All’inizio di Borgo Palazzo, poco oltre lo splendido palazzo Camozzi si apre a sinistra un piccolo slargo – dove un tempo funzionava la pesa pubblica -, sul quale si affaccia un edificio che vanta oltre ottocento anni di storia ma che la nuova destinazione d’uso risalente al Settecento ha fatto dimenticare: quella che un tempo fu la chiesetta di S. Antonio in foris, risalente all’anno 1208, sorta per desiderio del “dominus” Giovanni Gatussi di Parre, personaggio che aveva una certo appoggio politico cittadino (1).
Il piccolo edificio, pressoché sconosciuto, è di misure tanto modeste da non essere notato: bisogna andarlo a cercare di proposito, tanto più che nulla, nemmeno un cartello, ricorda al passante la presenza della chiesetta – con il portale più antico rimasto della città -, sopravvissuta a tutti i mutamenti e alle demolizioni (2).
Era posta fuori dall’antica porta del borgo S. Antonio, nel suburbio di Mugazzone (termine che appare già nel 928, con il quale si indicava l’antico nome di Pignolo), quartiere al tempo poco abitato ma posto in prossimità di due corsi d’acqua: la Morla a sud e il canale Roggia Serio a nord, che favoriva il “forte insediamento di attività tessili, tra cui tintorie, folli, purghi e mulini” (3) all’estremità meridionale del borgo S. Antonio.
Nonostante la sua posizione apparentemente marginale, assunse ben presto una certa importanza, confermata in particolare da un documento del 1263, citato da Angelo Mazzi, in cui lo statuto della città creava una nuova vicinia staccata da quella di Mugazone, intorno alla chiesa sorta da pochi decenni (4): fatto che denota quanto il borgo stesse crescendo e acquisendo una sua autonomia rispetto a quello di Pignolo.
Fu dunque grazie alla presenza della chiesa di S. Antonio in foris, che la zona oggi designata come Pignolo bassa assunse la nuova titolazione di vicinia di S. Antonio, cui faceva capo anche il convento di Santo Spirito. Il toponimo S. Antonio coincide dunque con la parte più antica di Borgo Palazzo, ma fa anche riferimento ad un’area esterna allo stesso, fino a comprendere l’attuale piazzetta Santo Spirito.
E’ difficile comprendere oggi l’area su cui si estendeva in passato questo toponimo, soprattutto quando esisteva l’omonima vicinia: la topografia del luogo è molto mutata, non solo per la scomparsa delle Muraine, della porta di S. Antonio e per la copertura della Roggia Serio, ma anche perché le vicinie in un certo senso costituivano anche dei confini fisici, coincidendo questi con recinzioni, muri di edifici, portoni (5).
La chiesa era detta “in foris” (fuori) proprio per distinguerla dalla chiesa di Sant’Antonio Abate (o di Vienne o dell’Ospedale), che sorgeva entro le Muraine, sul prato di Sant’Alessandro, demolita nell’Ottocento per l’erezione del palazzo Frizzoni (attuale Municipio).
Era affiancata da un ospedale (oggi difficilmente individuabile), il cui giuspatronato rimase alla famiglia Gatussi di Parre fino al XV secolo e fino a quel momento il piccolo ospizio duecentesco rivestì una certa importanza, e cioè fino a quando, nel 1458, venne assorbito dal nuovo e centralissimo Ospedale Grande di S. Marco insieme ad altri dieci disseminati in varie località della città (6).
Nonostante la ex-chiesa sia ormai da tempo priva del suo campaniletto, osservando con attenzione possiamo ancora rintracciarne l’antica foggia: nel tetto spiovente (un tempo a falde in vista), nella facciata a capanna attigua al portale con stipiti in pietra che immette nella corte interna, nell’oculo sovrastante la facciata e nel piccolo portale romanicoposto sul fianco, sovrastato dalla lunetta affrescata: l’unico, tra i tanti affreschi rinvenuti nella chiesa, conservatosi in loco.
Nella corte, sopra lo spazio in cui viene raccolta l’immondizia dello stabile, resta la traccia di un grande affresco devozionale. All’interno, la semplice aula unica della chiesa è ancor oggi scandita in tre campate da due arconi ogivali in pietra impostati su semipilastri (7).
Secondo Luigi Angelini l’antico ospedale duecentesco, demolito nel Settecento, doveva trovarsi negli edifici attuali che recingono il cortile interno. In quell’epoca fu distrutto anche il campanile, per edificare i nuovi condomini che sorgono tutt’intorno (8).
La chiesetta continuò a funzionare “col nome di S. Antonio in foris, officiata fino al 1806, finché, sconsacrata nell’Ottocento (9), diverrà officina per un fabbro, poi un anonimo ambiente di magazzeno, ridotto poi ad ufficio e negozio, subendo lavori di sistemazione interna che ne hanno in parte snaturato le forme suddividendola in due piani.
Le cronache riferiscono che la chiesa non fosse molto curata e che venisse utilizzata solo per celebrare la messa quotidiana da parte dei Padri Zoccolanti del vicino convento delle Grazie, remunerati dall’Ospedale Grande di San Marco (10).
Con il tempo la chiesa finì con l’essere del tutto abbandonata. L’ultimo suo destino era la demolizione, che si voleva porre in atto nel 1937 secondo un progetto di totale rifacimento dello stabile. Demolizione che non avvenne grazie alla scoperta, da parte di don Angelo Rota, degli affreschi che l’ornavano quasi interamente (11) e al successivo intervento di Luigi Angelini (a quei tempi ispettore onorario della Soprintendenza ai monumenti), che riconobbe l’importanza della chiesetta, alla quale venne posto il vincolo.
Fu proprio in quella occasione che, scrostando l’intonaco, in corrispondenza di una traccia di porta nell’antico ingresso laterale della chiesa, affiorò la lunetta affrescata che sovrasta l’architrave del portale romanico, portato alla luce ed ancor oggi visibile sulla via, dove, scrutando con attenzione, si possono ancora notare le tracce dell’affresco duecentesco, tra i più antichi del territorio, raffigurante Madonna in trono col Bambino affiancati da sant’Antonio Abate e un santo vescovo, che malgrado lo stato di degrado è stato identificato in base ad antiche foto in san Tommaso di Canterbury; l’affresco è posto sotto un arco in pietra sui cui conci sono affrescate una serie di teste entro tondi.
GLI AFFRESCHI DELLA CHIESA DI S. ANTONIO IN FORIS, ESPOSTI AL MUSEO DELL’AFFRESCO IN BERGAMO ALTA
I pregevoli affreschi che rivestivano quasi interamente le pareti interne della chiesa furono eseguiti tra il XIII e il XVI secolo e risultano essere tra le testimonianze più antiche del nostro territorio insieme a quelli della chiesa di San Michele al pozzo bianco di via Porta Dipinta, della Vecchia Cattedrale e della chiesa a di San Giorgio ad Almenno San Salvatore.
Le ritroviamo oggi nel cuore di Bergamo Alta in piazza Vecchia all’interno del Palazzo della Ragione, dove riaffiorano dalle pareti settentrionali della Sala delle Capriate, allestita a sede museale dagli anni Novanta del secolo scorso, divenendo Museo dell’Affresco di Bergamo, cui è possibile accedere in occasione di mostre ed eventi.
Proprio in quest’antica sede, si conservano molti altri lacerti o porzioni smunte e sbiadite dallo scorrere del tempo, provenienti da edifici sacri e profani della nostra città (come il monastero di S. Marta): gli affreschi della chiesetta di Sant’Antonio in foris fanno capo al secondo e terzo gruppo affisso alla parete nord del palazzo, paradossalmente il comparto più numeroso considerando la minima superficie della chiesetta da cui provengono, e ci restituiscono numerose immagini di Sant’Antonio abate, della Vergine con Bimbo, apostoli e Santi vari tra cui Bartolomeo. Giacomo e Giovanni Battista.
Note
(1) La chiesa fu fondata nel 1208 dal vescovo di Bergamo Lanfranco (successore di Guala), per desiderio del “dominus” Giovanni Gatussi de Parre, la cui famiglia doveva risalire a quella dei conti di Parre, paese dell’alta val Seriana. Già nel 1156 un “filius Iohannis de Parre” risulta essere inserito nell’elenco dei “mille homines” che giurarono dopo la Battaglia di Palosco la pace con Brescia, mentre nel 1176 è citato un canonico della basilica alessandrina che godeva di un certo prestigio. Giovanni Gatussi de Parre aveva una certo appoggio politico cittadino. Viveva in prossimità di una fonte che viene indicata come fontana coperta nella vicinia di San Lorenzo (prossima a quella di San Pancrazio), considerata di pregio per le importanti famiglie cittadine che la abitavano. La famiglia raggiunse una certa stabilità economica acquisendo beni fondiari alla fine del XII secolo tra cui il terreno dove poi sorse la chiesa, che venne venduto nel 1208 a Giovanni dal console dalla vicinia di San Pancrazio, proveniente dalla famiglia molto vicina a quella guelfa dei Rivola (Maria Teresa Brolis, LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995). L’importanza del personaggio e i legami con le più importanti famiglie sotto l’aspetto sia politico che religioso di Bergamo (come i del Zoppo, i Rivola, i Sorlasco, i de Foro, gli Albertoni) motivano la presenza di tutte queste famiglie alla fondazione dell’ospedale con il vescovo Lanfranco e i canonici della chiesa di San Vincenzo che tre mesi dopo si presentarono per la consacrazione della prima pietra della chiesa. L’atto di consacrazione è del 28 giugno 1208 eseguita con le disposizioni canoniche della “ecclesiae hospitalis”. Fu quindi accolta la domanda di fondare una chiesa e il vescovo Lanfranco impose al Gatussi di provvedere alla custodia e alla illuminazione degli edifici, cosa che ebbe risposta affermativa indicando la protezione della chiesa alla canonica di San Vincenzo alla quale doveva versare una libra di cera annua, quale segno di sottomissione al clero, che però non poteva aggiungere altri tributi dovendo essere la chiesa e l’ospedale libero come indicato dall’atto poi perduto: “de protectione et municione et securitate ipsius hospitalis” (Maria Teresa Brolis, LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995). Il Fornoni (“Le vicinie cittadine”) precisa che “La concessione di piantare la croce, in segno di edificazione della chiesa, porta la data 13 giugno 1208 ed è rilasciata dal vescovo Lanfranco, alla presenza e col consenso di Algisio da Credario arciprete della chiesa di Bergamo, di Lanfranco arciprete di Clusone e dei canonici di S. Vincenzo”. Alla sua morte Gatussi dotò l’ospedale di vari beni, tra cui una casa situata in Città Alta, nei pressi del Mercato del Fieno (Pino Capellini e Renato Ravanelli, “I borghi di Bergamo”. Grafica & Arte, 1984).
(2) Eppure l’Angelini una targa l’aveva preparata: QUESTA CHIESETTA MEDIOEVALE/ERETTA INTORNO AL 1210/COL PORTALE AFFRESCATO/IL PIU’ ANTICO RIMASTO DELLA CITTA’. Ma la lapide non fu mai applicata (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966).
(3) Tosca Rossi, “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”. Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012.
(4) L’importanza della chiesa è confermata da documenti citati dal Mazzi: uno del 1249, per un atto steso “in burgo de Mugatione” “in claustro hospitalis Sancti Antonii” e un altro del 1263, in cui lo statuto della città creava una nuova vicinia staccata da quella di Mugazone intorno alla chiesa sorta da pochi decenni: “vicinancia nova quae dicitur vicinia S. Antonii” (“Note suburbane” di Angelo Mazzi, Bergamo, 1892, pag. 230).
(5) Vanni Zanella “Bergamo Città”. Edito nel 1971 dall’Azienda di turismo di Bergamo.
(6) Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.
(7) Luigi Angelini, “La lunetta duecentesca della chiesetta di Sant’Antonio in Foris”. In: “Cose belle di casa nostra”, Bergamo, Stamperie Corti, 1955.
(8) Secondo Angelini l’ospedale venne demolito e trasformato nel Settecento in edificio civile (Luigi Angelini, Op, Cit.).
(9) “Per il Maironi è il 1806 (…). Nella Pianta della città e borghi esterni di Bergamo dell’architetto Giuseppe Manzini del 1816 non è più presente” (Tosca Rossi. Op. Cit., pag. 219). Riferisce Luigi Pelandi che “La chiesetta ed i locali del modesto ospedale…vennero ceduti dal Demanio al sig. Pesenti di Alzano, poi alla famiglia Zanchi (commercianti in latticini), che avevano negozio sull’angolo della via Rocchetta con l’attuale via Frizzoni, allora via Muraine sulla Circonvallazione, ove esiste tutt’ora una trattoria, quella denominata S. Antonio” (della famiglia Zanchi faceva parte il sottotenente Gioachino Zanchi, nato in Borgo Palazzo il 25 maggio 1909, “che nella guerra d’Africa immolò la sua vita in un fatto di arme glorioso”. Alla sua memoria venne concessa la medaglia d’oro al valor militare). La chiesetta “fino a pochi decenni or sono, venne passata alla ditta Agostino Moretti, che già conduceva un negozio di cesterie, sedie e scope sull’angolo di via Camozzi (n. 1). Intorno al 1955 subentrava il negozio di calzature Sperani. Fu in quel tempo che vennero asportati gli affreschi…Pare che nel frattempo i locali fossero stati invasi dai ‘barboni’, i disgraziati senza tetto dei dintorni che non trovavano posto al Dormitorio pubblico, o non volevano sottostare alle abluzioni obbligatorie del dott. Favari, nè tanto meno al ‘cordial Favari’” (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”, Op. Cit.).
(10) La trascuratezza della chiesa è confermata da padre Donato Calvi nelle “Effemeridi” (pubblicate nel 1676), dove informa che sotto la data del 17 dicembre 1530 la chiesa, “ridotta a cattivo stato”, correva il pericolo di cadere. Per questo “l’Ospital Maggiore a cui detta chiesa è unita diede hoggi l’ordine per il risarcimento, come infatti seguì a primo opportuno tempo”. La chiesa, aggiungeva padre Donato Calvi, ha un solo altare, “ove continuamente si celebra, e le feste si convoca per l’esercitio della Dottrina Christiana” L’intervento dell’ospedale non dovette bastare perché la chiesa, prima dipendente dalla parrocchia di S. Alessandro della Croce e poi dalla parrocchiale di S. Anna, finì con l’essere del tutto abbandonata. Fu soppressa nel 1806. L’ultimo suo destino, dopo essere servita come officina per un fabbro, era la demolizione (Pino Capellini, Renato Ravanelli. Op. Cit.), che si voleva porre in atto nel 1937 secondo un progetto di totale rifacimento dello stabile.
(11) Per gli affreschi, si veda la missiva di Don Angelo Rota pervenuta a Luigi Pelandi, il quale cita anche quelli desunti da una nota di Luigi Angelini: Madonna col Bambino e S. Giuseppe (sec. XIII); Madonna col Bambino e S. Antonio (sec. XV); Madonna con Bambino; frammenti vari; teste di santi; figura di S. Antonio (Luigi Pelandi, Op. Cit.). Nel 1954 Angelini rinvenne poi un affresco nella sacrestia: una Natività attribuita al XIII secolo (strappata nel ’55 da Allegretti o da Arrigoni, forse sotto la direzione di Pelliccioli) e alcuni affreschi frammentari (Laura Marini, “Affreschi trecenteschi: S. Marta e S. Antonio in Foris”, Osservatorio delle arti: rivista semestrale dell’Accademia Carrara, n. 1, Lubrina, Bergamo, 1988, pagg. Da 30 a 37).
Riferimenti bibliografici
Luigi Angelini, “La lunetta duecentesca della chiesetta di Sant’Antonio in Foris”. In: “Cose belle di casa nostra”, Bergamo, Stamperie Corti, 1955.
Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966.
Tosca Rossi, “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012.
Maria Teresa Brolis, “LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995.
Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.
Pino Capellini e Renato Ravanelli, “I borghi di Bergamo”. Grafica & Arte, 1984.
Francesco Rossi, “Accademia Carrara-Gli affreschi a Palazzo della Ragione”, Accademia Carrara, 1995.
Laura Marini, “Affreschi trecenteschi: S. Marta e S. Antonio in Foris”, Osservatorio delle arti: rivista semestrale dell’Accademia Carrara, n. 1, Lubrina, Bergamo, 1988, pagg. Da 30 a 37.
Quello che tutti conosciamo come cinema Rubini è sorto come teatro agli inizi del secolo scorso, ricavato all’interno della Casa del Popolo, inaugurata nel maggio del 1908.
Il grande edificio, progettato su incarico del Consiglio direttivo dell’Unione delle Istituzioni Sociali Cattoliche Bergamasche, presieduto da Nicolò Rezzara, si estende su una vasta area compresa tra viale Papa Giovanni XXII, via Paleocapa e via Novelli; un’area caratterizzata da una nutrita sequenza di palazzi in stile liberty ed eclettico. Oltre al teatro, l’edificio comprendeva le istituzioni cattoliche, un albergo, un ristorante, negozi, appartamenti, la Banca Piccolo Credito, la cappella, sale di lettura, sala biliardo e, allora come oggi, la redazione de “L’Eco di Bergamo”.
Dedicato a Giovambattista Rubini (Romano di Lombardia, 7 aprile 1794 – 3 marzo 1854), celebre tenore romanese, il teatro fu inaugurato nel 1907 e restò in attività per quasi 80 anni, guadagnando un posto d’onore nell’immaginario collettivo soprattutto grazie al cinematografo, presente e molto attivo sin dagli esordi del locale.
L’INAUGURAZIONE
L’inaugurazione avvenne la sera del 16 novembre 1907 con l’opera Poliuto di Gaetano Donizetti (1), in una platea stipata, con molte signore fra il pubblico. La luce calda delle lampade a incandescenza fondeva in un insieme armonico le tonalità delle decorazioni e della pittura, e si ripercuoteva nelle dorature della sala.
Ricorda Ermanno Comuzio che l’orchestra fu da subito interrotta da schiamazzi di studenti che pretendevano a gran voce, prima dell’opera, l’esecuzione dell’Inno di Garibaldi: inno patriottico, ma non certo cattolico; e il teatro era stato realizzato per ospitare, nella Casa del Popolo, sede anche de “L’Eco di Bergamo”, quotidiano della Curia, le manifestazioni artistiche di maggior portata per il mondo cattolico. Alle ragioni idealistiche si erano mescolate quelle derivate dalle istigazioni di impresari concorrenti disturbati dalla nascita del nuovo teatro.
Quella sera, una rappresentanza di Romano depose ai piedi del busto di Giovambattista Rubini, posto nell’atrio del teatro, due splendide corone con nastri: una a nome del Municipio, l’altra a nome dei Luoghi Pii fondati dal celebre tenore romanese.
Dopo lo spettacolo, la direzione del Rubini offrì, nei locali di ritrovo della Casa del Popolo, un banchetto servito egregiamente dal signor Carminati dell’attiguo Albergo Moderno; il ridotto del teatro era infatti in comoda comunicazione con una sala da caffè annessa all’albergo, che ad ogni spettacolo faceva servizio da buffet.
COM’ERA L’ANTICO TEATRO
Il teatro, tutto in muratura, cemento e ferro – per scongiurare ogni pericolo d’incendio -, aveva una vasta platea di forma esagonale, che si estendeva anche sotto le due grandi logge che la circondavano; un palcoscenico piuttosto ristretto e tre ordini di palchi con sei palchetti di proscenio; le logge erano sostenute da una serie di graziose colonnine di ghisa, difese da robuste ed eleganti balaustre di ferro battuto, graziosamente disegnate. Purtroppo le colonnine disturbavano un po’ la visibilità.
Le decorazioni, di stile floreale seicentesco modernizzato, avevano figure e medaglioni allegorici. Le molte dorature in platea e nelle logge rendevano ancor più prezioso il teatro, riccamente illuminato a luce elettrica con graziosi lampadari e con un grandioso ed elegante lucernario sostenuto da tralicci di ferro, innalzato al centro della platea e circondato da una vetrata graziosamente decorata (2).
Nel teatro, eleganza, comfort, solidità, capienza e modernità erano coniugati con sapienza ed equilibrio, grazie alla presenza di impianti moderni, quali caloriferi centrali, fonti di energia indipendenti, aspiratori, ventilatori, estintori automatici, apparecchi meccanici per gli scenari. Era dotato di parecchie bocche d’acqua per l’estinzione di incendi, nonché di numerose uscite di sicurezza. E, grazie alla buona acustica (favorita dal vuoto lasciato sotto la platea e sotto il palcoscenico), era adatto a spettacoli di musica e prosa.
Moderni i camerini per gli artisti (posti su un fianco del palcoscenico), così come i locali per i coristi e le comparse, che si trovavano sotto il palcoscenico.
SPETTACOLI PER TUTTI, MA IL CINEMATOGRAFO PRIMEGGIAVA
Nel periodo che seguì l’inaugurazione, vi fu un breve ma frequentatissimo corso di recite di Ermete Novelli, e a un mese di distanza in teatro approdarono spettacoli d’ogni tipo, dalla prosa al varietà, dalla commedia dialettale ai concerti: ma il cinematografo fu comunque l’attività più sistematica, risultando in certi anni il locale più attivo della città, l’unico a permettersi a Bergamo pubblicità in grande stile sui giornali.
Fu il Rubini ad offrire al pubblico i primi Kolossal come Gli ultimi giorni di Pompei, diretto da Luigi Maggi (la “prima” si tenne il 21 febbraio 1909): il primo film muto storico-epico del cinema italiano ricordato da Ermanno Comuzio (3) come “una rivoluzione spettacolosa nelle convenzioni del trattenimento cinematografico nella prima decade del Novecento […] Giorni indimenticabili in particolare per la cassiera del teatro, Diana Barberini, che non ancora ventenne era stata ingaggiata dai gestori della Casa del Popolo (tra cui l’onorevole Gavazzeni, padre del maestro Gianandrea) per insediarsi al botteghino…. che aveva accettato l’incarico più per la passione del cinema che per la retribuzione”.
E’ interessante notare che Gli ultimi giorni di Pompei (stesso titolo di quello muto del 1908) fu anche il primo film diretto da Sergio Leone (1959).
Altro grosso successo di pubblico ottenne nel 1910 La Gerusalemme liberata, un film diretto da Guazzoni che, per meglio documentarsi, compì anche diverse ricerche alla Civica Biblioteca A. Mai. Altri kolossal dell’epoca, Il conte Ugolino e Napoléon, presentati come “colossali capolavori storici istruttivi”: un pallino di diversi locali per dare più che altro una patina culturale a spettacoli che il più delle volte avevano poco da spartire con la cultura.
A quel tempo, le proiezioni al Rubini erano “accompagnate da un pianoforte suonato da un certo signor Martina, che aveva carta bianca nell’eseguire pezzi di diversa natura a seconda del carattere delle singole sequenze che si svolgevano sullo schermo”.
Su una delle pagine pubblicitarie, pubblicata domenica 16 agosto 1914, si annunciava che dalle 16 alle 23 si sarebbe tenuto un programma straordinario con due film: Squadra navale francese nel Nord Mediterraneo e Destino vendicatore, “emozionantissimo dramma in tre parti”.
E fu proprio in quel 1914 che il teatro fu attivo come sala cinematografica per tutto l’anno, “con programmi di prim’ordine e un afflusso di pubblico sempre sostenuto”. Capitava che a volte gli intermezzi fossero rallegrati da intrattenimenti musicali, con un repertorio che variava dal drammatico allo storico, dal poliziesco al romanzo d’appendice. E non mancava mai la comica finale.
La serie di film che riscosse maggior successo fu Fantomas.
Anche se il Rubini ebbe per anni una compagnia stabile di prosa, fu comunque il cinema a riempire il teatro. Un particolare successo di pubblico ebbe nel 1938 il film Il segno della croce con Fredric March e Charles Laughton, imponendosi su tutti gli altri film storici “per la meraviglia della sintesi drammatica, lo splendore delle immagini, la tumultuosa potenza dei sentimenti”. La sontuosa messinscena mostrava “una Roma superba, dal palazzo dell’imperatore alle case dei patrizi, alle scalee immense del Circo, ai sotterranei dove sono rinchiusi i cristiani. Una visione superba per potenzialità di mezzi impiegati nella lavorazione, per la grandiosità di linee veramente imponenti, per il gusto e le proporzioni concordi dell’insieme. Un film sonoro perfetto. Incantato il pubblico”.
E’ sempre l’immancabile e poderoso “Il Novecento a Bergamo” a ricordare un evento memorabile nella storia del teatro: un’iniziativa benefica riservata ai poveri delle Conferenze di San Vincenzo per assistere al film Monsieur Vincent. Ricordando quella serata, don Andrea Spada (4) scrisse che l’invito era stato rivolto ai più poveri: umilissime donnette, poveri del dormitorio popolare, dei refettori, povera gente che abitava sulle soffitte, nei sottoscala, che d’estate dormiva all’aperto. Il locale era colmo e soffocante. Si dovette sbarrare il teatro tanta era ancora l’umile gente che attendeva di fuori. “Al buio pareva vuoto tanto era il silenzio, tanta la partecipazione accorata al film di tutta quella gente”. E a un certo punto non mancarono i singhiozzi in sala.
Talmente vario il repertorio che nell’ottobre del 1963 vi fu allestito uno spettacolo “sconvolgente”: un’edizione, voluta dal Circolo Artistico Bergamasco, in forma di “oratorio”, dell’opera Roberto Devereux di Gaetano Donizetti, diretta dal maestro bergamasco Giulio Lorandi. E dato che in città mai si era assistito a delle pagine melodrammatiche non in costume, l’esibizione suscitò grande stupore, tanto che i patiti della lirica fecero di tutto perché la rappresentazione fosse ripetuta più volte; cosa però impossibile a causa del risicato bilancio del Circolo, che non permetteva ripetizioni costose.
DUE RINNOVAMENTI IN VENT’ANNI… E POI LA FINE
La sala del Rubini fu letteralmente trasformata nel 1954 con un radicale intervento, eseguito su progetto dell’architetto Luciano Galmozzi, che ne cancellò l’impronta stilistica originaria. Logge e colonne furono sacrificate a favore di una moderna soluzione architettonica: platea e una loggia a vasta curva senza bisogno di pilastri in vista.
La capienza venne aumentata; si guadagnò da una parte in visibilità e praticità, dall’altra si perse per sempre un caratteristico esempio di architettura teatrale d’epoca, come una decina d’anni dopo avvenne per il Teatro Nuovo.
Con i suoi 1.600 (?) posti a sedere fra platea e galleria, offrì per decenni film per famiglie, le anteprime dei western di Sergio Leone e tutti i cartoni animati di Disney, restando però sempre aperto ad eventi di varia natura.
Il locale fu rinnovato anche nel 1974, quando divenne “Rubini 2000”, nome col quale per un certo periodo divenne frequentatissimo, anche grazie a una serie di importanti concerti, come la prima uscita ufficiale della Premiata Forneria Marconi in veste di supporto dei Procol Harum.
Vi si esibirono inoltre gli Area, il Banco del Mutuo Soccorso, Arthur Brown, i Pooh più volte e molti altri.
Tirò avanti negli ultimi anni cercando di sopravvivere all’imminente tramonto delle sale cinematografiche, sostituendo agli inizi degli anni ‘80 il Donizetti per la prosa nel periodo dei lavori di restauro e facendo cinema per ragazzi promosso dal Comune.
Alla fine, la chiusura definitiva, a causa sia della ben nota crisi delle sale cinematografiche a Bergamo e sia della crisi stessa del cinema, che diede un ulteriore colpo alla disaffezione del pubblico decretando il declino delle sale cinematografiche: la trasformazione, nel 1987, in Centro Congressi Giovanni XXIII (un centro diocesano di convegni, congressi, conferenze e attività culturali), rientra perfettamente nelle finalità per le quali il Rubini era nato nel 1907.
IL RUBINI NEI VOSTRI RICORDI
Per i film, dagli anni ‘40 agli anni ‘60 sono ricordati: Bernadette (film del 1943), Quo Vadis (film del 1951), I 10 comandamenti (film del 1956), Ben Hur (film del 1959), I magnifici 7 (film del 1960), Un dollaro d’onore (visto nel ‘60), West side story (film del 1961), Il Laureato (visto nel 1967).
Per gli anni ‘70: Rocky (la prima serie risale al 1976), La febbre del sabato sera (film del 1977), Guerre Stellari (visto nel 1977), Grease (film del 1978).
Per gli anni ‘80: Il Tempo delle mele (film del 1980), E.T. l’extra-terrestre (film del 1982), I Goonies (film del 1985).
I vostri film Disney: Biancaneve e i sette nani, Bianca e Bernie, Red e Toby nemiciamici, Gli Aristogatti, Mary Poppins, con in regalo, nei primi anni ‘6o, la spilla di Mary Poppins (un altro regalo di cui ci si ricorda era la Coca-Cola distribuita gratis la domenica mattina per lanciare il prodotto).
Dopo il film era usanza andare a mangiare un cono di panna (o meglio, lattemiele) alla latteria Valseriana in viale Papa Giovanni: “Io ricordo la domenica pomeriggio….si entrava alle 14, si vedeva il film due volte e mezzo, si usciva verso le 18, babbo e mamma ci aspettavano fuori. Se era appena passato il 27 del mese, si andava tutti alla Valseriana a mangiare la panna montata con la cannella sopra. E queste erano le nostre domeniche, peccato che, avendo dei fratelli, ero costretta ai film di cow boy con tanto di urla partecipate quando ‘arrivavano i nostri!’ Erano gli anni ‘50″.
C’è anche chi ricorda che sul muro esterno del “Valseriana”, all’angolo con via Guglielmo D’Alzano c’era una bacheca che pubblicizzava il film che in quel momento si proiettavano al Rubini.
Ma c’era anche chi preferiva il cono di panna dell’altrettanto mitico De Zordo, in S. Orsola.
In ogni caso, negli anni 70 a due passi dal Rubini c’era il forno Nessi, “che sfornava ‘certe’ pizzette…”. Proprio in quegli anni il Rubini ospitava anche le assemblee che si tenevano durante le manifestazioni studentesche (quelle dell’Esperia sicuramente).
Sono solo alcuni dei tanti ricordi legati alle vicende di un teatro che per qualche decennio ha accompagnato le nostre generazioni, conquistando di diritto un posto speciale nei nostri cuori.
NOTE
(1) Tra i principali interpreti del Poliuto, Elvira Magliulo (Paolina), una delle migliori allieve del maestro Beniamino Carelli al Conservatorio di Napoli; a fare da tenore lo spagnolo José Garcia, mentre il baritono era un ventisettenne Riccardo Togni. Direttore d’orchestra, il cavalier Gino Marinuzzi, già noto a Bergamo essendosi esibito più volte al nostro teatro Donizetti.
(2) Come riportano le cronache del tempo, il teatro occupava un’area di 700 mq, misurando m. 32X23; il palcoscenico era profondo m. 9; le colonnine che sostenevano le logge erano fornite dalla ditta Mancini di Bergamo e pesavano complessivamente 200 quintali; le balaustre in ferro battuto erano state lavorate dalla ditta Scalori Leali di Milano; le decorazioni, con figure e medaglioni allegorici erano opera dei fratelli Zappettini di Bergamo, autori anche del telone-sipario. Lampadari e braccioli erano forniti dalla ditta Radaelli di Milano. L’impianto comprendeva 600 lampade e due potenti fari di sicurezza, opera della ditta cittadina Limonta, mentre il grandioso lucernario sostenuto da tralicci in ferro, posto al centro della platea, era della ditta Lorini di Milano; i caloriferi erano forniti dalla ditta cittadina Giacomo Rusconi e figli; la vetrata, graziosamente decorata, era opera della ditta concittadina Fratelli Piatti.
(3) Giornale di Bergamo del 17 luglio 1962.
(4) L’Eco di Bergamo del 1° ottobre 1948.
Riferimenti
Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.
Inaugurato nel 1901, nell’epoca d’oro del teatro, il Politeama Nuovo ha avuto una non ingloriosa storia per tutta la prima metà del Novecento venendo considerato, ancora negli anni Trenta, “l’unico teatro popolare di Bergamo”. Sul suo palcoscenico si sono avvicendati a ritmo quasi vertiginoso spettacoli di ogni genere, e si può dire che nel primo quarto di secolo ne abbia davvero viste di tutti i colori: le cronache ricordano esperimenti scientifici, veri e propri spettacoli circensi (i “magnifici stalloni ammaestrati” di Guillaume o il record d’incasso ottenuto dal Circo Gatti, sempre con non meno di 2500 spettatori); esibizioni di giocoleria (uno per tutti: Enrico Rastelli, con il pubblico in delirio) e incontri di pugilato; corride con tori, esibizioni di celebri illusionisti e trasformisti (il grande Fregoli e Tiberio Alba, trasformista, caricaturista, equilibrista, violinista); cani “commediografi”, musei di anatomia, esperimenti di telepatia (celebri quelli di autosuggestione e magia del professor Majeroni); tornei di lotta femminile, giochi di prestigio, contorsionismo e persino l’esibizione di un fachiro (le cronache riportano quella del “fachiro indiano” Abdul Rahman).
E non mancarono certo le opere liriche (tra gli spettacoli memorabili del primo quarto di secolo, una Traviata, “con una autentica parigina, la Daugerville, che prima non aveva mai cantato in italiano”; una Lucia di Lammermoor con una Graziella Pareto sommersa d’applausi e da fiori, e in onore della quale fu addirittura fatta coniare una medaglia d’oro); la prosa con le migliori compagnie di cartello (di Ermete Novelli, di Virginia Talli, di Ruggero Ruggeri, di Ermete Zacconi: sempre serate di “tutto esaurito”), il cabaret, l’avanspettacolo e le immancabili operette brillanti, che ebbero il potere di colmare la cassa del teatro grazie alle vedette e agli esilaranti comici più in voga.
In questo teatro di così nobili tradizioni si esibirono tra gli altri il celebre direttore d’orchestra Pietro Mascagni, i tenori Tito Schipa e Toti dal Monte, la diva Gea della Garisenda; ospitò Luigi Pirandello, vi si avvicendarono i più noti personaggi della commedia (dalla Duse a Emma Gramatica, da Tina di Lorenzo a Maria Melato, da Marta Abba all’indimenticabile Ettore Petrolini) e vi si tennero spontanee manifestazioni cittadine: da quelle “vibranti di amor patrio” a importanti comizi politici. Non mancarono quindi le conferenze con personalità come Gabriele D’Annunzio, Mussolini (ai tempi direttore dell’”Avanti!”) e Tommaso Marinetti nonché illustri studiosi e grandi patrioti come il martire Cesare Battisti: l’elenco potrebbe continuare all’infinito, in quello che per lustri è stato l’unico teatro popolare della Città, solo più tardi affiancato dal glorioso “Duse”.
Nel corso del tempo il teatro ha subito diverse modifiche, determinate dalle necessità che di volta in volta emergevano nel mondo dello spettacolo e nella vita sociale e culturale della città: costruito agli albori del Novecento su progetto degli architetti Gattemayer e Albini e sul modello del Del Verme di Milano, venne ampliato nel 1929 da Cesare Ghisalberti e Camillo Galizzi e massicciamente ristrutturato a metà degli anni Sessanta, quando venne definitivamente adibito a cinematografo dall’architetto Alziro Bergonzo: sparirono allora le storiche quinte, i palchetti, le gallerie a ferro di cavallo e il grande palcoscenico, che tanto aveva dato ai bergamaschi. Nel tempo l’edificio si è quindi progressivamente ridotto, perdendo quell’assetto tipico dei teatri di fine Ottocento/primi Novecento, di cui ai giorni nostri si ravvisa solo la facciata. Dopo aver attraversato un periodo di decadenza e dopo ripetuti tentativi di riqualificare il locale con programmazioni cinematografiche di livello, nell’estate del 2005 il cinema Nuovo ha chiuso i battenti e ancor oggi è alla ricerca di una nuova rinascita.
LA NASCITA DEL “NUOVO”
Nel giugno del 1897 Innocente Carnazzi e Giovanni Givoli, impresari dello spettacolo, affidavano a due capomastri milanesi, Felice Taccani e Angelo Locatelli, la costruzione del Politeama Nuovo da edificarsi su progetto degli architetti Gattermayer e Albini (1). I due impresari – nel resoconto di Luigi Pelandi – avevano acquistato alcuni mesi prima un migliaio di metri quadrati di terreno dal dottor Giovanni Piccinelli, spinti dal miraggio di certa fortuna nell’esercizio di un teatro moderno a Bergamo dopo la soppressione del Teatro Rossi e la demolizione del Politeama Givoli, che sorgevano in Piazza Baroni: il “Duse” infatti era di là da venire e in Città Bassa funzionava solo il Donizetti, il teatro massimo della città.
Mentre si abbatteva il Givoli (una “mostruosità” secondo le cronache del tempo), al di là della roggia Nuova aveva già messo le fondamenta il Nuovo Politeama, così chiamato perché come il suo predecessore avrebbe dovuto rappresentare un po’ di tutto.
Il Nuovo venne su fra mille difficoltà, soprattutto di carattere economico: la costruzione, iniziata nel giugno del 1897, andò per le lunghe a causa di diverse inadempienze degli appaltatori. Gli impresari appaltanti, Giovanni Givoli e Innocente Carnazzi, dopo aver ricorso a giudizio, furono felici di liberarsi del fabbricato, cedendolo a Carlo Ceresa, che ai primi di marzo del 1901 fece portare a termine la costruzione (2).
Ma anche il Ceresa ebbe le sue grane; infatti la commissione tecnica non era convinta della stabilità delle gallerie, forse perché prevenuta da un imprevedibile incidente mortale occorso durante l’abbattimento delle gallerie del Givoli. Ma il Ceresa non si perse d’animo: con una lunga fila di carretti fece portare dai suoi coloni di Stezzano una grande quantità di sacchi di frumento, tanti da stipare le gallerie. Poi, dopo aver acceso tutte le luci ed aver affisso per beffa il cartello “tutto esaurito”, chiamò la commissione tecnica, la quale ovviamente diede il benestare (3).
L’ASPETTO DEL TEATRO DELLE ORIGINI
La struttura dell’originario “modernissimo Politeama” non presentava il tradizionale giro di palchetti, ma una triplice fila di gallerie, le due inferiori disposte ad anfiteatro e sorrette da un doppio ordine di colonne in acciaio e in ghisa.
Luigi Pelandi annotava che il teatro era stato costruito sopra una intelaiatura di ferro, stimando il peso dei metalli usati in 24.000 chili di poutrelles, 6.600 di piombo per la copertura della cupola, 1300 di colonne in acciaio, 22.000 di colonne in ghisa, 16.000 di ferramenta.
La sala poteva contenere almeno 1800 persone.
Denunciava inoltre il Pelandi, agli esordi del teatro, il poco sfondo del palcoscenico e l’acustica che non rispondeva in modo confortevole a causa della soverchia elevazione della prima galleria; inoltre, l’alto basamento che cingeva la platea troppo al di sopra del piano (4).
L’INAUGURAZIONE E I PRIMI SPETTACOLI
Il Nuovo fu inaugurato il 23 marzo 1901 con una rappresentazione de La sonnambula di Vincenzo Bellini, replicata quattro volte, e malgrado lo spettacolo cadesse in tempo di Quaresima e durante la settimana di Passione, sia per la novità e sia per la bontà dello spettacolo il teatro fece cinque serate di buona cassetta. Nell’occasione fu scritturata la spagnola Giuseppina Huguet, e il soprano dette vita a una deliziosa Amina con un canto di una grazia e di una sensibilità davvero indimenticabili. Vi furono un’infinità di chiamate ed un interminabile lancio di fiori. Fu, quella, una settimana di grandi piogge a Bergamo e in qualche punto la Morla minacciò di straripare.
Subito dopo la Sonnambula andarono in scena i primi spettacoli di prosa: Edipo re, La bisbetica domata, Amleto, Kean e Nerone. Protagonista principale Gustavo Salvini che era al massimo del suo fulgore: il pubblico, elettrizzato e fremente, lo acclamò a sazietà.
Quell’anno – ricorda Luigi Pelandi – arrivò anche il circo, che fece fare affari d’oro al botteghino. Era il famoso Guillaume, “che tenne occupata la platea con i suoi cavalli ammaestrati, con impressionanti acrobatismi e con i suoi clown, più o meno spiritosi”. Il 1901 si chiuse con gli spettacoli della Compagnia di prosa di Alfredo De Sanctis, prima attrice Emma Gramatica.
Al Nuovo avvenne persino la prima storica “rivolta” contro le spettatrici che prendevano posto con vistosi cappelli piumati dando luogo a curiose guerricciole terminate solo dopo che la moglie dell’impresario inaugurò la moda di entrare a teatro a capo scoperto sfoggiando una chioma d’oro indimenticabile. Da quel momento i cappelli furono lasciati nel guardaroba del teatro.
IL NUOVO CON PILADE FRATTINI
Nel 1904 il Nuovo divenne comproprietà di Carlo e Giovanni Ceresa, Italio Bissolaro e il geniale e temerario Pilade Frattini(5), che tenne l’impresa teatrale fino al 1915.
Caffettiere elegante ed impresario infaticabile, Frattini si era stabilito a Bergamo nell’anno 1900 ed aveva acquistato il Caffè Nazionale, che apriva le sue vetrine sul Sentierone, facendone un ritrovo alla moda ed impiantandovi all’interno un piccolo teatro di varietà, nel quale si esibì per una quindicina d’anni il fiore dei cantanti famosi, dei musici, delle soubrettes, delle ballerine, dei comici e dei giocolieri dell’epoca.
Era il Frattini di una attività fenomenale, sempre in moto fra Bergamo e Milano. Ebbe in gestione anche il Casinò di San Pellegrino Terme (dove troneggiava alla roulette), frequentato al suo tempo da editori, musicisti, artisti, giornalisti e scrittori famosi (Luigi Pirandello, Arnaldo Fraccaroli, Marco Praga, Pompeo Molmenti, Sabatino Lopez). Fu anche animatore del Teatro Donizetti, dove seppe portare delle vere primizie, tra cui (1906) la prima assoluta de l’Amica, scritta e diretta dallo stesso Pietro Mascagni. Nelle varie stagioni d’opera fece venire a Bergamo Umberto Giordano, Francesco Cilea e Giacomo Puccini e per ciascuno preparò accoglienze fastose e ricevimenti lussuosi. Ma fu al Nuovo che scaricò tutto il suo estro, portando sul palcoscenico spettacoli di grido ed esibizioni tra le più stravaganti.
Da buon impresario teatrale (suo a Roma il teatro Frattini), gestì il Nuovo in prima persona, facendone uno dei teatri italiani più vivi e à la page. In pratica lo trasformò in un vero e proprio centro d’attrazione per ogni genere di spettacoli e grazie a lui il teatro divenne la sala più polivalente della città: fu sede di opere liriche, operette, commedie e drammi, balletti, conferenze, comizi, eventi sportivi, esperimenti scientifici, illusionismo, giochi popolari, spettacoli circensi (il cosiddetto baldi caài).
Gli anni ai primi del Novecento furono memorabili. Per la prima volta a Bergamo si esibì una compagnia di “danzatori negri africani”; talmente giganteschi che terrorizzarono quanti incontrarono per strada prima dello spettacolo. Sul palcoscenico del Nuovo si esibì anche il “lottatore più forte del mondo”, il triestino Raicevich, che affrontò un colosso di colore che si chiamava Anglio e si diceva fosse un mezzo cannibale. In quegli anni fu persino organizzata, in teatro, un’autentica corrida, ma l’uccisione del toro fu proibita.
Frattini era pure dotato di un grande intuito musicale e di buon fiuto: a lui si deve la straordinaria scoperta di quel genio musicale che fu il violinista Vasha Prioda: lo prelevò da un’orchestrina di un caffè milanese e lo fece debuttare al Nuovo, dove tenne un concerto anche il virtuoso pianista polacco Miecio Horszowski: “Dopo tanti anni questi nomi non diranno più niente alle nuove generazioni, abbruttite dalle stramberie assordanti e sgraziate dei cantautori e dalla zotiche e insulse balordaggini della musica leggera di massa, divenuta spregevole oggetto di consumo, e tuttavia basterà ascoltare qualche vecchia incisione riversata dai gloriosi cilindri di Edison o dai fruscianti dischi a settantotto giri per rendersi conto dell’eccellenza di quei virtuosi solisti”, scrisse Umberto Zanetti nella sua “Bergamo d’una volta”.
Con Frattini, arrivarono al Nuovo gli artisti più prestigiosi, come il mitico giocoliere internazionale Enrico Rastellicon i prodigi di equilibrio nonché l’imbattibile trasformista Leopoldo Fregoli, inventore del trasformismo teatrale e trasformista per antonomasia, che nei suoi spettacoli comprendeva anche alcuni brevi film da lui stesso interpretati. A costoro vanno aggiunti Ferravilla, gli illusionisti Mister Tomba e Elsa Barocas. Vi declamarono inoltre le loro poesie Trilussa, Barbarani, Pascarella, Lino Selvatico.
In cartellone anche le compagnie di prosa fra le più famose e compagnie di operette fra le maggiori. Frattini portò sulle scene del Nuovo Tommaso Salvini (che insieme a Ernesto Rossi e Adelaide Ristori formava la triade dei principali attori del teatro italiano di metà Ottocento) col suo grave repertorio greco, shakespeariano e alfieriano; l’indimenticabile quartetto Galli, Guasti, Sichel, Ciarli con le sue commedie francesi; Tani, con le sue operette; “La Nave” di D’Annunzio in forma di dramma, il meglio delle compagnie dialettali (Ferravilla, Zugo, Musco); gli attori più famosi, come Gandusio, Falconi, Monaldi con la moglie, la bellissima Fernanda Battiferri. Cantanti lirici come il baritono emiliano Riccardo Stracciari, che in pieno clima verista, dopo il tramonto di Battistini, costituì un esempio vivente della scuola italiana di canto dell’Ottocento.
Frattini fece recitare le compagnie di Ermete Novelli, di Virginio Talli, di Ruggeri e Borelli, organizzò una celebrazione dell’impresa dei Mille con una conferenza d’Innocenzo Cappi e la partecipazione di ventotto reduci garibaldini.
Sempre prodigo di sorprese, nel 1904 chiamò sul palcoscenico la Compagnia comica del Gran Togo Mandrigos, un’autentica, scatenata e numerosissima tribù africana, che eseguì dei numeri sbalorditivi divertendo moltissimo il folto pubblico.
Ancora al Nuovo diede un concerto nel 1908 il maestro Enrico Toselli, autore di una celeberrima serenata, cavallo di battaglia di tutti i soprani da salotto. Presente la principessa di Sassonia di cui in quel tempo si era fatto un gran parlare.
Nel 1910, il 26 e 27 febbraio, si tenne un torneo internazionale di lotta, con in palio un premio di mille lire. Tra i partecipanti, il campione del mondo Paul Pos, il campione russo Romanoff, quello italiano Masetti, quello francese Aimable de la Calmette e, con molti altri lottatori di fama, il campione dei campioni Pedersen.
Il 10 ottobre 1910 al Teatro Nuovo la Compagnia di Emma Gramatica tenne la prima delle due recite straordinarie sulla Reginetta di Saba, un lavoro di Ettore Maschino. Un giornale dell’epoca ne annunciava l’evento informando sui prezzi d’ingresso: platea una lira; prima loggia una lira e cinquanta; seconda loggia sessanta centesimi; loggione quaranta centesimi- poltrone due lire e posti numerati di prima loggia una lira oltre l’ingresso alla prima loggia.
Nel 1911, sotto l’egida del comitato bergamasco della Società Dante Alighieri, si proiettò il film L’Inferno; in una breve orazione introduttiva Innocenzo Cappi inneggò alla nuova conquista della cinematografia nazionale: la pellicola era lunga mille metri.
Ne mancarono conferenze con studiosi illustri, dicitori di fama e grandi patrioti: da Cesare Battisti a Gabriele D’Annunzio. A quest’ultimo, Frattini corrispose una notevole somma per venti “conferenze aviatorie” (“Per il dominio dei cieli”) che dovevano svolgersi in prestigiosi teatri italiani: il poeta, preteso anticipatamente e intascato graziosamente il compenso, onorò parzialmente l’impegno tenendone prima a Milano, quindi a Torino con esito entusiastico, poi a Bergamo al Teatro Nuovo intorno al 1910, interrompendo la tourneé per dissapori con lo stesso Frattini e riparando poi a Parigi. Ma aggiunge Umberto Zanetti che “Il caffettiere-impresario salutò senza rancore la proiezione di “Cabiria” al Donizetti nel 1914, ben sapendo che il poeta, ancora squattrinato e indebitatissimo sebbene in suolo francese, aveva ceduto la fama del suo nome unicamente per coniare il titolo del film. Frattini fu degno ancora una volta del suo stile e dei suoi mezzi facendo propagandare lo spettacolo – cosa mai veduta prima di allora – con un lancio di volantini da un aeroplano. In teatro, durante la proiezione, un’orchestra suonò la “Sinfonia del fuoco” di Ildebrando Pizzetti”.
Sempre in tema di conferenze, sono ricordate anche quelle (brillanti) di Innocenzo Cappa, Fradeletto, Barzilai e Pastonchi.
Nel maggio del 1911, accompagnati dalla fama di “violenti rivoluzionari” arrivarono al Nuovo i Futuristi. La coraggiosa e sprezzante Compagnia Futuristica Marinetti & Co. (Filippo Tomaso Marinetti, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giovanni Acquaviva, Luigi Russolo e Giacomo Balla) sconcertò il pubblico suscitando polemiche a non finire con lo spettacolo Intonarumori: si ripeterono in sala le stesse indignate proteste che avevano accolto l’esibizione futurista a Milano.
Nel 1913 intervenne anche Benito Mussolini (allora direttore dell’ “Avanti!”), acclamatissimo. Scriveva L’Eco di Bergamo che “Mentre il proletariato affollava il circo equestre in piazza Baroni, un discreto numero di borghesi ha versato 50 centesimi a beneficio dell’Avanti! e ha raggiunto il teatro Nuovo; tutti però sono rimasti prudentemente vicini il più vicino possibile alla porta a sentire e a vedere Benito Mussolini. Il direttore dell’Avanti! ha parlato del socialismo; più precisamente del suo socialismo”.
Sempre nel 1913 vi si organizzò il primo incontro di Boxe, in una serata d’accademia di ginnastica e scherma (disciplina che il Teatro Duse iniziò ad ospitare dal novembre del ‘28).
Nel 1915 il teatro ospitò Luigi Pirandello in veste di direttore artistico della compagnia teatrale che si esibiva in Sei personaggi in cerca d’autore e con in platea l’avvocato Alfonso Vajana nelle vesti di critico teatrale. Per il giugno dello stesso anno è ricordato anche un Barbiere di Siviglia con cantanti tutte femminili.
Ricorda Luigi Pelandi che Frattini ingaggiò anche molte cantanti di cartello. Fra queste, un successo personale ottenne in particolare la bella e agilissima Gea della Garisenda (autrice di successi come l’inno patriottico A Tripoli), che cantò ne La vedova allegra e nel Sogno di un valzer, con un teatro stipato all’inverosimile e il proscenio subissato da una pioggia di garofani e rose. Umberto Zanetti scrisse che “Sotto le finestre della diva, che alloggiava all’Albergo Concordia, le ovazioni dopo lo spettacolo continuarono fino alle ore piccole”. La diva si esibì anche presso café chantant di Pilade Frattini.
UN CENNO AGLI SPETTACOLI DOPO FRATTINI
Anche in seguito, e probabilmente sul solco lasciato da Pilade Frattini, il Nuovo non si fece mancare niente. Nel febbraio del 1916 ospitò Pietro Mascagni; nel 1917 vi tornò la Compagnia di Emma Gramatica. Quell’anno fu in realtà un susseguirsi di Compagnie teatrali comiche e operettistiche, lirica, varietà, illusionismo, lotta. Sempre nello stesso anno, e per diversi anni, il teatro ospitò anche esibizioni circensi, in coincidenza con la Fiera.
Con un ritmo ben regolato e a scadenza fissa, vi erano al Nuovo dai venti ai trenta cambiamenti di spettacoli annuali, saliti a 40 nel 1923.
Nel febbraio del 1918 il Teatro Nuovo veniva requisito per quattro mesi per ospitare i soldati delle terre invase: “i cittadini fecero a gara per rendere ai disgraziati fratelli meno dolorosi i loro cupi pensieri”. Il teatro riaprì nel 1918 con la Compagnia teatrale Zago /Compagnia Veneziana e vi si esibì Fregoli con grande successo e visibilio del pubblico.
Con la Grande Guerra, l’epidemia di Spagnola colpì anche la nostra città e con il 15 ottobre del 1918 il teatro dovette chiudere per 5 mesi. A fine anno, il sig. Ceresa vendeva il teatro ai sigg. Resta e Bonfiglio di Milano, che nel 1927 cedevano l’impresa teatrale al sig. Giulio Consonno. Quest’ultimo, che per anni aveva gestito il Donizetti, iniziò l’attività al Nuovo l’11 maggio e sempre in quell’anno iniziò a gestire il Teatro Duse, appena costruito.
Se per il 1920 si registrò la presenza a teatro della Compagnia drammatica Riva-Lotti-Fortis, quello successivo fu l’anno d’oro per l’impresario e per il locale: la fine della guerra scatenava frenesia e una gran voglia di divertimento e in città i cinematografi si raddoppiarono. Si diradò la programmazione di prosa e prese campo l’operetta con grandi pienoni di pubblico: fra le tante, si distinsero le soubrette Odette Marion e Alda Borelli, che vi arrivò a luglio.
Per il ‘23 si ricorda l’esibizione (musica e balletto) del coro dei “Cosacchi del Kuban” (1923), corpo corale cosacco che si era formato dopo lo scoppio della rivoluzione del 1917 e prendeva il nome da uno dei migliori e più antichi collettivi artistici russi (il Coro dell’esercito dei Cosacchi del Kuban, risalente al 1811).
Il 24 febbraio 1924 al Nuovo si tenne il primo comizio fascista. La cronaca de “L’Eco di Bergamo” riportava: “Ha parlato per circa un’ora e mezzo l’onorevole Ezio Maria Gray esaltando il fascismo e i fascisti che, ha detto, si sono imposti il compito di valorizzare le energie nazionali e di fare da correttivo fra le classi sociali e quindi da potenti pacificatori sociali”.
Quello seguente fu un anno di calma per il teatro, con spettacoli prevalentemente lirici di buon livello, mentre nel maggio del ‘27 vi si esibì la Compagnia Nazionale delle grandi attrazioni, attirando, in alcune sere, fino a 2500 spettatori. Fra le attrazioni maggiori si distinse il grande giocoliere bergamasco Enrico Rastelli, mentre per la gioia dei piccoli spettatori arrivò il “nano Bagonghi” personalità indimenticabile. Ma la cronaca del periodo ricorda per quell’anno anche Ettore Petrolini.
L’AMPLIAMENTO DEL NUOVO NEL 1929
Le nuove tecniche teatrali imposero nuove esigenze ambientali e sceniche, tali da portare, nel 1929, a un rifacimento e a un ampliamento – grazie all’acquisto di terreni circostanti -, che investirono tutto il grande edificio.
Il progetto era degli architetti Cesare Galimberti e Camillo Galizzi, mentre la ristrutturazione fu decisa con la consulenza tecnica dell’ingegner Cesare Albertini della Scala di Milano.
Fu deciso l’ampliamento del palcoscenico – di oltre otto metri -, che venne dotato dei più recenti meccanismi. Vennero sistemate la platea, le gallerie e le logge, prevedendo 600 posti a sedere in più; ampliata anche la sala d’accesso e l’attiguo caffè, formate nuove sale per il pubblico, camerini per gli artisti, ideati nuovi impianti per l’illuminazione e il riscaldamento.
L’ingrandimento, così come la decorazione di severo gusto artistico, dovevano rendere il teatro degno del nuovo centro cittadino.
Le cronache ricordano in particolare il 1944, perché a calcare le scene del Nuovo furono i memorabili Tito Schipa e Toti dal Monte, grandi cantanti lirici dell’epoca, ricordati da Nino Filippini Fantoni come voci meravigliose, capaci di rapire e portare in atmosfere paradisiache nel tempo buio, terribile e disumano della guerra.
TEATRO NUOVO E DINTORNI NEGLI ANNI ’50, IN IMMAGINI
LA CONVERSIONE A CINEMATOGRAFO
Nel 1965 si mise nuovamente in atto una ristrutturazione massiccia, che trasformò definitivamente il teatro in una grande e modernissima sala cinematografica e decretò la fine dei fasti vissuti all’inizio del XX secolo. Per la verità, la funzione esclusiva di cinematografo doveva essere attiva ancor prima della ristrutturazione del ‘65, come si evince da un articolo de “L’Eco” nel quale si legge che nell’ottobre del ‘51 il Nuovo era già totalmente adibito a cinema (6). E’ dunque plausibile pensare che in un primo momento il cinematografo fosse affiancato all’attività teatrale.
Scompariva così, inghiottito dalle ruspe, il vecchio e glorioso teatro (del quale restava ormai solo la facciata verso Largo Belotti), per far posto a una moderna sala attrezzata quasi come un Cinerama: riaperti i battenti il 2 dicembre del 1967, il primo film proiettato nel nuovo assetto fu l’americano “La battaglia dei giganti” in 70 mm. Technicolor, ultra-vision e con suono stereofonico, che poteva ora rivaleggiare con le migliori sale d’Italia. Il tutto, a sessant’anni anni dai primi tremolanti e grigi film muti.
Il progettista della ristrutturazione interna fu il ben noto architetto bergamasco Alziro Bergonzo, che forte della progettazione del Manzoni di Milano, poté attenersi alle tecniche più aggiornate in materia di costruzione di sale cinematografiche.
Al tempo di tale radicale ristrutturazione, la gestione del Nuovo era affidata al comm. Giuseppe Spiaggia, figura di spicco in un settore che, dopo i fasti degli anni Cinquanta e in parte Sessanta, aveva già iniziato un cammino di fatale e drastico ridimensionamento.
La sala aveva ora milletrecento posti a sedere (980 in platea e 320 in galleria, successivamente ridotti a 900 per motivi di sicurezza) ed uno schermo di metri 13×6; da ogni poltroncina (tutte imbottite e ricoperte di stoffa blu, come quelle del Manzoni di Milano), la visibilità veniva favorita dalla platea ascendente verso lo schermo.
Sopra le pareti, anch’esse imbottite e ricoperte di stoffa, spiccavano appliques a più bracci che diffondevano un’illuminazione calda e confortevole; gli altoparlanti alle pareti assicuravano una perfetta stereofonia, favorita anche dalla spessa imbottitura di materiale acustico (ed ignifugo) delle pareti e dai pannelli assorbenti del soffitto, riflettenti il suono.
Gli impianti di proiezione, installati dalla Prevost, fornivano una proiezione limpida con fedelissima audizione del suono. Lo spazioso atrio d’ingresso era ricoperto in stucco lucido venato di tinta bluette. Altrettanto ampi i disimpegni (scale e servizi).
LA DECADENZA
Dopo essere stato trasformato in cinematografo (indimenticabili, negli anni Settanta le Prime Visioni di Rocky e Jesus Christ Superstar, che tennero il cartellone per settimane), e dopo un periodo in cui aveva ospitato numerose compagnie di riviste, il Nuovo decadde sempre di più e, a partire dal ‘78, nel disperato tentativo di risalire un po’ la china si diede ai film a luci rosse. All’indomani dell’inaugurazione del “nuovo corso” la cassiera faceva sapere a un cronista del “Giornale di Bergamo” che “la morale e il prestigio sono una cosa, i guadagni un’altra; e non vi sono dubbi che i guadagni si fanno con i film porno, tanto che ora l’incasso quotidiano è superiore a tutte le più rosee previsioni”.
In questi anni vi furono continue proteste, denunce e prese di posizione anche violente contro il dilagare dei film a luci rosse, che aveva contagiato anche altre sale della città (7). Anche il Ducato di Piazza Pontida non perse occasione, al “rasgamento della vecchia”, per bruciare sul rogo in piazza il cinema e la pornografia.
Nel 1983 i giornali annunciavano che presto si sarebbero spente le ‘luci rosse’ che fino ad ora avevano “fatto precipitare un teatro di fama come il Nuovo”. Ma la specie di stagione teatrale dedicata soprattutto a vedettes della canzone e del cabaret non servì a rianimare il locale, che nell’85 fu il primo a lanciare a Bergamo il noleggio di film in Vhs, seguito solo più tardi dai negozi “specializzati”: l’ennesimo fendente per le sale cinematografiche che, come quella del Nuovo, erano da tempo in agonia.
Dopo ripetuti tentativi di riqualificare il locale con programmazioni cinematografiche di livello, coinciso con la gestioni Nolli-Signorelli, nell’estate del 2005 il cinema Nuovo ha chiuso definitivamente i battenti. Col tempo le condizioni dell’edificio sono andate peggiorando ed anche il progetto, annunciato nel lontano 2017, di aprire al suo interno uno spazio dedicato alla gastronomia d’eccellenza, non è andato in porto anche a causa dell’elevato costo dei materiali edili necessari per la ristrutturazione.
NOTE
(1) “Il progetto che gli architetti Gattemayer e Albini avevano elaborato fu approvato da una commissione artistica presieduta dall’architetto Camillo Boito. Direttori dei lavori furono designati l’ingegner Caccia e il professor architetto Odoni”. (Luigi Pelandi, “La Rivista di Bergamo”, numero di giugno del 1926). Un’altra fonte indica, per quanto riguarda la gestione del teatro nel 1901, i nomi di Regazzoni – Givoli – Terzi (Comune di Bergamo, Piano di recupero ex teatro cinema Nuovo, angolo via Verdi/Largo Belotti. Relazione illustrativa generale, ottobre 2018. Progettista: Arch. Domenico Egizi).
(2) Nel resoconto di Luigi Pelandi, “I due impresari avevano acquistato alcuni mesi prima un migliaio di metri quadrati di terreno dal dottor Giovanni Piccinelli, spinti dal miraggio di certa fortuna nell’esercizio di un teatro moderno a Bergamo, dopo la soppressione del Teatro Rossi e la demolizione del Teatro Givoli, l’ordine contrattuale disponeva che il teatro fosse completamente finito per essere aperto al pubblico sei mesi dopo. Gli appaltatori dovevano a varie rate pagare L. 86 mila. Il conte Gabriele Camozzi ne assumeva la garanzia del pagamento. Ma il lavoro non era al secondo mese che già subiva soste impressionanti e da lì diffide e controdiffide causate da varie ragioni. Al febbraio del 1898 i lavori erano di ben poco proseguiti e già gli appaltanti avevano dato in anticipo poco meno della metà della somma dovuta! Del febbraio di quell’anno è un primo atto di citazione; il mese dopo la prima sentenza, e poi perizie e contro perizie e sentenze e ricorsi fino al giugno del 1899, senza che nel frattempo si procedesse gran che nella costruzione. Finalmente, in seguito a una vigorosa azione spiegata dai signori Carnazzi e Givoli, il Teribunale di Bergamo autorizzava i medesimi a condurre a termine la costruzione del Politeama e condannava i due appaltatori nei danni e nelle spese. Ricorrevano questi in Appello e poi in Cassazione, ma in tutti i giudizi rimanevano soccombenti. Carlo Ceresa rilevava il teatro; pochi anni dopo lo faceva portare finalmente a termine ai primi del marzo 1901..” (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963. Collana di studi bergamaschi).
(3) Luigi Pelandi,La Strada Ferdinandea, Ibidem.
(4) Luigi Pelandi,La Strada Ferdinandea, Ibidem.
(5) Domenico Lucchetti, “Bergamo nelle vecchie fotografie”. Grafica Gutemberg, 1976.
(6) Un articolo de “L’Eco di Bergamo” datato 6 Ottobre 1951 informa che già a quella data il Nuovo era totalmente adibito a cinema. “…inavvertita è passata da breve tempo la ricorrenza cinquantenaria di un teatro cittadino che ha avuto una non ingloriosa storia nella vita cittadina per tutta la prima metà del nostro secolo. Ci riferiamo al “Teatro Nuovo”, ora totalmente adibito a cinema”.
(7) “Le proiezioni avevano suscitato un mare di polemiche. In particolare nel 1976 c’erano state non poche pubbliche proteste per la proiezione al Capitol di Mondo porno oggi, un lungometraggio “a sensazione su quel che si fa nel mondo quanto a sesso e perversioni sessuali”. Lettere di cittadini indignati ai giornali, anche una sfilata per le vie della città. Su un grande cartello la scritta ‘Basta con le donne oggetto di film pornografici’. Un anno più tardi il Nuovo fu denunciato per l’esposizione di una locandina oscena (Erotic sex Orgasm, il titolo del film)…” (Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013).
Riferimenti principali
Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.
La Rivista di Bergamo n. 6 – Giugno 1926.
La Rivista di Bergamo n. 12 – Dicembre 1966.
Umberto Zanetti, “Bergamo d’una volta”. Ed. Il conventino, 1983.
Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963 (Collana di studi bergamaschi).
Comune di Bergamo, Piano di recupero ex teatro cinema Nuovo, angolo via Verdi/Largo Belotti. Relazione illustrativa generale, ottobre 2018. Progettista: Arch. Domenico Egizi.
Alle soglie del Novecento, all’approssimarsi del centenario della nascita di Gaetano Donizetti, si fa urgente il desiderio di celebrare degnamente il grande musicista bergamasco, intitolando il teatro più importante della città al suo nome.
In vista dei festeggiamenti, diventa necessario dotare il vecchio teatro di una facciata degna della sua importanza e a tal fine, l’11 maggio 1895, i nuovi proprietari si costituiscono in società promulgando un bando di concorso per la costruzione della facciata, datato 29 maggio 1895. Nel contempo viene bandito un concorso per un monumento a Donizetti.
Dopo una serie di vicende, l’incarico per la nuova facciata viene affidato all’architetto romano Pietro Via, che nell’estate del ‘96 presenta il suo progetto definitivo. I lavori dovrebbero essere compiuti per la stagione d’opera del 1897, anno del centenario, che sarà al centro di diverse manifestazioni di rilievo nazionale, vedendo sul podio il grande Arturo Toscanini (che già era stato a Bergamo a dirigere l’orchestra nel 1895 e che poi ritornerà più volte) che, nella grande ed elegante sala definita “un miracolo di acustica”, avrebbe dovuto dirigere La favorita, Lucia di Lammermoor e L’elisir d’amore.
L’interno del teatro sarà interamente completato nel 1903 con l’ariosa composizione di figure allegoriche della parte centrale del soffitto e le gustose decorazioni pittoriche dei parapetti e dei palchi, ad opera di Francesco Domenghini.
Ma per l’inaugurazione della stagione di Fiera la facciata non è completata e perciò, per la prima recita del 21 agosto se ne scopre solo la parte inferiore, che mette in mostra i tre portoni del nuovo ingresso, opera dei fratelli Questi di Borgo S. Caterina.
Terminata la stagione di Fiera, il teatro è sottoposto a lavori e quando riapre, nel 1897, si chiama Teatro Gaetano Donizetti, concludendo ufficialmente l’era di Bortolo Riccardi, costruttore ed impresario dell’originario teatro.
Al momento della riapertura per i festeggiamenti donizettiani, la nuova facciata del Via non è ancora pronta, ma il teatro viene comunque riaperto e il monumento a Donizetti, edificato nella piazza tra il teatro e il vecchio Municipio, inaugurato.
La facciata del teatro verrà scoperta, finalmente compiuta, alla vigilia dell’inaugurazione della stagione lirica di Fiera del 1898. Definita di stile sansovinesco, è ornata nella parte inferiore dal ceppo rustico di Brembate e nella parte superiore da un tipo di cemento fornito dalla locale ditta Ghilardi che imita il granito rosso di Verona.
I lavori all’interno del teatro vengono completati nel 1903 e riguardano il consolidamento del soffitto e alcune misure per la sicurezza del luogo, nonché il rinnovo totale dell’apparato decorativo. Di quest’ultimo compito è incaricato il pittore Francesco Domenghini (artista di origine e formazione bergamasca specializzatosi nella decorazione di teatri), che non si limita ad affrescar pareti ma interviene sull’assetto generale.
Poiché il soffitto del teatro poggia direttamente sulle pareti, senza cornice, il pittore forma un cornicione che figura come sostegno del soffitto e al quale si appoggia un grande semiarco che gira tutt’attorno alla volta, creando una forma ellittica che si salda con le file delle gallerie. Grandi conchiglie bronzee inquadrano putti che cantano e suonano o recano festosamente palme e ghirlande, in alternanza a figure dipinte a chiaroscuro, sedute sul cornicione e rappresentanti i geni della musica. AI centro di tutto, il grande affresco della volta, una allegoria che rappresenta il trionfo dell’arte musicale, con una fanciulla più in luce delle altre figure che, assisa su una nuvola in un cielo azzurro “cosparso da leggere ondate di nubi purpuree”, suona la cetra. La giovane donna è incoronata di lauro da un angelo (1). Al centro dell’arcoscenico viene posto un orologio sorretto da fanciulle.
Un altro intervento di pregio è effettuato sugli stucchi dorati, che impreziosiscono le pareti del foyer e che presentano, inseriti in bianche cornici, volti di fanciulle ornati da delicati rami.
IL CIRCOLO DELL’UNIONE E LA BERGAMO BY NIGHT
Al piano superiore dell’avancorpo del teatro, nel 1898 furono realizzate alcune sale, che divennero un luogo di ricreazione e ritrovo.
Sotto gli affreschi dei pittori Achille Filippini Fantoni e Fermo Taragni, che sul soffitto centrale avevano raffigurato Apollo sul carro e le Muse, dietro alle tende tirate dei grandi finestroni affacciati sul Sentierone, si ritrovavano i più importanti nomi bergamaschi: qui, nel Salone Riccardi ebbe sede per quasi un secolo il Circolo dell’Unione.
Fino agli anni ’80 il Circolo, che possedeva anche quattro palchi, ha ospitato feste indimenticabili e personalità del mondo artistico, da Mascagni a Toscanini a Giordano.
È stata soprattutto una vita notturna quella del Circolo dell’Unione che si affacciava sul Sentierone: la lunga passeggiata formatasi nel tempo nell’area dove un tempo si teneva la Fiera. Era una Bergamo attiva e gioiosa, presa dalla frenesia della ricostruzione. Andare a spasso lungo il Sentierone, tra negozi e locali, era un rito irrinunciabile. C’era anche qualche fotografo impegnato ad immortalare graziose fanciulle, baldanzosi gagà, coppie innamorate che avrebbero poi acquistato gli scatti.
Ai tavolini dei bar si vedevano i grandi intellettuali o i professionisti più affermati. Nella prima parte del secolo a farla da padrone era stato il Caffè Nazionale, il cui proprietario, il genialePilade Frattini, aveva organizzato non solo la ristorazione, ma anche spettacoli di divertimento, compresi di attraenti ballerine.
C’era sempre musica, anche quella jazz che piaceva ai soldati americani rimasti a Bergamo dopo la fine della guerra. Storie leggendarie parlano di concerti infiniti e jam session lunghe tutta la notte. Con il passare del tempo, aumentarono i locali affacciati sul Sentierone e principe dei caffè divenne il Balzer.
Il locale e i suoi camerieri offrivano un servizio di classe degno della nobiltà bergamasca e dell’alta borghesia, ma anche di attori e dive protagonisti al Teatro Donizetti.
Ora il salone Riccardi ospita eventi, incontri, conferenze, mostre e concerti. Uno spazio prestigioso ed elegante particolarmente amato dal pubblico per lo splendore dei suoi stucchi, degli affreschi e delle decorazioni in stile liberty.
I LAVORI COMPIUTI NEL TEMPO
Alla fine degli anni Trenta del Novecento, il Teatro divenne proprietà del Comune di Bergamo e con il decennio successivo cominciò ad essere oggetto di diversi interventi di manutenzione e ammodernamento, puntualmente annotati da Ermanno Comuzio (2).
Nel 1946 si erano compiuti lavori di rinforzo alla parte interna del sottotetto e di sistemazione della fiancata verso il monumento a Donizetti, e nel 1948 – chiudendo i portici aperti su tale fiancata – si erano ricavati nuovi locali per la direzione e gli uffici del teatro. Nel 1951 si rinnova tutta la struttura interna: si rifanno le scale che portano ai palchi, si allargano i corridoi d’accesso alla platea, si eliminano i retropalchi dando così respiro ai corridoi, si rifà la pavimentazione del ridotto, si sostituiscono le portiere dei palchi; nel 1953 si sostituiscono con pilastri in muratura le putrelle in legno che sostenevano il palcoscenico, si rammoderna l’apparecchiatura elettrica costruendo una nuova cabina al posto di quella vecchia, si installano acqua corrente e nuove fonti di illuminazione nei camerini, si ricavano tre sale di prova per gli artisti, le masse corali e il corpo di ballo. I lavori più importanti – consistenti in un ampliamento e in un rinnovamento di carattere radicale – interessano il teatro dal 1958 al 1964, anno della riapertura (3).
Tra i nuovi ambienti realizzati vi è il Ridotto (oggi intitolato al direttore d’orchestra e intellettuale bergamasco Gianandrea Gavazzeni), che viene ampliato a seguito di un significativo progetto (architetti Luciano Galmozzi, Pino Pizzigoni e ingegner Eugenio Mandelli) che ha modificato i contorni del fabbricato, ed arricchito da un affresco che rappresenta un “Teatro del Mondo”, una scena fissa in cui si muove la storia degli uomini e delle arti. L’inaugurazione ufficiale avviene nell’autunno 1964 con una Lucia diretta da Gianandrea Gavazzeni. Con la riapertura del teatro ristrutturato inizia un nuovo, fecondo periodo della vita del “Donizetti”.
Nel 1983 il teatro si abbellisce di una coppia di statue di bronzo rappresentanti due ballerine, opera dello scultore Piero Brolis. Le statue, alte due metri e quaranta centimetri, sono collocate nell’atrio, ai lati della porta d’ingresso alla sala; più tardi verranno spostate al centro del foyer grande. Nel 1984 si apre al pubblico, nelle sale superiori del teatro, la Biblioteca dello Spettacolo intitolata a Bindo Missiroli, che al “Donizetti” ha donato la sua cospicua raccolta di spartiti musicali ed altri libri (4).
Fra il 2007 e il 2008 sono stati infine effettuati lavori di varia innovazione nelle sale del secondo piano e interventi di restauro e illuminazione notturna della facciata, che hanno donato al teatro un nuovo aspetto suggestivo. Nel 2014 il Teatro passa in gestione alla neonata Fondazione Teatro Donizetti.
A febbraio del 2018 partono i nuovi lavori di restauro del Teatro Donizetti, un ampio progetto di ristrutturazione e rinnovamento che intende fare del teatro cittadino una casa della cultura, un luogo vivo e aperto, uno spazio unico di incontro e di socializzazione, un luogo veramente pubblico, prestigioso e insieme familiare.
Il progetto prevede il restauro e la conservazione di tutte le parti monumentali dell’edificio. Particolare cura è dedicata alla sala teatrale e al foyer d’ingresso. Gli arredi e le tappezzerie sono completamente rinnovati. Vengono realizzate nuove scale antincendio ed un ascensore che raggiunge tutti gli ingressi palchi e galleria; il Teatro è dotato anche di aria condizionata.
Le parti laterali dell’edificio (lato monumento a Donizetti e lato Porta Nuova) sono completamente ristrutturate e ospitano i nuovi uffici, i camerini e cameroni per il coro. I prospetti laterali sono disegnati ricercando una coerenza formale tra i volumi. Tutto è adeguato alle norme vigenti in materia di sicurezza.
Nel novembre 2019, il Cantiere del Teatro si è fermato per ospitare la prima messa in scena mondiale dell’opera L’ange de Nisida, lavoro di Gaetano Donizetti che si credeva irrimediabilmente perduto e che invece è rinato grazie ad una minuziosa ricerca musicologica. Opera comunque non ultimata dallo stesso compositore bergamasco e da lui stresso smembrata, ha trovato nell’allestimento all’interno del Cantiere ideato dal direttore artistico del festival Donizetti Opera il luogo ideale e un’occasione irripetibile, con l’azione nella platea ancora sgombera dalle poltrone e il pubblico nei palchi e in un’apposita tribuna in palcoscenico. Elogiato dal pubblico, ha ottenuto il Premio Abbiati dall’Associazione nazionale critici musicali.
Oggi il Teatro Donizetti è completamente adatto ad ospitare spettacoli moderni e un grande pubblico.
GLI SPETTACOLI
Tra la fine dell’Ottocento e l’affacciarsi del Novecento, accanto agli spettacoli tradizionali, tra i quali si afferma la corrente musicale verista (la Bohème, Andrea Chénier, Cavalleria e Pagliacci, Manon, Tosca, Fedora ecc.), il Teatro Donizetti ospita anche un nuovo tipo di spettacolo, il cinematografo.
Si tratta di alcuni film primitivi girati dagli operatori dei fratelli Lumière, portati al teatro dall’impresario Terzi nel 1899: avvenimento del tutto raro in un’epoca in cui gli spettacoli cinematografici erano mostrati nei baracconi delle fiere o nei caffé-concerto.
Probabilmente anzi si tratta di un primato poiché non si ha notizia che il cinema sia stato ospite, prima d’allora, di teatri. Il cinema tornerà poi diverse volte al “Donizetti”, come quando nel 1906 si proiettano pellicole sotto la complicata etichetta di Electro-Chrono-Projecteur; o nel 1907, quando sul telone del teatro si mostrano scene girate a Bergamo, per le strade; o nel 1913 quando si presenta il kolossal storico Quo Vadis? accompagnato dalla musica di un’orchestra sinfonica (il cinema era muto, a quei tempi); o nel 1914, anno in cui arriva il film italiano più famoso del periodo, Cabiria. Nel 1919 venne proiettato Christus. I tre film ottennero un successo clamoroso, sicuramente anche per l’ottimo adattamento musicale del maestro Tironi, che con Cabiria seppe adeguare le musiche a quanto accadeva sullo schermo, precorrendo così le moderne soluzioni del sempre più stretto rapporto sonoro-immagine.
Va ricordato che anche Rodolfo Paris, poeta e primo duca del Ducato di Piazza Pontida, accompagnò al piano alcune proiezioni e pare che fosse bravissimo nell’alternare i vari pezzi da eseguire in sincronia con le immagini. Dovette però inalberare sopra il pianoforte un enorme ombrellone rosso, di quelli ancora in uso sotto i pergolati delle osterie fuori porta, per schivare i lanci di bucce di arance e gusci di arachidi, lanciati dai ragazzi delle logge.
Fatto sta che il 23 luglio 1910 L’Eco di Bergamo prese decisa posizione contro l’inaugurazione di un nuovo locale che la sera stessa sarebbe stato inaugurato in piazza Santo Spirito con il nome di “Cinematografo Orobico (5).
LO SPETTACOLO INIZIAVA FUORI DAL TEATRO
Mimma Forlani ha offerto un bellissimo ritratto del pubblico bergamasco durante le prime rappresentazioni al Donizetti, agli inizi del Novecento: “La passione dei bergamaschi per la musica e per ogni genere di spettacolo era dilagante e per la buona riuscita delle manifestazioni liriche bergamasche gli organizzatori – tutti rappresentanti delle libere professioni – nulla lasciavano di intentato, come si può dedurre leggendo i manifesti del tempo. Ogni sera era stampato un manifesto nuovo in cui erano presentati i nomi di musicisti, librettisti, direttori d’orchestra e di coro, interpreti, registi, scenografi, ditte che avevano realizzato le scene, i costumi, le scarpe, le parrucche, i nomi degli elettricisti, attrezzisti e sarte. Si precisava il prezzo del biglietto, il numero dei posti disponibili, si raccomandava ai gentili signori l’abito scuro per la première. All’apertura del teatro, sul Sentierone si assiepavano le sartine, le parrucchiere, le guantaie, le stiratrici che guardavano come le signore portavano la mise; e le signore, senza soprabito, sfoggiavano il loro abito da sera. Lo spettacolo iniziava fuori dal teatro. Poi, una volta preso posto, c’era il rito (allora sì che era un rito) delle visite agli amici nei vari palchi, salotti di rappresentanza. Il chiacchiericcio si arrestava all’inizio dello spettacolo, poi continuava fino al momento delle arie. Allora si faceva silenzio. Quindi lo scroscio di applausi o di fischi del “pubblico rozzo, conciliante e sincero”.
Fu in quegli anni che il Donizetti, oltre a ospitare Toscanini (invitato a Bergamo “con tutti gli onori” da Pilade Frattini), vide salire sul podio anche Pietro Mascagni (che era già stato a Bergamo nel 1895 per dirigere la sua “Cavalleria”) per dirigere, nel 1905, una sua opera, l’Amica, in prima nazionale assoluta. Dopo lo spettacolo, il compositore fu portato in trionfo sul Sentierone. Luigi Pelandi annotava che “Il maestro diresse senza spartito, senza leggìo, in una contorsione qualche volta spasmodica, i capelli imbizziti nell’aria come tanti serpentelli. La sua portentosa bacchetta sempre in movimento vorticoso dava un’impressione coloristica di estrosità di sentimenti che soggiogava”.
Mascagni, il più grande musicista vivente, ritornò a Bergamo, settantaduenne, nel 1940, per dirigere la Cavalleria rusticana, superando ogni primato di entusiasmo, con un teatro stipato all’inverosimile. Si commosse fino alle lacrime quando gli vennero consegnati numerosi doni. Ringraziò e offrì il suo cuore ai bergamaschi (6).
LA SVOLTA DEL NOVECENTO CON BINDO MISSIROLI
Nel Novecento, compreso il periodo della prima guerra mondiale, continua la riproposizione delle opere liriche – spesso eseguite con i migliori direttori d’orchestra e i migliori cantanti – e del teatro di prosa.
Uno degli avvenimenti lirici di maggior spicco del primo Novecento è la prima (1917) di Liacle, opera del talentuoso musicista bergamasco Edoardo Berlendis, purtroppo mancato prematuramente. Tra i direttori d’orchestra del periodo, Leopoldo Mugnone, Franco Ghione, Ettore Panizza, Antonio Guarnieri, Tullio Serafin, poi Franco Capuana, Giuseppe Del Campo ed altri; fra i cantanti, il tenore, praticamene debuttante, Beniamino Gigli, i soprani Toti Dal Monte, Mercedes Capsir Rosetta Pampanini, Claudia Muzio, il baritono Riccardo Stracciari, il basso Nazareno De Angelis.
Tra gli artisti bergamaschi, attivi in vari importanti ruoli, il direttore d’orchestra Beniamino Moltrasio, il maestro dei cori Giuseppe Conca, il bravissimo comprimario Giuseppe Nessi, nonché il tenore diventato famoso in tutto il mondo: Alessandro Dolci.
Per quanto riguarda la prosa si possono fare i nomi, fra gli altri, di Flavio Andò, Emma e Irma Gramatica, Edoardo Ferravilla, Angelo Musco, Gualtiero Tumiati, Maria Melato, Tina Di Lorenzo, Ruggero Ruggeri, Ermete Novelli.
Negli Anni Venti il clima politico italiano segna una involuzione con l’ascesa al potere di Mussolini e del fascismo, mentre a Bergamo il vecchio centro cittadino, dove sorgevano le secolari baracche della Fabbrica della Fiera, viene demolito e ad esso si sostituisce – ad opera dell’architetto Piacentini – il complesso di nuove costruzioni che costituiscono tuttora il centro della città (tutta la parte prospiciente la facciata del teatro: il Sentierone, i Portici, Piazza Vittorio Veneto, la Torre dei Caduti).
Nel 1931, su mandato del Comune di Bergamo assume la direzione del teatro Bindo Missiroli, già critico musicale nativo della provincia milanese e presto trasferitosi a Bergamo. Missiroli organizza le stagioni operistiche insieme all’impresario Ciro Ragazzini fino al 1936, anno in cui diviene l’unico responsabile. Il ‘36 è anche l’anno in cui si scioglie la società privata dei palchettisti, ossia dei vecchi proprietari: misura che prelude al passaggio di proprietà del teatro al Comune (che avverrà nel 1938), quando il teatro cesserà di essere gestito da interessi privati, mettendo così al primo posto gli interessi della comunità.
MISSIROLI – GAVAZZENI E IL TEATRO DELLE NOVITA’ MUSICALI
In questa nuova atmosfera il Donizetti assume una struttura tecnica continuativa e può pianificare al meglio la sua attività. Missiroli può lanciare così una notevole iniziativa, il Teatro delle Novità, rassegna sperimentale di opere inedite per far conoscere le nuove energie musicali italiane, che ha grande risonanza in Italia e all’estero, e serve ad affermare il palcoscenico del Donizetti come laboratorio delle arti dello spettacolo. Fanno da preludio a questa gloriosa avventura (che dura dal 1937 al 1973) la stagione operistica 1935, in cui accanto ad opere di repertorio viene rappresentata Paolo e Virginia, novità assoluta composta da Gianandrea Gavazzeni, che di lì a poco inizierà una fulgida carriera di direttore d’orchestra e collaborerà con l’amico Missiroli al rinnovamento del Donizetti.
Alcuni spettacoli riscuotono grande successo come Ferrovia sopraelevata (1955) la prima opera composta da Luciano Chailly su testo di Dino Buzzati; La panchina (1956) con testo di Italo Calvino e musiche di Sergio Liberovici.
Nonostante il drammatico periodo della seconda guerra mondiale, si tengono stagioni operistiche, seppur ridotte, con la presenza dell’orchestra e dei cantanti del Teatro alla Scala, sfollato per ragioni belliche (sarà semidistrutta dalle bombe).
La mitica Scala approdò in blocco al Donizetti e la stagione lirica del 1944 costituì un fuoriprogramma eccezionale ed irripetibile: “un programma ricchissimo, mai prima d’ora immaginato in sogno”. Otto le opere in cartellone, ventiquattro le rappresentazioni (Iris, Il Barbiere di Siviglia, Werther, Mefistofele, Andrea Chénier, Il matrimonio segreto, Don Pasquale, Falstaff), rappresentative del ciclo evolutivo del melodramma italiano. E come ciliegina sulla torta due balletti: La gara e Visioni (7).
Il dopoguerra segna un risveglio nella vita intellettuale, sociale ed economica della città, con un risorgente interesse per ogni forma di spettacolo.
Nel 1948 il Donizetti svolge una importante stagione commemorativa per il centenario della morte del compositore bergamasco che dà il nome al teatro (accanto alle due opere “minori” Betly e Il campanello fondamentale appare il Poliuto, il cui spartito originale non era mai stato eseguito in Italia). Se si considera che nel 1948 vedono la luce alcune pubblicazioni donizettiane, si può dire che in tale anno, in vasta misura per merito di Bindo Missiroli, mette le radici la Donizetti Renaissance, ossia quel fenomeno che porterà al recupero delle opere poco rappresentate o scomparse dalle scene del musicista bergamasco, nonché delle sue composizioni concertistiche, sacre e da camera. Inizia nel contempo, ad opera di Missiroli la formazione di un patrimonio donizettiano oggi raccolto nella biblioteca del teatro.
Ancora a Missiroli si deve la presenza dei più celebrati musicisti e interpreti di chiara fama, come il soprano Maria Callas nella prima della Lucia di Lammermoor del 1954 (l’artista era già stata al Donizetti nel 1951).
Rinasce il Teatro di Prosa assente dal Donizetti dagli anni ’30, va in scena Le notti dell’Ira di Armand Salacrou. È il primo spettacolo di una lunga serie che vedrà impegnato Il Piccolo Teatro di Milano diretto da Giorgio Strehler.
Nel 1952 due concerti consacrano ufficialmente il jazz come genere degno d’essere ascoltato al Teatro Donizetti tanto quanto la musica classica o lirica. Il primo è programmato il 6 febbraio con l’Orchestra di Dizzy Gillespie. Il pubblico più snob non capisce la nuova proposta e abbandona la sala, ma chi decide di restare si scatena in applausi e fischi all’americana del tutto inediti per quel luogo. Il secondo concerto è fissato il 17 novembre con il gruppo di Sidney Bechet sax soprano e Claude Luter con la sua Orchestra ed è di nuovo un successo. Ma per Bergamo Jazz Festival bisognerà attendere il ’69.
Nel 1956 al Donizetti viene aperta una scuola di danza, voluta da Bindo Missiroli e chiusa dopo trent’anni di attività.
Dopo una chiusura durata qualche anno, il rinnovato teatro viene riaperto ufficialmente al pubblico, il 10 ottobre 1964 con la rappresentazione dell’opera donizettiana Lucia di Lammermoor, diretta da Gianandrea Gavazzeni, protagonista Renata Scotto.
IL TEATRO DELLE NOVITA’ DI PROSA DI FERRERI
Con la riapertura del teatro ristrutturato nei primi anni Sessanta (progetto degli architetti Luciano Galmozzi e Pino Pizzigoni e dell’ing. Eugenio Mandelli) inizia un nuovo, fecondo periodo nella vita del Donizetti. Nel 1966 il Comuneprovvede ad assumere in proprio la gestione del teatro, affidandone la direzione artistica al M.o Adolfo Camozzo (che la terrà fino alla morte, prematuramente avvenuta nel 1977, quando verrà sostituito dal M.o Riccardo Allorto). Assessore addetto alla gestione del teatro è il prof. Mario Traini, mentre una apposita Commissione ha funzioni consultive.
Un elemento vitale dell’attività che ha come punto di riferimento cittadino il Donizetti è la prosa assente dagli anni Trenta, questo settore ricomincia a rifiorire nel dopoguerra con la presenza del “Piccolo Teatro” di Milano, guidato da Strehler e Grassi, seguito da primarie compagnie italiane e da prestigiosi ospiti stranieri. Da notare che nel 1953, accanto al Teatro delle Novità musicali, si affianca per un certo periodo il Teatro delle Novità di Prosa, diretto da Enzo Ferrieri.
GLI ANNI SESSANTA/NOVANTA : LO SLANCIO IMPRESSO ALLA PROSA E AL JAZZ
Negli anni ‘60/’90 il ventaglio degli spettacoli e delle manifestazioni è molto vasto: prosa, opere e concerti dominano le stagioni, ma con presenze “nuove” come il Festival Pianistico Internazionale, commedie musicali, le operette, le rassegne di “Bergamo Jazz”, quelle delle “Canzoni d’Autore” ed altro ancora.
L’Amministrazione Comunale promuove una politica teatrale moderna, fondamentale è la consulenza di Benvenuto Cuminetti, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Bergamo e consulente artistico per la programmazione teatrale delle stagioni di prosa e delle attività collaterali.
Nel 1969 nasce la Rassegna Internazionale del Jazz, organizzata dall’Azienda Autonoma del Turismo e di cui l’attuale Bergamo Jazz Festival è l’erede naturale. Sul palcoscenico del Teatro Donizetti si esibiscono già da quell’anno musicisti di fama internazionale quali Cannonball Adderley e Maynard Ferguson. Seguiranno, fino al 1975, Gerry Mulligan, Herbie Hancock, Art Ensemble of Chicago, con un concerto che fece molto discutere pubblico e critica, Charles Mingus, Max Roach, Art Blakey e molti altri. Inizialmente accolta con scetticismo, la Rassegna scoppia letteralmente fra le mani degli organizzatori e il meraviglioso teatro Donizetti non basta più a contenere il pubblico, sempre più folto. Nel 1970 il festival è inaugurato da Dizzy Gillespie, che riscuote un grande successo e nel ’71, tra gli altri, è presente Chick Corea.
Dal 1976 al 1978 la Rassegna si trasferirà al Palazzetto dello Sport (registrando un record di pubblico nel ’76 con ben seimila spettatori all’ultima serata nonostante la pessima acustica) per poi interrompersi per alcuni e riprendere temporaneamente il suo cammino nel 1982 e 1983. Nel 1991 il varo di Bergamo Jazz da parte del Comune di Bergamo riporterà, dall’anno dopo, il grande jazz al Teatro Donizetti: Michel Petrucciani, Ornette Coleman, Chick Corea, Gato Barbieri, Brad Mehldau, John Scofield, McCoy Tyner, Bill Frisell, Dee Dee Bridgewater, gli italiani Enrico Rava e Paolo Fresu sono solo alcuni dei nomi che hanno riportato il festival jazz di Bergamo alle ribalta delle cronache musicali italiane ed internazionali.
IL DONIZETTI COME TEATRO DI TRADIZIONE
Il 1966 è l’anno in cui il Comune provvede ad assumere in proprio la gestione del teatro. Nel 1968 il Donizetti viene incluso, con provvedimento governativo, nel novero dei “Teatri di tradizione”, in riconoscimento della sua identità culturale. Il teatro svolge un’attività di produzione che non è soltanto genericamente lirica o concertistica ma viene convogliata in una direzione specifica, quella di salvaguardare, riscoprire, riproporre la produzione donizettiana, inserita però nella cultura dell’epoca. Nel 1973, con l’opera Il Sogno di Roman Vlad, si conclude l’esperienza del Teatro delle Novità.
Per la ricognizione del Donizetti meno noto fiorisce nel 1982 il Festival “Donizetti e il suo tempo”, che si propone di studiare e riscoprire il compositore bergamasco in rapporto con il contesto musicale, culturale e sociale degli anni in cui è vissuto. Viene inoltre istituito il biennale Premio Donizetti, quale riconoscimento a interpreti che nel corso della loro carriera hanno contribuito autorevolmente a far apprezzare l’arte del compositore.
Nel 1983, in occasione del secondo festival donizettiano il maestro Gianandrea Gavazzeni, assente dal prestigioso teatro dal 1964, ritorna sul podio con l’orchestra sinfonica della Rai, entusiasmando gli appassionati musicofili bergamaschi con Miserere di Gaetano Donizetti (“un’autentica discesa nelle tenebre”) e dello Stabat Mater di Gioacchino Rossini (8).
Nell’ambito del Festival Donizettiano, nel 1992 viene inaugurato il nuovo Ridotto, mentre nel 2015 inizierà la Donizetti Revolution, sulla scia delle manifestazioni dedicate alla figura di Gaetano Donizetti, che continua a lasciare un forte segno nella sfera culturale ed artistica di Bergamo.
NOTE
(1) Ermanno Comuzio, Il Teatro Donizetti: Due secoli di storia, Lucchetti editore, Bergamo, 1990.
(2) Ermanno Comuzio, Il Teatro Donizetti: Due secoli di storia, Ibidem.
(3) Ermanno Comuzio, Il Teatro Donizetti: Due secoli di storia, Ibidem.
(4) Ermanno Comuzio, Il Teatro Donizetti: Due secoli di storia, Ibidem.
(5) Pilade Frattini, Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. A cura di Ornella Bramani. Vol. II, UTET, Anno 2013.
(6) Pilade Frattini, Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem.
(7) Pilade Frattini, Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem.
(8) Pilade Frattini, Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Ibidem.
Riferimenti
Ermanno Comuzio, ll Teatro Donizetti: Due secoli di storia, Lucchetti editore, Bergamo, 1990.
Nel cuore della Città Bassa, là dove oggi sorge il teatro dedicato a Gaetano Donizetti, c’era un altro teatro – il TeatroRiccardi -, che era sorto nel 1786 come primo teatro stabile a Bergamo, con un ritardo di oltre un secolo rispetto agli altri centri urbani della Terraferma veneziana.
Prima di quella data Bergamo aveva dovuto accontentarsi di teatri provvisorieretti occasionalmente, nonostante godesse da tempo di una discreta attività teatrale: le rappresentazioni operistiche venivano infatti allestite almeno dalla seconda metà del Seicento, mentre per tutto il Settecento vi era stata la progressiva ascesa del teatro musicale e si era affermata l’opera buffa (1).
L’unico edificio teatrale stabile di Bergamo eretto in epoca antecedente – il Secco Suardo -, risale alla seconda metà del Seicento, ma era stato ricavato in un palazzo privato di Città Alta ed ebbe vita breve; nella seconda metà del Settecento era invece attivo il teatro della Cittadella (documentato dal 1757), un teatro provvisorio costruito periodicamente nei saloni del Palazzo del Capitano e utilizzato in inverno; un altro teatro provvisorio è documentato sotto il Palazzo Vecchio della città. Dunque, se si eccettua la breve parentesi del Secco Suardo nella Citttà Alta – sede della nobiltà filo veneziana -, i primi spettacoli vennero allestiti in palazzi pubblici, opzione che permetteva alle autorità cittadine che vi risiedevano di esercitare un maggiore controllo.
Ma era nella Città Bassa e più precisamente nel grande quadrilatero della Fiera, che si era andata cristallizzando l’ “industria” dell’intrattenimento, una sorta di variegato sistema teatrale, basato sulla costruzione di diversi edifici provvisori, gravitanti intorno alla grande manifestazione commerciale che si teneva nel Prato di S. Alessandro.
In questo luogo, ogni anno, tra l’ultima settimana di Agosto e la prima di Settembre venivano montate delle baracche di legno, nelle quali i mercanti esponevano le loro merci e che vennero sostituite nel 1740 da una costruzione stabile in muratura, disegnata dall’architetto Gian Battista Caniana, di cui oggi resta – unica superstite – la fontana.
Com’era usanza in ogni città, nelle belle stagioni gli spettacoli e gli intrattenimenti gravitavano in gran parte intorno alle fiere, luogo di elevato afflusso di forestieri (16.000 persone alla fine del Settecento), richiamati anche dall’allettante invito dei cartelloni teatrali, come avveniva appunto anche presso la Fiera di Bergamo, dove il periodo dedicato agli spettacoli coincideva principalmente con la fiera d’agosto, caratterizzata da un fitto calendario di appuntamenti. Attorno ai banchetti fiorivano teatrini provvisori, chiamati appunto Provvisionali in quanto demoliti alla fine della stagione e riedificati, col materiale risposto in appositi magazzini, la stagione successiva.
Si trattava dunque di teatri effimeri, effimere sedi dove, al teatro regolare si affiancavano le più svariate forme d’intrattenimento, che ruotavano intorno alle due principali stagioni (Carnevale e fiera d’agosto): dalle mascherate alle esibizioni mimiche e buffonesche, dai burattini al circo, dagli ammaestratori di animali e dalle esposizioni di animali esotici alle esibizioni dei ciarlatani e dei saltimbanchi, dagli acrobati agli ambulanti con i loro apparecchi proto-cinematografici, dai tornei alle opere in musica le quali, fra tutti gli spettacoli, avevano largo campo: da quando l’opera in musica era stata inventata, costituiva certo l’esca più appetitosa: nel corso del Settecento dunque, il fecondo connubio di Opera e Fiera era ben noto e praticato anche a Bergamo: o meglio, nei suoi Borghi.
Con il passaggio alla Fiera in muratura, nel 1740, venne sancito il definitivo spostamento dellasede direzionale dell’economia dalla Città sul colle ai Borghi nella piana: la Fiera, con le aree circostanti, era ormai divenuta l’elemento centrale del divenire cittadino, il luogo dell’incontro del baricentro sociale e urbanistico tra l’antica città sul colle e la nuova città che si espandeva oltre le Muraine.
La mentalità bigotta e provinciale che voleva una Bergamo laboriosa, onesta e virtuosa, ma poco incline ai divertimenti del teatro profano, fu piegata dalla vitalità dei Borghi, fino ad essere definitivamente sconfitta dall’azione individuale di una persona che non apparteneva all’oligarchia cittadina, ma al ceto imprenditoriale emergente (2).
Si trattava di Bortolo Riccardi, scaltro impresario teatrale (3), che nel 1786, nel prato sant’Alessandro dove si teneva la fiera, prese l’iniziativa di sostituire al teatro provvisorio preesistente (il Teatro Bolognesi, un baraccone-teatro costruito in legno, su istanza di Francesco Bolognesi, e sorto in quest’area nel 1770) un teatro cittadino con caratteri un po’ meno effimeri di quelli che si innalzano e si demoliscono stagione dopo stagione, rinsaldando definitivamente il nesso Fiera-Teatro.
Il nuovo edificio doveva risultare talmente complementare alle installazioni commerciali, da essere situato perfettamente in asse rispetto a loro (era infatti posto fra le Muraine e il Sentierone, cui si rivolgeva), “in prospetto al rastello di mezzo di là della strada verso il portello delle Grazie”: insomma, una sorta di prolungamento, di loro appendice, come mostrano le piante d’inizio Ottocento.
Travagliate furono le vicende legate a questo progetto del 1786. Per edificare un teatro stabile, Riccardi dovette aggirare le norme del Comune e dell’Ospedale Maggiore (rispettivamente proprietario e usufruttuario del terreno presso la Fiera), che imponevano le caratteristiche della provvisorietà. Con decisione e spregiudicatezza, adducendo a pretesto l’umidità del terreno il Riccardi piantò le fondamenta in pietra e cominciò a erigere i piloni in mattoni.
Per finanziare la costruzione del teatro, Bortolo Riccardi fu costretto, con atto notarile del 30 giugno 1790, a vendere i palchi; gli acquirenti del tempo, così come nelle grandi città, erano i membri delle grandi famiglie nobili, talvolta dell’alta borghesia. I palchisti del Riccardi erano rappresentati dai tre nobili Giovanni Battista Vertova, Luigi Grismondi e Giovanni Giacomo Arrigoni: 930 lire per prepiano e primo ordine, 690 per il secondo e 360 per il terzo – fino al 7 novembre 1938, all’atto della cessione al Comune, all’insegna della dialettica tra pubblico e privato (la vertenza sui canoni arretrati, che Riccardi esigeva all’infuori della stagione di fiera, si trascinerà fino al 1884 cogli eredi dell’imprenditore).
La fabbrica venne sospesa perché l’iniziativa aveva suscitato un putiferio di polemiche, ma di sicuro Riccardi non ne attese il compimento per utilizzare il teatro (che per il momento veniva chiamato indifferentemente Teatro Nuovo al Prato di Fiera, o Teatro Nuovo, o Teatro di Fiera): fra polemiche e ristrettezze finanziarie, nel teatro sistemato in qualche modo con coperture di legno e di tela, ben prima dell’inaugurazione ufficiale s’incominciarono a tenere spettacoli e già nel 1784 si rappresentò l’opera in musica “Medonte” di Guseppe Sarti.
Il quinquennio intercorso tra la prima metà del 1786 (periodo in cui Bortolo Riccardi conseguì la licenza per la messa in sicurezza del vecchio teatro di legno) e il 1791 (anno della definitiva conversione in pietra dell’edificio) fu segnato da controversie di ogni tipo.
Prima ancora dell’apertura ufficiale, durante il Carnevale del 1791 al Riccardi venne organizzato il lancio di un pallone areostatico. Conclusi i lavori e completata la copertura, il 24 agosto del 1791 vi fu l’inaugurazione ufficiale, con l’intitolazione a Riccardi: come opera inaugurale fu scelta la “Didone abbandonata” di Pietro Metastasio. L’ellisse allungata della pianta garantiva una perfetta visibilità e un’ottima acustica; per la distribuzione ed armonia – affermava un testimone dell’epoca – può essere considerato fra i migliori d’Italia.
Negli anni successivi, il teatro restò regolarmente aperto nei periodi consentiti (Primavera ed Estate, oltre che per la Fiera), senza destare particolari preoccupazioni nelle autorità: all’opera seria, momento chiave della programmazione coincidente con la fiera, si affiancavano altri generi nei restanti periodi dell’anno: teatro in prosa, opera buffa e, in alcuni casi, spettacoli circensi.
Tuttavia venne sottoposto ad una vigilanza continua. Siamo infatti nel periodo seguente lo scoppio della rivoluzione francese, evento che indusse il potere veneziano a tenere un atteggiamento sempre più guardingo nei confronti di tutti i luoghi pubblici deputati al tempo libero e all’intrattenimento: dai teatri alle osterie, dalle accademie alle pubbliche piazze. Non sorprende quindi se nel 1796, anno che precede la rivoluzione bergamasca, il proprietario dell’unico teatro stabile cittadino, insieme a parte dei personaggi che ruotavano attorno all’attività del medesimo, figurassero tra i principali fautori della ribellione contro Venezia e propugnatori dei diritti di uguaglianza, libertà e fraternità diffusi dai francesi. Nel corso degli eventi che prepararono la rivolta Bortolo Riccardi assunse i tratti di una figura carismatica, così come il suo teatro sembrò diventare un punto di riferimento per un nuovo ceto cittadino.
A Bergamo, l’arrivo delle truppe francesi avvenne 25 dicembre 1796: occuparono e disarmarono il Castello di San Vigilio, punto militarmente strategico, in attesa del via libera da parte dei comandi generali per prendere ufficialmente possesso della città. All’assedio dei nemici Alessandro Ottolini non poté opporre alcun reale provvedimento bellico. I mesi che seguirono si contraddistinsero come un periodo di estenuante attesa da entrambe le parti. Le scelte del capitano furono perciò disperate. Dopo aver ottenuto il permesso da Venezia, la notte del 7 gennaio 1797 fece smantellare il Teatro della Cittadella, allo scopo di impedire l’ingresso nel proprio palazzo dei soldati francesi in veste di spettatori: spettacoli teatrali all’interno del fortilizio avrebbero permesso un facile accesso ai nemici in un luogo nevralgico per il mantenimento del potere militare sulla città.
Nel frattempo ordinò che la stagione invernale proseguisse nel Teatro Riccardi, situato all’esterno delle mura veneziane, nel prato di Sant’Alessandro. Cinque giorni dopo, nella notte del 12 gennaio 1797 (giorno prima del via della Stagione operistica nonché anno di nascita di Gaetano Donizetti), un furioso incendio distrusse irrimediabilmente anche questo edificio.
La demolizione di un teatro e l’incendio dell’altro apparirono immediatamente collegati. Dopo la caduta della dominazione veneziana il processo attivato dalla municipalità bergamasca individuò nel capitano Ottolini il vero responsabile ed ideatore della distruzione del Teatro Riccardi. La chiusura forzata dei due teatri avrebbe seguito una logica precisa da parte delle autorità veneziane, volta ad impedire la temuta rivoluzione.
L’abbattimento dei due teatri principali (Cittadella e Riccardi) non impedì che venisse immediatamente ristabilito il binomio Città Alta vs Borghi. Nell’agosto del 1797, sebbene in un edificio provvisorio, descritto come “nuovo Provisional teatro di Fiera”, si tenne l’opera buffa “L’Astuta in amore o li Raggiri scoperti”, con un cast quasi del tutto milanese (4). Nel frattempo Bortolo Riccardi progettava di ricostruire il suo teatro al più presto.
Per quanto riguarda la Città Alta, per sostituire il Teatro di Cittadella venne dato prontamente il permesso all’impresario Francesco Cerri di costruire un teatro nella Sala Maggiore del Palazzo della Ragione, con la riserva che restasse attivo per soli dieci anni 1797-1807(5). Il Teatro Cerri allestì opere serie e comiche; aveva 74 palchetti disposti su tre file sormontate da una loggia, il teatro, in legno.
Dopo la demolizione di questo teatrino la Città Alta non rimase senza un edificio consono agli spettacoli del Carnevale. Dopo lo smantellamento del Teatro Cerri, sarà ilTeatro Sociale ad imporsi definitivamente con questo ruolo (6).
Il rinnovato Teatro Riccardi, sempre per opera dell’architetto Gianfranco Lucchini venne ricostruito interamente in muratura e venne abbellito (parapetti dei palchi e soffitto) da pitture a chiaroscuro del Bonomini – pittore fra i più originali del periodo fra Sette e Ottocento -, che purtroppo si persero in occasione dei lavori di restauro del 1870. Riferisce Io storico Pasino Locatelli che il Lucchini, per probabili ragioni di economia, nel riedificare il teatro “non vi pose la solidità primitiva e fu [il teatro] anche lasciato non compito”, ed infatti rimase privo di facciata. Comunque “l’ampiezza, la forma interna, la bella e armonica curva furono però conservate, se non migliorate”. Così compiuto, il teatro venne riaperto al pubblico il 30 giugno 1800 con uno spettacolo di prosa.
Agli inizi dell’Ottocento, e precisamente dopo la vittoria di Marengo, Napoleone dominava la scena europea. Nasceva così la Seconda Repubblica Cisalpina: mentre le truppe francesi presidiavano Bergamo, al Teatro Riccardi si davano rappresentazioni di diverso tipo, in onore dei nuovi dominatori.
L’inizio del secolo vide l’affermazione al Riccardi di un illustre musicista bavarese, diventato bergamasco, Giovanni Simone Mayr; lo straordinario impulso da lui impresso alla vita musicale della città si esercitò pure negli spettacoli d’opera al Riccardi fin dal 1801 (“L’Equivoco” e, successivamente, “L’Elisa” e “Ginevra di Scozia”), anche se fu solo dal 1802 che il musicista si installò definitivamente in città, intervenendo direttamente per diversi anni nell’allestimento delle sue opere. Nello stesso anno fu nominato direttore della Cappella di Santa Maria Maggiore e nel 1805 fondò le Lezioni caritatevoli di musica, poi Istituto Musicale, nel cui ambito fu il maestro e padre spirituale di Donizetti. Nel secondo decennio del secolo venne il turno di Rossini: furono infatti le opere del musicista pesarese a dominare in tale periodo al Riccardi (7).
Ma a un certo punto, l’impresa economica del Riccardi dovette scontrarsi con le pretese di privilegio di nobili e ottimati, ai quali aveva dovuto vendere i palchi (1790) per raccogliere la somma necessaria a completare l’edificio.
E fu sull’obbligo o meno di pagare un canone per le stagioni fuori dalla fiera, che scoppiò, nel 1802, un contenzioso che portò “molte famiglie delle principali bramose di conservare il lustro alla parte della Città stata sempre in possesso dello Spettacolo Teatrale nella Stagione suddetta” ad unirsi e ad erigere – a loro spese – “un secondo Teatro in vivo emulo del Teatro Riccardi” (da una relazione del 1817) (8) .
L’iniziativa dell’imprenditore Riccardi – un uomo estraneo all’oligarchia cittadina – battendo sul tempo l’immobilismo della Città alta, aveva infatti sbilanciato sensibilmente gli equilibrî tra le due articolazioni urbane rivali, in favore di quella pedemontana. Il suo, infatti, era il primo teatro stabile cittadino, un edificio a destinazione teatrale eretto appositamente ed autonomo, mentre ogni altro precedente teatro bergamasco era stato ricavato in spazi preesistenti nati con altra vocazione; la fondazione stabile di quel teatro sanciva molto concretamente il protagonismo dei Borghi rispetto alla Città.
Il teatro Riccardi in effetti era molto frequentato ed apprezzato. Lo scrittore Stendhal, presente a Bergamo come sottotenente di cavalleria dell’esercito napoleonico, scriveva a casa che “la nostra città ha due teatri: uno molto bello nel borgo, che è la Bergamo situata in pianura, e l’altro in legno sulla piazza della città” (ossia di Città alta: si tratta del Cerri).
Sull’onda della competizione tra la Città e i Borghi, ilTeatro della Società (odierno Teatro Sociale) – inaugurato il 26 dicembre 1808 in Bergamo alta – nasceva dunque come iniziativa secessionista da parte della costola aristocratica del Riccardi, con il preciso intento di restituire alla Città quella supremazia che questi le aveva insidiato.
La competizione si palesava anche sul piano estetico, a partire dalla scelta del progettista (L. Pollack): nonostante si prospettasse su di una via piuttosto angusta (lo spazio era stato ricavato attraverso una serie di demolizioni), col suo prospetto elegante e decorato, il Sociale si presentava all’esterno con tratti di dignità ben diversi dal Riccardi che, visto da fuori, dava l’idea di un pachiderma goffo e sgraziato.
Nelle stagioni di punta, le sale del Sociale e del Riccardi entrarono immediatamente in concorrenza sul terreno dell’opera (tra il 1810 e il 1814), alimentando e rispecchiando al tempo stesso quella situazione di conflitto esistente fra gli abitanti di Città e quelli del Borgo. Tuttavia, sostanzialmente, a parte alcune deroghe, non venne messo in discussione l’avvicendamento gerarchico tra i due teatri: il Carnevale apparteneva al Sociale(9) (che per tradizione assicurava l’intrattenimento carnevalesco per nobili, patrizi e borghesi dentro i bastioni) e ovviamente la Fiera al Riccardi e per assicurarsene, il Sociale fece addirittura in modo che tale tregua venisse imposta d’ufficio (1819), evitando quantomeno la gara operistica nei periodi suddetti (in più limitando la propria offerta concorrenziale al teatro parlato, reputato di rango inferiore), ed evitando quindi un enorme dispendio economico che il Sociale non poteva sostenere.
Quest’ultimo chiese ed ottenne, dal 1825 al 1856, l’erogazione di un finanziamento comunale (dote), poi soppressa a causa delle difficoltà economiche dovute alle vicende belliche e politiche degli anni seguenti, cosa che diede avvio ad anni difficili per il Sociale, che in più di un’occasione dovette economizzare.
Nel frattempo erano cambiate le condizioni politiche: nel 1814 le truppe francesi avevano abbandonato Bergamo e al loro posto s’erano insediate quelle austriache. Il dominio dell’Austria durerà fino al 1859.
Nel 1830 l’amministrazione del Teatro Riccardi passò, da Bortolo Riccardi, suo fondatore, all’impresario Bartolomeo Merelli (che aveva studiato musica con Donizetti e che per i suoi metodi dittatoriali era soprannominato “il Napoleone degli impresari”), il quale organizzò stagioni teatrali di grande richiamo. Per merito suo Vincenzo Bellini fu ospite del “Riccardi” nel 1830 con “La straniera” e nel 1831 con “Norma”, curandone in proprio la messinscena (la recita bergamasca della “Norma” costituisce una trionfale rivincita di quest’opera, che l’anno prima, al suo debutto alla Scala, era stata accolta freddamente: merito anche dell’interpretazione del celebre soprano Giuditta Pasta).
Ed fu ancora benemerenza del Merelli se le opere di Gaetano Donizetti vennero rappresentate a Bergamo in gran numero, a partire dal 1837, collaborando ad affermare le fortune del compositore bergamasco, riconosciuto a ragione uno dei più grandi dell’Ottocento.
Nel 1840 per la prima volta Bergamo tributò una pubblica manifestazione (fu anche l’ultima, lui vivente) a Donizetti, presente in teatro per la rappresentazione della sua opera “L’esule di Roma”, interpretata da cantanti di grido come Domenico Donzelli, Eugenia Tadolini e Ignazio Marini. I bergamaschi avevano scelto questo melodramma eroico come omaggio incondizionato (si tramandano in quell’occasione inseguimenti della carrozza del Maestro).
A Bergamo il Maestro tornò definitivamente nel 1847 (al Riccardi si era appena rappresentata la sua “Maria di Rohan”), per morirvi l’anno successivo, proprio nei giorni più esaltanti del movimento bergamasco di liberazione dal dominio austriaco.
Il gusto musicale dell’epoca era molto esigente, nacquero in città diverse società filarmoniche (centri di cultura musicale), si creò la prima banda cittadina e, sebbene il bisogno di teatri stabili della città di Bergamo venisse ora soddisfatto pienamente, la diffusa attività di attori e compagnie teatrali dilettanti favorì la costruzione anche di altri piccoli teatri: ricordiamo il Teatrino di Rosate ed il Teatro di San Cassiano in Città Alta, nonché il Teatro della Fenice in Città Bassa.
Oltre ai citati, in quest’epoca si affermarono al Riccardi grandi cantanti, come Giuditta Crisi, Giuseppina Strepponi (poi moglie di Giuseppe Verdi), Domenico Reina, Erminia Frezzolini, Carlo Guasco, Napoleone Moriani, e i grandi bergamaschi Giovan Battista Rubini (rivale del già citato Domenico Donzelli), Giacomo e Giovanni David, padre e figlio, anch’essi tenori (il secondo fu soprannominato: il Paganini del canto), Angelina Ortolani Tiberini, soprano, e altri ancora. Nell’atrio del teatro – sistemato modernamente – si possono vedere tra gli altri busti quelli del Rubini e della Ortolani.
Vi fu poi il debutto di Giuseppe Verdi, presente al Riccardi con l’“Ernani” nel 1844. L’esito della rappresentazione, curata dallo stesso Verdi, fu positivo, in un teatro affollato da molti esponenti del mondo artistico del tempo.
Verdi tornò al Riccardi per curare la messinscena del “Rigoletto” (1854), per la sua “prima” in Lombardia, ma l’esecuzione fu mediocre, con disperazione del Maestro, che però si rifece in seguito con gli esiti trionfali delle tante sue opere rappresentate al Teatro Riccardi.
Ma al Riccardi erano presenti anche i balletti (in uno si esibì, nel 1840, la celeberrima danzatrice Fanny Cerrito), le pantomime, le commedie, e spettacoli vari.
Tra gli attori di prosa si avvicendarono sulle tavole del Riccardi i maggiori interpreti italiani del tempo, come Giuseppe Salvini, Francesco Augusto Bon, Luigi Romagnoli, tutti capostipiti di famiglie di grandi teatranti, e poi Romualdo Mascherpa, Giuseppe Moncalvo, Maddalena Pelzet, Adelaide Ristori, Gustavo Modena. Vi furono anche trattenimenti di vario genere come i vaudevilles(progenitori dell’operetta) e meraviglie scientifiche come l’Agioscopio e il Miriafanorama, sistemi di proiezioni luminose che precorrono in certo senso, nel 1846, il cinematografo.
Dal 1835 il teatro venne dotato di un nuovo sipario, dipinto da Carlo Rota, e il concorso di pubblico non mancò. Gli ingressi si pagavano in lire austriache. Per facilitare gli spettatori provenienti da Città alta, e per attirarli nel “Borgo”, si praticarono per loro riduzioni di prezzo.
Nel frattempo, l’insofferenza contro il dominio dell’Austria aumentava sempre di più; tra le province dell’Alta Italia, quella di Bergamo era la più decisa a pronunciarsi contro l’Impero. Nel 1847 si registrò al Riccardi una memorabile esecuzione dell’opera “I lombardi alla prima Crociata” di Verdi, con una interminabile commossa ovazione al famoso coro “O Signore dal tetto natio”, emblematica espressione di tutti i popoli che aspirano alla libertà.
La rivolta vera e propria scoppiò nel marzo del 1848: anche Bergamo ebbe le sue Cinque Giornate e mentre numerosi cittadini accorsero a dar man forte ai milanesi sollevatisi contro Radetzky, altri in città, contemporaneamente, promossero ed attuarono l’insurrezione contro il presidio austriaco, comandato dall’arciduca Sigismondo, costretto a cedere.
Per motivi di “politiche turbolenze” e poi per un’epidemia di colera il Riccardi restò chiuso durante le stagioni di Fiera del 1848 e del 1849, e per un certo periodo fu adibito a ospedale militare. Le illusioni di libertà intanto caddero ad una ad una; e dopo una campagna vittoriosa le forze patriottiche si sfaldarono e gli Austriaci ripresero il sopravvento.
Si succedettero anni senza storia, se si eccettua l’incendio che una notte del 1850 distrusse parte del palcoscenico, e i lavori di miglioria apportati nel 1856. Poi, finalmente, nel 1859Bergamo si liberò una volta per tutte dal governo straniero. L’Italia una e sovrana diventava una realtà. Il 12 agosto di quell’anno si tenne al Riccardi un concerto per la venuta a Bergamo di re Vittorio Emanuele II.
Con il cambio di regime – e l’annessione di Bergamo al regno di Sardegna (poi d’Italia) – divampò nuovamente la gara operistica tra il Riccardi e il Sociale; gara che di nuovo, però, si smorzò a causa di ragioni economiche: già nel 1861 e 1862 il Sociale tacque, nel 1863 organizzò al massimo una stagione di teatro parlato e nel 1864 addirittura solo qualche concerto di studenti del Conservatorio di Milano.
Circolava per la città un’ aria nuova, una sensazione di progresso e di benessere, oltre quella relativa alla libertà ritrovata. Già durante gli anni austriaci la costruzione dei propilei di Porta Nuova (1837), della strada Ferdinandea (1838) e della stazione e del relativo collegamento ferroviario con Milano (1857), costituivano altrettante tappe dell’emancipazione della Città Bassa.
Ora, sindaco Giovan Battista Camozzi, fratello di Gabriele amico di Giuseppe Garibaldi, e patriota lui stesso, la città venne illuminata a gas; entrarono in funzione le prime tramvie civiche e, con il 1872, col trasferimento del Municipio l’emancipazione della Città Bassa fu portata a compimento.
Anche al teatro Riccardi, nel 1868, arrivò l’illuminazione a gas, che sostituì quella ad olio grazie ad una grande lumiera di centoventidue fiamme per la sala, più un’altra più piccola per l’atrio. Nel 1869 vennero effettuati alcuni lavori di restauro interni, ad opera di Giuseppe Carnelli e di Angelo Rota. Tra i lavori di pulitura e riverniciamento – scrive Ermanno Comuzio – “spicca il nuovo assetto del boccascena. Sopra la ribalta fa bella mostra di sé un gruppo di cinque figure femminili in rilievo capitanate dalla Fama e servite da alcuni genietti i quali recano simboli dell’arte scenica. Le figure sono collegate fra loro da finti panneggi che arrivavano fino al lampadario centrale. Tutt’intorno si svolge un cornicione in ordine composto, diviso in sei parti, in ognuna delle quali sta un medaglione che rappresenta un ‘grande’ del teatro: Donizetti, Mayr, Bellini, Mercadante, Alfieri e Goldoni, mentre Rossini sta nel mezzo, vicino alla Fama. Sopra ogni medaglione, un putto in gesso mostra un simbolo delle opere degli autori raffigurati. II cornicione è ‘leggermente ma elegantemente decorato di cordoncini d’oro a fasce bianche, con graziosi ornamenti di meandri e rosoni in carta pesta’. I palchi offrono decorazioni alternate rappresentanti la tragedia e la musica, ed ‘i panni d’ornamento al palco scenico sono egregiamente dipinti in velluto rosso con ricca frangia di oro ed ermellino’. Inoltre il primo ordine dei palchi è dipinto a lucido imitante il marmo di Carrara”.
L’esterno era ancora quello delle origini, col suo angusto portichetto e i muri scrostati. Resterà cosi ancora per quasi trent’anni.
Nel 1877 si rifecero l’armatura e la copertura del tetto, si rinnovò la pavimentazione della platea e si sostituirono i sedili di platea (quelli esistenti, a parte la loro vecchiezza, erano talmente scomodi da “rompere le reni”).
In quello stesso anno (1887), l’apertura della funicolare, pur migliorando i rapporti tra le due città, non impedì il declino del Sociale; anche per il Riccardi in realtà il periodo non era molto brillante: a metà ‘800 il sistema fieristico bergamasco era entrato in crisi. Anche a causa della decadenza della Fiera e quindi delle minori entrate, nel 1855 il Consiglio Comunale aveva votato l’abolizione del contributo ai due teatri cittadini.
La cessazione della dote comunale acuì le difficoltà del Sociale, che diventarono l’emblema di quelle della Città Alta, mentre con la decadenza della Fiera entrò in crisi anche la gestione del Riccardi, che in mancanza delle sovvenzioni municipali fece decadere il livello degli spettacoli, registrando un calo della partecipazione di pubblico.
Un’epoca stava finendo ed un’altra doveva fare i conti col proprio futuro. S’incominciò a dibattere di un possibile cambiamento del centro di Bergamo e della possibilità di avere un unico teatro che fosse sintesi delle due città. La svolta decisiva arrivò con la fine del secolo.
Un primo segno di riscossa si ebbe quando la gestione del teatro venne affidata a un capomastro intraprendente, Luigi Dolci, attratto dal mondo dello spettacolo e impresario di un teatrino di legno che sorgeva provvisoriamente in Piazza dei Baroni, oltre che costruttore di due teatri nello stesso luogo dalla vita piuttosto breve, l’Ernesto Rossi e il Givoli.
Dal 1879 la gestione del Riccardi venne assunta da una donna, Giovannina Lucca, vedova di un importante editore musicale diretto rivale dei Ricordi, la quale presentò fra l’altro in teatro, in prima nazionale, l’opera SteIla del Nord del compositore tedesco Meyerbeer.
Nel 1895 il teatro passò ad una società di cittadini (che divennero proprietari secondo un sistema di quote dette carature) e vi fece per la prima volta la sua comparsa un’opera di Wagner, propugnatore di una nuova concezione del melodramma, che provocò anche a Bergamo violente polemiche. Insieme all’opera e alla prosa furono ospitati al Riccardi spettacoli e manifestazioni di vario tipo, compreso il “varietà” (con artisti di eccezionale valore, come il trasformista Fregoli), le “accademie musicali”, gli incontri sportivi (lotta, scherma, per citarne alcuni), nonché il circo (fece scalpore il Wild West Show di Buffalo Bill, già famoso cacciatore di bisonti).
Fra i meriti della citata Giovannina Lucca è l’aver Portato sulla scena del Riccardi, nel 1885, l’opera postuma e incompiuta di Donizetti “Il Duca d’Alba”, completata delle parti mancanti dal maestro bergamasco Matteo Salvi.
Fu nel nome di Donizetti che avvenne una svolta determinante nella vita del teatro: nel 1897, in occasione del centenario della nascita del compositore, il Teatro Riccardi assunse il nome di Teatro Gaetano Donizetti.
La solenne commemorazione culminò nell’inaugurazione del monumento dello scultore Francesco Jerace, posata nella piazza che fiancheggia il lato est dell’edificio.
Con l’occasione si provvide al completo rifacimento della facciata, la quale, edificata a cura dell’architetto Pietro Via, assunse l’aspetto – salvo particolari – che conosciamo oggi.
(3) Bortolo Riccardi apparteneva a una famiglia bergamasca vivace e intraprendente, arricchitasi con la produzione e il commercio della seta.
(4) Francesca Fantappiè, Ibidem.
(5) Francesca Fantappiè, Ibidem.
(6) Francesca Fantappiè, Ibidem.
(7) teatrodonizetti.it
(8) Il 3 marzo 1803 si costituì una società di 54 membri (una ventina almeno dei quali, proprietarî di palchi al Riccardi) che pochi giorni dopo elessero al proprio interno una deputazione teatrale, che si occupò della scelta del luogo, dell’acquisizione e predisposizione del terreno (con demolizione dei fabbricati preesistenti), della commissione di un progetto all’architetto prescelto (Pollack, che lo data 7 dicembre 1803). I lavori iniziarono a fine 1804, concludendosi nel 1808 (morto Pollack nel 1806, il cantiere passò ad Antonio Bottani). Il 16 aprile 1808 vi fu la stesura e l’approvazione del regolamento per l’estrazione dei palchi, effettuata il 30 luglio; il 26 dicembre 1808, vi fu l’inaugurazione del Teatro della Società.
(9) Va però precisato che l’inizio della stagione del Carnevale cadeva notoriamente il 26 dicembre, per cui ad esempio la dizione ‘carnevale 1810’ significava che i suoi spettacoli potevano principiare a partire dal 26 dicembre 1809.
Riferimenti
Paolo Fabbri, Le due città, in Luigi Pilon, “Il Teatro Sociale di Bergamo. Vita e opere”. 2009 Silvana Editoriale – Cinisello Balsamo (MI). Fondazione Donizetti – Bergamo.