A solo una settimana dal suo ultimo trionfo sulle scene del Teatro “Duse”, Enrico Rastelli, il più grande “jongleur” del mondo, moriva improvvisamente a Bergamo, a soli trentaquattro anni d’età.
La notizia non fu creduta, tanto inattesa e inverosimile apparve a chi lo aveva visto, poche sere prima, pieno di vita, di gaiezza, all’apice della sua forma artistica, trascinare la folla a un delirante entusiasmo.
Non poteva essere possibile, non era giusto che una tale, fiorente vita, fosse tanto bruscamente troncata. E una teoria immensa di popolo, tutta Bergamo, dal più altolocato cittadino al più umile, si recò in mesto pellegrinaggio alla sua villa di via Mazzini per vederlo ancora, serbando nel cuore la speranza che la Morte, inesorabile sempre, si fosse una volta tanto sbagliata.
Ed invero, a vederlo là, nel suo letto, calmo, sereno, quasi sorridente, pareva a tutti che dormisse, che riposasse, in una delle brevi soste del suo lavoro febbrile, e che da un momento all’altro dovesse alzarsi e riprendere la serie fantastica dei suoi esercizi.
Ma le sue mani, le sue miracolose mani che avevano saputo infrangere le più possenti e rigide leggi della statica e della gravità, ceree, conserte, immobili, avvinte da una sottile coroncina di madreperla, si portavano nel silenzio della tomba il segreto della loro arte inimitabile.
Che cosa fosse l’arte di Enrico Rastelli si può riassumere in una parola: miracolo.
Chiunque abbia visto il suo “numero”, eseguito con palle di gomma e di cuoio d’ogni dimensione, con bastoni e piatti, a cui sapeva imprimere i movimenti più inverosimili e diversi, non troverà esagerata la parola.
Se altri artisti presentavano più o meno elegantemente difficilissimi esercizi di acrobazia sul cavallo, al trapezio, alle pertiche, tripli salti mortali, volteggi nel vuoto, nessuno esibiva una personale impronta che distinguesse l’uno dall’altro; ciò che invece eseguiva Rastelli, non poteva essere fatto che da lui.
Egli era riuscito, attraverso un particolare studio ed una pratica quotidiana di lunghi anni, a rendere i suoi esercizi inimitabili e ad ottenere in ciascuno di essi la massima prestazione; nessuno mai, prima di lui, aveva raggiunto una tale perfezione: in questo consisteva la sua peculiarità, ed egli incominciava il suo numero là dove altri si sarebbero accontentati di arrivare.
E ciò che maggiormente meravigliava il pubblico era la semplicità, la sobrietà e la spigliatezza con cui agiva, sicché il suo lavoro sembrava un gioco e non dava affatto l’impressione della sua enorme difficoltà.
C’era dunque l’arte, del sentimento in quello che apparentemente sembrava puro meccanismo.
Figlio e nipote di artisti circensi, scritturati nei circhi russi, aveva trascorso l’infanzia in parte con i genitori in giro per il mondo e in parte a Bergamo con gli zii materni e dove fu avviato allo studio del violino.
All’età di cinque anni aveva provato per la prima volta ad imitare il padre, dimostrando una precoce vocazione, contrastata da Papà Rastelli, equilibrista ed acrobata, che forse pensava a quali difficoltà si dovessero vincere per eccellere in quel genere di esercizi.
Ma il desiderio di intraprendere la professione circense aveva preso il sopravvento e giovanissimo volle raggiungere ii genitori a San Pietroburgo, dove iniziò a partecipare ai loro spettacoli in qualità di acrobata.
Nel frattempo coltivava segretamente la passione per la “giocoleria”, tenendo in equilibrio, lanciando e a riprendendo palle, cerchi, piatti, forchette, coltelli, cappelli, birilli, bastoni: non ci volle molto perché presto diventasse l’amico e il signore di quegli oggetti umili, casalinghi talvolta, che dovevano ubbidire ciecamente alla sua volontà.
Compreso lo straordinario talento del figlio i genitori crearono il Trio Rastelli, in cui la piccola famiglia italiana si esibiva in un ‘numero’ di giocoleria ed equilibrismo.
Un giorno, mentre, camuffato da ragazza si esibiva in un ‘numero’ di trapezi, la parrucca gli rotolò a terra, con grande divertimento del pubblico. Ferito nell’orgoglio Enrico decise fermamente di darsi alla sua passione: la giocoleria; ma l’agilità degli equilibristi aerei e degli acrobati avrebbe avuto una grande importanza per la sua futura carriera.
Ben presto cominciò a coltivare il desiserio di emergere fino ad oscurare la fama di tutti i giocolieri che lo avevano preceduto. Iniziava così, per Enrico Rastelli, una vita oscura di fatica e sacrificio, attraverso un’applicazione intensa e continua. Più tardi, con quel lavoro avrebbe mantenuto i suoi vecchi e, a sua volta, si sarebbe fatto una famiglia.
I suoi modelli? L’americano Kara e il francese Pierre Amoros, una combinazione di fantasia e abilità, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo.
L’artista trascorse la giovinezza tra la Russia e l’Oriente, dove ebbe modo di perfezionare la sua formazione. Prese lezioni di danza da Vaslav Nijinsky e scoprì, grazie al giocoliere giapponese Takashima, i giochi di Awata: su un bastone tenuto tra i denti, faceva rimbalzare, o teneva in equilibrio, una o più palle.
Rastelli entrava in scena con un kimono dai ricami sontuosi, sotto il quale indossava un completo di seta bianca. Alla sacralità del gesto appresa dagli orientali, fu capace di affiancare la spettacolarità occidentale e una velocità di esecuzione mai vista prima di lui.
In Russia nel 1915, all’età di diciannove anni debuttava come solista nel circo Truzzi, ai tempi in cui quel mondo ai giocolieri preferiva di gran lunga gli acrobati e i domatori.
Nello stesso anno superò il record di nove palle detenuto dal giocoliere francese Pierre Amoros, riuscendo a giocolarne dieci: “Nessuno può immaginare quanta fatica ciò mi sia costato! Il pubblico non si accorse nemmeno che io giocavo con una palla di più, ma i miei colleghi lo capirono”.
L’allenamento gli costava una fatica immensa. Il suo esercizio richiedeva una fissità estenuante di attenzione che logorava i nervi e creava una paurosa anemia. Pallido, esangue, eseguiva il suo “numero” con uno sforzo terribile, che ad ogni esercizio lo lasciava prostrato.
Ma anche un giocoliere può soffrire di quell’allucinante amore che è l’amore per l’arte, e giocolare esige un lavoro costante e tenace. Per imparare a mantenere l’equilibrio anche durante il sonno, si obbligò per un periodo a dormire su una branda appesa alle corde del bucato.
Sapeva che in nessun mestiere la scala dei valori è così chiara e nettamente suddivisa come nel mestiere del jongleur, per il quale Strehly, il più grande storico della vita e del lavoro del circo, nel 1905 aveva stabilito una gerarchia, seguita a tutt’oggi dagli specialisti del genere: tenendo due oggetti in aria si è un bambino; tenendone tre si è, talvolta, il papà di quel bambino; ma è a partire da quattro palle che un giocoliere comincia ad essere degno di questo nome; a cinque è bravissimo; a sei si è maestri; a sette si è fuoriclasse. A otto palle credo che sia impossibile arrivare”.
Se il celebre Kara, il più famoso giocoliere dell’Ottocento, faceva roteare in aria sette palle, Enrico Rastelli al Palazzo d’Estate di Bruxelles superò quella barriera di ben due punti, immettendo nella ruota dieci oggetti. Egli aveva dunque conquistato il record mondiale. E lo tenne insuperato fino alla morte. Per riuscirci si allenava dalle 6 alle 12 ore al giorno – senza nemmeno fermarsi quando parlava -, e ciò fino a pochi giorni prima di morire.
Nel 1917 sposò Henriette Price, una funambola che aveva dovuto corteggiare per qualche anno prima che il padre di lei, un famoso clown, acconsentisse al matrimonio.
Con l’arrivo della rivoluzione e della guerra, Rastelli e la sua famiglia furono costretti ad abbandonare Pietroburgo, perdendo quasi tutti i loro averi dopo un viaggio avventuroso fino a Odessa (1919), dove riuscirono a imbarcarsi sulla nave italiana “Roma”, inviata dal governo per recuperare i connazionali. Tornarono così in patria, dove però Rastelli era quasi uno sconosciuto.
La svolta che diede il via al suo successo mondiale avvenne nel 1921. Il giocoliere, scritturato in quel momento dal circo Gatti & Manetti, fu notato dall’agente inglese Henry Sherek, che lo ingaggiò per una tournée nei più importanti teatri di varietà europei, tra cui l’Alhambra di Parigi e l’Olympia Hall di Londra.
Questi ingaggi, che segnarono il passaggio dal circuito dei circhi quello dei teatri di vaudeville (un genere teatrale nato in Francia a fine Settecento, molto simile ai teatri di varietà), lo indussero a cambiare stile, giocolando contemporaneamente con cinque palloni da calcio.
E fu nel 1922, all’Alhambra di Parigi, che avvenne il suo grande battesimo. Aveva allora venticinque anni e il suo nome era pressoché ignorato dai parigini, appassionatissimi del genere ma anche molto intransigenti.
Il successo fu trionfale. Folle enormi trassero a vederlo, di lui si occupò tutta la stampa proclamandolo senza indugio il primo giocoliere del mondo. Già fin d’allora si presentò con il famoso esercizio degli otto piatti lanciati in aria e ripresi, tenendo un bastone ed una palla in equilibrio sulla fronte.
Ma la sua arte non si limitava alla velocimania: egli complicò i suoi esercizi con equilibrismo ed acrobazia, dando appunto con questo la sensazione dell’impossibile.
I bergamaschi ricordano lo strardinario esercizio che consisteva nello stare sdraiato sulla schiena, con un’ampia stella in metallo girante sulla punta d’un piede, un anello girante attorno all’altro piede, un’altra stella su un bastone in bocca, nel contempo facendo volteggiare tre bastoni con le mani stando su un supporto roteante.
Egli era infatti anche un maestro di “combinazione” di stili, come giocolare con sei piatti facendo girare un cerchio con un piede e saltando la corda girata da due assistenti, anche se la base dei suoi “numeri” restavano i pezzi fondamentali – cerchi, bastoni, palle, piatti – lanciati nella “ruota”, quasi sempre combinati tra loro.
La scelta di questi oggetti – i più adatti ad essere afferrati e lanciati – era una peculiarità che lo distingueva dagli altri giocolieri della sua epoca, che erano soliti giocolare con oggetti di uso quotidiano.
Riuscì in tal modo a raggiungere un livello tecnico notevolmente al di sopra di quello dei suoi contemporanei, arrivando a giocolare con otto piatti, otto bastoni e dieci palline.
Dopo aver spopolato in Europa, per Rastelli arrivò il momento degli Stati Uniti: nel dicembre del 1922 firmò un contratto con Herbert Marinelli, uno degli agenti più famosi d’America. Per 750 dollari a settimana e con il nome ben evidenziato in cartellone, fece una tournée nel circuito di sale Keith-Albee.
Ebbe un immediato, grandissimo successo e si esibì nei più importanti teatri di varietà americani, compreso il celebre Palace di New York, dove i giornali lo definirono l’”ottava meraviglia del mondo”.
Capitava a volte che qualcuno, tra il pubblico americano, salisse sul palcoscenico per controllare le palle ed i bastoni per constatare che non vi fossero trucchi: “Spesso volevano toccare me per assicurarsi che non fossi cosparso di gomma arabica. Se volessero capire che qui non c’è né miracolo né trucco! Un artista ha bisogno di talento e allenamento, nient’altro!”, affermava Rastelli.
Una volta ritornato nel vecchio continente, i teatri di varietà di tutta Europa fecero a gara per accaparrarsi il meraviglioso giocoliere che entusiasmava con I suoi “triks”; tra i tanti, anche il Wintergarten di Berlino – un esempio illustre dell’affascinante teatro vaudeville, vero e proprio ‘tempio’ per il mondo dello spettacolo, che lo accolse il 1 agosto 1926 nel leggendario Giardino d’Inverno.
A Berlino si presentò al pubblico – che aveva prenotato i posti un mese prima – con tre piatti nella mano destra, due nella sinistra, uno in bocca, e due appoggiati alla cintura. Poi, in un attimo, gli otto piatti si staccarono dal suo corpo, salirono, rotearono in aria, composero tra la sua mano e il cielo del palcoscenico un cerchio magico, continuando in questa candida danza per venti secondi, per quanti cioè egli poteva, teso nello sforzo, tenere il fiato e reggere così questa giostra suprema. Per giungere a questo egli si era allenato sei anni, per quattromila ore.
E proprio qui, nel leggendario, antico Giardino d’Inverno, venne ritratto in una fotografia – perfetta sintesi della sua arte – che finì sulle locandine dei teatri di mezza Europa.
Rastelli ottenne un successo dietro l’altro, sia di pubblico che di critica, e attirò l’attenzione di artisti e intellettuali del tempo: le sorelle Vesque, illustratrici, lo ritrassero in alcuni disegni;
il direttore della sezione teatrale del Bauhaus, Oskar Schlemmer, raccomandò ai propri studenti di studiarne gli allenamenti;
lo scrittore Joachim Ringelnatz gli dedicò una poesia; e ancora: “Divenni superbo come un bimbo quando a Parigi il poeta René Bizet mi disse: ‘Lei ha istinto e naturalezza prodigiosi, come le foche del capitano Winston!’”.
Acclamato, celebrato in tutti i continenti, ormai ricco a milioni, l’artista italiano fu fotografato in ogni posa, sia durante i suoi esercizi, sia nella vita quotidiana; perfino dentro la vasca da bagno mentre leggeva il giornale tenendo in equilibrio un pallone sulla testa.
Popolare come nessuno in un mondo che ancora non conosceva la televisione, fu anche testimonial pubblicitario per diversi prodotti: calze di seta – capo d’abbigliamento che il giocoliere indossava in scena –, palloni, sigarette, addirittura macchine da scrivere.
Rastelli e la moglie ebbero tre figli: Elvira (1919), Anna (1921) e Roberto (1929).
Ogni estate tornavano a Bergamo, per trascorrere del tempo con i due vecchi genitori e i bambini, che egli non voleva portare in giro per il mondo perché potessero studiare e fare, un giorno, una vita differente dalla sua.
Nella torre della bellissima villa liberty di via Mazzini, Enrico allestì il proprio laboratorio personale, dove si divertiva a costruire gli attrezzi che poi avrebbe utilizzato in scena, a fabbricare piatti e bastoncini di legno, a colorare nuove palle.
A chi gli chiedeva se a Bergamo dedicasse del tempo anche al riposo, Rastelli rispondeva perentorio: “Oh mai più! Mi metterò a giocolare all’aria aperta, nel mio giardino. Mi eserciterò a nuove idee, a nuove difficoltà.
Riposare, non mi dice proprio niente. Io voglio gettare palle in aria, fare un salto e riprenderle a volo”.
Inoltre l’infaticabile giocoliere proseguiva i lunghi, quotidiani, allenamenti presso il teatro Duse, davanti alla platea vuota, alla presenza solo dei vecchi genitori, mentre i suoi bambini scoprivano finalmente qual era il lavoro di quel papà che era sempre lontano e che arrivava, con quei birilli e quelle palle di gomma, diritto diritto dall’America.
Il genio di Rastelli si manifestò non solo nella ferrea disciplina con cui si allenava, ma anche nella curiosità insaziabile che lo portava alla continua ricerca di idee su cui costruire ‘numeri’ sempre nuovi. Nel 1930 debuttò in Germania come giocoliere ‘calciatore’.
Con palle di cuoio cucito, eseguiva i suoi incredibili esercizi come se fosse su un campo di calcio: si faceva lanciare uno dopo l’altro una ventina di palloni senza toccarli con le mani, se li faceva passare dal calcagno alla nuca, di qui al ginocchio, dal ginocchio alla testa e li lasciava infine cadere a piombo, per calciarli con violenza nella rete allestita in fondo al palcoscenico.
In ogni esercizio c’era del meraviglioso che faceva pensare a qualche influsso magnetico che egli comunicasse ai suoi strumenti di lavoro: vederlo riprendere le palle di cuoio sulla testa, sulla nuca, sulle guance, sulla punta delle dita, su piedi, sui polpacci, in posizione verticale, prono, supino, seduto, e fermare la palla al punto giusto, privandola d’ogni suo minimo movimento, sembrava che fosse possibile solo in virtù di nascoste calamite o che addirittura le palle avessero una sensibilità ed obbedissero ciecamente al volere del loro padrone…. Il numero durava circa un’ora, in cui non un attimo di riposo, non una minima sosta: e un brio, una leggerezza, un’eleganza affascinante. E si può dire che un applauso solo accompagnasse tutto il tempo del suo lavoro il miracoloso artista. Ogni altro numero del programma impallidiva di fronte al suo, la gente non veniva che per lui, per il suo Rastelli.
Dopo l’ennesimo successo clamoroso, Rastelli fu invitato come ospite d’onore in diverse manifestazioni sportive: in un cine-documentario lo si vede in campo con i giocatori dell’Atalanta mentre fa passare agilmente il pallone dalla testa alle spalle e alla schiena, senza che questo rovesci a terra.
Le grandi metropoli se lo contendevano, i grandi impresari lo accaparravano con cifre favolose, sicuri del suo enorme successo e dei colossali guadagni.
Nel 1929 Rastelli era di nuovo al di là dell’ Atlantico, scritturato dal grande Zigfield per le sue “Follie di Broadway”, il massimo riconoscimento cui un attore di music hall o di circo possa aspirare (paga: circa 16 milioni di oggi alla settimana).
Tornò in Europa alla fine dell’ estate, anticipando di poche settimane il tuono di Wall Street e la serie di tempeste a catena che poco dopo avrebbero terrorizzato l’Occidente.
L’ADDIO
Nel 1931 si presentò finalmente l’occasione per uno spettacolo in Italia, dove Rastelli non si esibiva da 10 anni e dove la sua notorietà non era così grande come nel resto del mondo. Tornare, celebre, davanti al nostro pubblico che di lui, italiano nomade, doveva così poco rammentare, fu per lui una grande gioia.
Firmò un contratto con la ditta Suvini-Zerboni: il debutto era previsto per i primi giorni di dicembre proprio nella ‘sua’ Bergamo, al teatro Duse, che scelse come prima tappa della tournée. Poi sarebbe stata la volta di Milano.
Pochi giorni prima che arrivasse in Italia, durante una rappresentazione tenutasi a fine novembre al teatro Apollo di Norimberga, uno spettatore gli aveva lanciato con eccessiva violenza il pallone che lui doveva fermare con un bastoncino tenuto tra i denti.
Il numero riuscì ma Enrico venne lievemente ferito al palato, tradito e colpito da uno dei suoi strumenti.
Non riusciva ad arrestare l’emorragia, che continuò anche durante il viaggio verso Bergamo.
Arrivato a Bergamo si sottopose ad alcune visite mediche: gli fu diagnosticata l’emofilia e consigliato un periodo di riposo. Ma a dispetto delle precarie condizioni di salute decise di continuare: nella sua Bergamo, che tanto adorava, voeva tenere uno spettacolo di beneficienza per aiutare I bambini poveri della città.
Il teatro era gremito di gente; un pubblico insolito era accorso, chiamato dalla sua arte e dalla sua generosità. Applausi frenetici e riconoscenti lo accolsero al suo comparire, sorridente e lieto. C’erano tanti bimbi, felici, che lo chiamavano a gran voce, e Rastelli si prodigò: voleva che quella fosse una memorabile serata.
Ma in quel corpo gracile di maestro di equilibri. la piccola, lievissima percossa aveva turbato il suo, di equilibrio.
Calato il sipario sull’ultimo applauso, egli si accasciò, infranto: lo sforzo supremo aveva spezzato il suo fragile involucro di nervi, l’ombra già scendeva su di lui. Egli forse sentì, in quell’istante, qualcosa cadere, qualcosa che più non ubbidiva. La morte aveva toccato Enrico Rastelli con una mano che era anche più leggera della sua di giocoliere, come per una macabra sfida. Rastelli pensava di guarire.
Quel miracolo di equilibrio che è l’esistenza si scomponeva e si disfaceva in un baleno, nel buio della notte. La sua vita terrena non doveva aver più luce, il suo breve viaggio era compiuto. La mano magica di Enrico Rastelli non si muoveva più.
La morte lo colse nella notte fra il 12 e il 13 dicembre nella sua casa di via Mazzini. Aveva 34 anni.
Della sua inimitabile arte non restava che l’eco dello sfolgorante turbinio di oggetti in movimento che le sue mani fatate sapevano ricomporre in armonioso ordine.
Ma di lui rimaneva ben altro, e restava l’esempio raro di una vita tutta spesa per il lavoro e per la gloria, conquistata tenacemente, lentamente, giorno per giorno, rinunciando a tutto, in uno sforzo continuo e sfibrante di nervi, con la volontà tesa ad un unica meta. Vent’anni di lavoro silenzioso, oscuro, metodico, accasciante, ignorato da tutti senza di che la sua apparente magia sarebbe stata inattuabile.
Al lavoro aveva sacrificato tutto: la ricchezza, il lusso, le gioie familiari; ogni conquista nel campo della sua arte non era altro che una spinta a intensificare la sua fatica, ad aumentare il suo lavoro. Aveva assicurato ai suoi genitori, alla consorte e ai figli una vita serena nella pace della magnifica villa di via Mazzini; per sé non aveva riservato che l’arena di un circo o il palcoscenico di un teatro per lavorare.
Si era sempre vantato del suo nome, disdegnando allettanti pseudonimi; volle essere apprezzato solo per quanto valeva.
Ma i suoi concittadini non ignorarono che il fato lo aveva colpito proprio in quel suo gesto generoso, e con le loro preghiere lo accompagnarono nel viaggio Eterno e lo deposero nelle braccia del Signore.
La scomparsa di Rastelli ebbe una potente eco, la notizia fu rilanciata dalle radio e dai giornali nazionali e internazionali.
Nel dare la notizia, in critico tedesco si fece prendere dalla commozione e scrisse che Dio, lassù, avrebbe concesso a Enrico Rastelli il privilegio riservato solo al migliore di tutti i giocolieri: continuare il suo numero anche in paradiso. Usando le stelle invece dei birilli.
I funerali si svolsero a Bergamo il 15 dicembre: il corteo funebre, che partì dalla villa di via Mazzini, era gremito di artisti e di persone comuni. Migliaia di persone. Il centro della città fu chiuso al traffico, le lezioni nelle scuole furono interrotte per permettere agli insegnanti e agli alunni di rendere omaggio al meraviglioso giocoliere, i teatri osservarono un minuto di silenzio.
La moglie di Rastelli ripose nella bara anche due bastoncini di legno e una piccola palla, il simbolo stesso della vita del più grande artista di circo del ventesimo secolo.
Venne sepolto al Cimitero Monumentale nella cappella di famiglia, dove una statua a grandezza naturale lo ritrae con un pallone in equilibrio sul dito.
Il mausoleo del giocoliere è ancor’oggi meta di pellegrinaggio per gli artisti circensi di tutto il mondo. E proprio lì il 23 dicembre del ‘56, nel venticinquesimo anniversario della morte, il presidente dell’Académie du Cirque, giunto appositamente a Bergamo da Parigi, tenne un discorso di commemorazione.
IL PRIMO MONUMENTO ALL’ALPINO, DAVANTI ALL’ACCADEMIA CARRARA
Per risalire al primo monumento dall’Alpino presente in città bisogna tornare al 1921, quando il Comando del 5° Reggimento Alpini proveniente dalla caserma Mainoni di Milano viene inserito nella 2ª Divisione alpina di stanza a Bergamo, dove prende possesso della Caserma Camozzi, in via S. Tomaso.
Via che tra l’altro certuni dicono chiamarsi, all’epoca, “via della Milizia”, anche se – a quanto risulta dallo Stradario storico – si chiamava come oggi, mentre “piazza della Milizia” (questa l’effettiva definizione) esisterà come tale solo dal 1929 venendo abolita almeno dal ’49.
Nel corso del trasferimento il 5° Reggimento porta con sé il proprio monumento, che solo dopo un anno sarà innalzato di fronte alla caserma Camozzi nella piazzetta antistante l’Accademia Carrara.
Nel frattempo, in previsione dell’arrivo del 5° Alpini, gli alpini bergamaschi, perlopiù ufficiali che avevano combattuto nella Grande Guerra si fanno promotori della fondazione di una Sezione bergamasca dell’ANA (Associazione Nazionale Alpini), e dopo una riunione nel salone al primo piano del Cappello d’Oro il gruppo bergamasco delle penne nere è ufficialmente costituito, invitando ad aderire tutti gli alpini ed ex alpini di Bergamo e provincia.
Il primo atto della neonata Sezione è l’invito a tutti i soci a prendere parte in corpo alle onoranze che saranno tributate di lì a tre giorni al 5° Reggimento, durante la cerimonia di inaugurazione del monumento e della targa intitolata a Gabriele Camozzi, che verrà apposta sulla parete dell’omonima Caserma alla presenza del Re Vittorio Emanuele III.
L’opera, realizzata nel 1915 dallo scultore milanese Emilio Bisi, ricorda un’episodio particolare della campagna di Libia, avvenuto nel 1912 nei dintorni di Derna (Darnah), città della Libia nord-orientale.
In quell’occasione, l’alpino Antonio Valsecchi della Val San Martino, rimasto senza munizioni insieme ai compagni del Battaglione Edolo, fronteggiava l’attacco dei nemici scagliando pietre e massi.
Il bronzo volle perciò rievocare l’eroico episodio, raffigurando l’alpino nell’atto di lanciare una grossa pietra, aiutandosi con entrambe le braccia.
Finalmente, il 15 giugno del 1922 il monumento viene solennemente inaugurato, alla presenza di Sua Maestà Vittorio Emanuele III.
Nonostante ciò, il peregrinare del monumento non è terminato. Nel 1926 infatti il 5º Reggimento deve riprendere la strada per la Brigata alpina di Milano portando appresso l’opera; opera che dopo diversi spostamenti verrà definitivamente collocata ai Giardini Valentino Bompiani, in via Vincenzo Monti (zona Pagano) (1).
Dal canto loro gli alpini bergamaschi non si rassegnano alla perdita di un’opera, il cui significato ha ormai oltrepassato la commemorazione dei Caduti della Guerra di Libia per divenire simbolo degli alpini Caduti in tutte le battaglie.
A lungo coltivano il proposito di erigere un monumento all’Alpino a ricordo dei loro compagni in Bergamo, formulando voti in occasione di adunate ed assemblee. Dalla mozione presentata il 24 febbraio 1957 al Consiglio Sezionale per l’erezione di un nuovo monumento, risulta che per la sua realizzazione – sempre procrastinata per problemi attinenti l’attività della Sezione – gli alpini avevano avanzato diverse proposte: chi lo voleva eretto nei giardini prospicienti il palazzo dell’Istituto Tecnico e chi ne escludeva l’erezione persino in una piazza; altri ancora avevano pensato ad un’opera di maggior imponenza, che unisse il fine prefissato all’utilità e alla valorizzazione artistico-turistica della città.
Non era possibile, per gli alpini, tradurre in cifre il contributo di sangue “della nostra gente bergamasca”. Realizzando l’iniziativa essi avrebbero “placato le ombre dei nostri Caduti spesso dimenticati” e lasciato “ai figli dei nostri figli il ricordo di una pagina di gloria e di sacrificio”.
Nel 1957 finalmente venne assunto un formale impegno da parte dell’assemblea sezionale, in ottemperanza al quale il Consiglio direttivo diede corso alle pratiche dando vita a un Comitato (3), nominando una Commissione tecnico-artistica (4) e indicendo un regolare bando di concorso nazionale (2 maggio 1957) per la scelta del progettista e dello scultore che avrebbe dovuto occuparsi esclusivamente della realizzazione dell’opera.
I progetti dovevano pervenire entro il 31 dicembre 1958, in quanto inizialmente l’anno fissato per l’inaugurazione del monumento era il 1960.
Nel bando il Comitato voleva dare alla città un’opera che esprimesse qualcosa di nuovo pur ricalcando lo spirito antico. Avrebbe perciò dovuto associare elementi simbolici a quelli ornamentali, traendo ispirazione, “sia pure in una vastissima gamma di possibilità espressive, dalla secolare tradizione alpina della gente orobica”, al fine di “suscitare nel pubblico un senso di rispetto e di ammirazione per il largo contributo che le genti bergamasche hanno dato in pace e in guerra alla formazione dei reparti alpini”.
DAL CONCORSO ALLA POSA DELLA PRIMA PIETRA
La partecipazione al concorso fu imponente: ben 40 artisti inviarono dalle più diverse parti d’Italia i loro bozzetti, nessuno dei quali fu ritenuto rispondente allo spirito e alla lettera delle direttive impartite. Si indisse quindi un concorso di secondo grado tra i sette artisti che avevano presentato le opere di maggior pregio, dividendo fra di essi i premi stabiliti nel bando, quale contributo per i nuovi bozzetti da presentare.
In questa seconda fase la commissione trovò l’opera che rispondeva ai requisiti richiesti, ma non tralasciando di suggerire alcune modifiche.
Vincitore fu un collettivo composto dallo scultore bolognese Peppino Marzot, dagli architetti Giuseppe Gambirasio, bergamasco, Aurelio Cortesi, di Parma, Nevio Parmeggiani, di Bologna. Al secondo e al terzo posto si classificarono rispettivamente lo scultore Giuseppe Cassani e lo scultore Giancarlo Marchesi.
Scelto il bozzetto, nel 1959 si provvide a dare corso all’esecuzione dell’opera, d’intesa con il comune di Bergamo, che convinto della nobiltà del monumento metteva a disposizione una delle migliori zone della città bassa – il Giardino Lussana – e prestava ogni sua possibile collaborazione.
Non per nulla, il sindaco Tino Simoncini era un alpino; alpini erano molti assessori e consiglieri comunali ed alpini si sentivano un po’ tutti i membri dell’amministrazione della città dei Mille, della città capoluogo di una provincia che tanti suoi figli aveva dato e continuava a dare ai reparti alpini.
Lo spirito e la solidarietà alpina (circa diecimila gli associati) con l’ausilio del Comune di Bergamo, dalla Provincia, di alcune banche, altri Enti e privati, ne permisero la realizzazione (5).
Per assicurarsi che il terreno fosse atto a sopportare il peso del monumento, si dovette ricorrere a un’indagine da parte di esperti del Politecnico di Torino, dopodiché, con la posa della prima pietra avvenuta il 31 gennaio 1960 alla presenza delle autorità cittadine, malgrado i problemi tecnici e soprattutto di carattere finanziario il desiderio degli alpini diveniva realtà.
Per desiderio di tutte le sezioni alpine bergamasche l’inaugurazione del monumento venne fatta coincidere con la 35ª Adunata Nazionale degli alpini, prevista a Bergamo per il 1962. Per Bergamo sarebbe stata la prima adunata.
Nel momento in cui la statua era in fusione, qualcuno si accorse che sul cappello dell’alpino mancava la famosa “penna” e si dovette provvedere in gran fretta.
18 MARZO 1962: L’ INAUGURAZIONE DI UN MONUMENTO DA OSSERVARE CON IL CUORE
Nessun altro monumento cittadino ebbe un tale concorso di folla, neppure quello dedicato a Donizetti. Gli alpini giunti a Bergamo furono, secondo la voce ufficiale dell’ANA, 70.000; altri ne contarono 80.000, altri ancora 100.000; tutta la città fu un brulicare di cappelli alpini che la invasero gioiosamente da ogni parte d’Italia e con ogni mezzo.
La 35ª Adunata nazionale dell’Associazione Alpini si era aperta ufficialmente il 17 marzo – giorno antecedente la cerimonia d’inaugurazione -, con l’omaggio del Consiglio Direttivo al monumento innalzato a Cassanno d’Adda all’ideatore delle milizie alpine e fondatore del Corpo, Giuseppe Domenico Perucchetti.
Nello stesso giorno, il Consiglio depose corone d’alloro alla Torre dei Caduti e al monumento ai Fratelli Calvi e in Comune si svolse un ricevimento ufficiale durante il quale il sindaco, avv. Costantino Simoncini, espresse tutta la simpatia e l’affetto della città per gli alpini.
Alpini che per due giorni furono i padroni assoluti di Bergamo, tanto che non c’era via o piazza dove non si vedessero penne nere. Sul loro incontenibile entusiasmo – che travolse transenne, forze dell’ordine, cordoni e quant’altro potesse tenere la gente lontana dagli alpini – si regolò la stessa vita cittadina. E l’organizzazione venne messa a dura prova.
La mattina del 18 marzo tutti i gruppi alpini si riunirono in località Conca d’Oro per organizzare e dare vita alla grande sfilata che durò oltre quattro ore. Considerato il gran numero di persone giunte in città venne stabilito di iniziare le cerimonie con l’inaugurazione del monumento, cui doveva poi seguire il corteo: l’inverso di quanto in genere si faceva per l’inaugurazione dei monumenti.
Alle 9,15 circa di quel 18 marzo, una quarantina di minuti dopo rispetto all’orario stabilito, per il ritardo dell’aereo che trasportava l’allora Capo del Governo Fanfani e il ministro della Difesa Andreotti, cominciò la grande manifestazione, alla presenza delle massime autorità della città e dell’ANA.
Davanti al monumento era stata eretta una vasta tribuna e, fra questa e il monumento, l’altare da campo. Sulla sinistra erano schierati i reparti di truppa alpina e d’artiglieria da montagna del 5° con relativa banda nonché un reparto del 68° Rgt. Fanteria.
Attorno all’altare erano sistemati i gonfaloni comunale e provinciale, il labaro nazionale dell’A.N.A. con le 209 medaglie d’oro, quello della sezione di Bergamo e del Nastro Azzurro, bandiere, labari, fiamme e gagliardetti di tutte le associazioni patriottiche e d’arma, e dei 160 gruppi della sezione di Bergamo.
Mons. Piazzi, vescovo di Bergamo, dopo aver dato lettura del telegramma inviato per l’occasione agli alpini da S.S. Giovanni XXIII° e vergato dal Card. Cicognani, benedì la bronzea figura dell’alpino che si inerpica per il camino, delimitato dalle due alte guglie. Subito dopo, l’ordinario militare mons. Pintonello celebrò la santa messa.
Al termine il presidente della sezione di Bergamo, dott. Gori, rivolto un breve saluto alle autorità ed agli alpini e fatta una sintesi della storia del monumento, lo consegnò ufficialmente alla municipalità; il Sindaco, ringraziando, garantì che sarebbe stato custodito “come una cosa cara, con l’amore che si riserva ai simboli di una passione accompagnata dai fremiti dell’emozione profonda”.
Ebbe quindi inizio la grande sfilata aperta dalla bandiera del 5° Reggimento seguita dal colonnello La Verghetta, dalla fanfara del 5°Alpini, da un gruppo di alpini con le più vecchie uniformi e dal battaglione d’onore formato da una compagnia di alpini e una batteria di artiglieria da montagna. Il battaglione di formazione dell’Orobica più che aprire la sfilata dovette fendere un corridoio tra la folla per poter defluire agevolmente sul percorso stabilito.
Subito dopo, veniva il labaro dell’Associazione Nazionale portato dalla medaglia d’argento Angelo Mora, alpino di Schilpario e scortato dal Presidente nazionale avv. Erizzo, dal segretario Nobile, dagli alpini che nel 1919 fondarono a Milano l’Associazione Alpini e da tutto il Consiglio Direttivo.
Il corteo continuava con il gonfalone di Bergamo decorato della medaglia d’oro al valore risorgimentale accompagnato dal sindaco Simoncini – ufficiale alpino medaglia d’argento – e dai membri della Giunta comunale; appresso seguivano i rappresentanti delle associazioni d’arma con i labari; quindi i mutilati e gli invalidi di guerra.
Iniziò poi la sfilata dei “veci” in congedo delle diverse sezioni.
I primi ad aprire la sfilata furono gli alpini della sezione di Zara, di Fiume e di Pola, tre città italiane per le quali combatterono tutti i “veci” del ‘15-’18; essi portavano uno striscione che a fatica riusciva ad avanzare in mezzo alla folla: “Gli alpini della Dalmazia e dell’Istria, vivi e morti sono qui”.
Ad essi facevano seguito gli alpini che si trovavano all’estero, delle sezioni di Montevideo, del Belgio, della Svizzera e della Francia. Mentre non erano ancora spenti gli applausi per queste penne nere, scoppiò fragoroso l’entusiasmo per gli alpini della città di Trieste, la città che ha maggiormente sofferto per unirsi alla madrepatria.
Il monumento venne sentito come un giusto tributo d’onore e di amore verso i compagni, che per la Patria avevano immolato la vita, dall’Africa alle due grandi guerre mondiali del ‘15-’18 e del ‘40-’45. Venne pensato per ricordare e celebrare l’eroismo e il sacrificio di migliaia di bergamaschi che nei reparti alpini hanno combattuto e sofferto per la Bandiera Italiana e di tutti coloro che in ogni tempo hanno compiuto e compiono il loro dovere da alpini.
Per quattro ore gli alpini di tutte le sezioni d’Italia sfilarono in corteo lungo il Viale Vittorio Emanuele e viale Roma, l’attuale viale Papa Giovanni, fra due ali compatte di folla plaudente e commossa.
A due anni dall’inaugurazione del monumento, l’opera si completò nel modo più degno, intitolando il Giardino Lussana a “Piazzale degli Alpini”.
Note
(1) Secondo Gualandris (Op. cit.) fu nel 1938 che il monumento ed il Comando ripresero la strada per Milano, da cui dovettero ripartire nel 1946 perché il Comando era stato trasferito a Merano. Gli alpini di Milano però chiesero ed ottennero che in quella città venisse inviata una copia del monumento e, da allora, rimase della metropoli lombarda in via Pagano.
(3) Commissione composta dal dott. Giovanni Gori, presidente; dott. Guglielmo Abate, segretario; rag. Renzo Cortesi, tesoriere. Inoltre, dal magg. Vittorio Galimberti; l’avv Giovanni Rinaldi; i ragionieri Giacomo Bertacchi, Gerolamo Dominoni, Aldo Farina, Giuseppe Maffessanti, Cesare Omboni; i dottori Antonio Leidi, Livio Mondini, Alessandro Valsecchi (Arnaldo Gualandris, Op. cit.).
(4) A componenti della commissione tecnico-artistica furono nominati il Presidente della sezione bergamasca dell’Associazione Alpini, dott. Giovanni Gori, i due vice presidenti magg. Vittorio Galimberti e rag. Giuseppe Maffessanti, il consigliere nazionale dott. Antonio Leidi, lo scultore Mingozzi, professore della Brera di Milano, il prof. Trento Longaretti, direttore della Scuola d’arte dell’Accademia Carrara, l’arch. Giuseppe Pizzigoni, per designazione dell’ordine degli architetti e l’ing. Federico Rota, allora presidente dell’ordine degli ingegneri (Arnaldo Gualandris, Op. cit.).
(5) Il piano finanziario predisposto per reperire i dieci milioni dei quindici preventivati, riguardava esclusivamente gli iscritti dell’associazione alpini di Bergamo. L’onere gravante su ognuno di essi ammontava a lire 1.000, da versarsi anche in più rate, purché entro il 1960 (anno fissato in un primo tempo per l’inaugurazione del monumento). Per i rimanenti 6 milioni il Consiglio pensava a contributi di enti e privati. Ma dopo la scelta del bozzetto, le modifiche apportate allo stesso e l’adozione dei materiali più rispondenti ad un’opera di tanta importanza, la spesa lievitò notevolmente raggiungendo, con la sistemazione anche dei giardini, la cospicua somma di 48.000.000 (A. Gualandris, Op. cit.). In un bollettino dell’ANA l’ammontare fu invece di 46.000.000, raccolti interamente tra gli alpini bergamaschi.
Riferimenti
Arnaldo Gualandris, Monumenti e colonne di Bergamo, a cura del Circolo Culturale G. Greppi. Bergamo, 1976 (con introduzione di Alberto Fumagalli).
Con la dominazione austriaca (1815-1859), a Bergamo si avviano i primi consistenti processi di mutamento della città in senso moderno, che segnano un periodo di forte espansione economica e di una gestione della cosa pubblica esemplare dal punto di vista del’efficientismo amministrativo e della organizzazione urbana.
Nella prima metà del secolo, con l’ascesa della nuova borghesia produttiva lo “scivolamento” della città al piano si fa più consistente, portando a compimento le trasformazioni della struttura urbana già avviate nel periodo napoleonico.
Dal 1732 l’antichissimo mercato di Bergamo, posto a metà fra i borghi, può finalmente avvalersi di una Fiera stabile in muratura, disposta su un’area quadrata con 540 botteghe. Verso sud il Sentierone, parallelo alle Muraine, diventa un’arteria per il collegamento dei borghi.
Con l’erezione dei Propilei in stile neoclassico nel 1837, nella Barriera daziaria delle Grazie viene aperto il varco di Porta Nuova, rappresentando simbolicamente l’ingresso monumentale alla città degli affari.
L’anno successivo (1838), in occasione della visita a Bergamo di Ferdinando I d’Austria inizia la costruzione del primo tratto della Strada Ferdinandea (futuro Viale Vittorio Emanuele), che, partendo da Porta Nuova laddove s’incontrano le due spine dei borghi che da Città alta si protendono al piano, sale con un lungo rettilineo tagliando gli orti e i grandi broli dei monasteri fino alla Porta di Sant’Agostino.
Grazie alla Ferdinandea, da un lato viene superata quella frattura con Città Alta creata a partire dal 1561 con la costruzione delle mura veneziane e, dall’altro, si viene a creare una vera e propria arteria moderna, che presto diverrà la spina dorsale intorno alla quale verrà ridisegnato l’intero volto della città.
Nel 1857, quando la ferrovia raggiunge Bergamo viene eretta la Stazione Ferroviaria – in asse con Porta Nuova – e lo scalo merci.
Demolita la quattrocentesca chiesa di S. Maria delle Grazie – che avrebbe impedito la prosecuzione assiale del viale -, la Strada Ferdinandea viene prolungata verso sud fino alla stazione (chiamandosi in questo tratto viale Napoleone III), completando la spina dorsale della futura “Città Bassa”, attorno alla quale si sviluppa una intensa attività edilizia ed urbanistica che, soprattutto dopo gli anni post-unitari, porterà alla formazione di un nuovo centro.
Intanto con l’800 si va sempre più consolidando il trasferimento delle sedi del potere amministrativo e statale nei pressi della Fiera, con la costruzione di edifici pubblici di corrente tardo-neoclassica disposti lungo il corso che unisce i due borghi centrali, quello di S. Leonardo e quello di S. Antonio, che ancora si configurano come il margine netto di passaggio tra l’urbano e la campagna.
Nel frattempo la finanza bergamasca si evolve e modernizza attraverso lo sviluppo del sistema bancario e la collocazione di nuove sedi, mentre alla fine del secolo si osserva la costruzione del Manicomio e del Ricovero (1892), del Cimitero monumentale (1896) e del Teatro Donizetti (già Teatro Riccardi). Decisivo per l’espansione della città sarà l’abbattimento delle Muraine nel gennaio del 1901, mentre la discussione sulla Fiera darà luogo alla costruzione del centro piacentiniano.
L’AREA DELLA STAZIONE
Il monumentale, sovradimensionato rettifilo intitolato a Napoleone III (oggi viale Papa Giovanni XXIII), espressivo di un’epoca caratterizzata dal monumentalismo neoclassico e dalla moda del passeggio, viene delimitato da filari e alberature che ne evidenziano il ruolo e l’importanza.
Le mappe catastali del 1853 e del 1866 depositate presso l’Archivio di Stato di Bergamo documentano le trasformazioni avvenute nell’area a sud del monastero delle Grazie: una zona ancora fortemente rurale (se si esclude il monastero, due case coloniche, le fabbriche del Salnitro e per la filatura del Cotone nonché un piccolo deposito per le bestie infette), che, come detto, con la scelta localizzativa della Stazione Ferroviaria e la creazione del grande viale Napoleone III – prosecuzione della Ferdinandea -, manifesta il primo segno di apertura a sud della città.
Gli spazi ad est del viale, sul sito dell’attuale piazzale degli Alpini, vengono riorganizzati mediante la creazione della Piazza d’Armi (nota come “Campo di Marte” e luogo di esercitazione militare), in funzione della quale, sull’estremità orientale, in corrispondenza dell’attuale via Foro Boario viene costruita la struttura del “Bersaglio” con il suo lungo corridoio di tiro.
Per creare la piazza d’Armi, viene deviata e canalizzata la roggia Morlana, di cui abbiamo una bella testimonianza.
L’esigenza di donare una nuova funzione agli spazi e ai luoghi della città bassa richiede una nuova collocazione degli usi esistenti e pertanto, in seguito al nuovo progetto della sede della Provincia nel 1865 il Mercato del Bestiame viene trasferito nella Piazza d’Armi, proseguendo il suo lungo itinerare, vecchio quanto la storia della città.
Nasce da qui la denominazione di Foro Boario (in latino Forum Boarium o Bovarium), toponimo mutuato da un’area sacra e commerciale dell’antica Roma collocata lungo la riva sinistra del fiume Tevere, tra i colli Campidoglio, Palatino e Aventino, che prese il nome dal mercato del bestiame che vi si teneva.
I MERCATI DEL BESTIAME NEL TEMPO
Se in antico i mercati si tenevano nell’antica “Platea S. Vincentii” (attuale area del Duomo), dove a cadenze fisse affluivano i prodotti del territorio (sale, biade, formaggi, ferramenta e panni, bestiame…), con lo straordinario sviluppo commerciale nel periodo della dominazione veneziana il mercato cittadino si frazionò in alcune piazze che nella loro attuale denominazione ancora richiamano l’antico ruolo merceologico: Mercato del Fieno, Mercato del Pesce, Mercato del Lino (ora piazza Mascheroni), Mercato delle Scarpe, dove – afferma Luigi Volpi – si teneva il mercato degli asini e dei buoi, spostato nel 1430 a Porta Dipinta.
Nel Duecento in tutta la città solo una beccheria gestita dal Comune era autorizzata alla macellazione e alla vendita e doveva essere già localizzata nell’attuale via Mario Lupo nelle botteghe di proprietà dei Canonici di San Vincenzo. Dopo due secoli le beccherie erano quattro, di cui una in borgo Pignolo, una in San Leonardo e una in Sant’Antonio.
la “Domus Calegariorum”, in piazza Mercato delle Scarpe, ospitava anche il Paratico dei Beccai (macellai), dove oggi sorge il palazzo della funicolare.
Intanto nella città al piano, già prima dell’anno Mille, in coincidenza con le festività del santo patrono si teneva una grande fiera annuale nel Prato di S. Alessandro, dove con il tempo confluirono tutti i mercati della città, divenendo ben presto un centro economico e finanziario di grande importanza nel circuito delle fiere cittadine italiane ed europee: tanto che alla metà Cinquecento, grazie alla sua grande capacità produttiva Borgo S. Leonardo sembra già somigliare a una piccola città nella città, mentre cresce la tendenza al trasferimento di funzioni sempre più importanti del centro cittadino – la Città alta – verso la città Bassa (trasferimento che aumenterà significativamente con l’erezione delle mura veneziane, erette fra il 1561 e il 1595, ritrovando nuovo vigore nel Sette/Ottocento).
Nel vasto prato di S. Alessandro, la scarsa durata della manifestazione commerciale (pochi giorni alla fine di agosto), non pretendeva strutture o infrastrutture speciali, se non terreno sgombro ed acqua; ma il sistema di seriole e rogge già esistente e perfezionato nel Quattrocento garantiva il buon funzionamento del periodico affollarsi, oltre che di merci, anche di bestiame, qui presente sin dal 1579 in un mercato settimanale; nel 1593 i Rettori concessero che si tenesse i primi quattro giorni della prima settimana intera di ogni mese.
Anche se non è semplice stabilire come fosse distribuito tale mercato, è noto che in fiera, insieme alle più svariate mercanzie locali affluiva il bestiame allevato nella pianura e nelle valli, da dove scendevano in gran numero animali provenienti da zone specializzate in allevamenti: cavalli da Selvino, pecore da Clusone e Parre (1), muli (dei quali si faceva molto uso nelle miniere per il trasporto del minerale, del carbone, del ferro, ecc.), buoi e vitelli dalla valle Seriana, per i quali si conservava libera una determinata zona.
Da una relazione fatta dagli ispettori della Repubblica Veneta nel 1591 si parla di un mercato dei cavalli lungo la strada che va dal borgo di S. Antonio a S. Leonardo, mentre Gelfi allude per quel periodo ad un mercato del bestiame, specialmente bovino, che si teneva i primi tre giorni della prima settimana del mese (2).
Il bestiame diretto in città sostava nella piana di Valtesse (in antico detto Tegies o Teges per le sue tettoie atte al ricovero delle bestie), dove in parte doveva essere allevato.
Nel Settecento, presso il Prato di S. Alessandro si tenevano due mercati del bestiame: uno a maggio e l’altro dal primo all’otto novembre, in occasione del “mercato dei Santi” (il terzo dei mercati annuali cittadini insieme a quelli di S. Antonio e S. Lucia), dove veniva commerciato “bestiame d’ogni specie ed in copiosa quantità”. Più tardi il governo napoleonico dispose l’allontanamento del mercato del bestiame dalla zona del Sentierone, con la dichiarata volontà di migliorare le porte di accesso alla Fiera, come vetrina della città moderna.
Tralasciando le tante notizie contraddittorie riportate dalle fonti per l’Ottocento, una una carta del 1809 attesta il Mercato dei Cavalli tra il Portello delle Grazie e il Teatro Riccardi (oggi Donizetti), mentre nella Pianta del 1816 disegnata dal Manzini l’indicazione generica di Mercato del Bestiame compare tra l’attuale Prefettura e l’allora Teatro Riccardi (3), non molto distante dal vecchio Campo di Marte (Piazza d’Armi).
Dopo la metà dell’Ottocento, in previsione della costruzione della sede della Provincia si realizzò un nuovo Mercato del Bestiame presso la nuova Piazza d’Armi, nel grande prato che presto assunse il nome di Foro Boario: un’ampia zona che comprendeva l’area dell’attuale Piazzale degli Alpini e della Stazione delle Autolinee.
IL FORO BOARIO, IL MERCATO DEL BESTIAME E IL MACELLO
Come osservato, nel 1857, con l’erezione della Stazione Ferroviaria e l’apertura dell’attuale Viale Papa Giovanni XXIII la città aveva aperto un varco verso sud, continuando quell’opera di rinnovo urbano che era cominciata nel 1837 con l’apertura della Porta Nuova e l’erezione dei Propilei – ingresso monumentale e qualificato alla città degli affari -, seguita immediatamente dall’apertura della Strada Ferdinandea.
Tutta l’area a sud delle Muraine iniziava ad assumere una nuova configurazione, cambiando il volto di un’area che da rurale si apprestava a diventare “urbana”.
Attraverso le mappe del 1876 e del 1892, leggiamo le trasformazioni avvenute nella zona, che riscontriamo anche nelle tante immagini giunte a noi.
Dal 1865 il nuovo Mercato del Bestiame occupa dunque la Piazza d’Armi presso la Stazione, e suddiviso in Mercato dei Cavalli, dei Bovini e dei Suini (4), attira una vivace folla di compratori e venditori, animando tutta la zona.
Una bellissima fotografia di Cesare Bizioli, risalente al 1885, rende bene l’idea della collocazione del Mercato, posto in corrispondenza dell’attuale piazzale degli Alpini.
Almeno dal 1876 si inizia a tracciare la via del Macello (attuale via A. Maj) fino alla rogge Nuova e Morlana, ed entro il ’92 la via sarà completata, delimitando il lato nord del piazzale con il nuovo fronte del Macello comunale (1890), che possiamo ammirare nelle splendide immagini che seguono.
Intanto, entro il 1876, all’imbocco del piazzale della Stazione sorge il piccolo bar-ristorante intestato a Luzzana Maddalena, poi divenuto Albergo Stazione ed oggi sede di Mc Donald, in Piazzale Guglielmo Marconi.
Alla soglia del 1892 il Foro Boario, dopo la copertura delle rogge e alcuni accorpamenti compare nella sua massima estensione, con le due gradinate che lo delimitano verso il viale per superare il dislivello e il fronte est corrispondente all’attuale via Foro Boario delimitato dal muro dell’ex-Bersaglio.
All’interno, compare la tettoia per l’alloggiamento dei cavalli, realizzata nel 1889 ed in seguito ridimensionata.
Mentre il grande viale e l’area del Foro Boario acquistano via via una loro definizione, a sud è comparso l’edificio della Ferrovia della Valle Seriana (1882-1884 circa) ed entro il 1906 sarà realizzato quello liberty della Valle Brembana, rappresentando una nuova opportunità economica e un
ulteriore radicamento della centralità di Bergamo nel contesto
montano.
Nel 1892 la via Paleocapa è ancora da attuare ma già delineata, con in testa il nuovo Palazzo Dolci, eretto in stile eclettico all’incrocio con il viale della Stazione.
Oltre il viale della Stazione si sta delineando la passeggiata in continuità del viale stesso con alcuni edifici sparsi .
Verso la fine dell’Ottocento, sul lato orientale è quasi completamente aperta la via Foro Boario, impostata sul sito dell’antico Bersaglio, a collegare l’area del Macello con la Stazione Ferroviaria.
Agli albori del Novecento, la qualificazione architettonica di tutta l’area ulteriormente viene favorita dalla realizzazione in stile liberty della Stazione della Valle Brembana (1904-1906 arch. R. Squadrelli).
Nel frattempo in viale Roma emergono, in posizione frontale al Foro Boario Casa Paleni (1902-1904), commissionata da Enrichetta Zenoni Paleni a Virginio Muzio e dalla ricca facciata in stile liberty.
Emerge poi per la compattezza anche se con una composizione più rigida la Casa del Popolo, progettata inizialmente da Virginio Muzio (scavi e posa della prima pietra risalgono al 1904), ma variamente realizzata da Ernesto Pirovano e completata nel 1908, anno della sua inaugurazione.
Dagli inizi del Novecento, anche se in tutto il territorio bergamasco la zootecnica restava una una coltura piuttosto povera e poco evoluta, il Mercato del Bestiame era diventato il principale della Lombardia, grazie alla posizione strategica delle città che catalizzava la produzione proveniente soprattutto dai distretti montani.
Ogni settimana venivano messi in vendita circa 15.000 cavalli, 2.000 fra muli e asini, 25.000 bovini adulti, 2.000 vitelli, 3.000 tra pecore e capre e 3.000 suini (l’afflusso nel corso dell’anno variava a seconda dell’andamento stagionale).
Il mercato, però, serviva soprattutto per l’esportazione, dato che la popolazione operaia era vegetariana “per necessità”, causa le scarse disponibilità economiche (5).
Tuttavia, verso il 1915, quando il Foro Boario perse la sua agibilità a causa della costruzione di nuovi edifici, il Mercato del Bestiame venne trasferito alla Malpensata, a quei tempi estrema periferia. Nel frattempo, in occasione delle celebrazioni del centenario del Donizetti (1897) si faceva strada l’idea di riqualificare architettonicamente ed urbanisticamente sia il viale Vittorio Emanuele e sia il Foro Boario, porta d’ingresso alla città dalla stazione: i lavori per la costruzione dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II e del giardino antistante (attuale piazzale degli Alpini) si avvieranno a partire dal 1921.
Intanto il Consiglio Comunale decideva di concentrare diversi mercati presso il Foro e nel 1909 deliberava di adattare 1.700 mq da destinare ad un eterogeneo “Mercato delle verdure”, da tenersi parallelamente al Mercato del Bestiame. Si commerciavano prodotti come latticini, granaglie (frumento, granoturco, orzo, segale), riso, lenticchie, fagioli e patate, che costituivano l’alimentazione principale per la maggior parte delle persone (6): con la riqualificazione del Foro Boario, il Mercato delle verdure dovette confluire – se non tutto, almeno in parte – presso la struttura a pianta ellittica del Mercato ortofrutticolo, costruita su progetto di Ernesto Pirovano (1913-16), con l’affaccio principale su via S. Giorgio. Sotto i suoi porticati liberty avveniva la vendita quotidiana di frutta e verdura, mentre l’edificio principale ospitava gli uffici di controllo e i depositi merci.
IL CICLODROMO/IPPODROMO E BUFFALO BILL
Alla fine dell’Ottocento, fuori la vasta area del Foro Boario, verso l’attuale via Fantoni venne realizzata la struttura del Ciclodromo, teatro di sfide fra corridori ciclisti anche stranieri – dove di certo non mancavano le scommesse – utilizzato anche come Ippodromo.
Nelle intenzioni della società che lo gestiva (la “Società Bergamasca di Sport e Ciclodromo”) avrebbe dovuto essere un grande impianto sportivo, il primo in città per le riunioni velocipedistiche.
La struttura, presente nelle piante dell’epoca, dovette restare in uso per una ventina d’anni, dal momento che in una cartina del 1920 non è più evidenziata.
In un secondo momento, un altro Ippodromo sarà realizzato nell’area tra l’ex Lazzaretto e i Celestini, da dove dovrà sloggiare nel 1928 per l’erezione dello Stadio Brumana: nella seconda piantina infatti l’Ippodromo accanto al Lazzaretto compare in concomitanza con la struttura del Ciclodromo presso il Foro.
Gli avventori erano accolti all’ingresso da una facciata posticcia, dipinta in stile neogotico su di un rivestimento in legno, con la denominazione della Società in bella mostra.
La pista ebbe un ospite d’eccezione, Buffalo Bill, che all’inizio del secolo si esibì in città per ben due volte (compreso il 1906) a distanza di pochi anni, offrendo uno spettacolo ricco di connotazioni esotiche, non solo con indiani d’America ma anche con cosacchi, arabi, africani… Vi fu anche la singolare sfida con un ciclista bergamasco, Perico, e dopo un’emozionante gara, il grande cow boy a cavallo batté il concorrente in velocipede.
Nel 1906, lo show si svolse in una struttura coperta (un tendone da circo?), sfruttando l’energia di un potente generatore elettrico. I dettagli di questo evento sono descritti minuziosamente da L’ Eco di Bergamo del 3 maggio 1906.
IL MERCATO DEL BESTIAME ALLA MALPENSATA: NASCE IL MERCATO DEL LUNEDI’
Verso il 1915 dunque, il riassetto di tutta l’area del Foro Boario e la costruzione di nuovi edifici avevano dato luogo al trasferimento del Mercato del Bestiame nell’allora periferico piazzale della Malpensata, reso agibile in seguito alla recente dismissione del Cimitero di San Giorgio, che si trovava tra la chiesa omonima e il piazzale.
E fu grazie al nuovo Mercato del Bestiame, che si teneva il lunedì, che si consolidò l’usanza di allestire alla Malpensata il grande ed eterogeneo “mercato del lunedì”, dove sino a poco tempo fa si smerciavano i prodotti più svariati.
Il lunedì, giorno di mercato, i primi a riversarsi in città erano i mandriani provenienti dal contado, che si davano di turno e di cambio ogni qualche lunedì; viaggiavano sistemati per lo più su carri e carretti trainati da cavalli e talvolta da muli, stracolmi di bovini destinati al macello o al mercato che lo concerneva.
“Tentavano l’avventura nella città e i meno timidi addirittura all’ingresso di quelle case un po’ riposte le cui vestali, come se li trovavano davanti, subito li portavano al lavandino del servizio annesso alle stanze fatali per un cautelare ‘rigoverno’. Un’operazione sempre opportuna prima degli abbandoni a mercenarie lascivie”.
Per le povere bestie, il viaggio verso Bergamo “era una tappa interlocutoria verso la soluzione finale che gli animali presentivano e denunciavano in lamentazioni struggenti; lamentazioni che nella bella stagione risvegliavano subito quei cittadini che dormivano con le finestre aperte. C’era poi anche il sottofondo, il grufolio dei porcelli contrappuntato, nel periodo pasquale, dai belati delle caprette che già vedevano il figlioletto sgozzato, arrostito e offerto in bella vista tra verdi grasèi e gialle polente”. A questi suoni si univano le urla dei venditori.
Dopo le bestie e i mandriani, al mercato arrivavano i mediatori – col fazzoletto al collo tenuto da un anello – i venditori e i rivenditori, così come gli acquirenti di granaglie e di concimi, gli allevatori con i loro esperti di fiducia, i rappresentanti delle ditte produttrici di attrezzi e macchine agricole.
Tutti armati di taccuini e di matite copiative, si allogavano ai tavolini dei caffè e delle mescite del centro, dove alcune osterie raccoglievano i mediatori delle valli ed altre quelli della pianura. Solitamente il Caffé Dondena (poi demolito) raccoglieva i subalterni, mentre i “padroni” si recavano al Cappello d’Oro, dove poi avrebbero pranzato.
Nel secondo pomeriggio, dopo aver congedato i mercanti ormai ubriachi (qualcuno diretto alla corriera ed altri a piedi, spingendo col bastone fino a casa le bestie acquistate), costoro prendevano la via di quelle case dove già avevano indugiato i giovani mungitori, aggirandosi in quei vicoli intorno a Piazza Pontida, dai nomi un po’ misteriosi (del Bancalegno, dei Dottori, di San Lazzaro, della Stretta degli Asini) dove “pulsava la presenza, domiciliare e lavorativa, di signorine o ex signore, talora anche un po’ sul declino, dai fascinosi nomi d’arte: la Parigina, la Sigaretta, la Fornarina, l’Avorio Nero, la Nuvola. Le favorite degli operatori del lunedì che più potevano spendere e che potevano anche concedersi una cenetta al Ponte di Legno” (7).
Quando il sole cedeva alla sera e si rinfrescava l’aria, Città alta si profilava nel cielo nitida e sola, ed estranea ai mercati del Borgo sembrava una gran dama, che dal suo balcone assisteva sorridente a una festa di paese.
Resistettero quei lunedì non troppo oltre l’ultimo dopoguerra.
Negli anni Cinquanta, specialmente in occasione del “mercato del lunedì” il palazzo della Borsa Merci fu a lungo sede di contrattazioni ed infine si pensò alla realizzazione di un nuovo Mercato del Bestiame e di nuovo Macello pubblico.
LA TRADIZIONE DEL LUNA PARK
Come testimoniato dalle tante immagini giunte a noi, per molto tempo l’antesignano del Luna Park trovò la sua collocazione ideale nell’allora Piazza Baroni, sull’area oggi compresa tra il Palazzo di Giustizia e il Palazzo della Libertà, a pochi passi dai pazienti ricoverati presso il vecchio Ospedale di San Marco, a lungo costrette a condividere la promiscuità con gli schiamazzi e gli olezzi provenienti dall’area.
Era la parte riservata al divertimento della Fiera di Sant’Alessandro, che richiamava un gran numero di persone dalla provincia e dalle regioni vicine. Arrivavano giocolieri, saltimbanchi, piccoli circhi, ambulanti; meraviglie e attrazioni di ogni genere: le oche ammaestrate, la donna barbuta, il gorilla, la balena impagliata. Ma venivano presentate anche le meraviglie del secolo, compresa la fotografia, che un fotografo ambulante portò a Bergamo poco dopo l’invenzione di Daguerre.
Con l’abbattimento della Fiera verso la fine degli anni Venti, il Luna Park trovò una sede più idonea presso il Foro Boario, dove – racconta Luigi Pelandi – si ergeva solitamente un grande anfiteatro a mo’ d’arena e dove soprattutto durante il periodo della Fiera si combinavano delle ascensioni con il globo aerostatico, esercizi di acrobazia, esibizioni ginniche, corse di cavalli, ed altro ancora.
In seguito, per un breve periodo si posizionò nei giardini della Casa del Popolo (sede odierna de L’Eco di Bergamo) e successivamente, per un certo periodo (verosimilmente nel dopoguerra) dovette sostare nel grande campo incolto che si estendeva tra l’attuale piazza della Repubblica e viale Vittorio Emanuele.
Agli albori degli anni Cinquanta, la costruzione del palazzo dell’INPS e la riqualificazione del piazzale costrinsero i baracconi della Fiera di Sant’Alessandro a trasferirsi sul piazzale di terra battuta della Malpensata, dove periodicamente, da qualche tempo doveva stazionare il Circo equestre, di cui si conserva una testimonianza.
Una fotografia datata 1957/58 – Elefanti alla “Zuccheriera” di Porta Nuova – attesta per quegli anni la presenza di un Circo equestre nelle vicinanze del centro; l’abbigliamento estivo dei bambini lascia supporre che la ripresa sia stata eseguita in primavera, in occasione dell’allestimento del Circo alla Malpensata.
In occasione della sistemazione del piazzale della Malpensata, messo a punto nel ’64, il Luna Park della festa patronale di Sant’Alessandro si trasferì presso il Piazzale della Celadina, dove rimase per una cinquantina d’anni finché di recente non venne spostato in un’area adiacente.
LA RIQUALIFICAZIONE DEL FORO BOARIO E LA COSTRUZIONE DELL’ISTITUTO TECNICO VITTORIO EMANUELE II
Mentre la nascita, tra il 1882 e il 1906, degli edifici delle Ferrovie delle Valli rappresenta un primo segno di qualificazione architettonica dell’area, sull’ampio piazzale si realizzano interventi tesi a razionalizzare e concentrare diverse attività, destinando – come detto – 1700 mq del foro per il Mercato delle verdure.
Con le celebrazioni del centenario del Donizetti (1897) comincia tuttavia a farsi strada un progetto di più ampio respiro, teso a riqualificare il viale Vittorio Emanuele e il Foro Boario, che costituiscono la porta d’ingresso alla città dalla stazione.
La decisione di collocare sul sito il nuovo palazzo per accogliere l’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II (concepito come embrione di una cittadella degli Studi), realizzando il nuovo giardino pubblico antistante, sarà determinante nella definizione dell’attuale area del piazzale.
Dopo la posa della prima pietra il 23 settembre 1913 alla presenza del re Vittorio Emanuele III, l’edificio verrà costruito in due diverse fasi, di cui gli studi riportano date discordanti.
Il progetto, che prevedeva per il complesso un’impostazione a C e a prospetto lineare con un corpo centrale emergente, fu affidato all’ing. Michele Astori, ma venne indetto un concorso di architettura per la facciata nel 1913, vinto da Marcello Piacentini. Luigi Angelini coordinerà i lavori, su cui poi interverrà con delle modifiche l’ing. Ernesto Suardo.
La prima ala venne terminata nel 1922 e completata nel 1934-1936 con la variante del corpo centrale disegnato dal Piacentini (8), mentre il complesso è completato nel 1936 e nell’ottobre dello stesso anno è inaugurata l’ala nuova (9).
Nel corso dei lavori del primo lotto il Comune realizza il primo impianto dei giardini pubblici che, seppur diverso rispetto al progetto iniziale (10), è ben evidenziato nelle foto aeree del 1924 con la rete geometrica dei vialetti e il parterre della sezione centrale che enfatizza l’architettura aulica e monumentale del nuovo edificio. Le due ampie piazzole ai lati erano destinate ad aree di sosta.
Mentre l’intero Foro si anima Foro con la presenza di alcuni chioschi e di strutture di svago, Bergamo cresce; di lì a poco, tra il 1933 e il ’36 verrà realizzata la nuova Stazione delle Autolinee, che si raccorderà al giardino pubblico – posto a una quota inferiore – mediante un’ampia gradinata di collegamento.
L’ARRIVO DELLA STAZIONE DELLE AUTOLINEE CANCELLA LA TORRE E LO STADIO “BARLASSINA”
Nel 1957 la stazione è sottoposta ad una complessiva ristrutturazione per la realizzazione della Stazione delle Autolinee, in occasione della quale viene innalzato il grande arco di sostegno in cemento e tiranti e della struttura delle pensiline: il terminal venne ritenuto all’avanguardia.
E’ probabilmente in questa occasione che viene demolita l’alta torre che sorgeva a lato del fronte sud-est dell’Istituto Tecnico, la cui collocazione si precisa in alcune immagini di repertorio.
La ritroviamo in altre due riprese eseguite probabilmente per immortalare la piena del torrente Morla del ’37 e del ’49.
Ed è probabilmente a causa della realizzazione della Stazione delle Autolinee che viene abbattuto il piccolo Stadio Barlassina (11) che sorgeva a fianco della F.V.B. e di cui è difficile reperire la data di costruzione.
Si è osservato che l’origine del nome Barlassina potrebbe derivare dall’arbitro più famoso degli anni Trenta, Rinaldo Barlassina – di origine novarese – scomparso a Bergamo nel 1946 per un incidente stradale. Se ciò fosse vero, il campo di calcio dovette perdurare solo per pochi anni in quanto il piccolo stadio, con il fondo in in terra battuta, venne demolito agli inizi degli anni Cinquanta.
La struttura occupava parte dell’area dell’attuale Stazione delle Autolinee e confinava con la FVB.
D’estate il campo ospitava il celebre torneo detto “Notturno”, poi sostituito dal “Palio 18 Isolabella” che negli anni ’50/’60 si teneva ogni sera d’estate e con grande affluenza di pubblico sul campo dell’Olimpia nell’Oratorio di Borgo Palazzo, a cui partecipavano – profumatamente pagati e sotto falso nome – anche calciatori professionisti (12).
IL DOPOGUERRA E LA NASCITA DEL “GIARDINO LUSSANA”
Nel Dopoguerra, tra i vari progetti avviati per la ricostituzione del patrimonio arboreo delle aree verdi pubbliche devastate durante la seconda guerra mondiale, si avvia quello del “Giardino Lussana”, nome che assume il giardino antistante l’Istituto Vittorio Emanuele II.
Dopo qualche variante apportata nel luglio del ’46 viene realizzato il nuovo giardino progettato da Luigi Angelini, con il viale in asse con la facciata dell’Istituto e l’aiuola centrale con piazzola. Le immagini raccontano la sua evoluzione.
Nel frattempo via Paleocapa va assumendo il volto attuale.
DAL MONUMENTO ALL’ALPINO AL DECLINO E ALLA RINASCITA DELL’AREA
Nella Bergamo da tempo privata di un monumento dedicato agli alpini ed in seguito alle pressanti richieste degli alpini bergamaschi, nel 1957 si decide finalmente di issare in città un nuovo monumento. Per la collocazione la scelta cade sul Giardino Lussana, ed in seguito a un concorso nazionale vengono affidate agli arch. Giuseppe Gambirasio, Aurelio Cortesi e Nevio Armeggiani la progettazione, la collocazione e la realizzazione dello slanciato monumentocon vasche d’acqua dedicato agli alpini, mentre la scultura bronzea dell’Alpino arrampicante è di Peppino Marzot.
La posa della prima pietra avvenne il 31 gennaio del 1960 e per desiderio degli alpini bergamaschi l’inaugurazione viene fatta coincidere con l’adunata nazionale degli alpini, che si terrà a Bergamo il 18 marzo del 1962.
L’altezza del monumento diventa un preciso riferimento urbano, accentuando maggiormente la centralità dell’impianto del giardino – titolato d’ora in avanti Piazzale degli Alpini -, a scapito della visione del palazzo dell’Istituto Tecnico.
Negli anni 80 inizia il declino della Stazione delle Autolinee, con l’aumento degli scippi, delle rapine e soprattutto dello spaccio di droga. La sala d’aspetto diventa un bazar dello spaccio e ostello per sbandati e clochard di ogni sorta.
Mentre crescono le retate e i presidi delle forze dell’ordine, e crescono le telecamere, si muove anche la solidarietà con l’istituzione del camper di Don Fausto Resmini e i volontari della Caritas. Nel 2010 iniziano i lavori per riqualificare il piazzale degli Alpini per la costruzione del moderno Bergamo Science Center (arch. Giuseppe Gambirasio e Marco Tomasi), finchè non si approda all’ennesimo restyling dell’area, frutto di storia recente.
VECCHI RICORDI DI VIA ANGELO MAJ
Nel 1953 il vecchio Macello comunale di via A. Maj fu spostato alla Celadina e poco dopo la sua demolizione fu costruito l’istituto Secco Suardo.
Nella stessa via, oggi trasfigurata, c’erano altre attività storiche come il Mulino Oleificio Callioni, la Trattoria del Bue Rosso e l’edificio del Monopolio di Stato. Quest’ultimo era stato costruito prima della seconda guerra mondiale e per tantissimi anni aveva mantenuto la stessa impostazione: tabacchi sulla destra, sale sulla sinistra, un ampio cortile ombreggiato da un grande fico al centro.
Poi i Monopoli arrivarono al capolinea, con l’affidamento della manifattura e della distribuzione del tabacco ai privati ponendo fine a una delle ultime testimonianze di quella che può essere considerata una vera e propria epopea.
Dopo la loro privatizzazione, avvenuta tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del nuovo secolo, nel giugno del 2005 lo storico deposito di via A. Maj è stato ceduto dallo Stato e destinato a complesso residenziale e negozi, evocando nel nome (Residenza Monopoli) i gloriosi trascorsi.
Pur pur non presentando alcun pregio artistico, l’intervento edilizio, eseguito su progetto dell’architetto Pietro Valicenti, ha mantenuto, ristrutturandolo, il fronte su via Maj perché legato al vincolo imposto dal vecchio piano regolatore. L’unica modifica ha riguardato l’ampliamento dei riquadri sulla facciata che sono stati rimpiazzati da ampie finestre.
Note
(1) A Bergamo la lana era prodotta e commerciata già dal Duecento e nel ‘500 Bergamo, Milano e Como, costituivano di gran lunga la principale area laniera italiana e una delle principali d’Europa, cosicché, nella seconda metà del ‘500, grazie al raggio d’azione internazionale dei potenti mercanti bergamaschi legati soprattutto alla manifattura della lana (settore fondamentale in ambito tessile bergamasco), la grande Fiera di Bergamo godeva del suo massimo splendore. La manifattura tessile legata soprattutto al settore laniero legato ai panni di lana della Val Gandino (una delle componenti essenziali della Fiera) si esaurì rapidamente con la caduta della Repubblica di Venezia, per gli ostacoli posti al commercio internazionale e dal ripetuto variare dei regimi doganali, che nel periodo napoleonico favoriscono i mercati francesi. Il settore laniero era ormai incapace di reggere la concorrenza lombarda, soprattutto milanese (da M. Gelfi, La fiera di Bergamo: il volto di una città attraverso i rapporti commerciali, Ed.Junior, 1993).
(2) M. Gelfi, Op, cit.
(3) M. Gelfi, Op, cit.
(4) Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo: Piazza Carrara, Piazzale Risorgimento, Piazzale Alpini. Luigi Pelandi (Op. cit.) afferma che nel 1857 al Foro Boario fu trasportato il Mercato bovino e, nel 1870, anche quello equino. Al mercato equino, Luigi Volpi (Op. cit.) aggiunge anche il mercato fessipede.
(5) LA S.A.B. AUTOSERVIZI – Più di cent’anni ma non li dimostra. Ricerca condotta da: Chiara Caccia, Stefano Negretti, Maria Grazia Pirozzi.
(8) Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo, Op, cit.
(9) A cura di Giovanni Luca Dilda, La sezione ottocentesca dell’archivio del Vittorio Emanuele II.
(10) La realizzazione dell’impianto, progettato dall’arch. Michele Astori, fu rimandata per via del conflitto mondiale e probabilmente non venne eseguita. Esso era impostato su un viale centrale ad enfatizzare la facciata del palazzo e un viale perpendicolare aderente alla facciata per dare continuità e attenzione alla visuale con città alta, ma non è chiaro se in un primo momento fosse stata adottata la soluzione del viale centrale. Il disegno è conservato presso la Civica Biblioteca Mai Bergamo. Nel 1923 la Giunta approvava un progetto di sistemazione a giardino «con piante, vialetti e pietre» di cui rimane un disegno (Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo, Op, cit.).
“Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.
Mauro Gelfi, La fiera di Bergamo: il volto di una città attraverso i rapporti commerciali, Ed.Junior, 1993.
Luigi Volpi, Vecchie botteghe bergamasche. La Rivista di Bergamo (anno sconosciuto).
Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.
Luigi Pelandi, Passeggiando per le vie di Bergamo scomparsa – La Strada Ferdinandea – Collana di Studi Bergamaschi – A cura della Banca Popolare di Bergamo. Bergamo, Poligrafiche Bolis, 1963.
A Storylab e in particolare a Giuliano Rizzi, Adriano Rosa , Roberto Brugali, Adriano Colpani, Duccio Crusoe e Sergio Meli per Casa Benaglio-Nava in via del Macello e per alcune preziose informazioni concernenti il Luna Park, lo Stadio Barlassina, la torretta presso la Stazione, il Circo Togni alla Malpensata nonchè il Ciclodromo.