresentazioni.
Donato Calvi ha perfettamente eseguito il proprio progetto iconografico, esteso anche ad altre figure allegoriche che commentano la sequenza di disegni. Come le otto statue bronzate dipinte lungo i lati del salone. Quattro sono figure di donna e rappresentano la Fede, la Bravura, la Fatica e la Vittoria. Le altre hanno un aspetto virile e sono dedicate al Consiglio, allo Zelo, al Disprezzo ed al Giubilo.
Ai contemporanei può sembrare troppo “pieno” un simile ambiente, ma colmare le pareti equivaleva a mostrare tutta la propria ricchezza e nobiltà ed anche la simbologia delle immagini rappresentava un ottimo mezzo per raggiungere tale scopo.
Il settore privato del Palazzo: le sale ottocentesche
Nelle sale ottocentesche, che costituivano la residenza privata della famiglia, affreschi dai colori delicati riproducono sapientemente bassorilievi con la tecnica del trompe l’oeil, mentre colori sgargianti e soggetti fantasiosi ricostruiscono mondi classici o l’illusione di paesaggi esotici, come nella Sala Turca o nel Salottino Cinese.
Fatti decorare dal conte Antonio Moroni intorno al 1835, questi ambienti – la parte più abitata del palazzo – mantengono l’impronta del passato conservando gli accostamenti e le scelte originarie: negli arredi scelti con gusto, nei preziosi dipinti, nelle tappezzerie, nei soprammobili di autentico antiquariato, nelle specchiere antiche, nei lampadari, nei tappeti, negli ornamenti floreali. Ne risulta un susseguirsi di immagini suggestive e raffinate, sempre allineate ad un’efficace impostazione cromatica.
Di queste numerose stanze, restano più di altre impresse le Sale Gialla, Turca e Cinese, dove l’elemento determinante diviene l’arredo e lo stile particolare che le contraddistingue.
La Sala Gialla ha il soffitto a volta decorato con festoni dorati, medaglioni e riquadri con figure policrome di donna rappresentanti il teatro, la musica, la pittura e le arti in genere. Al centro del plafone, figure di fauni e di donne su fondo turchese, che richiama il colore dei riquadri posti all’altezza della cornice perimetrale. Vi è poi una fascia intermedia in chiaroscuro decorata con figure e scene di vario genere.
Nella piccola ma esemplare SalaCinese, i medaglioni del plafone sono raccordati da riquadri irregolari che attenuano l’andamento curvo del soffitto; prevalgono i colori celeste e rosso cupo che supportano la decorazione di un paesaggio dipinto con un insolito effetto avvolgente nella parte alta delle pareti. Ai mobili francesi laccati si aggiunge un camino marmoreo su cui spicca una specchiera di rara eleganza. Una seconda saletta ha il plafone decorato sui toni dell’azzurro e del verde intenso con riquadri decorati con ornamenti di fantasia la cui leggerezza attribuisce slancio ed ariosità alle esigue dimensioni del locale. La tappezzeria rosa mette in risalto la preziosità degli arredi.
Più semplice, dal punto di vista cromatico, la camerada lettocon plafone a volta affrescato da una serie di motivi a chiaroscuro ripetuti nella fascia perimetrale sottostante, che si alterna alla tappezzeria damascata grigio-perla. Il letto è sovrastato da un baldacchino drappeggiato.
La stanza da bagno, a stucco lucido, conserva invece una vasca in marmo costituita da un unico blocco, la cui realizzazione risale ai primi dell’Ottocento.
Ciliegina sulla torta è la balconata che scorre esternamente lungo il lato verso corte e conduce agli inattesi Giardini, che costituiscono il parco privato più grande di Bergamo alta, un autentico polmone verde nel cuore della città murata, dove i terrazzamenti arrivano a lambire i muraglioni della Rocca.
I Giardini all’Italiana
Sono composti da quattro generose terrazze di impianto seicentesco – impostate lungo la forte pendenza del colle di Sant’Eufemia -, e da un’area vasta, detta “ortaglia”, in parte terrazzata, frutto di annessioni ottocentesche e destinata a colture produttive.
Protetto sul lato verso la corte interna da una balaustra in pietra decorata con vasi scolpiti, il primo terrazzamento è caratterizzato da un parterre formale tipico dei Giardini all’Italiana.
Proseguendo oltre il parterre, un vano passante precede la scalinata racchiusa tra due mura di contenimento che conduce al secondo livello, con scorci sul paesaggio circostante. Qui si possono osservare un grande esemplare di biancospino, sulla destra, collezioni di iris e rose a destra e sinistra.
In asse con il primo terrazzamento, un’elegante scalinata adornata alla sommità da statue di putti e vasi scolpiti collega il secondo e il terzo terrazzamento. A destra e sinistra della scalinata si trovano due bordi misti di erbacee perenni.
Il terzo terrazzamento è dominato da un grande esemplare di olmo ed è caratterizzato dalla presenza di sei tassi, potati in forma, e da una collezione di piante acquatiche autoctone.
Sulla sinistra, dei gradini irregolari in pietra conducono all’ultimo livello dei giardini sino alla torretta di San Benedetto, eretta dai veneziani alla metà del Quattrocento e definita: “il pensatoio del Conte” confinante con le proprietà della Rocca.
Il Parco
A monte del sistema dei terrazzamenti si apre la vasta area del parco, che confina ad ovest con il complesso monumentale della Rocca e che è tuttora caratterizzato da esemplari arborei produttivi come i gelsi, simbolo della famiglia Moroni, i ciliegi e i fichi. Questo luogo è attualmente dedicato a progetti di nuove piantumazioni e ad eventi stagionali con grande affluenza di pubblico.
Ed infine una curiosità: al pianterreno di Palazzo Moroni sono conservati alcuni affreschi “strappati” dalle pareti del demolito Palazzo Olmo. Tra questi la bellissima Madonna con Bambino e Santi, opera quattrocentesca di artista ignoto.
Note
(1) La storia del casato Moroni risale al 1334 e al suo capostipite Sereno Moroni. Un primo ramo si distaccò nel 1390 con Peccino Moroni, un secondo ramo, nato nel 1419 con Marco, diede origine all’attuale dinastia. Dal 1500 al 1850, i Moroni si distinsero per le loro innate capacità tecniche ed intellettuali, espresse tra gli altri dall’architetto Francesco, dall’umanista e storico Antonio, dall’umanista e scienziato Pietro, nonché gli ingegneri Andrea e Bertolasio. Quest’ultimo completò il campanile di S. Maria Maggiore, fu l’autore di un ponte sull’Adda e, su incarico del Senato veneziano, di un ponte sull’Adige.
(2) Cfr. Il testo edito a Bergamo nel 1655: “Le Misteriose pitture di Palazzo Moroni spiegate dall’Ansioso Accademico Donato Calvi Vice Principe dell’Accademia degli Eccitati all’Illustrissimo Sig. Francesco Moroni”.