Il ponte sulla Morla in Borgo Palazzo, la statua di San Giovanni Nepomuceno e le “macchiette”

Il ponte che ancor oggi regge validamente il traffico di via Borgo Palazzo fu costruito nel 1550, ma la presenza di un ponte sulla Morla, proprio là dove oggi sorge l’attuale, è sicuramente antichissima. Lasciamo stare la solita storiella di chi lo volle innalzato su ordine di Carlo Magno: quella di voler nobilitare edifici e monumenti attribuendoli a grandi personaggi del passato, era un’abitudine piuttosto diffusa.

In realtà, il ponte cinquecentesco fu rifatto al posto di un altro che aveva un livello più basso. L’ing. Fornoni nelle sue “Vicinie” precisa che, sul finire dell’Ottocento, in occasione dello scavo per una fognatura, ad oltre un metro al di sotto del piano attuale venne trovato il lastricato della strada antica: l’antico ponte era piantato a filo della casa sull’angolo con la via Madonna della Neve, per cui la strada era tutta letto del torrente.

La statua collocata sulla spalletta orientale del ponte risale al 1747 e rappresenta San Giovanni Nepomuceno, il santo polacco che, torturato e buttato nella Moldava dal celebre ponte Carlo IV di Praga, venne eletto patrono e protettore non solo (o non tanto) dei ponti, come si crede, bensì di tutte le persone in pericolo di annegamento. In seguito la sua protezione venne estesa anche ai confessori (il perché lo scoprirete leggendo la didascalia sottostante, che dobbiamo a Tosca Rossi).

Il ponte sul torrente Morla in Borgo Palazzo e la sua statua. San Giovanni Nepomuceno (Jan di Nemopuk, località presso Pilsen in Boemia) era il vicario generale dell’arcidiocesi di Praga e al contempo canonico della cattedrale di Praga, nonché predicatore alla corte di re Venceslao IV e confessore della regina Giovanna di Baviera. Visse nella seconda metà del XIV secolo e venne martirizzato nel 1393 per volontà dello stesso re, a cui rifiutò di svelare quanto detto dalla consorte durante la Penitenza. Il suo corpo venne gettato dal ponte Carlo IV di Praga nel fiume Moldova e secondo le diverse versioni riemerse il giorno successivo esibendo per alcuni una lingua dorata, a riprova della sua fedeltà nel rispettare i termini del sacro sacramento, per altri recando una corona di stelle attorno al capo. Da allora la sua protezione è rivolta a tutte le persone in pericolo di annegamento e successivamente estesa anche ai confessori

La sua storia così come il modo in cui venne martirizzato giustificano quindi la consuetudine di collocare una statua che lo ritrae sopra i ponti fluviali, intento ad adorare il Cristo crocifisso, messo bene in vista per la devozione di chiunque si trovasse a transitare in quei luoghi: oltre al ponte sul torrente Morla, a Bergamo e provincia molte sono le sue presenze, tra cui ad esempio sul ponte di Gorle o a Trescore Balneario.

Il nostro, realizzato in Pietra di Zandobbio ed elevato su un alto piedistallo, è privo di aureola ma calza il copricapo distintivo; è vestito dell’abito talare, della cotta e dell’almuzia impreziosita da un’alta fascia in pizzo, aperta sul petto e alzata alle estremità dal gesto che porta all’orazione visiva e mentale del Cristo.

La scolpì Giovanni Antonio Sanz (lo stesso che ritrasse le allegorie delle quattro stagioni e delle Arti Maggiori di Palazzo Terzi in Bergamo Alta) per esaudire il desiderio di un nobile residente nel borgo, il conte Gerolamo Albani (tenente maresciallo e cameriere della Chiave d’Oro di sua Maestà Imperiale), il quale, morto il 20 agosto 1747, lasciò per testamento che si ponesse una statua di San Nepomuceno, lasciando l’incarico al fratello Carlo.

La statua fu realizzata quello stesso anno, includendo il nome del conte nella specchiatura affacciata sulla via, recando la scritta seguente: PER TESTAMENTO / DEI CONTI / GIROLAMO ALBANI / I MARESCIALLO / CESAREO / MDCCXLVII.

IL PONTE E LE SUE “MACCHIETTE”, ANIME DEL BORGO

Borgo Palazzo ebbe i suoi personaggi e anche le sue macchiette. Figure pittoresche, che hanno lasciato una traccia nella cronaca spicciola e in qualche racconto. Una di queste, celebre nei primi decenni del Novecento, sia nel borgo che in tutta Bergamo, fu Giovanni Servalli detto “ol Barba”, “il principe delle macchiette bergamasche, principe lustrascarpe”, come definito dal giornalista Giovanni Banfi in un opuscolo del 1920. Anche il poeta Guerrino Masserini, “Ol Girù”, si è occupato del Servalli. Ma è il ritratto delicato di Geo Renato Crippa, a restituire a Servalli, al di là di ogni faciloneria, la dignità che gli spetta, quella cioè di un uomo sensibile e sfortunato.

Descritto come pazzoide e accattone dignitoso, con una gran barba profetica, il lustrascarpe ed attacchino Servalli era un oratore spassoso, incarnando a meraviglia la parodia oratoria. Con il suo berrettone calato sulla fronte e l’ampia palandrana, soleva intrattenere gli avventori nel recinto della vecchia Fiera, dove innalzava una tribuna improvvisata convinto di rivolgersi “al colto pubblico”, cui proclamava la propria nobiltà.

Giovanni Servalli presso la chiesa di S. Bartolomeo nella caricatura del talentuoso  Alfredo Faino, disegnatore alla Daumier nonché scultore. Del Servalli, la cosa più importante, consisteva nel suo vestiario. Dal cappelluccio con l’aletta corta, sino a certi calzari di tipo “biblico”, tutto era uno sfavillio di stagnole argentee o dorate, tali da farlo sembrare un cavaliere dell’era medievale che camminasse dopo una battaglia. Trovava queste carte presso drogherie e pasticceri, dalle suore di istituti educativi e conventini, dopo le feste dedicate alle loro fondatrici. Dopo le festività natalizie o pasquali, i negozianti lo rifornivano con ciò che, nelle vetrine, aveva sfavillato per una o due settimane. Qualcuno regalava persino qualche nastro colorato mandandolo in estasi, togliendogli, dalla gioia, il respiro che, in ultimo, aveva pesante

Sosteneva di essere un figlio bastardo della “gloriosa casa Giovanelli di Venezia” e di essere giunto in città da una grossa borgata di montagna, dove quella famiglia, un tempo di famosi commercianti s’era talmente avvantaggiata, in mercature nell’Oriente, da richiedere alla Serenissima titoli nobiliari e cavallereschi. Vantando l’appartenenza al lignaggio principesco, finiva col parlare di tutto, stralunando ogni tanto gli occhi e volgendosi impietosito al cielo, gesticolando con solennità, come un patriarca.

“Ol Serval” invita la popolazione a visitare la mostra di Alfredo Faino

I suoi discorsetti pomposi erano per lo più un caotico aggrovigliamento di idee d’ogni sorta, buttate fuori alla brava, con parole in lingua italiana non certo ossequienti ai precetti della Crusca. Non si potevano ascoltare alcune delle sue frasi senza abbandonarsi ad una irrefrenabile ilarità, scatenata dalla sua potenza comica e dalle inflessioni della voce, Il Servalli continuava allora il suo proclama sottolineando la serietà degli argomenti ed esclamando “L’è roba internazionale!”.

Agghindato di stagnole e nastrini, girava l’intera città rullando su un tamburello che gli era stato donato dai componenti della fanfara degli alpini. Circa gli itinerari da percorrere non sbagliava giorno ed ora: alla periferia di dedicava il mattino, ai borghi il pomeriggio, al tramonto raggiungeva il centro cittadino picchiando a più non posso il suo strumento. Di tanto in tanto emetteva una parola di saluto e se incontrava persone di sua conoscenza, ma molto rispettate e riverite, il rullio del tamburo prendeva tono solenne, seguito da silenzi ritmati durante i quali, da fermo, pronunciava cenni d’ossequio ripetuti con calma dignitosa. Possedeva, il Servalli, regole di galateo di sua invenzione, sostenute con toni tra il religioso e il melodrammatico.

Giovanni Servalli s’incammina verso il ponte della Morla con la lampada votiva. La caricatura è di Alfredo Faino, che ha eternato “Ol Barba” in gustosissimi bozzetti, in sapide caricature anche in creta e nei piccoli bronzi

Appena faceva buio, se ne tornava in Borgo Palazzo, suo dominio incontrastato, e all’imbrunire si recava al ponte della Morla reggendo una scala pioli, che saliva per accendere una lampada ad olio innanzi alla statua di San Giovanni Nepomuceno, protettore dei ponti e delle acque.

Giovanni Servalli è ricordato dalle cronache anche per la consuetudine di accendere ogni sera una lampada votiva ai piedi della statua del suo santo protettore, quella di San Giovanni Nepomuceno, sul ponte della Morla, in Borgo Palazzo. Chi narra che “ol Servàl” fosse devoto al santo dei ponti perché proteggeva la sua nobile miseria e chi attribuisce tale consuetudine al ricordo di un miracolo, ottenuto in passato, a favore della sola donna, “amata in purezza, poi, dopo un lustro, morta consunta in una corsia d’opedale, invocando il nome di quegli che fu il suo sogno incantato”. Gli fosse stato possibile, il Servalli avrebbe ornato quel luogo – dove negli anniversari recava qualche fiore – di ori e di gemme (caricatura di Alfredo Faino)

Soddisfatto della sua buona azione quotidiana, rincasava con la scala a spalla; la sua stamberga era luogo di abituale convegno di topi e di gatti, educati – diceva egli stesso – ad un fraterno vicendevole amore. Si seppe poi, allorché egli passò a miglior vita, come la sua povera dimora, che era accanto ad una stalla, fosse pulita ed in ordine, il giaciglio tenuto con cura, le casse e le cassette per riporre la sua roba, linde e divise con accuratezza, giornali e cartoni ammucchiati con esattezza in un angolo. Lo stanzone era illuminato da una finestra che dava su un’ortaglia e la porta aperta sul retro di un “cortilone” d’osteria, con gioco delle bocce, usato nel passato per radunare greggi e mandrie di passaggio. Il silenzio non veniva rotto che la domenica, le sere d’estate e nei giorni di mercato. Appeso a un chiodo pendeva il tamburo. Accanto un tascapane zeppo di libriccini e foglietti che celavano poesie e canzoni che il Servalli cantava nei giorni di sagra, sugli sterrati dei paesini o sui sagrati delle chiese. Dopo lo strazio subito da suo cuore, di pretesti amorosi egli non volle mai saperne: bastavano le storie di re e regine, principi e principesse, marchesi e conti, castelli, foreste, ruscelli, fonti, uccelli variopinti. Fiabe leggere leggere, oneste, dense di umanità, umili, trasognate e innocue. Di lui si conserva ancora un vivido ricordo.

Più modesto un altro personaggio, “ol Fioruna”, che percorreva il borgo e lo stradale di Seriate tutto infagottato con un cappellaccio a piuma, sempre scuotendo un campanello. “Trin trin ‘l passa ol Fioruna, che quando ‘l viasa al suna”.

Anche lui raggiungeva il ponte della Morla ma, mentre il “Barba” Servalli vi si attardava con la sua barba profetica per accendere il lume sulla statua del santo, il Fioruna, che viveva di carità e si sborniava di frequente, utilizzava il ponte, o meglio, uno dei suoi archi, per passarvi la notte. Morì nel vicino manicomio.

All’incrocio tra via Camozzi e l’asse Pignolo/Borgo Palazzo alla fine degli anni Cinquanta. L’edificio in primo piano sulla destra fu adibito tra il 1919 e il 1955 a Dormitorio pubblico. Successivamente venne impiegato anche come Asilo degli Ebbri, ovvero ricovero per gli amanti di Bacco, i quali, dopo essere stati raccolti per le vie della città dalle forze dell’ordine, venivano messi a letto dopo una doccia gelata…. I nuovi edifici, tra cui il supermercato PAM, sono sorti intorno al 1967

E poi c’era “ol Roco de Borg Palass”, che aveva una propria dimora all’Albergo popolare. Era sempre infagottato in vestiti più grandi di lui, con certe calzature scalcagnate. Lo si vedeva sempre correre borbottando frasi, certo, nell’intenzione di erudire i passanti sui fasti o insuccessi della sua grande Atalanta; poi via di corsa svettando a destra e a sinistra, stralunando gli occhi. Si accontentava di qualche pezzo di pane, che condiva con l’immancabile “repubblica” che otteneva facilmente e con larghezza dai bottegai della città. Non si lamentava mai di questa sua vita grama. Gli bastava essere libero di borbottare le sue preferenze atalantine.

Rocco girava trascinando le gambe, sempre malmesso, con un lungo pastrano anche in estate e si appoggiava a un bastone. Fuori dal suo borgo, la zona prediletta era quella dei giardini Donizetti. Fu ricoverato alla casa di riposo “Clementina” a spese del Comune e gli fu riservato un trattamento speciale. Gli fu anche assegnato un letto col televisore a fronte; e quando era in programma una partita dell’Atalanta, il vecchio Rocco tirava fuori un bandierone e lo sventolava a mo’ di sudario sul proprio letto

 

Il pittore Jannucci ha immortalato in questa caricatura le sembianze del Rocco, ai suoi tempi definito il più popolare tifoso dell’Atalanta. L’ultima macchietta cittadina, con lo smunto berretto da agente daziario, i vecchi giornali su braccio e le cianfrusaglie in saccoccia, il passo caracollante e il vociare sgraziato. Anche la sua figura appartiene ormai al mondo dei ricordi di casa nostra

Ultimo di questi singolari personaggi che si addentravano dalla periferia nei borghi, ma raramente per giungere fino in centro, fu il “Gioanì de Tor”. Doveva risiedere a Torre Boldone, o esservi nato, ma nessuno lo seppe mai con precisione. Era un ometto che portava anche d’estate un cappotto sdrucito e un largo cappello. Più alto di lui, un grosso bastone intagliato gli conferiva come una statura diversa. Scomparve improvvisamente. Un giorno nessuno lo vide più. Forse era più vecchio di quanto non si credesse ed era finito in qualche ricovero. O forse non gli era riuscito di superare qualche malanno dell’ultimo inverno. Oggi per lui, sull’asfalto, nel traffico, nella periferia senza più orti e pollai, non ci sarebbe più posto.

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