Il compianto teatro intitolato a Eleonora Duse nacque nel travagliato clima del Ventennio, durante il quale, nonostante la crisi generale e in un momento poco adatto a trovare denaro, Bergamo sentiva il bisogno di un nuovo teatro dove poter rappresentare opere liriche e lavori drammatici; un teatro che avesse minori pretese rispetto al massimo della città e maggiori agi rispetto al Nuovo.
L’idea della sua realizzazione era sorta nel 1925 da un gruppo di amici che aveva avviato una raccolta fondi per l’acquisto di un terreno “adatto alla bisogna”, che fu trovato alla Rotonda dei Mille, il quartiere più signorile ed elegante della città.
Il gruppo, che nel frattempo si era allargato, aveva trovato considerevoli appoggi nel Consiglio di Amministrazione ed in particolare nel presidente avvocato Cavalieri, un esperto in tema di aziende teatrali, che coadiuvato da Giulio Consonno diede vita alla Società del teatro: un poderoso sforzo economico che aveva spinto “La Rivista di Bergamo” a invitare la cittadinanza ad associarsi affinché ne fosse curato ogni dettaglio.
Il progetto fu affidato agli ingegneri Stefano Zanchi e Federico Rota e la costruzione al cavalier Donati, che si impegnarono a risolvere tutti i problemi di visuale, servizio, comodità ed acustica. La gestione del teatro fu quindi affidata a Giulio Consonno, impresario del Nuovo ed amante delle scene (nonché nonno paterno dell’attore Giulio Bosetti), che per anni aveva gestito il Donizetti.
Nella primavera del ‘27, a lavori ancora in corso l’ampiezza della costruzione si profilava già nella sua mole imponente e al suo completamento, Bergamo si dotava finalmente di un teatro degno di una città in via di costante progresso, che, “per decoro e per ampiezza” poteva “essere invidiata da molte città superiori alla nostra per la disponibilità finanziaria e per popolazione”, sentenziava L’Eco.
La vita del teatro fu breve ma intensa, come la passionale e tormentata avventura fra la Divina e il Vate, Gabriele D’annunzio, che suggerì l’intitolazione a Eleonara Duse, attrice simbolo del teatro moderno.
L’INAUGURAZIONE
L’inaugurazione, sul finire del 1927, fu preceduta da un mare di polemiche: le opere da rappresentare, in serate diverse (24, 25, 26 e 27 dicembre) erano tutte di D’annunzio (La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, Parisina e Francesca da Rimini) e tutte messe “all’indice” perché erano considerate immorali ed offendevano fortemente la coscienza dei cattolici. La scelta poi di effettuare l’inaugurazione la vigilia di Natale, rendeva il contrasto ancor più manifesto.
Fu dunque la Voce di Bergamo a descrivere la serata dell’inaugurazione, durante la quale la sala presentò un magnifico colpo d’occhio: le poltrone erano occupate da quanto di più eletto e aristocratico contava la città – il fior fiore – ed erano presenti molti critici di giornali nazionali. Alle 21 in punto l’orchestra intonò la Marcia Reale e Giovinezza, ascoltate in piedi e calorosamente applaudite dal grande pubblico della platea e delle logge. Tra un atto e l’altro il pubblico si scambiava le impressioni su nuovo teatro – tutte favorevoli -, distribuito negli ampi corridoi, nella sala per fumatori e nel buffet.
Solo un neo, ma enorme: l’acustica. Che comunque non impedì il susseguirsi di famose stagioni liriche, concerti, operette, spettacoli musicali vari e di prosa.
La lirica debuttò subito dopo le opere dannunziane con le due opere in cartellone, l’Aida e La Bohème, opere affascinanti, degne di una vera inaugurazione tanto da gareggiare con quelle che si davano al Donizetti ed in grado di penetrare nell’animo popolare per la ricchezza del sentimento e per la “provata teatralità”. Il maestro direttore e concertatore era Mario Terni, forte di un glorioso passato in molti teatri.
“Soprattutto da non confondere con quelli fin qui offerti abitualmente, in modo improvvisato, al Nuovo”, scriveva L’Eco.
E fu un successo strepitoso.
IL TEATRO
Un teatro splendido, fra i più grandi d’Italia, ricavato in un palazzo alto 26 metri e presentato alla vigilia dell’inaugurazione come rispondente ai migliori criteri di modernità e di sfruttabilità. E ciò a partire dalla notevolissima capienza: un’ampia platea con due “barcacce” e doppio ordine di logge e galleria, per oltre 2500 posti a sedere (stimati sino a 2700) fra poltrone e sedie e circa 300 posti in piedi.
Il palcoscenico, spaziosissimo, disponeva di tutti i moderni mezzi di illuminazione, di montaggio e scarico delle scene. i camerini per gli artisti, comodi e aerati, erano muniti di impianti sanitari quali si convenivano in ogni miglior teatro. I sistemi di riscaldamento e di areazione erano attualissimi ed anche l’illuminazione rispondeva ai più moderni criteri artistici dell’epoca. “Chi visita il teatro non può non provare un senso di ammirazione ed esserne letteralmente affascinato”, scriveva ancora L’Eco.
SERATE DI GLORIA
Data la scatola scenica, il Duse era in grado di ospitare qualsiasi spettacolo e poté annoverare non poche serate di gloria, che alla fine del Novecento facevano ancora rimpiangere calde lacrime a Mimma Forlani – ma ovviamente non solo – per la sua distruzione: “Qui vi era una stagione lirica, qui arrivarono le vedette del varietà, qui nel 1933 danzò e cantò la mitica Josephine Baker; qui i bergamaschi ascoltarono la prima esecuzione in Italia della Rapsodia in blu di Gershwin e qui diedero l’addio al grandissimo giocoliere Enrico Rastelli”.
Giulio Consonno, impresario del teatro, si avvalse per gli spettacoli della consulenza e dell’appoggio dell’illustre Suvini Zerboni di Milano, società che deteneva i maggiori teatri della città meneghina, di Roma e Pavia, e i cui rapporti con la società degli autori erano tali da assicurare a Bergamo, al pari delle città più importanti, il migliore e più aggiornato repertorio drammatico italiano e francese, con la minor spesa.
Vi si esibirono artisti del calibro di Tito Schipa, considerato tra i maggiori tenori di grazia della storia dell’opera, la soprano e attrice Margherita Carosio, la mitica Paola Borboni e Alberto Semprini, pianista e direttore d’orchestra inglese naturalizzato italiano, mentre nel 1938 Gianandrea Gavazzeni vi diresse l’orchestra della Scala per commemorare Antonio Locatelli.
Memorabile la serata del 17 aprile 1934, quando il compositore bergamasco Giuseppe Carminati, “un bergamasco puro sangue, del contado”, presentò coraggiosamente in anteprima mondiale l’opera Il Corso, attesissima in città e seguita sin dalle prove dai quotidiani cittadini, di cui il critico Pinetti ebbe a dire fosse “scritta tutta di getto: con il cuore….. col solo intento di piacere al pubblico e prima di tutto al pubblico bergamasco”.
Impegnato a concertare l’opera il maestro De Vecchi, con un ottimo complesso orchestrale di 50 elementi e con artisti di non comune rinomanza, come il tenore Vito Binetti, il soprano Delia Sanzio, il baritono Angelo Pilotto, il basso Romeo Molisani, il mezzosoprano Rina Gallo e il baritono bergamasco Igilio Caffi.
Nel 1930 andò invece in scena una delle operette più famose, Il cavallino bianco, con la compagnia di Arturo ed Emilio Schwarz e fece letteralmente impazzire Bergamo: scesero anche dalle valli e salirono dalla Bassa per godersi quello spettacolo di lusso.
Da allora e per diversi anni l’operetta è stata di casa al Duse; in particolare con gli spettacoli della compagnia formata da Nora De Rios (ballerina, attrice e cantante) e da Nino Gandusio (capocomico brillante e pirotecnico vissuto nei suoi ultimi anni a Bergamo): una coppia dal vastissimo repertorio, ideale per questo genere teatrale.
Le storie del teatro ricordano poi che il Duse ha ospitato spesso manifestazioni di un’arte, quella oratoria, divenuta poi appannaggio dei talk show televisivi. In particolare sul suo palcoscenico sono passati tutti i maggiori uomini politici della primissima Repubblica, da Giuseppe Saragat a Giovanni Malagodi, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Ugo La Malfa, Arturo Michelini…. ma non solo.
Ma nel 1928, poco dopo la sua inaugurazione, al Duse era stato portato persino il circo, a Bergamo sempre gradito e tanto atteso. Era il Circo Equestre Fratelli Cristiani, che segnò l’inizio della rappresentazione con capriole, salti mortali, schiaffi, pedate, lazzi e grida di clown e nani; poi apparvero il grande giocoliere inglese Kremberser, le originali danzatrici auree che saltavano su un filo, una briosa cavallerizza spagnola, gli acrobati, tre bravissimi fratelli somiglianti “come gocce di rugiada”, i cani ammaestrati e le belve.
Un cenno particolare, secondo le cronache merita anche un cantante di secondo piano, Antenore Reali, perché fu abile a ridurre al minimo l’inquietudine del pubblico in platea e nelle gallerie in occasione del terremoto che la sera del 15 maggio 1951, con due forti scosse, sgomentò la città.
GLI INCONTRI DI PUGILATO AL DUSE
A lungo furono di casa, al Duse anche gli incontri di boxe, e ciò a partire dal novembre del 1928: una tradizione ereditata dal teatro Nuovo, dove il primo incontro risaliva al 1913. Incontri di pugilato si tenevano anche presso la “sala Vittoria” in piazza S. Spirito, nella palestra dell’Atalanta in via Verdi, al Teatro Sociale, al cinema varietà Augusteo in via Anghinelli (Borgo Palazzo) e al Teatro Minerva del dopolavoro Ferrovieri.
Tra l’altro, nei sotterranei del Duse c’era una palestra di pugilato, a spese della Bergamo Boxe, una società fatta nascere da Anselmo Ravanelli – delegato provinciale della federazione di pugilato – con il determinante appoggio finanziario di Giulio Balzer. A carico della società e grazie al sostegno di ditte bergamasche vi era anche la voce “spese varie” per aiutare economicamente i giovani pugili, bravi ragazzi per lo più di umile famiglia, che la Società contribuiva a mantenere “sulla retta via”, in quel momento storico particolare.
Negli anni Trenta sul ring del Duse debuttò il sedicenne Aldo Minelli, fratello del più famoso Livio, e una schiera di sostenitori di Boccaleone fece un tifo assordante; il pugile è ricordato anche in una serata dove il teatro fece sold out con un gran tifo dal loggione, tanto che alle due di notte c’era ancora gente che commentava l’incontro all’esterno del teatro.
Il fratello, Livio Minelli, vi aveva debuttato da professionista nel 1940, portando a Bergamo il titolo Europeo ed Italiano dei pesi Welter il 4 marzo del ‘49 per poi partire per una tournée negli Stati Uniti.
GLI INQUILINI DEL PALAZZO (E UN GIORNO SPUNTO’ TOTO’)
L’attore Giulio Bosetti, nipote del cavalier Giulio Consonno, era nato proprio in un appartamento del palazzo che ospitava il teatro, il 26 dicembre del 1930, a tre anni esatti dall’inaugurazione. Da bambino seguiva tutte le compagnie che suo nonno portava a Bergamo: da Ruggero Ruggeri a Elsa Merlini, da Renato Cialente a Dina Galli e alla Wandissima della rivista: ovvio che avesse il teatro nel DNA, mentre il fratello, avendo scelto la carriera di medico, nei primi anni Cinquanta andò in Corea come volontario.
Accanto all’appartamento dei Bosetti, al primo piano, c’era quello del nonno, Giulio Consonno.
Alla fine del Novecento ingegnere in pensione, da bambino anche Mario Casirati ha abitato nel palazzo del Duse, al terzo piano: dal 1939 alla demolizione dell’edificio, con una parentesi nel ‘43, quando dovette sfollare con la famiglia perché l’appartamento era stato requisito dai tedeschi.
Il suo primo lavoro di ingegnere lo fece calcolando i cementi armati della doppia rampa del parcheggio aereo del nuovo edificio che prese il posto del Duse.
Alcune finestre davano su via Crispi, la sala aveva un balcone che si affacciava sul parco di palazzo Frizzoni, con le scuderie non ancora abbattute, mentre sull’allora via Mazzini, oggi Garibaldi, v’era uno splendido colpo d’occhio su Città Alta.
Proprio la finestra della cucina dava sul monumento a Garibaldi. “Nata in Piazza Vecchia con il monumento a Garibaldi sotto casa, mia mamma se lo ritrovò di nuovo sotto casa quando nel 1939 si trasferì nel palazzo del Duse”.
Sempre al terzo piano abitavano il dottor Giraldi, presidente del tribunale, e i proprietari del bar.
Al piano di sotto c’erano la famiglia del dottor Elio Leni e due sorelle sarde, le signorine Batzella: Maria era un’apprezzata e temuta insegnante dell’Esperia. Parenti di Saragat, il 26 dicembre del ‘64 avevano festeggiato l’onorevole, eletto presidente della Repubblica.
L’ingresso agli appartamenti era in via Crispi; alle scale si accedeva attraverso una porta che si apriva nel lungo “corridoio” che metteva in comunicazione con il palcoscenico per lo scarico e il carico del materiale di scena.
Nel corridoio, dai ragazzini chiamato pomposamente “cortile”, si giocava a pallone: a Mario Casirati, unico maschio della cricca, si aggiungevano le due figlie del portiere, la figlia del Cavalier Consonno, le tre figlie del dottor Leni e le tre figlie – un po’ più grandicelle – del proprietario del bar, cui si aggregavano spesso le tre figlie del dottor Ciabò, che abitavano all’angolo di via Tasca con via Cucchi: tutte costrette a giocare a pallone dal Casirati, che nel frattempo era diventato abilissimo nel lavorare a maglia (!).
Un giorno…
“…stavamo al solito giocando al pallone quando nel “corridoio” passò Totò per raggiungere il palcoscenico. Si fermò e scambiò con noi un paio di calci al pallone, che in realtà era una palla di gomma. A un certo punto Totò ‘inventò’ una rovesciata volante e spedì la palla nelle scuderie di palazzo Frizzoni. Toccò poi a me andare a recuperarla affrontando gli arcigni e temutissimi vigili urbani di guardia alla sede municipale”.
Negli anni Trenta, in un appartamento del palazzo risiedeva anche l’ingegner Arturo Scanzi, direttore o gestore del teatro Duse, con la moglie Maria Paganoni e i figli Marialuisa (nata nel 1920) e Claudio.
L’ing Scanzi, sin dalla sua apertura nel 1922 deteneva anche la proprietà del Cinema Diana, le cui locandine per un certo periodo rivestirono interamente la facciata del palazzo che ospitava il Duse.
In seguito la direzione del Diana passò al marito di Marialuisa, Gianfranco Ripamonti, poi divenuto direttore del Cinema Centrale, chiuso negli anni ‘70.
La figlia di Marialuisa, Antonella Ripamonti, racconta che dall’appartamento si accedeva al teatro ed era possibile vedere il palcoscenico, ma che i genitori facevano in modo che la porta restasse sempre chiusa per evitare che la ragazzina potesse assistere a peccaminosi spettacoli di varietà. La ragazza però, con alcune compagne di scuola aveva trovato un modo per guardare di nascosto attraverso un buco nella porta, e quando la tresca fu scoperta venne punita adeguatamente dai genitori.
FRA DECLINO E MOMENTI DI GLORIA
Dopo aver ospitato a lungo opere liriche e spettacoli di prosa, cominciò un lento declino, ma ancora con bagliori violenti, tanto che l’anno di grazia arrivò nel 1963, quando la chiusura del Donizetti per lavori di ristrutturazione portò al Duse i migliori spettacoli lirici.
Formidabili colpi di coda fra le migliori rappresentazioni di prosa, incontri di pugilato e avanspettacoli con cinema e varietà, chiaro sintomo di decadenza, che contrassegnò gli ultimi giorni di vita del teatro, ormai additato con la la pessima reputazione di “tempio del peccato”.
Soprattutto famoso il Duse, negli anni ‘50/’60, per le riviste con Carlo Dapporto, Walter Chiari, Totò, Renato Rascel, Macario, la Wandissima e tante altre vedettes, ai tempi in cui le soubrettine venivano chiamate “donne di spolvero” per l’eleganza e la presenza scenica.
Nell’ultimo periodo, all’uscita degli “artisti” non era infrequente che si appostasse il gruppo dei vitelloni, allora assai noto in città, per attendere le girls del balletto; otto ragazze (alcune anche donne mature) che senza il cerone sul viso, senza le lunghe ciglia finte, senza il rossetto marcatissimo, senza l’ombretto attorno agli occhi, senza – a volte – la parrucca bionda e senza la luce dei riflettori, erano per lo più una delusione.
Ad accompagnarne il declino, le proiezioni cinematografiche ricordate da Giorgio Bocca, quando il sabato sera e la domenica i valligiani calavano al cine-teatro, “dove i programmi variavano su un unico tema: ‘Baraonde di donne capovolte in trasparenza’. ‘Atomicamente nude’. ‘Nudevolissimevolmente’. ‘Grazia Yunko nei sexy peccati capitali’. E altre follie” (1).
Per un certo periodo I film venivano proiettati poco prima che si alzasse il sipario per una Lucia di Lammermoor.
VERSO LA FINE
Fra un lento declino e formidabili colpi di coda, il Duse abdicò ufficalmente con la rappresentazione serale della domenica che precedette il 4 marzo del 1968, La signora è da buttare, con Franca Rame e Dario Fo.
Con un titolo a caratteri cubitali “L’Eco” ne annunciava la scomparsa aggiungendo: “E’ l’ultima volta che vediamo la facciata del Duse, di questo vecchio edificio che la rapida trasformazione della città ha da tempo condannato”: una facciata che sul finire del Novecento Luciano Andreucci descriveva con toni nostalgici (“di colore grigio, austera, sobria, elegante, ornata con decorazioni in bassorilievo, per un palazzo di notevole pregio artistico e architettonico”), ma che altrove era considerata un esempio piuttosto scolastico di struttura neoclassica, dall’aspetto di insieme triste e dimesso, più che severo e importante, come forse era nell’intento dei suoi progettisti.
In quei giorni si stavano innalzando le impalcature che presto avrebbero coperto la vista del teatro, sulla cui area sorse quell’edificio avveniristico dalle ampie superfici vetrate, sorto due anni dopo prendendo il nome dal vecchio teatro e fra mille polemiche, in quanto per molti non armonizzava con l’aspetto degli altri edifici.
Agli inizi di marzo vennero rimosse quasi tutte le strutture del palcoscenico e buona parte delle poltrone della platea. In seguito si diede il via alla vera e propria demolizione. Senza pietà.
Il Duse chiudeva così definitivamente i battenti dopo oltre quarant’anni di onorata attività; una decisione presa da tempo. La sua abdicazione lasciava la bocca amara a coloro che fino a pochi anni prima avevano vissuto i suoi momenti gloriosi e che ricordavano il suo ruolo importante nella storia della musica e della prosa bergamasca, il tempo il cui il teatro ospitava i più rinomati circhi equestri e le personalità più famose del mondo dello spettacolo, dello sport, della politica.
Scriveva indignato e perplesso un lettore del Giornale di Bergamo al direttore prima della demolizione: “Ma proprio nessuno difende ‘sto teatro? E non c’è forse una legge che tutela i teatri nelle città? Nessuno però se ne interessa, in testa sindaco, assessori e consiglieri comunali”.
Contro la demolizione protestò anche un collaboratore de L’Eco, Guerrino Masserini, che chiedeva “perché mai tocca al bel palazzo del teatro d’essere abbattuto quando ci sono, anche vicinissime (come nelle vie Sant’Orsola e Borfuro ndr), tante case a un piano cadenti e in cattive condizioni. E poi finiamola di definire ‘vecchio’ questo teatro! Ha da poco superato i quarant’anni, non già i cento! Ma è ora di dare del ‘vecchio’ a tutto ciò che si avvicina al mezzo secolo”.
Alcune delle costruzioni che gli erano sorte attorno nello stesso periodo vennero demolite nel quadro di un piano di riordino urbano facente capo al neoclassico Palazzo Frizzoni (oggi sede municipale), ideato per portare a compimento l’isolato a cavallo tra via Garibaldi e il Sentierone.
Ma furono in molti a rimpiangere la sua perdita e ancor’oggi il suo ricordo è evocato con tanta nostalgia.
Note
(1) Giorgio Bocca, Fratelli Coltelli. 1934-2010. L’Italia che ho conosciuto. Feltrinelli.
Riferimento principale
“Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.
Molto interessante questo articolo.Complimenti