La salita al monte Ubione e al suo Castello: una piccola cima ricca di sorprese

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini

Posto all’estremo sud delle Prealpi orobiche il monte Ubione è la prima cima che si incontra salendo la Val Brembana, segnando il confine tra questa e la Valle Imagna, di cui rappresenta la “porta d’ingresso”. Nonostante la modesta altitudine (895 metri), la cima offre uno spettacolare panorama sulle valli Imagna e Brembana e verso le pianure. Lungo il suo percorso, che si diparte dall’abitato di Clanezzo, si intersecano due itinerari:  il percorso ciclo-pedonale del Chitò, che si snoda lungo il sedime di un canale che trasportava le acque dell’Imagna alla Centrale elettrica di Clanezzo, e termina nei pressi di Capizzone (ne abbiamo parlato qui e qui), e un percorso escursionistico, il Sentiero del Partigiano “Angelo Gotti”, che inizialmente ricalca il sentiero per il monte Ubione.

Presso l’agriturismo Belvedì, compare un pannello informativo sul Sentiero del Partigiano Angelo Gotti,  che ricalca inizialmente il tracciato per la vetta dell’Ubione e che si abbandonerà una volta raggiunto un bivio (segnalato). Il sentiero è dedicato al giovane partigiano appartenente alla formazione “Val Brembo”, banda partigiana inquadrata tra le fila della brigata Fiamme Verdi “Primo Maggio”, catturato nei pressi del comando tattico Cascina Como, sul monte Ubione, e ucciso il 23 novembre 1944 (Fotografia di Maurizio Scalvini)

La modesta quota non toglie nulla al fascino di cui si gode da questa cima, che oltre ad ospitare un bivacco e comode attrezzature per rifocillarsi in plein air, offre all’escursionista la possibilità di  osservare da vicino i resti della leggendaria rocca risalente al X secolo, disposti sul pianoro che ospita la croce di vetta.

Inserito in un sistema difensivo che comprendeva anche il Castello di Clanezzo, il fortilizio fu fatto edificare da Attone di Guiberto, ultimo dei Conti di Lecco a possedere la Corte di Almenno, per contrastare qualunque assalto dalla pianura o dalle montagne e assicurarsi il controllo di tutta la zona: nel contempo, il millenario ponte di Clanezzo avrebbe consentito una via di comunicazione privilegiata con le fortezze di Clanezzo e del monte Ubione.

Il monte Ubione con il Santuario della Madonna del Castello, ad Almenno S. Salvatore, sede dell’antica Corte Regia di Lemine. Sulla vetta, osservatorio ottimale sulla pianura e sulle valli, il conte Attone di Guiberto fece edificare (X sec.) una rocca provvista di torricella, che col tempo assunse una grande importanza per il controllo del territorio, per divenire nel corso del ‘300 l’avamposto dei temuti ghibellini della Val Brembilla (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Ampliata successivamente, divenne nel ‘300 il covo dei temuti ghibellini della Val Brembilla capitanati dai Dalmasoni di Clanezzo e dai Carminati di Ubiale, che, fedeli ai ghibellini Visconti e ostili alla guelfa Venezia, da “questo nido di umani avvoltoi” scendevano a valle a depredare i paesi di fede guelfa, compiendo le più crudeli rappresaglie. Per porre fine alle angherie compiute nei confronti della popolazione locale, tutte le case e le fortezze della Val Brembilla, compresa quella sul monte Ubione, vennero rase al suolo dai Veneziani nel gennaio del 1443, nel corso della campagna militare contro i ribelli Brembillesi, che vennero cacciati dalle loro terre e confinati oltre l’Adda. Da allora il bosco coprì tutta la montagna; sulla vetta, scomparse le vestigia dell’antico passato, non salirono che cacciatori e boscaioli.

Nel 1819 sulle pendici del monte se ne vedevano ancora le rovine, ammassate e rotolate a valle, mentre – si dice -, gli scavi eseguiti nel 1841, portarono alla luce armi (verrettoni, pugnali, e picche, e chiovi a larghe capocchie), che vennero portate al Castello di Clanezzo, di cui a quei tempi Paolo Beltrami era il signore (1).

Pochi decenni or sono, i lavori compiuti per ospitare la croce di vetta hanno portato alla luce alcuni reperti e i resti delle antiche strutture che creano oggi una sorta di museo a cielo aperto, a disposizione di chiunque lo voglia visitare.

IL PERCORSO PER IL MONTE UBIONE

Il percorso,  che  si sviluppa quasi completamente nel bosco, è sicuro e ben segnalato, richiedendo un certo sforzo solo nel tratto ripido in prossimità della cima. La salita richiede circa un’oretta e mezza di cammino, presentando un dislivello di 550 metri. E’ ideale per escursioni durante tutto il corso dell’anno, grazie alla felice esposizione del sentiero, che si sviluppa lungo il versante meridionale del monte.

La partenza avviene da Clanezzo, dove vi sono numerosi parcheggi liberi (inizio di via Belvedere o in prossimità del cimitero). Seguendo la strada asfaltata dietro il Castello, si imbocca la via Belvedere ed in breve si raggiunge l’agriturismo Cascina Belvedì, da cui si intraprende il sentiero CAI 571 noto anche come “Periplo della Valle Imagna”: un tracciato che sale gradualmente fra i boschi di castagno e che inizialmente ricalca il Sentiero del Partigiano “Angelo Gotti”, che si abbandona una volta giunti al bivio piegando a destra.

Indicazioni CAI all’uscita di Clanezzo (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Agriturismo Cascina Belvedì (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

 

Il bivio tra il Sentiero Partigiano Angelo Gotti (a sinistra), e CAI 571 per il monte Ubione (a destra) – (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Si affronta quindi la prima parte della ripida ascesa che conduce alla vetta, tra boschi di castagni, carpini neri e rare betulle, fino a raggiungere in circa mezz’ora il pianoro situato a metà costa del monte Ubione, che consente  all’escursionista di riprendere fiato prima di raggiungere il Passo della Regina (744 metri) e intraprendere l’ultimo strappo.

Da quest’ampia radura, lo sguardo può vagare in lontananza, godendo di un primo panorama verso Val Brembana, con bella vista sull’Arera, e verso il Canto Alto, dove si nota  il solco della Valle del Giongo: grazie all’ampia veduta offerta da questa cima, anche qui sorgeva un’antica torre presidiaria edificata ai tempi delle lotte tra guelfi e ghibellini, dalla quale si scrutava ogni spostamento di armati, che veniva prontamente segnalato con fuochi e fumate alle scolte alleate sul monte Ubione e di Cà Eminente. Sui resti della bastia in legno, arsa durante un assalto, fu eretto un maniero ghibellino, detto di Pizzidente, che fu assalito e raso al suolo dai guelfi di Sorisole e di Ponteranica nel 1404. Attorno a questa zona, nel periodo delle lotte di fazione facevano parte di un sistema fortificato anche un castello ghibellino a Petosino (dove tuttora esiste una località “Castello”), e un munitissimo fortilizio guelfo a Ponteranica, attorno alle mura della Moretta, che fu teatro degli scontri nel 1437 con Nicolò Piccinino, che, al soldo dei milanesi, tentò di strappare Bergamo a Venezia. Oltre ovviamente ai fortilizi della Val Brembilla, cui apparteneva anche quello eretto sul monte Ubione (come già osservato qui).

Il Canto Alto (antico Pizzidente) osservato dalla radura situata a metà costa del monte Ubione, all’altezza delle strutture dell’ex bacino idrico ENEL. Nel 1978, durante i lavori per la posa della nuova croce, gli alpini rinvennero i resti di un’antica torre presidiaria edificata ai tempi delle lotte tra guelfi e ghibellini (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Il pianoro ospita i ruderi delle strutture dell’ex bacino idrico ENEL (due grandi vasche semi-interrate e un edificio ancora in buono stato), costruite all’inizio del ‘900 a servizio della Centrale di Clanezzo, posta sul sottostante fiume Brembo e da tempo in disuso: la prima vera e propria centrale della Valle Brembana ed una delle prime in Italia a sfruttare il sistema di generazione e pompaggio (2): il dislivello di ben 400 metri tra i bacini e la Centrale e la notevole capacità dei bacini (10.000 metri cubi) facevano sì che durante la notte, quando il consumo di energia elettrica è minimo, si potesse pompare fin lassù con l’energia elettrica in esubero l’acqua usata di giorno e raccolta in un bacino accanto alla centrale. Da questo grande invaso l’acqua per caduta poteva di nuovo essere sfruttata il giorno dopo o nei periodi di magra del Brembo. In pratica era il primo esempio di energia rinnovabile quasi totalmente e a basso costo.

La Centrale Schuckert a Clanezzo poco prima del 1915. Fu una delle prime, in Italia, a sfruttare il sistema di generazione e pompaggio, cioè quello che permetteva di avere una scorta d’acqua (10.000 mc) sempre a portata di turbina. Venne costruita tra il 1897 e il 1900, in posizione strategica tra l’ultima stretta del Brembo e il capoluogo, con l’obiettivo di produrre energia su vasta scala per venderla poi alle utenze private che stavano aumentando sempre di più; occorsero infatti molti anni prima che gli abitanti della zona potessero beneficiare dell’energia elettrica

 

Il Monte Ubione negli anni ‘60. Sul contrafforte del monte si nota molto bene la condotta forzata che dal bacino idrico posto a mezza costa scendeva alla Centrale elettrica sul Brembo, permettendo di accumulare e riutilizzare più volte la stessa acqua. Alle spalle del bacino si nota anche la cascina al Passo della Regina e il suo ampio pascolo, ora scomparso (fotografia di proprietà di Roberto Carminati, titolare della Carminati Stampatore di Almè, contenuta nel calendario del 2018 edito dal Comune di Almè)

Questo invaso tuttavia non poté essere costruito subito per alcuni contrasti col comune di Ubiale-Clanezzo legati anche all’apparente pericolosità di questo lago artificiale posto quasi in cima a un monte, per cui fu completato solo nel 1903. L’invaso, concepito sin dall’inizio, testimonia la lungimiranza economica e strategica dei fondatori di questa azienda (3).

Sulle pendici del monte Ubione è visibile quel che resta dei due bacini idrici artificiali e dell’edificio che serviva al loro controllo, costruiti a servizio della dismessa Centrale idroelettrica di Clanezzo. Dall’edificio sulla destra, l’unico ancora integro, veniva comandata la condotta forzata che portava l’acqua alla centrale sul Brembo. Sull’architrave di una finestra si può leggere scolpito nella pietra  l’anno di costruzione del casello: il 1908 (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

I ruderi presso i bacini di raccolta, lungo le pendici del monte Ubione (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Il Bacino più grande, con il massiccio terrapieno a sostegno della vasca, lungo le pendici del monte Ubione. Sullo sfondo fa capolino la vetta (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Il bacino grande (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Il bacino grande (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Dopo aver attraversato un folto “tunnel” di agrifogli, si raggiunge un altro dosso panoramico proteso verso la vetta e culminante nel Passo della Regina, che anticipa lo strappo finale.

La vetta in lontananza (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Il nome della Regina fa riferimento alla regina longobarda Teotperga o Teuperga, moglie ripudiata di Lotari, e ricorre frequentemente in questi luoghi intrecciandosi con la leggenda: il ponte romano ad Almenno, la strada della Regina, la via militare romana in prossimità del ponte, Castel Regina e, da queste parti, una fonte “sana” di cui non si è rinvenuto nessun documento; è però vero che lungo le pendici del monte Ubione, a quota 750 metri, c’è un’antica sorgente che ancor oggi gli abitanti di Strozza chiamano “fontana della regina”: la permanenza della regina sul monte Ubione non è suffragata da riscontri oggettivi. E’ inevitabile allora chiedersi se sul monte vi fosse un eremo: può darsi, ma è difficile immaginarlo.

Bivio al Passo della Regina: proseguendo verso destra si intraprende un sentiero meno ripido che in breve conduce alla vetta, evitando la faticosa salita dal versante sud (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Il Passo della Regina in realtà non scollina da nessuna parte, ma presenta un bivio che permette andando a destra di tagliare quasi in piano verso i roccoli della Passata (valico dove convergono numerosi itinerari, tra cui il sentiero Angelo Gotti): a metà di questo traverso ecco staccarsi il sentiero meno ripido che porta sull’Ubione dal versante est, aggirando dunque la ripida e faticosa “direttissima” dal versante sud.

Al Passo della Regina vi sono i ruderi delle due cascine che un tempo presidiavano un grande pascolo ormai scomparso, che abbiamo osservato nella vecchia foto in cui compariva la condotta della Centrale.

Passo della Regina (744 metri), con retrostanti ruderi di vecchie cascine e quel poco che resta di un pascolo da tempo abbandonato (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Dal Passo della Regina si intraprende l’ultimo strappo che nel volgere di un quarto d’ora consente di raggiungere la cima,  dove è posta la grande croce che svetta sopra i comuni di Ubiale-Clanezzo e Strozza, offrendo alla vista un panorama a 360° verso Bergamo e la pianura, la bassa Val Brembana e la Valle Imagna.

La poderosa croce è stata realizzata nel 1972 dal Gruppo Alpini di Clanezzo-Ubiale e da altri Ubialesi riuniti in seguito nel “Gruppo Amici Monte Ubione” (G.A.M.U.), a ricordo dei Caduti di tutte le guerre. Il pesante braccio orizzontale, lungo 9 metri, è stato trasportato a spalle fin sulla vetta, in un sol pezzo.

La croce del monte Ubione, realizzata nel 1972 dai futuri componenti del “Gruppo Amici Monte Ubione”, è alta 23 metri, ha un braccio di 9 metri e pesa 17 quintali. Venne realizzata con il supporto del parroco don Giuseppe Valvassori e del sindaco Gino Capelli In occasione delle feste natalizie, nelle ore notturne la grande croce risplende di luce (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

La vasta spianata di vetta ospitante la croce cela sotto i suoi piedi i resti dell’antico Castello dei Carminati, distrutto alle fondamenta dai Veneziani nel 1443, nel corso della campagna militare contro i ribelli Brembillesi, che terminò con la loro cacciata. Dell’originaria struttura a forma di quadrilatero con l’alta torre, non ne rimangono che rovine. Con la “Cacciata dei Brembillesi” gli abitanti originari si sparsero soprattutto nel milanese, dove si diffusero in gran numero i cognomi Brembilla, poi Brambilla (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Il G.A.M.U., “Gruppo Amici Monte Ubione” durante i lavori di sistemazione della sommità del monte, eseguiti negli anni 1972/’73. Il sodalizio, opera sulla vetta e nella comunità, animato dall’amore per la montagna e la natura. Nel 1993 i signori Rota di Clanezzo (tragicamente scomparsi nell’incidente aereo di Linate nell’ottobre 2001) hanno donato al G.A.M.U. il terreno del Monte Ubione, che il gruppo ha successivamente donato al comune di Ubiale insieme a tutte le opere che negli anni vi sono state realizzate. L’amministrazione ha quindi deciso di frazionarlo e si è riservata esclusivamente la cima, che ora è di sua proprietà, insieme a tutto quanto realizzato. Contestualmente ne ha affidato al G.A.M.U. la gestione e la custodia (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000)

Per rendere più fruibile il sito, sulla sommità del monte i componenti del G.A.M.U. hanno creato un pianoro che si presenta come una grande ed accogliente balconata, e costruito un accogliente bivacco, dove poter cucinare e ripararsi dal maltempo, arricchendo il luogo con tavoli e panche per accogliere gli amici escursionisti che salgono in occasione di ricorrenze e feste locali (ricordiamo che la prima domenica di agosto vi si svolge la tradizionale festa della montagna, che attira sulla vetta centinaia di appassionati). Il tutto è ben gestito dal Gruppo Amici Monte Ubione.

La vetta dell’Ubione, con il bivacco e tutte le strutture realizzate dal G.A.M.U. Compare anche il locale ospitante gli apparati della teleferica, realizzata alcuni anni or sono (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

La cima del monte Ubione è ben attrezzata con un accogliente bivacco, realizzato e gestito dal G.A.M.U., e attorniato da tavoli e panche per accogliere gli amici escursionisti (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Interno del bivacco, aperto al pubblico solo in occasioni particolari (Fotografia di Maurizio Scalvini)

ALLA RICERCA DEI RESTI DEL CASTELLO

Prima dei lavori del 1972/’73 la vetta era un sottile crinale di roccette, una sorta di muretto composto da grossi sassi: ciò che restava di un muro perimetrale del Castello. Osservando l’immagine sottostante, alla base del terrapieno della grande spianata di vetta, verso nord, si vede infatti fuoriuscire un frammento di muro medioevale.

Un tratto di muratura medioevale, in posizione originale alla base della spianata di vetta, verso nord (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Ai tempi dell’aspra contesa tra guelfi e ghibellini, l’antica rocca sull’Ubione era ormai divenuta un imponente maniero, di proprietà della potente famiglia ghibellina dei Carminati, che da questo luogo terrorizzava i guelfi dei vicini paesi. Isolato e minaccioso sul culmine del monte, a cavaliere delle due valli, appariva a chi lo contemplava da lontano come un inviolabile nido di umani avvoltoi, dal quale gli armigeri piombavano inaspettati e in cui riparavano con la preda. Nelle “Effemeridi” del Calvi, al 31 gennaio del 1360 si ricorda che Bernabò Visconti vi manteneva un castellano, diciassette soldati e due cani, mentre le cronache del 1395 narrano l’uccisione di un balestriere ad opera dei guelfi d’Imagna.

Ma com’era il  Castello? Era un massiccio quadrato irregolare con il vertice merlato. Sul lato orientale si sollevava una torre di una solidità straordinaria, come dimostrano le muraglie grosse sei piedi. Sulla facciata nord-est si apriva l’ingresso chiuso a saracinesca con un ponte levatoio, e – si dice – era così sicuro che solo le donne sarebbero state sufficienti a difenderlo e a tener fuori un grande e numeroso esercito.

Qua e là, intorno al vasto pianoro che ospita la croce e le moderne strutture, ne affiorano porzioni di muro, e per facilitare l’individuazione dei resti, visibili e non, il G.A.M.U. ha posizionato sotto la tettoia  un pannello raffigurante la planimetria della spianata di vetta, con indicata la posizione dei diversi manufatti medioevali rinvenuti negli scavi del 1973. Ha inoltre reso percorribili dei passaggi che permettono di visitare i punti di interesse, corredando il tutto di apposite targhette esplicative.

La tettoia sulla spianata di vetta, con il pannello informativo che indica la posizione dei diversi manufatti medioevali del Castello (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Sotto la tettoia della foto precedente, nella parte inferiore del muretto, un tratto di muro del Castello in posizione originale (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Dettaglio della foto precedente (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Esternamente ed internamente al magazzino, sono presenti murature in pietra posate con malta a base di calce. Lo spessore notevole, circa 1.40 mt, fa supporre siano i resti delle fondamenta di una costruzione alta, probabilmente una torre di avvistamento.

Basamento della torre in posizione originale (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Dettaglio (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Come ogni castello che si rispetti, anche quello sul monte Ubione aveva un bel portale, di cui si è rinvenuta, seppur fuori contesto, la chiave di chiusura scalpellata ad arte. E’ stata posta a fianco del bivacco.

La chiave di chiusura del portale del Castello, portale di cui sono documentati lavori nel 1430, ai tempi in cui il castellano era Veneto (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Nell’angolo, la chiave di chiusura del portale del Castello (non in posizione originale) – (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Vi era inoltre una cisterna di raccolta dell’acqua piovana sulle cui rovine (ancora visibili), è stata costruita la cantina-deposito del G.A.M.U. L’acqua della cisterna, capace di 15 mc, era l’unica risorsa possibile per la guarnigione del Castello, dato che la “fontana della Regina” era un po’ troppo lontana e inutilizzabile in caso di assedio.

La cisterna, che si trova a una decina di metri dalla vetta, raccoglieva le acque provenienti dalle coperture poste a monte tramite una condotta sotterranea, di cui si è rinvenuto un tratto composto da pietre disposte a formare una canaletta. 

Sulle rovine della cisterna del Castello, attorniata dalle pietre originali, è stata costruita la cantina-deposito del G.A.M.U., il gruppo che ha realizzato la croce e attrezzato il luogo. La cisterna era composta a monte da pareti in pietra naturale e a valle da muratura di pietrame, completamente intonacate con malta di calce (Fotografia di Maurizio Scalvini)

A fianco della cantina, che anche esternamente mostra le tracce dell’antica cisterna, corre il muro perimetrale del Castello.

Tra i gradini e il muro della cantina ecco affiorare il muro medioevale della cisterna, mentre a lato corre il muro perimetrale del Castello (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Muro perimetrale del Castello addossato alla cantina ricavata dalla cisterna medioevale (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Muro perimetrale del Castello addossato all’antica cisterna, oggi cantina del G.A.M.U. (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Contestualmente, si sono rinvenuti alcuni oggetti tra cui resti di vasi in ceramica, punte di frecce di balestra e proiettili in pietra e ferro ora conservati presso il Museo della Valle di Zogno.

Resti di ceramica rinvenuti tra i ruderi dell’antico Castello del monte Ubione, conservati presso il Museo della Valle di Zogno (Foto U. Gamba, op. cit.)

Doveva esistere almeno un locale sotterraneo, in quanto il plinto di fondazione per l’ancoraggio della croce metallica è stato ricavato in un locale preesistente, interrato rispetto alla quota di sommità, dunque non visibile.

Il plinto di fondazione per l’ancoraggio della croce, poggia su un ambiente sotterraneo del Castello (Fotografia di Maurizio Scalvini)

 

Sotto il basamento su cui poggia la croce è stato individuato un locale sotterraneo del Castello (Fotografia di Maurizio Scalvini)

Più a valle della spianata di vetta, a sud-est della cisterna vi erano probabilmente la fornace e la fossa per produrre la calce spenta dalle pietre calcaree locali, mentre a sud, poco più a valle, probabilmente vi era la cava per l’estrazione delle pietre da costruzione.

§ § §

Sappiamo che in epoca Veneta, dopo la costruzione della Strada Priula alla fine del Cinquecento, la cima del monte Ubione continuò a svolgere l’importante funzione di controllo all’imbocco della Val Brembana, allo scopo di proteggere la più importante delle vie mercantili della Bergamo veneziana.

La Strada, tracciata sul fondovalle per ottimizzare i traffici da Bergamo a Mezzoldo, doveva garantire attraverso il passo di S. Marco un passaggio comodo e sicuro verso la Valtellina e i Grigioni Svizzeri, porta d’accesso ai mercati centro-europei, con cui Venezia intratteneva intensi scambi commerciali, compensando degnamente le perdite subite nel Levante.

La sicurezza di questa importante strada mercantile era garantita da una capillare rete difensiva, che dalle postazioni di Ca’ S. Marco e del monte Ubione controllava l’accesso nemico dalle valli, potendo contare anche sul sostegno amico dei Grigioni Svizzeri, serbatoi di truppe mercenarie pronte a dar man forte in caso di assalto degli Spagnoli, che minacciavano i nostri confini meridionali e occidentali.

Ma questa è un’altra affascinante storia (e la racconteremo).

Note

(1) Giovan Battista Bazzoni nell’ottobre del 1883 visitò Clanezzo, vi rimase ospite per qualche tempo e con ogni probabilità vi concepì il romanzo “I Guelfi d’Imagna o Il Castello di Clanezzo”, un libro che conteneva poca verità e molta fantasia, a detta di Bortolo Belotti. Tuttavia ebbe successo, cosa che non dovette dispiacere ai coniugi Beltrami, che in quegli anni, in cui erano divenute famose le Terme di San Pellegrino, vedevano arrivare a Clanezzo molte persone desiderose di visitare i luoghi descritti nel libro e di trascorrervi qualche momento sereno. Giunti alle chiavi della Botta scendevano dalla carrozza e, affascinati dalla visione di Clanezzo attraversavano il Brembo sulla passerella e andavano a visitare i Beltrami. Scrive il Bazzoni all’inizio del suo libro che i visitatori, dall’altra parte del fiume scrutavano il bel poggio con un amenissimo giardino attorniato da alberi pittorescamente aggruppati, con fiori, viottoli, un elegante belvedere e, al di là, un’ampia casa (il Castello). Nel giardino, “dove un tempo vi era il gheffo per le scolte sorge ora un grazioso caffehaus: chi lo eresse, amatore della natura e della storia, vi depose verrettoni, pugnali, e picche, e chiovi a larghe capocchie, ch’egli stesso raccolse tra le rovine dell’antica rocca d’Ubione, di cui sull’alta vetta del monte tutte scoprì le fondamenta”. Probabilmente Bazzoni si riferisce a Paolo Beltrami (1792-1853) – (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000).

(2) Per realizzare questo progetto fu costruito a partire dal 1897 dalla società tedesca Schuckert un grande canale, lungo circa quattro chilometri, sulla destra orografica del Brembo la cui origine era poco a valle dei cosidetti Ponti di Sedrina con lo scopo di raccogliere tutta l’acqua proveniente da Zogno ma anche tutta l’acqua, non trascurabile, della valle di Brembilla. Questi lavori finirono nel 1900 e la nuova centrale idroelettrica, la prima in Valle Brembana che potesse definirsi correttamente in questo modo, dotata di 5 gruppi (insieme di turbina e alternatore) da 600 HP ciascuno della tedesca Siemens, entrò in funzione agli inizi del 1901 (a cura del Centro Storico Culturale Valle Brembana, “Il sogno Brembano”. Corponove editrice, 2006).

(3) Per comprendere quanto fosse fondamentale in quegli anni non sprecare alcuna goccia di acqua che potesse trasformarsi in energia elettrica basterà ricordare che dopo poco tempo, essendo stata distrutta la presa d’acqua del canale di Clanezzo poco a valle dei Ponti di Sedrina da una forte piena del Brembo, la stessa diga fu ricostruita più a monte in corrispondenza delle Grotte delle Meraviglie in territorio di Zogno. Le acque della valle di Brembilla, non potendo più essere raccolte in modo naturale, furono allora recuperate per mezzo di una piccola presa, ancora oggi visibile, nei pressi dell’antico ponte a schiena di mulo che collegava Ubiale con Zogno. Da questo luogo attraverso un canale sotterraneo interamente scavato nella roccia le acque della Brembilla furono riversate nel nuovo tratto di canale per Clanezzo che scorreva e scorre ad una quota più alta rispetto a prima. (Il sogno Brembano, op. cit.)

Il maglio di Clanezzo, tra passato, presente e suggestioni

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini

Gli abitanti di Clanezzo la chiamavano la “Fucina del Diavolo” per via dei bagliori infernali sprigionati dalla fucina annerita dalla fuliggine e per il tonfo cupo del martello che colpiva ritmicamente il metallo, che venne utilizzato anche per forgiare armi destinate alla Repubblica di Venezia.

Immagine affascinante dell’interno della fucina di Clanezzo, colta in un’atmosfera d’altri tempi, nella quale si scorgono il pesante maglio e gli utensili anneriti (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Più recentemente la fucina era tenuta attiva da numerosi “maestri” artigiani che si dedicavano alla produzione di attrezzi agricoli come vanghe, pale ed altro ancora.

Lavorazione di una vanga al maglio (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

 

Al lavoro nel maglio (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

fino a qualche decennio fa capitava ancora di sentir rimbombare nella valle il ritmato rumore del maglio. Il signor Giuseppe Personeni, ultimo magliaro, ogni tanto tornava, per passione, nei luoghi dove aveva trascorso una vita e dove aveva sapientemente lavorato il ferro, dando alla luce gli ormai ultimi attrezzi di una lunga e proficua serie.

Artigiano con le vanghe (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Mastro Personeni portò avanti l’attività fino alla metà degli anni ’80 e della sua fucina è rimasta testimonianza nel film datato 1965 “E venne un uomo”, dedicato alla vita di Papa Giovanni XXIII, del famoso regista bergamasco Ermanno Olmi che qui girò alcune scene, probabilmente affascinato dalla bellezza e dalla “integrità storica” del luogo, rimasto quasi inalterato nei secoli.

Tenaglie e vanghe (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Grazie alle riprese di questo film, ma anche grazie ad alcune foto d’epoca, possiamo ancora oggi fare un tuffo nel passato e vedere come si lavorava nella fucina di Clanezzo nel cuore degli anni Sessanta (1).

Trasporto di vanghe (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Anche se oggi non c’è più il rumore del maglio e le grandi ruote sono a pezzi, la suggestione del luogo è immutata, benché sia estremamente pericoloso anche solo avvicinarsi all’edificio, ormai cadente e pericolante.

Quando il maglio ancora era in funzione, all’ultima curva del sentiero l’incanto veniva rotto dallo stridore delle mole e dal cupo battito del maglio: un rumore antico, interrotto dal battito sonoro di un martello sull’incudine.

Veduta del maglio dal greto del torrente Imagna: una pesante e antica costruzione al di là dell’Imagna, costruita con grosse pietre, con un ampio lucernario nel tetto, grandi ruote e cascatelle d’acqua (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

L’ultimo ostacolo, il fiume, veniva superato su un secolare passaggio elastico, incerto, dall’aria provvisoria: quattro cavi d’acciaio, sui quali erano gettate piccole assi, la metà delle quali rotte o addirittura mancanti.

Per raggiungere il maglio bisognava superare il torrente su una traballante e assai precaria passerella, e poi scendere lungo un ripido sentiero acciottolato e a gradini irregolari (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Effettuato il pericolante passaggio, al rumore che aveva segnalato la presenza dell’officina si aggiungeva quello delle acque impiegate per muovere le grandi ruote, sistemate sul lato lungo della costruzione. L’acqua dell’Imagna, guidata da canaletti e scivoli, veniva adoperata dall’officina e restituita al fiume, poco più avanti.

Canalizzazione all’esterno del maglio (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

L’interno sembrava la fucina di Vulcano: stretto, piccolo, basso e nero l’ingresso. Poi, una stanza adibita a magazzino e poi ancora il camerone e cioè la fucina, dove trionfava il nero del carbone accumulatosi da sempre. Alta fino al soffitto, con un lucernario e due alte finestrelle, invasa da ogni sorta di macchine, con un ballatoio che percorreva tre lati della costruzione.

Scorcio dell’interno nel 1984 (fotografia di Mario Fojadelli)

I raggi del sole che penetrano dalle aperture scoprivano angoli che avevano dell’incredibile e particolari della meccanica senza età, che sembravano nati con il ferro, come se fra quelle pietre il tempo non fosse passato e l’acqua fosse il solo motore possibile.

Ogni macchina riceveva energia dall’acqua attraverso due grandi ruote a pale, una collegata ai ruotismi delle mole e di una sega circolare, la seconda ad un enorme maglio.

Una delle due grandi ruote a pale collocata all’esterno dell’edificio e ancora presente nel 1984 (fotografia di Mario Fojadelli)

 

Particolare della grande ruota a pale collocata all’esterno dell’edificio (fotografia di Mario Fojadelli, 1984)

Un terzo impianto idrico con un complicato quanto semplice principio a sifone forniva un violento soffio d’aria per alimentare la forgia, che in antico serviva anche per fondere i materiali ferrosi provenienti da Valnegra.

Attizzare la fornace (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Il pezzo forte era senz’altro il maglio, che la leggenda fa risalire a tempi lontanissimi. Si componeva di un forte albero di grosso fusto, lungo circa due metri, che a un terzo della lunghezza portava un anello “claudicante” con due perni che la Bibbia descrive fedelmente chiamandolo “boga”.

Il maglio (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Nella parte anteriore il blocco di ferro, dalla caratteristica forma a testa d’asino, che batteva su un piedistallo anch’esso in ferro. Dietro il maglio terminava in una rastrematura che in posizione di riposo appoggiava su delle sporgenze metalliche infisse in un grosso albero posto trasversalmente, direttamente collegato con la ruota ad acqua. Quando questo secondo albero cominciava a ruotare le sporgenze sollevavano la testa del maglio lasciandola poi sfuggire. A seconda della quantità d’acqua che veniva rovesciata sulle pale della ruota si determinava la velocità di battuta del maglio, non la potenza, che era sempre uguale.

Al lavoro nel maglio (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

 

Al lavoro nel maglio (fotografia di Pepi Merisio, realizzata negli anni 1965/’66)

Il cupo e rapido battito del pesante maglio era un suono caratteristico e inimitabile. Ad ogni colpo le vecchie pietre vibravano (2).

Come si presentava l’interno del vecchio maglio nel 2018 (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Come si presentava l’interno del vecchio maglio nel 2018 (Fotografia Maurizio Scalvini)

IL MAGLIO OGGI

Se fino a qualche decennio fa, il maglio e i suoi dintorni erano caratterizzati dalla presenza di manufatti che evidenziavano l’utilizzo continuo della fucina, dopo la cessazione delle attività si sono verificati deterioramenti e atti vandalici, sia alle attrezzature che all’edificio stesso.

Oggi, come mostrato dalle immagini, il caseggiato che per secoli ha ospitato il maglio di Clanezzo è completamente rovinato e abbandonato: tutti i precedenti tentativi di preservare questa importante realtà storica sono stati inefficaci; il comune non può intervenire perché l’immobile è di proprietà privata e un recupero pare improbabile. Immutata è invece la suggestione del luogo.

Nel 2018, all’interno si trovavano ancora alcuni resti dei macchinari utilizzati e l’asse del mulino che forniva il movimento per battere il metallo (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Particolare dell’asse del mulino che forniva il movimento per battere il metallo, ritratto nel 2018 (Fotografia Maurizio Scalvini)

LE ORIGINI DEL MAGLIO

L’edificio del maglio, con le sue grosse pietre squadrate ha un’origine molto antica, risalente al XIII secolo: la fucina infatti era stata impiantata in una costruzione precedentemente utilizzata come mulino, come si evince da un un documento del 1296, redatto nel periodo in cui il latifondo di Clanezzo era appannaggio del vescovo di Bergamo (3).

La lavorazione del ferro ebbe invece inizio nel 1548 ad opera di Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna, come si evince da un documento rivenuto presso l’Archivio di Stato di Bergamo (4), nel quale si legge che l’edificio necessitava già di tante cure manutentive.

A quei tempi il proprietario del maglio era Gian Giacomo Buscoloni, figlio di quel Bernardino, originario di Almenno, che nel 1539 aveva acquistato la tenuta di Clanezzo dall’Istituto della Pietà (quest’ultimo, l’aveva venduta per le gravi difficoltà economiche causate dalle guerre del Cinquecento). Gian Giacomo subentrava al padre nella conduzione degli affari e con ogni probabilità si districava bene in quanto riuscì ad acquistare nuove terre nel circondario. Egli, il 28 giugno del 1551 aveva ottenuto con decreto ducale il privilegio dell’esenzione dal dazio per la condotta del ferro crudo, di rottami, scaglie e carboni. I dazi per il ferro infatti erano così alti che molti abbandonavano la professione, ed essendo la montagna molto povera, dovevano lasciare le terre ed emigrare nel Milanese (5) .

CARLO CAMOZZI, PRODUTTORE DI CANNONI

Ma fu nel Settecento che dalla fucina di Clanezzo uscirono armi in gran quantità, che venivano trasportate a Venezia per essere utilizzate per la difesa di terra e per armare le navi della flotta. Oltre alle armi, la fucina produceva anche molto ferro lavorato.

A produrre le armi per conto di Venezia era Carlo Camozzi di Bordogna (6), figlio di quel Marco che nel 1701 aveva preso in affitto, dal conte Leopardo Martinengo da Barco, la tenuta di Clanezzo, compresi il castello, il porto e l’edificio della fucina, cui era tenuto a provvedere, ad esclusione dei muri e del tetto.

Nel 1711 Carlo, da tempo instradato dalla sua famiglia nell’arte della lavorazione del ferro, aveva rilevato dal padre la gestione della fucina di Clanezzo e di quella di Strozza, avviando nel 1712 una fabbrica di cannoni a Lizzone, presso la Ventolosa di Villa d’Almè: numerosi atti notarili pubblicati nel libro di Diego e Osvaldo Gimondi (7), attestano che per decenni, nella fucina di Lizzone vennero fabbricati numerosi cannoni e rispettive munizioni per conto di Venezia – impegnata in quel periodo nella guerra contro il “nemico turco” -, e che nei periodi di scarsa produzione, Carlo Camozzi era autorizzato a fabbricare armi anche per il Ducato di Milano (8).

Leone di S. Marco – Particolare di una pergamena del 1712 nella quale il Senato concede al bergamasco Carlo Camozzi, residente a Clanezzo, di produrre cannoni per la flotta veneta (Castello Camozzi-Vertova, Costa Mezzate) – (Foto tratta da U. Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000)

 

Veduta della Fonderia. Avviata nel giugno del 1712, la “fondaria de canoni” di Carlo Camozzi viene impiantata a Lizzo, o Lizzone, lembo di terra adagiato sulla sponda sinistra del fiume Brembo, a quei tempi appartenente al Comune d’Almenno S. Salvatore e integrata dopo l’unità d’Italia nei confini di Villa d’Almè. Con l’installazione della fabbrica di cannoni questa località prese il nome di Fonderia, denominazione che conserva tuttora (D. e O. Gimondi, op. cit.). Vi si arrivava dalla “Ventulosa”, tratto di strada che da Villa d’Almè conduce a Ca’ dell’Ora, punto nevralgico tra la fonderia, la via Priula e i collegamenti tra Bergamo e le Valli Brembana e Imagna. Non è dunque un caso che in quella località siano sorte antiche dimore e avamposti (una grossa torre di avvistamento accanto a villa Olmo e il notevole palazzo di Ca’ dell’Ora) – (Foto tratta da: D. e O. Gimondi, “Villa d’Almè – dal Settecento al secondo dopoguerra”. Ferrari Editrice, Clusone, 1998)
I due cannoni presenti nella Fortezza di Corfù, fabbricati da Carlo Camozzi, che  realizzò per Venezia oltre 1900 cannoni di vario calibro, molti dei quali si trovano  nelle isole greche (Corfù, Cefalonia, Itaca…). Le scritte in rilievo rivelano la sua firma: C B (Camozzi Bergamo), oppure la più estesa CARLO CAMOZZI F(ecit) BERGAMO. La loro lunghezza li fa attribuire l’uno (276 cm) alla seconda serie (1722-1724), mentre l’altro (293 cm) alla terza, quindi successivo al novembre 1725. Il primo, oltre alle iniziale C B ed al leone marciano porta uno stemma non ancora identificato, probabilmente appartenente al Provveditore alla Artiglierie in carica. Sul secondo, oltre alla scritta latinizzata si scorge ancora un “leone in moleca”, cioè racchiuso come in una conchiglia, purtroppo molto deteriorato

 

I cannoni “Camozzi” ritenuti all’epoca eccezionali, erano tanto invidiati e segreti da mantenere ancora oggi, nella loro composizione di metalli e di progettazione qualche segreto non svelato.  Il Camozzi muore – pare – nel 1767, con l’orgoglio di aver creato “una fabbrica di cannoni di ferro che nella belezza e nella perfettione supera qual si altra di qualunque Potentato dell’Universo”

 

Cannone Camozzi

Data la cospicua ed eccellente produzione, alla fonderia della Ventolosa (9) si attribuì una forte rilevanza militare, ma d’altro canto non mancano testimonianze che attestano una vivace attività anche presso il maglio di Clanezzo, dove, se dobbiamo credere alle parole di G. Rosa, la produzione di cannoni e di proiettili era iniziata nel 1706 (10), ed era ancora in atto nel 1749, nel periodo in cui anche la fabbrica di armi di Gromo produceva spade e altre armi da punta e taglio, come risulta dalle relazioni inviate a Venezia dai Rettori (11).

Pietro Maria Ronzoni (1781-1862). Clanezzo preso dal Ghisleno. Schizzo a matita (proprietà privata) – (Foto tratta da: D. e O. Gimondi, op. cit.)

Anche l’abate G. Battista Angelini, nativo di Strozza, dove risiedette nel periodo dell’attività svolta dal Camozzi, nella sua celebre opera “Bergamo descritta a mosaico”, descrisse in versi la fucina di Clanezzo. Dalla sua opera apprendiamo che la fucina produceva molto ferro che, in verghe, piastre e cerchi veniva venduto alla fiera di Almenno, e che la fabbricazione di armi era molto fruttuosa, considerati i continui venti di guerra che spazzavano la Repubblica.

Dalla fucina uscivano palle da bombarde, colubrine e cannoni (12), di cui l’Angelini descrive i passaggi che della fusione portano allo stampaggio e alla successiva prova del fuoco.

Prima di essere venduti, i pezzi venivano collaudati sul posto, quindi per la valle spesso si udivano i rimbombi prodotti dagli scoppi: “Di palle da bombarde, e colubrine/Si fa qui sotto ‘l getto, e ‘l getto de cannoni”. Solo uno dei tanti operai rimase vittima durante questi esperimenti (13).

OLTRE ALLE ARMI, LA PIETRA FOCAIA

Nel territorio di Ubiale, polo di monte dell’attuale comune di Ubiale Clanezzo, si cavava tra l’altro una pietra utilizzata come focaia, che battendola faceva spruzzi e faville. Veniva venduta alla fiera a caro prezzo, perché era pregevole e si poteva paragonare alla pietra di Calcedonia: nelle case serviva da “accendino”, ma era molto usata anche in ambito militare perché perfetta per l’archibugio, un antenato del fucile con il quale si procedeva allo sparo con l’ausilio di un acciarino composto da un pezzo d’acciaio e da una pietra focaia (14).

Una pietra simile, era il quarzo estratto ad Ubiale fino agli anni Sessanta, che doveva trovarsi nei pressi della vecchia cava in località Coste, ora ricoperta da una fitta vegetazione (la tramoggia è ancora visibile lungo la strada che porta ai ponti di Sedrina).

Ubiale, cave di quarzo (foto d’epoca)

DOVE SI TROVA L’EDIFICIO DEL MAGLIO

Il maglio non è facile da scoprire. Si trova sotto l’antico Castello di Clanezzo, in una stretta valletta là dove l’Imagna disegna un’ansa. Vi si accede seguendo il sentiero che conduce alla Centrale elettrica, svoltando però a sinistra anziché proseguire la discesa. Ed è sulla riva sinistra del torrente che, quando gli alberi sono spogli, si può scorgere un grosso caseggiato solitario: è l’antichissima fucina di Clanezzo.

In questa zona, alla confluenza tra il torrente Imagna e il fiume Brembo, caratterizzata da uno spazio relativamente ristretto, si riscontra la presenza di un ricco e variegato contesto naturale, che contraddistingue questo luogo nella sua unicità, il cui fascino è accresciuto dalla bellezza del paesaggio fluviale. Se la rete idrica superficiale è piuttosto limitata, grazie ai diffusi fenomeni carsici, la zona è ricca l’idrografia sotterranea, evidenziata da significative cavità e sistemi di condotte e grotte. La discesa al torrente permette di osservare la forra e le formazioni rocciose (Fotografia Maurizio Scalvini)

Per raggiungerla bisogna costeggiare parte del muro di cinta del Castello e proseguire per la chiesa e via S Gottardo, da dove, svoltando a sinistra per via Marconi, si incontra un lungo ed antico edificio adibito ad abitazioni.

Clanezzo, chiesa di S. Gottardo (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

Clanezzo, il lungo edificio di via Marconi, al termine del quale si diparte la mulattiera che scende verso la vecchia Centrale elettrica (Fotografia Maurizio Scalvini)

Oltrepassato il caseggiato si svolta nuovamente a sinistra per via della Centrale: qui la strada lascia il posto ad una sterrata, attrezzata con guardrail, che scende fino alla valletta dell’Imagna e che consente di avvistare in lontananza la dismessa Centrale elettrica di Clanezzo.

In lontananza, la Centrale elettrica di Clanezzo, rimasta in funzione fino agli anni ’80 (Fotografia Maurizio Scalvini)

Mantenendosi sulla sponda sinistra del torrente, in parte scavato tra le falde della roccia, in pochi minuti si arriva alla vecchia Centrale, da tempo in disuso, e costeggiando il muro di cinta dell’edificio si raggiunge il punto di captazione dell’acqua dell’antico canale che indirizzava le acque del torrente Imagna alla grande fucina del ferro.

La centrale della Società Idroelettrica della Valle Imagna Inferiore a Clanezzo. E’ posta nel fondovalle dell’Imagna, lungo il sentiero per il maglio e intercettava le acque del torrente in territorio di Berbenno, alla località Ponte Giurino, da dove venivano trasportate con un canale semi sotterraneo in territorio di Clanezzo, dove l’Imagna sbocca nel Brembo: un salto di ben 80 metri e una portata di 580 litri d’acqua al secondo, assicurava una potenza complessiva di 500 cavalli (HP). (Fotografia Maurizio Scalvini)

 

L’interno della Centrale oggi (Fotografia Maurizio Scalvini)

Per vedere quel che ne rimane, arrivati al cancello della centrale anziché proseguire in discesa si procede a sinistra su uno stretto sentiero e in pochi minuti si arriva alla costruzione, in completo abbandono: ormai ridotto ad un edificio decadente e quasi diroccato, col tempo verrà invaso dalla vegetazione.  La prudenza consiglia a chiunque volesse recarsi sul posto di tenersi a debita distanza dall’edificio, che racchiude fra le sue mura la bellezza di oltre sette secoli di storia.

Il maglio di Clanezzo. Collocato ai margini del giardino romantico del Castello, il massiccio edificio in pietra a vista posto sul fondo delI’Imagna e la cui presenza è documentata sin dal secolo XIII, è oggi quasi completamente distrutto e pericolante: le pietre del Brembo e la calce dell’Ubione furono i materiali utilizzati per la sua costruzione. All’interno, i resti dei manufatti ne denunciano da tempo lo stato di totale abbandono (Fotografia Maurizio Scalvini)

Note

(1) La documentazione fotografica conservata dal “Museo delle Storie di Bergamo nell’Archivio Fotografico Sestini”, abbraccia invece un arco di tempo che va dal 1960 al 2000. La collezione è stata resa possibile soprattutto grazie alle fotografie di grandi artisti e fotoreporter contemporanei come Pepi Merisio (1931-2021), Pier Achille Terzi, detto Tito (1936-2010), ed altri. Nei loro scatti, questi grandi fotografi sono riusciti a catturare suggestive pagine di storia, che altrimenti sarebbero andate perdute.

(2) Per la descrizione dell’itinerario e della fucina, Paolo Impellizzeri e Marco Antonio Solari per il Giornale di Bergamo del 5 novembre 1967.

(3) Un documento del 1296 riporta che un certo “Cagniginus de clenezio de brembilla” pagava già allora al vescovo di Bergamo, Giovanni di Scanzo, un fitto per poter condurre ad una casa vicina all’Imagna acqua “…sufficintem tribus rotis molendinorum”, cioè sufficiente per azionare tre ruote da molino (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000).

(4) Cinzia Gamba, Stefania Mauri, Tesi di Laurea dal titolo: I magli nella Bergamasca: L’esempio di Clanezzo. Anno accademico 1995/96. Contiene notizie dettagliate sul maglio di Clanezzo e sulla lavorazione del ferro nella bergamasca. Presso l’Archivio di Stato di Bergamo gli architetti Cinzia Gamba e Stefania Mauri hanno trovato un documento riguardante la disputa sorta tra il proprietario del luogo (il Buscoloni) e il Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna, magliaro, redatto dal notaio A. Rescanzi in data 23 novembre 1548. Il Venturini chiedeva la riduzione delle spese di affitto quantificate in duecento lire imperiali, perché aveva dovuto sostenere le spese di manutenzione dell’edificio (U. Gamba, op. cit.).

(5) Dalle relazioni dei rettori veneti emerge che il ferro della Val Brembilla veniva portato nel Milanese, facendo diminuire guadagni, lavoro e numero delle maestranze: la popolazione si trasferiva quindi in altri stati per procurarsi il vitto. Alla metà del ‘700, la concorrenza delle miniere scoperte nel Milanese e nel Piemontese aveva procurato un grave danno alla debole economia locale. Vent’anni dopo il prodotto del ferro non è più abbondante, non per deficienza di vene, ma per il costo dell’estrazione. Nel 1787 il capitano e vice podestà Bartolomeo Mora sollecita il Senato affinché ridia vitalità alla produzione di ferro nei forni, i quali sono chiusi o lavorano al minimo; fa presente che per far funzionare un forno (escavazione, trasporto, carbone e fusione), lavorano circa 300 persone e in una fucina al massimo 8, perciò non si deve favorire l’importazione di ferro, ma bisogna farlo produrre nella valle (U. Gamba, op. cit.).

(6) Originaria di Bordogna, in alta Valle Brembana, la famiglia Camozzi si occupava da tempo di metallurgia e fu una delle ultime ad operare con grande risonanza sul territorio brembano. Tale famiglia nel XVII secolo ramifica la sua discendenza in Valle Imagna, precisamente a Strozza, trasferendosi in seguito a Clanezzo, dove nel 1701 Marco Camozzi, con i figli Carlo e Gabriele, prende in affitto dal conte Leopardo Martinengo da Barco, per nove anni, la tenuta di Clanezzo, risiedendo probabilmente nel palazzo (il suddetto contratto di locazione sarà ripetuto con Carlo Camozzi nel 1724). Nel 1702, Marco gestisce, oltre la fucina di Clenezzo, anche quella di Strozza (Diego e Osvaldo Gimondi, “Villa d’Almè – dal Settecento al secondo dopoguerra”. Ferrari Editrice, Clusone, 1998, pagg. 31 e segg.).

(7)  Nel corso del secolo la Serenissima, alla necessità di armamenti nuovi da impiegarsi contro i turchi, non trovando adeguata risposta dalle fonderie bresciane che affrontavano un momento di grave crisi, induce i governanti veneti a rivolgersi a Carlo Camozzi, il quale nel 1712 propone alla Serenissima la creazione di un nuovo impianto di forni e uno schema di contratto attraverso il quale si impegna a consegnare, annualmente, per dodici anni, quaranta cannoni di diverso calibro e rispettive munizioni. Nel giugno del 1712 Carlo avvia la sua fabbrica di cannoni, trasferendo la sua dimora a Lizzone. Si legge nel testo che “Il ritrovamento di un ingente numero di documenti notarili ci testimonia senza alcun dubbio che, contrariamente a quanto sino ad oggi affermato…il loco della Fondaria de canoni del signor Carlo Camozzi, era “posta di là dal Brembo Comune d’Almenno Santo Salvatore distretto di Bergamo. Si tratta di quella fascia di terreno sulla sinistra del fiume chiamata Lizzo, o Lizzone che, proprio con l’installazione della fabbrica di cannoni prese il nome di Fonderia….”, dove Carlo trasferì la propria dimora e dove risulta abitare ancora nel 1735. Egli, prima di dedicarsi alla produzione di cannoni, era stato occupato in qualità di maestro presso la fonderia di Tiburzio Bailo (D. e O. Gimondi, op. cit.) a Sarezzo, in Val Trompia (BS), il primo fornitore nazionale di cannoni in ferro e rispettivi proiettili per il naviglio della Repubblica di Venezia, “per la quale produsse più di 470 cannoni tra il 1689 ed il 1702” (…) “Venezia trovò un nuovo fornitore in Carlo Camozzi dopo un tentativo fallito di realizzare i cannoni in ferro direttamente nel proprio Arsenale (1718-1719)”. Carlo Camozzi “creò una nuova industria a Clanezzo nel bergamasco, attiva dal 1722 ai primi anni Quaranta del Settecento” (Cannone veneziano da 40 libbre (sottili)). Le alterne vicende belliche alternate ad anni di lunghe tregue, segnarono il declino del Bailo, che alla ripresa delle ostilità turche si trovarono nell’impossibilità di fornire i cannoni, in quanto i fabbricati erano andati in rovina, i forni smantellati e la Serenissima non intendeva finanziare un ripristino oneroso. Il momento fu propizio al Camozzi, che nel 1712 decise di mettersi in proprio, proponendo a Venezia la costruzione di un forno nella zona pianeggiante fra Clanezzo e Oltre Brembo (come era chiamata la località Fonderia fino al 1884). I cannoni del Camozzi erano in ferro fuso ed avevano il notevole vantaggio di avere un costo inferiore a quelli di bronzo. Nel 1714, dopo il collaudo favorevole dei primi esemplari, Venezia ordinò quaranta cannoni all’anno per dodici anni a cui fecero seguito negli anni successivi altre commesse per centinaia di pezzi per una quantità totale di oltre 1900 cannoni di vario calibro (da Villa d’Almè informa. Notiziario del Comune di Villa d’Almè. Anno 3. Giugno 2021. N. 6).

(8) Ciò avvenne anche nel 1727, dopo che Venezia raggiunse una certa stabilità in terraferma e dopo la sconfitta di Morea, con la quale i Turchi non rappresentavano più una minaccia sul mare (D. e O. Gimondi, op. cit.).

(9) Un atto notarile, in cui si allude ad una “compagnia vecchia della fonderia”, fa intendere che nel 1730 nella proprietà siano intervenuti dei cambiamenti e cioè che sia cambiata la ragione sociale (anche se un documento relativo a una deliberazione del governo veneziano in cui vengono ordinati duecento cannoni di ferro in Bergamasca, lascia intendere che nel 1736 i Camozzi risultano essere i “Partitanti” della nuova “ditta”). Negli anni seguenti le notizie sono sempre più rare. La fabbrica dei cannoni alla Ventolosa era ancora in piena attività nel 1742. Non è dato di sapere quando La fonderia finì di adempiere alle sue originarie funzioni. “Il Belotti afferma che il grande impianto dove si producevano i cannoni per Venezia, successivamente non ebbe fortuna e rimase quasi inattivo, riducendosi alla semplice produzione di falci”. Dei Camozzi, come si apprende da una Ducale del 1736, “conosciamo la nuova destinazione: Bergamo. Carlo, lasciata l’incombenza ai figli che erano divenuti a loro volta ‘maestri’ della fonderia, morì, cosa che non possiamo confermare, verso il 1767”. “Con la fine della produzione dei cannoni presso la fonderia del Lizzone, l’industria metallurgica andò segnando il passo, trascinando con sé anche quella mineraria che, grazie appunto alla fonderia, per oltre mezzo secolo, aveva permesso la sopravvivenza di molte miniere della valle” (D. e O. Gimondi, op. Cit.). Altrove si legge che gli ordini si esaurirono nel 1743, quando Venezia non era più minacciata dal pericolo turco (da Villa d’Almè informa, op. cit.).

(10) G. Rosa, Notizie statistiche della Provincia di Bergamo in ordine storico., pag. 133. Tip. Pagnoncelli 1858 Bergamo. Nel testo si legge che la Serenissima “…soccorse alla decadenza di nostra metallurgia, aprendo nel 1605 una fonderia di cannoni e di proiettili a Brescia, nel 1706 altra simile a Ventolosa e Clanezzo presso Bergamo e di proprietà Camozzi, nel 1776 un’altra a Castro presso Lovere”. Ma da quanto osservato sinora, in base agli atti notarili consultati dali fratelli Gimondi (op. cit.), per la Ventolosa la produzione dei cannoni si avvia dal giugno del 1712. Altrove si legge invece che Carlo Camozzi  “creò una nuova industria a Clanezzo nel bergamasco, attiva dal 1722 ai primi anni Quaranta del Settecento” (Cannone veneziano da 40 libbre (sottili)).

(11) Il Lanfranchi” (Giacinto Lanfranchi, “I cannoni di Bergamo hanno allontanato il turco dall’Europa”. Atti dell’Ateneo (in), vol. XXX, anno 1957/59) scrive che ‘Venezia, nel 1721, al 22 giugno, ordina “al Camozzi mortai da 40 che non erano urgenti perché solo il 22 febbraio dell’anno seguente, inviò a Clanezzo, i disegni dei letti per montarli” e che “Dopo questa fornitura, la fonderia ebbe parecchi mesi di arresto con grave danno per il Camozzi obbligato a tenere la maestranza inoperosa”. E’ di questo periodo (1721) “il riconoscimento, a motivo della bontà delle armi prodotte a Lizzone, che Venezia concesse al Camozzi, il diritto di collaudare i suoi pezzi sul posto” (D. e O. Gimondi, op. Cit.). Umberto Gamba cita invece le relazioni dei rettori veneti Alvise Contarini e Nicolò Erizzo. Nella relazione del rettore veneto Alvise Contarini II, del 10 giugno 1749 si legge che nel territorio della provincia, oltre alle altre fucine, vi è la fabbrica di armi di Gromo che “….produce spade et altre armi da punta e taglio militari e la fondaria dell’artiglieria situata in Claneso…”, mentre Nella relazione del rettore veneto Nicolò Erizzo, del 20 dicembre 1754, è scritto che nel territorio vi sono 45 fucine e 9 forni nella valle di Scalve e Brembana e 28 nella Valle Seriana, in più la fonderia delle artiglierie che esiste in “Clenezzo” (Istituto di Storia Economica dell’Università di Trieste, Relazione dei Rettori veneti in terraferma XII Podesteria e Capitanato di Bergamo, Vol. XII, 1978, rispettivamente pag. 685 e pag. 718. In U. Gamba, op. Cit.)

(12) Le bombarde, già conosciute dal 1300 e diffusesi nel 1400, erano formate da due tubi di ferro coassiali, uno grosso che conteneva il proiettile, in genere una palla di pietra, e l’altro più stretto, dove veniva messa la carica. Modificato in seguito il disegno e perfezionato il funzionamento, nel XV secolo presero il nome di cannoni. Le colubrine comparvero più tardi. Lunghe e strette, all’inizio si portavano a mano, in seguito vennero montate su di un affusto. Avevano questo nome, perché le prime prodotte rappresentavano sull’altorilievo di volata un sepente (colubro). Anch’esse in seguito vennero sostituite dai cannoni, più efficienti e potenti (U. Gamba, op. cit.).

(13) Vincenzo Marchetti (a cura), “Angelini Giovanni Battista erudito bergamasco del Settecento”. Quaderni del centro documentazione beni culturali IV, Ferrari Grafiche, Clusone 1991, pagg. 95 e 96.

(14) V. Marchetti o.c. pagg. 96 e 97.

Riferimenti principali

Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000.

D. e O. Gimondi, “Villa d’Almè – dal Settecento al secondo dopoguerra”. Ferrari Editrice, Clusone, 1998, pagg. 31 e segg.

Nota alle immagini

Le fotografie relative al reportage realizzato da Pepi Merisio negli anni 1965/’66, sono di proprietà dell’Ente AESS (Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione Lombardia), che ne conserva le copie digitali.

Le fotografie recenti, relative agli anni 2018 e 2024, sono realizzate da Maurizio Scalvini.

Le automobili Esperia, prodotte laddove sorse la principale scuola tecnica di Bergamo

La Città di Bergamo può vantare, fra le sue vicende storiche, quelle di alcune tra le più rappresentative industrie produttrici di auto, attive nel Primo Novecento. Se fra le moto di prestigio non possiamo non ricordare le mitiche Rumi (prodotte dalla metà degli anni ‘50 del Novecento), fra le automobili realizzate si annoverano quelle prodotte dalla gloriosa S.A.L. (acronimo di Società Automobili Lombarda), fondata a Bergamo nel 1905 con lo scopo di produrre omnibus, motori marini e automobili, per le quali venne creato il marchio “Vetture Esperia”: le prime automobili lanciate a Bergamo.

La S.A.L., “Società Automobili Lombarda, presentò a Bergamo il primo veicolo con motore a scoppio, battezzato col nome d Esperia, l’antico nome d’Italia, quasi fosse l’inizio di una prossima, allora sperata, enorme diffusione” (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966)

Una fabbrica nata laddove, dopo vent’anni, una scuola soprannominata “Esperia” avrebbe preparato migliaia di tecnici per la grande crescita dell’industria bergamasca.

Il complesso scolastico dell’I.T.I.S. “Pietro Paleocapa” sorge nell’area compresa tra Via Gavazzeni e Via Europa, ed è chiamato nell’uso comune “Esperia” in ricordo dell’automobile che venne prodotta ad opera dell’azienda meccanica S.A.L. – Società Automobili Lombarda -, la quale aveva sede in questo stabile denominata Officina Esperia

La fabbrica, che si trovava nell’allora via Conventino (divenuta attorno al 1938 via Gavazzeni), era stata costruita tra il 1880 e il 1890 per fabbricare carrozze a trazione animale ed iniziava a produrre le sue auto in tempi in cui a Bergamo ne circolavano circa una decina (1).

La vecchia officina e i reparti di lavorazione della S.A.L., risalenti agli anni 1880-1890, furono realizzati con la struttura modulare degli shed, tipica degli stabilimenti inglesi, oggi ubicati nell’area centrale del complesso scolastico dell’I.T.I.S. “Pietro Paleocapa” coprendo oltre un quarto della superficie disponibile. Attualmente, sotto il soffitto a shed è stato realizzato il “Time (acronimo di tessile, informatica, meccanica ed elettrotecnica) Esperia industrial museum”, il museo scolastico dell’Itis Pietro Paleocapa, dove sono esposte pietre miliari di storia industriale, molte recuperate dai laboratori dell’istituto. Dalla macchina a vapore alla turbina Pelton, dal personal computer Olivetti alla copia di Philae, il lander della missione spaziale Rosetta

In pochi mesi l’azienda riuscì a presentare i primi autotelai, denominati “20 HP” e “40 HP”, dotati di propulsore quadricilindrico in linea da 3.770 cm³.

Auto Esperia nel 1905

 

Auto Esperia nel 1908

Nel 1909, per intervenute difficoltà finanziarie, la SAL venne posta in liquidazione ed acquisita dal tecnico Giovanni Macagno, e la ragione sociale dell’azienda mutò in “Macagno Giovanni Automobili Licenza Esperia”.

Macagno costruì nuovi autotelai “20/24 HP” e “40/50 HP”, dotati di motore monoblocco posizionato anteriormente, accensione a magnete “AT” e trasmissione cardanica sulle ruote posteriori.

Auto Esperia, Seriate 1911. Al volante Emma von Wunster Busse, al suo fianco Carlo von Wunster, nei sedili posteriori Heinrich von Wunster con la figlia Ghita. Seduto sul predellino il cognato Fritz Frenzel (Glauco Von Wunster per Storylab)

 

Auto Esperia, Seriate 1911. Al volante il nonno di Glauco, Heinrich, con al fianco suo padre, Carlo. Emma con le figlie Ghita e Agnese (Glauco Von Wunster per Storylab)

 

La prima ambulanza a motore acquistata dalla Croce Rossa Italiana risale al 1911 e fu destinata alla sezione di Bergamo. La vettura, una Maccagno 20/40 Hp, una quattro cilindri di 3.770 cc prodotta dalla “Macagno Giovanni Automobili Licenza Esperia”. La carrozzeria fu invece appositamente costruita dalla concittadina Panza tenendo presenti le necessità dell’impiego sanitario, come la comodità di disinfezione del vano posteriore o là disponibilità dell’illuminazione elettrica interna (Archivio Pelandi – Studio fotografico Modonesi)  

 

Telaio Esperia

L’auto, lucida e brillante nel suo colore rosso e verde fu subito elogiata non solo per la sua semplicità ma specialmente per la sua robustezza e per la sua raffinatezza. Per l’originalità e il prestigio dei suoi modelli, l’azienda bergamasca era fortemente apprezzata sia in Italia che in Europa, così come negli USA, patria dell’automobile di serie. Infatti il gran successo riscosso all’Esposizione mondiale di Parigi nel 1905, dove la vettura Esperia  conquistò la Medaglia d’Oro, spinse gli Stati Uniti a commissionare ben 24 esemplari di questa stupenda automobile, allargando così la fama dell’industria meccanica bergamasca anche al continente d’oltreoceano.

Sull’onda dell’emotività, ma principalmente in conseguenza della riconosciuta precisione di lavorazione dovuta sia alle moderne macchine che alla manodopera sceltissima e all’abilità degli operai, le auto prodotte nella fabbrica orobica ottennero persino il nomignolo di “gioiello” nell’ambiente dell’industria automobilistica mondiale.

Le buone caratteristiche tecniche delle vetture, note alla cronaca dei tempi per la loro affidabilità, si dimostrarono anche in alcune gare come la “Padova-Bovolenta” (nella quale una “20/24 HP” guidata da Macagno conquistò il primo posto nella III categoria) e la Parigi – Pechino, tenutasi prima del conflitto mondiale.

Ma dopo uno strepitoso successo iniziale, nel primo dopoguerra dovette cedere i brevetti e chiudere i battenti confluendo nel gigante FIAT (fondata da Giovanni Agnelli nel 1899), anche a causa della coercitiva conversione produttiva generata dalle vicende della prima guerra mondiale.

A tale proposito il “Novecento a Bergamo” cerca di fare chiarezza: “Già da un paio d’anni due auto Esperia erano in possesso, regolarmente acquistate, dalla fabbrica torinese, e quei tecnici avevano trovato nei loro congegni ‘miracolosi tesori’. Sta di fatto che a Torino si pensò che il modo migliore per sbarazzarsi di un incomodo fosse quello di farselo amico, diventandone il padrone. Un pacchetto azionario, tale che il suo possesso portasse alla maggioranza del capitale sociale, fu pertanto acquistato dal gruppo torinese che guidava le sorti della Fiat. Poi il gioco fu facile. Un’assemblea straordinaria a Bergamo votò la fusione per incorporazione dell’Esperia nella Fiat. E il grande stabilimento di Via Conventino chiuse i battenti.”

Piazza Brembana. Prima sede dell’impresa di autotrasporti Donati. Automobili, tra cui una Fiat 502, un’Esperia e un’Adler, in sosta davanti e dentro la rimessa. Distributore di benzina Shell (Eugenio Goglio, 1923)

I NOSTRI PRIMI AUTOMOBILISTI

Riporta Luigi Pelandi che dall’officina meccanica uscirono i nostri primi automobilisti. Fra questi, quel Piero Nava, morto ottantatreenne il 3 luglio 1964, che fece i suoi primi esperimenti proprio all’Esperia. Poi, vedendo che gli affari degli Zanchi andavano male, si mise in proprio ed aprì il primo garage fuori Porta Broseta ed in seguito sul viale Vittorio Emanuele, dove un tempo c’era la Standa. Ma prima di mettersi all’Esperia era stato cocchiere del vescovo mons. Guindani, che lo teneva in ottima considerazione anche per la vera perizia nella guida della pariglia vescovile. Fu poi il primo garagista della città, inizialmente in un antico stallo fuori porta Broseta di fronte alla drogheria Lazzarini. Unico a Bergamo che potesse offrire alla clientela la scelta di due automobili, quella a carrozzeria scoperta e quella chiusa, il Nava fu il primo che portò a Bergamo il pulmann. Un altro automobilista, che era stato a suo tempo operaio dell’Esperia, era “ol Bègno”, o meglio, l’intraprendente Giacomo Benigni di Borgo Palazzo (località Rocchetta), forse anche il primo automobilista del borgo nonché il più spericolato. Fra i primi automobilisti conosciuti dal Pelandi c’era anche Stefano Minossi, un costruttore di motori a scoppio (poi inventore di uno dei primi aeroplani), ex dipendente della della Società Automobili Lombarda in qualità di capo chaffeur meccanico. Minossi fu forse il primo automobilista che già correva nel 1898 e ultraottantenne guidava ancora.  Ricercato quale istruttore di aspiranti automobilisti, insegnò, fra i tanti, all’indimenticabile Giulio Zavaritt intorno al 1900, ma abbandonò ben presto questa occupazione, per darsi tutto alla meccanica automobilistica. Dal grosso volume Chi è nell’automobilismo italiano si apprende che uscito dalla Società Lombarda dopo il 1908 e recatosi a Roma, ideò e costruì uno dei primi aeroplani italiani e lo collaudò egli stesso meritando ambiti premi nel 1910 nonché la tessera d’onore  dell’Aereo Club Italia. Nel 1919 ottenne il brevetto per un tipo di motore a scoppio a due tempi.

 LA RICONVERSIONE DELL’EX FABBRICA E LA NASCITA DELLA PRINCIPALE SCUOLA TECNICA DI BERGAMO

Il Regio Istituto Industriale di Bergamo giunse nell’allora via Conventino tra il 1925 ed il 1926, riunendo le varie sezioni, sparse in quattro distinti siti cittadini. Furono così definitivamente abbandonate le vecchie sedi: in Piazza Vecchia (ora Biblioteca Angelo Mai), in via Pradello/Masone (ora sede del Provveditorato agli Studi), in via Tassis ed in via del Conventino (2).

Con notevole sforzo, non solo economico, venne dapprima riconvertita la vecchia fabbrica della S.A.L. L’immensa area era caratterizzata da un fronte di uffici (rivolto verso l’attuale via Gavazzeni, che collegava Bergamo con l’allora comune di Boccaleone), da un’ampia copertura a shed, tipica degli stabilimenti inglesi, adibita a officine e reparti di lavorazione.

L’Esperia negli anni Venti

 

La nobile palazzina degli uffici, riservata alla proprietà della fabbrica d’automobili “Maccagno Giovanni Automobili Licenza Esperia”. L’edificio si trovava in luogo dell’attuale via Europa, a fianco dell’ingresso del Pronto Soccorso della Clinica Gavazzeni, oggi riconoscibile dalla riproduzione (fuori scala) di una ruota da camion, posta nelle facciate nord e sud del piccolo edificio rimasto immutato nel suo involucro

 

In via Europa, a fianco dell’ingresso del Pronto Soccorso della Clinica Gavazzeni è ancora presente, nel suo involucro originario, la palazzina degli uffici riservata alla proprietà della “Maccagno Giovanni Automobili Licenza Esperia”. A ricordo dell’antica fabbrica, nelle facciate nord e sud dell’edificio è stata posta  una riproduzione fuori scala di una ruota da camion

Vi era anche una grande caldaia con annessa ciminiera di scarico dei fumi, due viali alberati, due depositi, gli eleganti uffici dei proprietari (sull’odierna via Europa, all’epoca strada che conduceva alla Cascina Alberata, oggi in via Gasparini).

Successivamente, sempre e solo grazie ai contributi economici del “Consorzio pro Scuole Industriali di Bergamo” furono attrezzate a nuovo le aule e i laboratori. Alcune macchine di filatura, fino a pochi anni orsono ancora presenti nell’omonimo laboratorio, riportavano il 1927 quale anno di costruzione, e, all’epoca, giunsero nuove nell’Istituto scolastico.

Nel 1935, con apposito provvedimento ministeriale, l’Istituto venne autorizzato a intitolarsi a Pietro Paleocapa, a ricordo di quel Pietro Paleocapa, che nacque a Nese (ora territorio del comune di Alzano Lombardo) nel 1787, e morì a Torino nel 1869: ingegnere, patriota, insigne collaboratore di Manin e di Cavour, ministro, tecnico e scienziato cui si devono opere di importanza internazionale nel campo dell’idraulica e delle costruzioni.

L’Esperia negli anni Cinquanta

Nell’attuale Esperia, oltre alla palazzina degli uffici sono ancor oggi visibili altre testimonianze storiche risalenti alla fine dell’Ottocento, giunte a noi indenni: il camino di scarico dei fumi, ribassato alcuni anni orsono per rischio di crollo, e ora monco; i filari di piante che conducono dalla casa del custode, verso la zona della vecchia fonderia e l’uscita verso Boccaleone.

Officine Esperia

Inoltre, l’ex palestrina, soprannominata chiesetta (al confine con l’Istituto Giulio Natta); – i tamponamenti verticali dell’officina (in mattoni pieni e con le finestrature originali) posti sia verso l’attuale palazzina d’ingresso, sia di fronte alla palazzina laboratori di chimica (in uso al Natta), sia sul lato est (di fronte alla casa del custode).

Tra gli ultimi a sparire: il serbatoio rialzato, contenente la cisterna dell’acqua di alimentazione della caldaia a vapore, che è stato abbattuto solo recentemente.

Note

(1) La storia delle origini della fabbrica non è del tutto chiara, in quanto le cronache riportano nomi e date discordanti. Luigi Pelandi scrive che il laboratorio meccanico per la realizzazione dell’automobile Esperia era stato impiantato dai fratelli Zanchi – figli di Prospero Zanchi, un filandiere dell’antica casata bergamasca – e che il comm. Stefano Minossi (un costruttore di motori a scoppio, che fu poi aviatore, anzi inventore di uno dei primi aeroplani) gli assicurava di aver fatto parte del personale della Società Automobili Lombarda – della quale era allora presidente il rag. Carlo Zanchi -, come capo chaffeur meccanico dall’agosto del 1903 fino al 1906 (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966). Un’altra fonte, non specificata, tratta dalla Rivista Esperia del 2016, asserisce che “ESPERIA nacque nel 1849 nella sede industriale di via Gavazzeni, ed occupava circa 38.000 mq, dei quali 18.000 costituivano le officine, i laboratori e gli uffici. L’industria nacque come officina sotto la spinta della società “SAL – Società Automobili Lombarde” con l’intento di costruire a Bergamo un’autovettura: la prima d’Italia. Nel giro di poco tempo, pur con evidenti limiti sulla conoscenza della meccanica, appassionati come Sottocasa, Minossi e Nespoli, incominciarono a riunirsi in via Paglia. Con l’arrivo del motore, già esistente in Francia, un “Darracq”, si diede inizio alla realizzazione dell’auto: due chàssis, due putrelle portanti ruote, il motore francese e la carrozzeria costruita a Torino. Nel 1903 il controllo della fabbrica SAL passò in mano al Sig. Busi e si incominciarono a montare motori biblocco fabbricati a Milano. Pochi anni dopo la SAL fu costretta a chiudere dando via libera alla realizzazione in Bergamo dello stabilimento chiamato subito con il nome “Esperia”: l’antico nome d’Italia. Solo dopo che azionisti e proprietari furono cambiati, solo dopo aver reperito il capitale e i tecnici, l’ingegnere Ghilardi, da poco rimpatriato e con anni di esperienza, disegnò e realizzò un innovativo modello di automobile. Venne introdotto il blocco in ghisa, quattro cilindri in linea ed il motore con raffreddamento ad acqua, alimentato da una pompa, con due alberi e con due candele per cilindro. Inoltre la realizzazione dei progetti, dei disegni, dei modelli in laboratori di alta precisione (per l’epoca), permise all’industria di risolvere i problemi prima della produzione e di migliorare notevolmente il progetto specialmente negli organi fondamentali, quali il carburatore, il motore, il cambio delle velocità: particolari che resero unica l’auto”.

(2) Il Regio Istituto Industriale di Bergamo (oggi I.T.I.S. “Pietro Paleocapa”) nacque per mezzo del Regio Decreto n° 1273 del 27 aprile 1924. La genesi della scuola comunemente nota come “Esperia”, ha luogo nella prima metà dell’Ottocento, in parallelo con l’inizio dell’Era Industriale e con l’evoluzione industriale della provincia bergamasca.

1849: nasce la Scuola Serale di Disegno per operai.

1863: la Scuola per operai diviene Istituto Tecnico di seconda classe.

1864: nasce l’Istituto Reale di Mineralogia e Metallurgia, rilasciando (tra i primi in Italia) il diploma di ‘Perito nell’industria mineraria e metallurgica’.

Anno scolastico 1878-79: viene costituito il Regio Istituto Vittorio Emanuele II (padre della scuola denominata comunemente Esperia).

1885: in città esordisce un distaccamento denominato Regio Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II (specializzazioni di meccanica e di chimica).

1885: nasce la sezione industriale di Bergamo, il solo Istituto in Italia alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione organizzato su cinque anni di corso e gestito secondo i caratteri di una scuola-officina (attuazione dell’idea di scuola integrale, tanto cara ai fautori delle tesi industrialistiche, sempre più in voga in quegli anni).

1888: nasce la sezione di filatura/ tessitura.

1902: nasce la sezione di tintoria.

1924: con il Regio Decreto n° 1273 del 27 aprile 1924 nasce ufficialmente il Regio Istituto Industriale di Bergamo, l’Istituto, che successivamente sarà attribuito all’Ing. Paleocapa. L’ente morale denominato “Consorzio pro Scuole Industriali di Bergamo” raccoglie in pochi mesi i contributi per l’individuazione e il trasferimento delle varie sedi sparse nella città, in una nuova grande unica sede, autonoma e sufficientemente ampia

Riferimenti essenziali

Rivista Esperia 2016.

Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966.

L’ ex cementificio Italcementi di Alzano Lombardo e un progetto non realizzato

Reportage fotografico di Francesco Bonometti

L’ex Cementificio Italcementi di Alzano Lombardo, mirabile esempio di archeologia industriale unico nel suo genere, è stato per lungo tempo uno dei cementifici più grandi e moderni di tutta Europa.

Fin dalla fine del Cinquecento sotto il governo della Serenissima, Alzano Lombardo conobbe periodi di grande prosperità derivante dallo sviluppo di attività artigianali e commerciali connesse soprattutto alla lavorazione della lana, cui si aggiunsero nel Settecento quella della fabbricazione della carta (le Cartiere Pigna) e nell’Ottocento quella della produzione di cemento, attività che in Valle Seriana vide gli albori nel 1863, soprattutto ad Alzano, Albino e Nembro (con Pesenti, Guffanti e Piccinelli). La successiva unione delle diverse aziende favorì la costituzione di quel fenomeno di concentrazione produttiva che allora portava il nome di Società Italiana dei Cementi, oggi Italcementi

Nato nel 1878 dal riadattamento di una cartiera, nel 1883 nasce come Officina Pesenti per la Produzione di Portland, iniziando una lunga e progressiva stratificazione strutturale – emblematica della sua importanza storica, industriale ed architettonica – che si è mantenuta intatta anche dopo lo spegnimento dei forni avvenuto nel 1966 e nel 1971 con la chiusura definitiva del’officina preposta all’attività di macinazione (si veda la sua storia in pillole a piè di pagina).

Definitivamente abbandonata l’attività produttiva, nel 1980 l’ex-cementificio è stato sottoposto dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici a vincolo di tutela come monumento di archeologica industriale, mentre la struttura si avviava verso un lento declino.

Nel 1999, a seguito di campagna di alienazione di immobili di Italcementi, l’ex “cattedrale del lavoro” è stata interamente acquistata dalla società TIRONI S.P.A.

In considerazione della promozione e della valorizzazione delle straordinarie potenzialità di questo monumento di archeologia industriale di rilievo sovranazionale, l’architetto Manuel Tironi presentò ed ottenne l’approvazione di un PROGETTO DI RECUPERO per la valorizzazione e la rifunzionalizzazione dell’ex cementificio, redatto nella versione che accolse le indicazioni prescrittive della Soprintendenza (1).

Nel 2011 venne sottoscritto un Protocollo di Intesa (il cui schema fu approvato dalla Giunta Provinciale nel settembre 2011 e sottoscritto il giorno 30), con l’obiettivo di trasformare questo significativo patrimonio, da fabbrica del cemento a struttura multifunzionale che fosse “fabbrica della cultura del lavoro e del tempo libero” a beneficio di tutta la collettività (2).

Un progetto che purtroppo non venne realizzato per mancanza di fondi e che  mancò all’importante appuntamento con l’Expo del 2015.

L’ex cementificio Italcementi di Alzano Lombardo si presta ad un progetto di recupero per le buone condizioni strutturali complessive, malgrado un abbandono protrattosi per oltre quarant’anni

Oltre ad essere uno splendido esempio di archeologia industriale, l’ex cementificio rappresenta l’icona dell’industrializzazione che ha interessato la Valle Seriana e più in generale la provincia bergamasca dopo l’unità nazionale, dando braccia e ingegno, per circa un secolo, a migliaia di persone: un’intera collettività di Valle, la cui sopravvivenza era legata al cementificio.

In quanto protagonista e testimone della storia, dello sviluppo e delle vicende del territorio Seriano e bergamasco, nel progetto l’ex-cementificio è stato  riscoperto come il luogo della ripartenza per la Valle Seriana e per tutta la provincia bergamasca, in continuità con i valori storici e culturali di cui la struttura è portatrice, nell’ottica di uno sviluppo pensato in chiave di valorizzazione del territorio.

Secondo il progetto pertanto l’edificio avrebbe potuto essere riconvertito a STRUTTURA MULTIFUNZIONALE, una sorta di polo culturale, sportivo e per attività ricreative in generale (sport, arte, musica, cinema, spazi espositivi e per performance teatrali…), quindi affascinante ed innovativo luogo di aggregazione, ma anche luogo del lavoro dove avviare, per esempio, attività formative; un incubatore di imprese, un luogo dove promuovere i prodotti tipici di tutta la provincia e l’artigianato del territorio, dotato di strutture commerciali per la vendita di prodotti locali e di spazi espositivi.

L’ipotesi di gestione una volta ultimati i lavori di recupero sarebbe stata quella di una fondazione pubblico-privata.

Le potenzialità di questo monumento avrebbero dovuto essere considerate non solo in rapporto al suo non trascurabile valore storico-artistico ma anche in relazione al contesto paesistico-ambientale in cui tale struttura si inserisce (per la prossimità del Fiume Serio) (3) ed anche in rapporto alla sua accessibilità, che la pone in posizione strategica all’ingresso della Valle e vicino alla stazione “Alzano Sopra“ della tranvia Bergamo-Albino, aperta nel 2009.

Ulteriori considerazioni a supporto dell’importanza di questo progetto consistevano nella presenza dell’aeroporto di Orio al Serio (in costante crescita di traffico passeggeri) e nel deciso miglioramento della viabilità provinciale che le nuove infrastrutture come Pedemontana e Brebemi avrebbero reso possibile proiettando tutto il territorio bergamasco nel cuore dell’Europa e delle sue principali vie di comunicazione.

Donare una nuova funzionalità al Cementificio avrebbe consentito anche di porre le basi per una valorizzazione di tutte le strutture di archeologia industriale della provincia di Bergamo e dell’intero territorio lombardo.

Eredità sul territorio dopo l’Expo

Nelle intenzioni del progetto, il recupero della struttura si sarebbe inserito, inizialmente, in quello scenario di trasformazioni del territorio lombardo che avrebbe avuto come volano iniziale il grande evento di MilanoExpo 2015  e successivamente in quel processo di valorizzazione culturale, turistica ed economica che si stava attuando in Valle Seriana a favore di un RILANCIO economico, sociale e culturale dell’intera Valle (profondamente segnata dalla crisi economica dei comparti produttivi che l’hanno resa una realtà industriale di riferimento, il tessile ad esempio) e a livello provinciale e regionale (4)

Si era ritenuto infatti, che il recupero del cementificio avrebbe potuto rappresentare un progetto strategico del territorio bergamasco e lombardo in vista dell’Expo del 2015, evento importante per le numerose ricadute economiche ed occupazionali generate ma anche per la possibilità di esporre su un palcoscenico “globale” le eccellenze bergamasche nei diversi settori (in primis quello dell’alimentazione), in coerenza al tema dell’Expo di Milano nell’ottica di un’ “Expo diffusa”, rispettosa dell’eco-sistema e tesa in direzione di una crescita sostenibile del territorio nel suo insieme (l’Expo ebbe infatti come tema “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”, occupandosi di Alimentazione e Sviluppo Sostenibile).

Nonostante la situazione di crisi di sistema e la forte contrazione delle risorse pubbliche, pur trattandosi di un intervento di soluzione non semplice né immediata, si ritenne che l’unica soluzione che potesse garantire il superamento delle difficoltà di un progetto di tale portata, dovesse essere condivisa con tutte le entità, pubbliche e private, politiche e sociali, interessate al recupero di questo grandioso monumento di archeologia industriale. E ciò naturalmente anche per quanto riguardava il reperimento dei fondi necessari a perseguire tale obiettivo (5).

Il confronto avvenuto a livello accademico (testimoniato dagli atti del seminario di studi alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano), apportando una visione di medio-lungo periodo, rappresentava certamente un punto di forza a beneficio del recupero conservativo e della riqualifica funzionale dell’ex-cementificio.

La struttura allo stato attuale

Tra gli elementi principali:

– 12 forni verticali, dotati di 6 ciminiere a pianta circolare;

Il cementificio, da tempo del tutto dismesso e abbandonato, si presenta come un grigio imponente rudere industriale, mentre l’edificio in stile eclettico che lo fronteggia, originariamente destinato alla progettazione e alla costruzione del macchinario per cementifici (di cui l’Italcementi era un produttore d’avanguardia), si presenta come una struttura dall’aspetto nobile e austero, perfettamente e sapientemente restaurata

– grandi sotterranei coperti a volta;

– silos di stoccaggio del cemento o luoghi per l’insaccamento;

– una copertura sorretta da colonne in stile dorico.

Il complesso è formato da due parti:

– l’una a levante, plastica e monumentale destinata alla produzione del cemento;

Più interessante sotto il profilo industriale e scenico è la parte di levante, in quanto è possibile leggere tuttoggi l’evoluzione delle tecniche di produzione del cemento che dai primi forni a tino ha portato ai forni verticali tedeschi di fine ‘800, fino ai più performanti forni verticali Pesenti che oggi dominano la fisionomia del complesso con le sei sinuose ciminiere. Per il recupero, in funzione museale, degli antichi forni e delle sei ciminiere, si sarebbero dovuti seguire i criteri progettuali della conservazione

– l’altra a ponente, più compatta e ornata, con funzione di magazzino e per alcuni anni di sede direzionale dell’azienda.

La parte di ponente interessante sotto il profilo architettonico per lo stile eclettico che la caratterizza, emerge dall’intorno per la finezza del fronte di valle costituito da un elegante loggiato a cupolette al piano primo, contenuto da due torrette che alludono allo stile moresco e da cui il complesso prende oggi il nome. Questa parte del complesso ospita l’ALT (Arte Lavoro Territorio), una mostra di circa 250 opere di proprietà di Tullio Leggeri, collezionista d’arte contemporanea e mecenate di artisti contemporanei oltre che importante imprenditore nel settore delle costruzioni e di Elena Matous Radici, la vedova di Fausto Radici

 

La maestosità dei silos per la stagionatura del clinker e del cemento finito, uniti alle rampe ed i ponti aerei funzionali all’ingegnoso sistema di movimentazione interna dei materiali, completano la scena di un monumento che suggestiona il visitatore per la sua imponente mole e il suo immanente trascorso

 

Linee guida progetto

Il percorso museale avrebbe dovuto  snodarsi su quattro livelli, a partire dal piano interrato, per un totale di 6.500 metri quadrati. Nelle intenzioni del progettista s’intendeva in particolare “realizzare uno spazio espositivo permanente a servizio della valle per le aziende, oltre ad atelier per artisti e laboratori di ricerca, che sviluppino l’idea di un incubatore di impresa” (C)

Il progetto di recupero dell’ex cementeria, completamente inagibile ed inutilizzabile, prevedeva anzitutto un iniziale consolidamento statico dell’intera struttura, da risanare utilizzando le più sofisticate tecnologie di rinforzo e consolidamento oggi disponibili, mentre le finiture ed i collegamenti fra i vari spazi si sarebbero progettati e realizzati in modo da permettere la lettura dell’originaria struttura e tenendo conto dei principi dell’edilizia sostenibile (soluzioni progettuali autosufficienti dal punto di vista energetico e utilizzo di materiali eco compatibili).

L’enorme comparto si articolava nel progetto su una superficie di 18.547 metri quadrati divisa in parti, collegate tra loro da camminamenti a vari livelli.
Obiettivo era fare in modo che la struttura diventasse museo di se stesso, mantenendo le sue dimensioni fisiche.
ll nuovo studio aumentava a 31 mila metri quadrati la superficie recuperabile tra aree scoperte, coperte e percorsi aventi un ruolo fondamentale perché l’edifico-museo deveva essere visitabile.

Il cementificio Italcementi: la sua storia in pillole

1878
Avvio dell’attività di produzione del cemento con la trasformazione della cartiera Pesenti di Alzano Sopra, in officina di molitura del clinker cotto nei due forni realizzati nei pressi della prima cava in località Busa di Nese.
1883
Realizzazione nei pressi dell’officina di Alzano Sopra di sei forni a tino per la produzione di calce e cemento e di magazzini per lo stoccaggio del materiale finito.
1884
Apertura della ferrovia valle Seriana che contribuirà all’affermarsi del complesso industriale, con la realizzazione di uno scambio ferroviario nel cementificio per il trasporto del cemento finito.
1890-1900
Realizzazione dei forni verticali di brevetto tedesco, che consentiranno la produzione del primo portland con materiale completamente lombardo e ampliamento dei magazzini del complesso Moresco, con la realizzazione di laboratori chimici e uffici.
1904
Demolizione del preesistente forno vulcano e realizzazione dei primi quattro forni sistema Pesenti, formati da due forni con un’unica ciminiera che consentirà un notevole risparmio di carbone.
1909
Realizzazione degli ulteriori otto forni verticali sistema Pesenti con le relative quattro ciminiere. In questi anni viene realizzata anche la suggestiva copertura dei silos del clinker.
1920
Dismissione dei forni verticali di brevetto tedesco e mozzatura delle relative ciminiere.
1959
Per gravi problemi strutturali, quattro ciminiere del 1909 vengono abbassate e tutte saranno cerchiate con profili metallici.
1957
A fianco dei forni Pesenti viene realizzata la nuova torre di carico dotata di montacarichi Falconi, macchinario che sostituirà l’argano da tarino posato nel 1928 sulla rampa di carico centrale del cementificio.
1966
Vengono definitivamente spenti i forni per la cottura.
1971
Viene definitivamente chiusa l’officina interrompendo anche l’attività di macinazione, che era continuata dalla data di spegnimento dei forni.

NOTE

(1) Lo studio di fattibilità presentato dall’arch. Manuel Tironi al Consiglio comunale di Alzano Lombardo, ha tratto origine dalla campagna conoscitiva promossa nel 2010 quando si sono rimossi, per ordine della Soprintendenza, elementi non originari.
(2) La sottoscrizione del “Protocollo d’intesa” (settembre 2011) ha visto la partecipazione ed il coinvolgimento della: Proprietà, Soc. Italcementi, Soc. Expo, Regione Lombardia, Provincia di Bergamo e Comune di Alzano Lombardo e società Tironi.
“Anche il Protocollo, lungi dall’essere un mero atto formale, rappresenta una tappa importante verso l’obiettivo condiviso, ovvero il completo recupero della struttura e la sua rifunzionalizzazione, ponendosi quale impegno fattivo e concreto di tutti i partner, in numerose direzioni: dalla ricerca di finanziamenti, alla ideazione di soluzioni innovative per recuperare la struttura e evitarne un futuro degrado, alla progettazione del “contenuto” dell’Ex Cementificio, che deve essere in grado di garantire una sostenibilità economica anche nel medio periodo” (Silvia Lanzani, Assessore alla Pianificazione territoriale, Grandi infrastrutture, Expo della Provincia di Bergamo, workshop 18-22 giugno 2012, cit.).
(3) “E’ fondamentale che il riuso e il rilancio di una struttura come quella in questione sia visto in un ‘ottica di “sistema”, vale a dire come nodo di una rete diffusa di emergenze sul territorio, dove per emergenze non intendo parlare solo di fisicità, di valenza storico-architettonica, ma anche di funzione e di significato.
Per esempio il Cementificio può diventare uno degli elementi che esprimono la volontà di esperire nuove forme ecologicamente sostenibili per vivere un’area del territorio, insieme al recupero delle aree spondali del fiume Serio, realizzato negli ultimi anni dalla Comunità Montana di Valle Seriana, che continua ad attrarre moltissimi fruitori dei percorsi ciclabili, ovvero con l’introduzione della tranvia che ha cambiato le abitudini di molti cittadini che hanno abbandonato l’automobile per i loro spostamenti sistematici” (Silvia Lanzani, Assessore alla Pianificazione territoriale, Grandi infrastrutture, Expo della Provincia di Bergamo, workshop 18-22 giugno 2012, cit.).
(4) L’ex-cementificio infatti, “potrebbe divenire un nucleo del Parco agricolo tecnologico, una realtà policentrica sorta per iniziativa della Provincia, nata dalla suggestione dei temi Expo e dalla volontà di promuovere e sviluppare interesse e ricerca in ambito agro-alimentare con l’attenzione puntata sulle risorse e sulle eccellenze locali. I prodotti e le informazioni elaborati nell’area di pianura del Parco potrebbero essere veicolati attraverso le funzioni insediate nel Cementificio e contemporaneamente la realtà locale, in tutti i suoi aspetti, potrebbe trovare una vetrina ed una cassa di risonanza attraverso Le attività del Parco” (Silvia Lanzani, Assessore alla Pianificazione territoriale, Grandi infrastrutture, Expo della Provincia di Bergamo, workshop 18-22 giugno 2012, cit.).
(5)“Alla luce di queste precisazioni, è stata posta in primo piano l’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica ma soprattutto del mondo accademico ed imprenditoriale, oltre che degli investitori privati in funzione di un loro coinvolgimento e di una partecipazione condivisa; l’obiettivo è infatti la ricerca di un impegno attivo e concreto per la riconversione ed il rilancio dell’Ex Cementificio, straordinaria eredità di un comune passato. In quest’ottica la Provincia di Bergamo ha voluto dare vita ad una serie di attività volte alla valorizzazione del Cementificio; l’importante convegno, svoltosi all’inizio del 2010, presso il Politecnico di Milano ed al quale hanno partecipato importanti studiosi della materia; il sostegno alla pubblicazione di un numero della rivista scientifica Anankead esso dedicato e alcune aperture straordinarie dell’edificio, pensate per invitare la cittadinanza a visitarlo, anche attraverso le suggestioni guidate di Philippe Daverio che ha esaltato le qualità architettoniche dell’edificio” (Silvia Lanzani, Assessore alla Pianificazione territoriale, Grandi infrastrutture, Expo della Provincia di Bergamo, workshop 18-22 giugno 2012, cit.).

FONTI

A –   International Cultural Center –  Gruppo Tironi – Fabbrica della Cultura, del Lavoro e del Tempo Libero.al Centerro
B – L’ARCHITETTURA DEGLI INTERNI NEL PROGETTO PER IL COSTRUITO
Il progetto di riuso dell’ex Cementificio Italcementi di Alzano Lombardo
workshop │ 18-22 giugno 2012 (Silvia Lanzani, Assessore alla Pianificazione territoriale, Grandi infrastrutture, Expo della Provincia di Bergamo).
C – L’Eco di Bergamo
D – Architettura industriale
E – Novaluna in Blog

Nota: l’ultima immagine è tratta da “International Cultural Center”.