La fontana del Lantro è situata in un vano ipogeo esistente sotto la chiesa di S. Lorenzo, all’inizio di via Boccola. È una grandiosa costruzione in pietra squadrata a vista, caratterizzata da ampie volte con archi a tutto sesto in pietra e a sesto acuto poggianti su una colonna di forma quadrata posta al centro della grande cisterna, rinforzati lungo le linee di crociera da costoloni in pietra. E’ la terza delle fontane di via Boccola
Fra le sorgenti di Città Alta utilizzate sin dai tempi più antichi vi fu sicuramente quella del Lantro, che insieme a quelle della Boccola, del Vagine e del Corno costituì almeno sin dall’epoca romana la base su cui impostare l’intera rete idrica della nostra città; una rete fatta di tubature in mattone (realizzato con laterizio reperibile ai piedi del colle, ad esempio la piana di Petosino), piombo (reperibile in Valle Brembana) e calcare (chiamato impropriamente “marmo”) di Zandobbio.
Quando l’apporto delle sorgenti che sgorgavano in loco si rivelò insufficiente per soddisfare il fabbisogno idrico della popolazione, si passò alla ricerca di alternative a nord del sistema collinare, dove vennero realizzati rispettivamente gli acquedotti dei Vasi e di Sudorno, che restarono in uso fino alla prima metà dell’Ottocento, quando, con l’aumento delle necessità si andarono a sfruttare sorgenti fuori dal Comune.
Non meno antica della Fontana del Vagine, nascosta in un vano ipogeo esistente sotto la chiesa di S. Lorenzo, la Fontana del Lantro, o Latèr, si trova nel versante settentrionale del complesso fortificato di Bergamo Alta, ove sono presenti anche altre acque: le sorgenti della Boccola, del Vagine (entrambe lungo la via Boccola), del Corno (sul lato del Colle di S. Eufemia rivolto a settentrione, ora inglobata in una casa privata in via Alla Fara), delle Noche (in Colle Aperto) e gli acquedotti di Castagneta, nonché di Prato Baglioni
L’ORIGINE DEL NOME
Il documento più antico riguardante la Fontana del Lantro, o Latèr, è una pergamena dell’anno 928, scritta dal vescovo Adalberto (1), che recita “Ex parte civitatis a Laticis Antro, quod vulgo dicitur Lantrum”, da cui si deduce che Il termine con cui la sorgente veniva indicata anticamente era quello di Laticis Antro ossia Antro del Liquido quindi Antro dell’Acqua, lasciando intendere che l’acqua sgorgasse da un piccolo anfratto del terreno scorrendo liberamente lungo il pendio. Tuttavia la forma usata per indicare l’acqua con il termine Laticisinduce anche ad avanzare l’ipotesi che tale dicitura potesse in qualche modo essere in relazione al colore bianco (spumeggiante) dell’acqua, dovuto alla pressione all’uscita della cavità: ancor oggi alcune grotte della montagna bergamasca sono chiamate Fiöm lat (Fiume-latte), come quella da cui ha origine il torrente Enna in Val Taleggio. Tale ipotesi sarebbe rafforzata dal fatto che al termine Lantro, già usato anticamente, si aggiunge la forma Latèrche richiama ancora una volta l’immagine del latte.
COME SI PRESENTA
L’ampio vano ipogeo è costituito da due vasche in pietra squadrata a vista: la grande vasca principale, capace di circa 400 metri cubi e con al centro una robusta colonna a sostegno delle volte, e una vasca minore, tangente la prima ma situata in posizione sopraelevata.
La grandiosa struttura, in pietra squadrata a vista è composta da una vasca principale alta 8 metri, lunga 10 metri e larga 8 metri, mentre la vasca minore, a forma di L, è profonda circa un metro e mezzo e larga due metri, occupando tutta la parete sinistra del complesso e parte di quella frontale. Una robusta colonna posta al centro della vasca principale, sostiene ampie volte con archi a tutto sesto e a sesto acuto, rinforzati lungo le linee di crociera da costoloni in pietra
LA FONTANA DELLE ORIGINI
Come doveva essere la fontana delle origini? Certamente l’aspetto del luogo era assai diverso: utilizzata in origine per lo scorrimento delle acque in un canaletto in blocchi di arenaria a cielo aperto, le sue acque scorrevano liberamente lungo la valletta disperdendosi verso Valverde.
Come attestato in un documento del XVII secolo, la sorgente che l’alimentava doveva sgorgare più in alto, nei pressi dell’antica porta-torre medievale di San Lorenzo, ancora rintracciabile a metà dell’omonima via: l’esistenza di una condotta che saliva verso l’alto fu accertata anni or sono dalle “Nottole”, ma ormai non è più esplorabile.
A metà di via San Lorenzo è ancora visibile l’attacco della porta medioevale (abbattuta nel 1829), all’altezza della quale sgorgava la sorgente che alimentava la Fontana del Lantro
La porta medievale di San Lorenzo in un disegno di Pietro Ronzoni
LA FONTANA NEL MEDIOEVO
Nel XIII secolo la Fontana entra a far parte della giurisdizione della vicinia di S. Lorenzo, già costituita nel 1263, nel periodo in cui vengono costruite le numerose fontane medioevali di Bergamo: lo statuto del 1248 descrive infatti la fontana come dotata di cisterna, cunicoli, abbeveratoi e lavelli, “assumendo quella caratteristica struttura che si è conservata fino ai giorni
nostri” (2) .
È scritto infatti nello Statuto: “.. ad abili ed esperti magistrati fu fatto fare in modo che non potesse formarsi putrefazione e che la stessa potesse versarsi nelle acque o nella cava, o piuttosto, nelle acque del cunicolo dei Lantro; e qui fu fatta apprestare e restaurare una lavanderia ed un abbeveratoio con lavelli di pietra tutto intorno, come erano soliti essere…” (2).
La piccola cavità naturale con la sorgente del Lantro, dietro la chiesa di San Lorenzo. Il cunicolo sfocia al centro del complesso alimentando la vasca minore sopraelevata, realizzata nel XVII secolo (Fotografia M. Glanzer – Archivio G.S.B. le Nottole)
Il condotto centrale della sorgente del Lantro è costituito da un cunicolo lungo circa m 40, alto cm 90 e largo cm 60‐70, la cui estremità esce all’esterno della costruzione terminando su alcuni gradini costruiti verso la fine del 1700. L’esplorazione del cunicolo ha consentito di individuare, nei pressi della fessura da cui sgorga la sorgente, una piccola vasca di decantazione dalla quale, attraverso tubi conici in cotto, l’acqua passava in una seconda e più ampia vasca di decantazione. Tra i due manufatti venne creato un sistema di canali deviatori utilizzati per la pulizia delle vasche ad opera dei fontanari. Dalla seconda vasca di decantazione l’acqua tracimava e scorreva nel canale ricoperto da grandi lastre di arenaria sino ad alimentare la vasca superiore (nell’immagine, Pianta e Sezione dei cunicoli di captazione dell’acqua delle sorgenti che alimentano le due cisterne)
In quei tempi l’acqua sgorgava abbondante e soddisfaceva il fabbisogno idrico dell’intera Vicinia di San Lorenzo. L’acqua della cisterna doveva essere attinta rigorosamente con secchi assicurati alla struttura per preservarne la purezza, sotto pena di gravissime sanzioni a “…chicchessia” non si attenesse a queste disposizioni.
LA RICOSTRUZIONE DELLA CHIESA DI SAN LORENZO E LA SCOPERTA DELLA SORGENTE DI S. FRANCESCO
Originariamente doveva esistere un’unica cisterna che raccoglieva le acque del Lantro; ma nel XVII secolo, l’individuazione della sorgente di San Francesco (così chiamata perché scaturiva dal sottosuolo in prossimità dell’omonimo convento) contribuì – insieme all’erezione della chiesa di San Lorenzo – a stravolgere completamente l’aspetto dell’antica fontana.
La chiesa di S. Lorenzo, innalzata entro il 1600 nell’allora piazza dell’Olmo (attuale via Boccola) per sostituire la primitiva chiesa di San Lorenzo (già esistente nell’VIII secolo), che si trovava più a valle, demolita nel 1561 per far posto all’imponente cinta bastionata veneziana
La captazione della nuova sorgente, dalle acque più abbondanti e più pure di quelle del Lantro, indusse i responsabili a tenere separate le due acque. A tal fine, sotto l’arcone sul lato sinistro della fontana, venne costruita la vasca minore sopraelevata in cui furono fatte confluire le acque della sorgente del Lantro, mentre, per soddisfare le necessità degli abitanti del quartiere nella vasca maggiore vennero convogliate quelle della sorgente di San Francesco, ritenute di migliore qualità.
La vasca maggiore
Le caratteristiche strutturali del canale (cunicolo) inoltre rendevano quasi impossibile che l’acqua della sorgente del Lantro entrasse nella vasca maggiore mentre consentivano a quelle di San Francesco di potersi miscelare con la prima. Documenti secenteschi attestano che la sorgente di San Francesco venne “congiunta” al complesso della Fontana (3).
La vasca maggiore della fontana era alimentata dalla sorgente di San Francesco che tuttora penetra attraverso un condotto posto a sinistra dei complesso, mentre le acque della più antica sorgente del Lantro alimentavano la vasca minore da un condotto che sbocca al centro della parete frontale
Il cunicolo di captazione dell’acqua della sorgente di S. Francesco. L’esplorazione del cunicolo ha consentito di notare, a riprova della bontà di queste acque, la mancanza totale di vasche di decantazione e di depositi di calcare
Con la costruzione della chiesa, la sagrestia venne a trovarsi proprio sopra la Fontana del Lantro, distruggendone probabilmente le antiche strutture di superficie.
Il Lantro dopo gli interventi del XVII secolo (Disegno di Luca dell’Olio)
All’interno del complesso venne dunque realizzata la crociera di rinforzo sul soffitto, che sovrasta la vasca maggiore, dove ancora si notano le otto aperture, ora tamponate con mattoni, da cui penzolavano le catene con i secchi in ferro che servivano per attingere l’acqua dall’alto, da impiegare per usi domestici.
La Fontana continuò a svolgere un’importante funzione pubblica per la comunità e, data la grande riserva e la posizione isolata, vi erano consentite alcune operazioni che non erano possibili dentro l’abitato. Come la pulizia dei panni, il lavarvi le pelli per la concia e il prelievo d’acqua per usi non domestici.
L’ANTICO LAVATOIO DI SAN LORENZO E IL LAVATOIO “MODERNO”
Le acque della sorgente del Lantro, dalla vasca minore defluivano verso l’esterno attraverso tubi conici in cotto per alimentare l’abbeveratoio dei cavalli (che troviamo citato in un documento del ‘600) e una grande vasca di pietra, ancora visibile negli anni Trenta, utilizzata come Lavatoio. Tali strutture erano poste tre metri più in basso rispetto alla vasca minore.
Fine Ottocento, Lavatoio di San Lorenzo, con l’antica vasca comune in pietra
La Fontana fornì acqua alla popolazione fino a che, nell’Ottocento, entrò in funzione il nuovo acquedotto municipale, che garantiva un servizio più capillare ed igienico.
Ma il Lantro continuò ad essere utilizzato come Lavatoio, che restò in funzione fino agli anni Trenta, quando, smantellata l’antica vasca comune in pietra, vi furono collocate vasche individuali, alle quali l’acqua giungeva all’acquedotto cittadino.
Il Lavatoio del Lantro (Raccolta Gaffuri)
Le vasche in graniglia che, negli anni Trenta hanno sostituito la vasca originale, restando in uso fino al 1950. Il lavatoio aveva il piano di calpestio di circa 3 metri inferiore a quello stradale. I lavatoi erano disposti in doppia fila nel centro e ad una fila addossati alle pareti lunghe. Nel muro a sud v’era un’apertura rettangolare e tre piccole mensole. Nel muro ad est v’era un ampio arco a tutto sesto parzialmente cieco, che adduceva all’antica cisterna della fonte. I lavatoi erano di graniglia, di colore rosso vinato ed erano sette per ogni fila. Le file erano quattro. Le murature perimetrali erano in conci di pietra squadrati, in parte intonacati, ed in parte con faccia a vista a spacco di cava (Fotografia di Gianni Gelmini)
Il “nuovo” lavatoio dall’alto in un’immagine d’epoca
Lavatoio vecchio e nuovo a confronto
IL RECUPERO DELLA FONTANA
Col mutare delle condizioni di vita dei tempi moderni, anche il Lavatoio cessò di essere usato e negli anni Settanta non si trovò di meglio che approfittare del fatto che la fontana-lavatoio si trovasse molto al di sotto del piano stradale per trasformarla in discarica.
Sommerso da materiali di riporto, cessò di essere presente anche nella memoria di molti.
Nel 1975 l’architetto Angelini propose di liberare l’area e restaurare le strutture antiche per realizzare un campo da gioco per bambini. Ma mentre il lavatoio ancora giace, sepolto da un cumulo di terra, lo spazio antistante l’accesso alla vasca sotterranea è stato liberato e reso agibile grazie all’intervento del Gruppo Speleologico “Le Nottole”, che a partire dal 1992 si è adoperato per recuperare il manufatto, riportandolo allo stato iniziale mediante opere di pulizia e restauro.
Lo spazio antistante l’accesso alla vasca sotterranea, dalla seconda metà del 1900, era stato utilizzato come discarica per materiali inerti, che sono stati rimossi. E’ stata quindi creata una comoda discesa verso la porta di ingresso alla cisterna. Successivamente è stato ripulito l’interno del complesso idrico (vasca superiore ed inferiore) dal fango e materiale vario accumulatosi nel corso degli anni
Dove un tempo esisteva un Lavatoio
A sinistra, la porticina d’accesso alla Fontana del Lantro
Grazie al lavoro volontario delle “Nottole”, stimolate anche dall’interesse e dalla sensibilità che l’Amministrazione Comunale ha dimostrato per il recupero del complesso, il Lantro, vero gioiello di architettura e di ingegneria idraulica, è stato così riconsegnato alla cittadinanza il giorno 6 giugno 1992.
NOTE
(1) Nel documento, il vescovo Adalberto concede le decime del ricavato di un ampio territorio che si estende dalla sorgente del Lantro fino a Sorisole ed Almenno al prevosto della Cattedrale di S. Alessandro obbligandolo, tra l’altro, a mantenere acceso un cero notte e giorno davanti al corpo di S. Alessandro a suffragio dell’anima sua e dei suoi parenti. Altre citazioni della sorgente del Lantro si trovano in documenti del 1032, del 1042 e del XIII secolo, quando entra a far parte della giurisdizione della vicinia di S. Lorenzo, già costituita nel 1263.
(2) Biblioteca Gavazzeni. Le “Schede del Mercantico”.
(3) Della fontana del Lantro abbiamo due interessanti descrizioni, la prima in un documento del XVII secolo (“Per le usurpazioni dell’acqua delle fontane” in: Acque processi, Civica Biblioteca A. Mai) e la seconda nella relazione del fontanaro Carlo Milani (“Memoria et visione del Acquedotto dentro le Mura…” 1728, Civica Biblioteca A. Mai).
In entrambe le descrizioni è fatto cenno a due sorgenti che alimentano la cisterna, i cui condotti sono tuttora esistenti nell’interno del complesso e in particolare, nella descrizione del documento del XVII secolo, è specificato che la sorgente che ha origine sotto il convento di S. Francesco “è stata congiunta” al complesso della Fontana.
Testo del documento del XVII secolo
“La fontana del Lantro con conserva capacissima, lavatori et guarrator da cavalli, è appresso et acontigua alla chiesa di Santo Lorenzo. Ha origine sotto le cave verso la torre e porta vecchia di Borgo S. Lorenzo con condotti et vasi sotterranei murati; con la suddetta è congiunta un’altra fontana nascente sotto il convento di San Francesco”.
Testo della relazione del Fontanaro Carlo Milani (1728).
“Il vaso del Lantro detto Latter, questo è un recipiente vastosissimo, a celtro, che forma quattro nave, e nel mezzo un pilastro solo ha la cisterna per tutto il terreno del sagrato di San Lorenzo, qui entra una sortiva che nasce sotto la casa Carminati, che ora gode il Sig. Gaetano Pezolo, questa è una sortiva abondantissima e vi si entra con facilità a netarla.
Altra sortiva nasce sotto il convento di San Francesco e qui vi si entra con un poco di difficoltà e l’acqua è migliore dell’altra”.
Riferimento principale
La Fontana del Lantro. In: Biblioteca Gavazzeni. Le “Schede del Mercantico”.
Situato in una corte tra la Curia Vescovile e l’angolo sud-occidentale di Santa Maria Maggiore, il sacello quadrilobato di Santa Croce precede la rifondazione di Santa Maria, avvenuta nel 1137
La piccola cappella romanica di Santa Croce, nel cortile della Curia e a ridosso di Santa Maria Maggiore, è posta in un’area densa di significati per la storia della città. Ma trovandosi in un punto “marginale”, almeno dal punto di vista spaziale, si è trovata nelle epoche successive ad avere uno sviluppo autonomo.
Il centro episcopale di Bergamo
Due sono i percorsi che consentono di raggiungerla, ed ognuno di essi offre diverse prospettive ed approcci emozionali. Il punto di vista più defilato è quello che scende da vicolo San Salvatore, da dove il sacello è visibile poco prima di immettersi in via Arena. Quello ufficiale avviene invece da piazza Rosate tenendo sulla destra il portale settentrionale di Santa Maria Maggiore, da dove una scalinata metallica conduce al suo cospetto.
L’accesso alla Cappella di Santa Croce da piazza Rosate
Sino a qualche decennio or sono però, vi si arrivava anche da piazza Vecchia passando attraverso la penombra dell’Aula della Curia, oggi preclusa al pubblico passaggio; da lì si usciva alla luce dello spiazzo di Santa Croce ma distratti dalla possente mole di S. Maria: era quello che Luigi Angelini definiva un punto di vista conquistato, sofferto, da “percorso iniziatico”, tuttavia, alquanto suggestivo.
Ma in quei tempi il piano inferiore di Santa Croce era ancora interrato, e così si presentava l’edificio dal 1938, dopo le demolizioni che avevano liberato l’area dalle strutture ottocentesche che lo deturpavano e comprimevano, nascondendolo agli occhi dei visitatori.
Il tempietto di Santa Croce visto dall’area interna della Curia vescovile dopo le demolizioni ed il restauro eseguiti nel 1938, nell’ambito dei lavori per il Piano di Risanamento per Bergamo Alta, coordinati da Luigi Angelini
Prima d’allora dunque, una serie di edifici addossati al tempietto ne impediva la completa fruizione, come attesta l’immagine sottostante.
Il tempietto di Santa Croce dallo stesso punto, come era nel 1934, con i locali addossati
Nel corso dei lavori, l’attuale ingresso da piazza Rosate era stato liberato dalla casa del sacrista, una superfetazione che addossata alla medioevale fontana di Antescholis non lasciava intravvedere Santa Croce.
Piazza Rosate e prospetto sud della basilica di Santa Maria Maggiore. A sinistra dell’immagine la casa del sacrista (Raccolta Gaffuri)
Area di Santa Maria Maggiore. La casa del sacrista sopra la fonte medioevale, come si presentava nel 1934, prima dei lavori eseguiti per il Piano di Risanamento
Area di Santa Maria Maggiore. La casa del sacrista sopra la fonte medioevale, come si presentava nel 1934
Ora, una scalinata a ventaglio consentiva finalmente l’accesso diretto al sacello nonché una sua trionfale messa in scena.
1938: la sistemazione dopo la demolizione della casetta con la gradinata di accesso al Tempietto di Santa Croce
Sgomberate le strutture contigue, Angelini liberò il tiburio ottagonale e dopo aver individuato una precedente linea di gronda abbassò la “cupoletta” di circa 90 cm, attribuendo la sopraelevazione ad un rifacimento del 1561, come indicherebbe una fonte documentaria peraltro non bene specificata.
Il tempietto di Santa Croce e i locali addossati come erano nel 1934, prima degli interventi di ripristino e restauro
I tetti furono completamente rifatti e nel corso della rimozione di quello superiore furono ritrovati tre frammenti di capitelli che Angelini interpretò come appartenenti a bifore originarie, ma che non volle ricostruire, mantenendo stranamente le finestre rettangolari definite “sgraziate”.
1938: il Tempietto liberato dalle costruzioni ottocentesche e restaurato, visto dalla platea sopra la fontana di Antescholis
Riportò alla luce il tessuto murario in conci calcarei bruni sommariamente sbozzati, ritmato dal coronamento di eleganti archetti pensili raccolti in gruppi di tre da lesene sottili: una decorazione che segue e sottolinea il profilo delle quattro absidi, creando un chiaroscuro modulare. Al contempo recuperò le aperture, tra cui le due monofore strombate.
Rese omogenee le varie fasi costruttive, Angelini riuscì perciò a dare unitarietà all’aspetto esterno, che nel corso del tempo aveva subito diverse trasformazioni.
1938: il tempietto dopo la demolizione dei locali contigui, la messa in luce di una delle due monofore ed il restauro. Degli intonaci rimane oggi solo qualche piccolo lacerto; i giunti della muratura esterna furono completamente “ripassati” in cemento e la muratura integrata con intenti mimetici
La porzione inferiore dell’edificio restava però ancora in ombra, interamente sepolta da oltre due metri di macerie, apportate tra il XV e il XVI secolo per adeguare le quote di calpestio del cortile a quelle imposte dalle modifiche della basilica e di una porzione degli ambienti medievali dell’adiacente palazzo episcopale (1).
L’area circostante Santa Croce prima degli scavi archeologici eseguiti fra il 1999 e il 2007. Nel riquadro le due differenti quote del piano di calpestio, quella più bassa, originaria, e quella dovuta agli interventi eseguiti tra il XV e il XVI secolo
La scalinata che da piazza Duomo immette all’Aula della Curia, innalzata nel 1444 sulle macerie di un portico ad essa addossato (Raccolta Gaffuri))
L’originaria Santa Croce infatti si sviluppava su due livelli di cui l’ambiente principale era costituito dal vano inferiore, posto allo stesso piano di calpestio della Basilica e dell’Aula della Curia, fra loro strettamente collegate; tanto che il tempietto comunicava con la Curia mediante una porta difesa da un muro, che ancora oggi vediamo.
Il sopralzo della copertura con la lanterna ottagonale è solo un’aggiunta della seconda metà del Cinquecento.
Nel tondo, la porzione originaria del tempietto di Santa Croce, con la parte superiore liberata negli anni Trenta dall’Angelini e la parte inferiore (priva di lesene e provvista di due finestre rettangolari), riportata alla luce nel corso degli scavi eseguiti fra il 1999 e il 2007. E’ visibile la porta che nel medioevo comunicava direttamente con l’Aula della Curia, difesa da un muro. Il piano superiore è provvisto di un portale sul lato ovest
I due vani sono da sempre privi di comunicazione interna, divisi da una volta a crociera.
La volta all’interno del vano inferiore di Santa Croce
Considerando perciò come contemporanei i primi due livelli dell’edificio, questi acquisterebbe in alzato misure e proporzioni più giustamente analoghe ad altri edifici a pianta centrale come San Tomè di Almenno San Bartolomeo e l’oratorio di San Benedetto di Civate, cui è assimilato anche per le decorazioni esterne della superficie muraria.
Il tempietto (“Capella Episcopi”), di cui la più antica citazione risale al del 1133 (2), era infatti un elemento integrante del grande complesso episcopale, sorto nella sua forma più monumentale nell’area storicamente più importante della città tra l’XI e la prima metà del XII secolo.
Il centro storico-monumentale di Bergamo: A) Basilica di Santa Maria Maggiore; B) Duomo-cattedrale di San Vincenzo; C) Palazzo della Ragione; D) Palazzo del Podestà e Torre del Comune; E) Piazza Vecchia; F) Palazzo Episcopale; G) Santa Croce. Nella prima metà del XII secolo il complesso Episcopale viene ristrutturato ed ampliato, soprattutto nella sua parte meridionale, con la costruzione della Basilica di Santa Maria Maggiore (che sostituisce la S. Maria Vetus dell’VIII secolo) e il riassetto della Cattedrale di San Vincenzo nonché la costruzione del Palazzo Episcopale e dell’annessa cappella di Santa Croce. Un complesso il cui sviluppo caratterizzerà a lungo Bergamo, sia dal punto di vista religioso che architettonico
In quel periodo, anche la cattedrale di S. Vincenzo era interessata da lavori, trasformandosi da “modesta” basilica paleocristiana a grande cattedrale romanica, mutando aspetto sia internamente che esternamente, sviluppandosi in verticale ed adottando per il rivestimento l’uso di grossi blocchi di arenaria grigia, quasi a voler indicare la ricerca di un’uniformità anche visiva dell’insieme in un collegamento tra le due chiese, San Vincenzo e la nuova Santa Maria.
Cattedrale di San Vincenzo, con in primo piano la base di colonna e il pavimento musivo di età paleocristiana e sullo sfondo la base del pilastro cruciforme d’epoca romanica
Un collegamento che doveva essere anche fisico, come pare suggerire il frammento di arco che parte dall’angolo nord-orientale della nuova Santa Maria e doveva terminare contro quello sud-occidentale di S. Vincenzo.
L’arco in pietra presente sull’angolo nord orientale della Basilica di Santa Maria Maggiore
NEL CUORE DELLA BERGAMO ROMANA
L’area in cui oggi sorge il complesso episcopale costituisce il punto nevralgico della città sin dall’età romana. Qui sorgeva il foro, con i suoi edifici pubblici e le domus, i cui resti sono venuti alla luce nel corso di numerosi scavi archeologici. Anche nell’area di Santa Croce doveva sorgere una domus, gravitante nell’area del foro.
Uno spaccato della Bergamo romana all’interno del Palazzo del Podestà in Piazza Vecchia, dove, nell’area del foro, si sono rinvenuti i resti di un grande edificio pubblico. Nella zona sottostante la Cattedrale di S. Alessandro sono invece tornati alla luce i resti di abitazioni che occupavano alcune insulae nonché la Cattedrale di San Vincenzo; nelle adiacenti vie Reginaldo Giuliani e Arena, quelli di una domus, mentre altri interessanti ritrovamenti riguardano proprio l’area di Santa Croce
PRIMA DI SANTA CROCE, SULLE TRACCE DEL PIU’ ANTICO NUCLEO EPISCOPALE
Nella tarda antichità, la domus esistente presso Santa Croce fu demolita, in vista della risistemazione urbanistica che attorno al V-VI secolo ha interessato tutta la zona con l’edificazione della basilica paleocristianadi S. Vincenzo, eretta in concomitanza con la realizzazione del più antico nucleo episcopale della città.
A quest’ultimo potrebbero appartenere i resti di un edificio a pianta trilobata (quasi sicuramente una chiesa, vista la sua posizione) emersi tra Santa Croce e il lato occidentale di Santa Maria Maggiore, seminascosta al di sotto dello sperone rinascimentale che sorregge lo spigolo Sud-Ovest di Santa Maria, realizzato in seguito al terremoto della metà del 1400.
E’ certo che questo edificio fosse collegato alla chiesa di Santa Maria Vetus, demolita per far posto alla Basilica (1137), nell’ambito della realizzazione del nuovo e più monumentale complesso episcopale di XII secolo; complesso in cui rientra a pieno titolo la costruzione di Santa Croce, che è stata eretta sulle macerie, oggi parzialmente visibili, dell’edificio trilobato.
L’area circostante Santa Croce dopo lo scavo eseguito nel 2004. A) edifici di età romana; B) edificio trilobato; C) acquedotto a cavallo del quale è stata costruita la cappella di Santa Croce; D) sperone rinascimentale a sostegno della Basilica di Santa Maria Maggiore (foto Studio Arch. Calzana)
Non è un caso infatti che Santa Croce, con la sua pianta polilobata richiami l’edificio più antico, dal quale non si discosta molto sia per le dimensioni (10 x 10 metri) che naturalmente per il tessuto murario, essendo probabilmente realizzata reimpiegando i conci piccoli e rozzi in pietra calcarea provenienti dalla demolizione dell’edificio trilobato: questo spiegherebbe anche la difformità, rispetto alla Basilica e a San Vincenzo, del materiale lapideo impiegato.
La struttura a pianta trilobata di età tardoantica, accanto a Santa Croce, è dotata di absidi semicircolari sui lati est, ovest e sud e di un probabile accesso dal lato nord. Le murature, delle quali si conserva ancora parte dell’alzato, sono realizzate con pietre spaccate messe in opera con corsi orizzontali. Il notevole spessore dei muri (80 cm) a fronte di dimensioni esterne relativamente modeste (8 x 6.5 metri) potrebbe indicare un suo sviluppo in verticale
Particolare dell’edificio triabsidato di età tardoantica, oggi visibile accanto al tempietto di Santa Croce
La chiesa di Santa Croce, sorta nella seconda metà dell’XI secolo al centro dell’area libera, fu costruita letteralmente a cavallo di un antico acquedotto che sino a pochi decenni fa alimentava la fontana di Antescholis, presso Santa Maria.
Prima di sfociare nella fontana di Antescholis, l’acquedotto tange l’abside meridionale di Santa Croce, sottopassando un arco in muratura
La sua esistenza è posteriore a quella dell’edificio trilobato, ed anteriore alla nuova Santa Maria (del 1137). Il manufatto potrebbe quindi ricollegarsi all’antica canalizzazione in bronzo rinvenuta sotto la sagrestia della Basilica, rafforzando l’ipotesi dell’esistenza di un antico impianto idrico coevo alla chiesuola di S. Maria Vetus (VIII secolo), dove poteva alimentare il fonte battesimale. Mentre non è confermata l’ipotesi che la cappella di Santa Croce fosse chiesa battesimale, nonostante la sua particolare pianta quadrilobata trovi i suoi confronti più pertinenti con altri edifici battesimali (in primis con quelli di Mariano Comense e Biella, datati tra X e XI secolo) e, soprattutto, in assenza di tracce della vasca battesimale.
Di questo acquedotto è stata riportata alla luce una parete in pietre squadrate lunga 20 metri ed alta di 3; il consistente deposito calcareo rinvenuto sul canale testimonia che il manufatto restò in uso molto a lungo.
La ben conservata muratura dell’acquedotto, ad andamento est ovest; il canale vero e proprio è largo 25 cm
Il muro dell’acquedotto attraversa il piano inferiore della Cappella di Santa Croce per dirigersi nella fontana di Antescholis, riducendo lo spazio interno della cappella a un triconco asimmetrico con probabile funzione di servizio
Per consentire il collegamento tra la zona nord e quella a sud dell’acquedotto, nella cappella venne realizzata una porta, poi murata ed ancora visibile al suo interno.
La porta tamponata all’interno di Santa Croce
Nel secolo XV, prima che Santa Croce fosse interrata fino alla soglia del piano superiore, per motivi non chiariti l’acquedotto fu dotato di una canalizzazione secondaria che aggirava il tempietto sul lato meridionale, seguendone l’andamento.
La canalizzazione di età rinascimentale che aggirava la Cappella di Santa Crooce
Fu all’incirca in questo periodo (1561) che su iniziativa del vescovo Federico Cornaro vennero realizzati il sopralzo della copertura ed altri interventi che trasformarono l’opera originaria; opera che dagli studiosi datano alla seconda metà dell’XI secolo, individuando per la sua realizzazione una sola fase romanica, se si escludono ovviamente tutte le modifiche subite nel tempo (come ad esempio l’apertura di alcune porte).
Nell’arcata che sovrasta la porta tamponata, un lacerto sopravvissuto ai restauri degli anni Trenta, Si ha notizia che nel 1360 fu promossa la decorazione di Santa Croce dal vescovo Lanfranco
Ritroviamo in Santa Croce l’irregolarità della tessitura tipica del primo Romanico, che conferisce al piccolo edificio un valore e una bellezza particolare, così diversa da quella che si riscontra negli edifici sicuramente databili ai primi decenni del secolo XII: e ciò a partire dal gruppo abisdale della Basilica di Santa Maria Maggiore e dal monastero suburbano di Valmarina, dove si nota la perfetta regolarità e omogeneità dei singoli conci (generalmente di dimensioni maggiori) e della tessitura che ne risulta.
Scorcio sull’interno dell’ambiente superiore di Santa Croce
Nonostante ciò, la chiesa di Santa Croce è nata da una composizione piuttosto complessa di volumi, che ha imposto precise difficoltà di cantiere (come l’inserimento della volta asimmetrica del piano terra): un cantiere incerto nelle sue prime fasi e che sembra aver trovato le proprie soluzioni man mano si è proceduto alla realizzazione dell’opera.
LA DECORAZIONE INTERNA
Nella prima metà del XVII secolo venne realizzata la nuova decorazione sull’intradosso dei semicatini delle absidi, completata nel secolo successivo con quella nelle trombe, nella lanterna e nella Cupola.
Nei catini absidali, attribuiti quasi unanimemente a Cristoforo Baschenis il Giovane (Averara, 1561 – 1626): La Deposizione, Il ritrovamento della croce da parte di S. Elena, Il miracolo attestante l’autenticità della croce, L’imperatore Costantino recante la croce in Roma; dipinti che vengono accompagnati nelle trombe dalle immagini di quattro angioletti muniti di oggetti liturgici.
Al di sopra dei quattro pilastri angolari sono collocati quattro bassorilievi raffiguranti i simboli degli Evangelisti.
Nella lanterna, quattro vegliardi con la mitra vescovile, probabilmente i Padri della Chiesa (S. Agostino, S. Ambrogio, S. Gregorio Magno, S. Girolamo, l’unico rappresentato senza mitria avendo rifiutato l’onore vescovile) e, nella cupola, l’affresco raffigurante il Padre Eterno: tutte opere attribuite a Francesco Coghetti.
Il tempietto è quasi sempre chiuso e non visitabile.
Note
(1) Non si può comunque escludere che questo apporto di terreno sia in qualche modo da collegarsi con il terremoto della seconda metà del Quattrocento che, proprio in questo punto, richiese la realizzazione del grande sperone di rinforzo (Angelo Ghiroldi, La Cappella di Santa Croce in Bergamo, in “Storia Economica e Sociale di Bergamo – I Primi Millenni – Dalla Preistoria al Medioevo”, vol II. Ed. Castelli Bolis Poligrafiche, Cenate Sotto (Bg), 2007.
(2)“Sponsio privatarum personarum facta coram Ambrosio Bergomati Episcopo”…….in Ecclesia Sancte Crucis …”, ACVB Archivio Capitolare, pergamena 2390, Lupo liber V 975 978. Una successiva citazione si riscontra in un documento rogato dal vescovo Guala nel 1173, dove il tempietto è citato come “Capella Episcopi”, formula generica nella quale si riconosce un implicito riferimento alla chiesa di Santa Croce.
Riferimenti
A. Cardaci, D. Gallina, A. Versaci, “La Chiesa di Santa Croce in Bergamo”, 2013.
Giuseppina Zizzo, “S. Croce – Bergamo”, Itinerari dell’Anno Mille: Chiese romaniche nel Bergamasco”, Sesaab, Bergamo, 1999, pagg. da 63 a 66.
Angelo Ghiroldi, La Cappella di Santa Croce in Bergamo, in “Storia Economica e Sociale di Bergamo – I Primi Millenni – Dalla Preistoria al Medioevo”, vol II. Ed. Castelli Bolis Poligrafiche, Cenate Sotto (Bg), 2007.
Bibliografia essenziale
– Giuseppina Zizzo, “S. Croce – Bergamo”, Itinerari dell’Anno Mille: Chiese romaniche nel Bergamasco”, Sesaab, Bergamo, 1999, pagg. da 63 a 66.
– Hans Erich Kubach. Architettura romanica. Milano, Electa, 1978.
– Jacques Le Goff. L’uomo medievale. Bari, Laterza, 1999.
– Gian Maria Labaa. San Tomè in Almenno. Studi, ricerche, interventi per il restauro di una chiesa romanica. Bergamo, Lubrina, 2005.
– Lorenzo Moris, Alessandro Pellegrini. Sulle tracce del romanico in provincia di Bergamo. Bergamo, Prov. Bergamo, 2003.
– Raffaella Poggiani Keller, Filli Rossi, Jim Bishop. Carta archeologica della Lombardia: carta archeologica del territorio di Bergamo. Modena, Panini, 1992.
– Carlo Tosco. Architetti e committenti nel romanico lombardo. Roma, Viella, 1997.
All’incontro di quattro strade, due in salita – Pignolo e Pelabrocco – e due in discesa – San Tomaso e Masone-, il cuore di borgo Pignolo accoglie il visitatore con la varietà e la bellezza della sua forma irregolare, in un luogo ricco di straordinarie stratificazioni architettoniche.
Via Pignolo e Fontana del Delfino in una fotografia degli anni Trenta (Bergamo – Curia Vescovile – Raccolta Fornoni)
Accanto alle case borghesi ottocentesche ed ai negozi, la nobile fronte cinquecentesca di Palazzo Lupi fa da contrappunto alla pittoresca, inconsueta casetta con il piano superiore aggettante, posta all’angolo delle vie Pignolo e S. Tomaso. Come si evince dalle vecchie immagini, in passato la casa non era a graticcio, ma presentava le pareti lisce e nude.
Il microcosmo marino della Fontana del Delfino sembra quasi richiamare il curioso edificio nordico con il piano superiore a sbalzo (quattro/cinquecentesco?), dalla forma evocante la poppa di una nave
Luigi Angelini ricorda che la forma particolare e le suggestioni sprigionate da questo luogo ispirarono numerosi artisti, compreso quel “geniale pittore russo Leon Bakst” che realizzò una scenografia per uno dei balletti di Diaghilew che dominarono in quel tempo i teatri d’Europa.
L’edificio – scriveva Luigi Angelini – richiama le piccole case nordiche quali la Glöcklein di Norimberga prossima alla casa natale di Dürer o le casette antiche di Rouen o di Malines, o alcune modeste costruzioni della vecchia Bologna o del quartiere veneziano di S. Lio
Ma ritroviamo la stessa ambientazione nella baracca burattinesca di Bigio Milesi, il celebre burattinaio/pasticcere di San Pellegrino Terme, nato a Bergamo nel 1905, famoso anche per i suoi biscotti.
La scena, che rappresenta la piazzetta del Delfino, veniva usata anche per farvi comparire il padre di Gioppino e di Pantalone prima della partenza di Gioppino (dalla commedia “Per Milano in cerca di moglie”). Raccolta Bigio Milesi, S. Pellegrino Terme
Nel centro della piazzetta è la fontana, che il popolo definisce da sempre “fontana del delfino”; è scolpita nel marmo di Zandobbio, con una stele centrale che regge un delfino a lunga coda, “cavalcato” da un tritone a due code di pesce e dal sorriso ambiguo.
La fontana era alimentata, in un primo tempo, dall’acquedotto di Prato Baglioni e, dopo la sua scoperta, anche da quello della Pioda. Come la fontana di Sant’Agostino, anche quella del Delfino restava spesso in “secca” per lunghi periodi, e numerose furono le suppliche degli abitanti di Pignolo perché fosse definitivamente sistemata (l’ultima e forse più significativa richiesta è quella del 18 maggio 1735): nel 1895 la fontana venne collegata alla nuova rete idrica, fatta costruire dalla municipalità in sostituzione della vecchia ormai obsoleta; e da ciò dipese probabilmente anche la sua salvezza.
La fontana del Delfino è stata costruita contemporaneamente all’intenso urbanizzarsi della via Pignolo, sull’incrocio che collegava le vecchie plaghe Pelabrocco e del Cornasello, che conducevano attraverso via Osmano, all’altura di sant’Agostino
Ma ancor prima della sua realizzazione, funzionava in loco una sorgente-fontana pubblica, fatta costruire dal podestà Gualtiero Rufino d’Asti nel 1208 e chiamata Fonx Lux Morum.
È citata negli statuti del 1248, dove veniva ordinato che le singole vicinie provvedessero alla cura e alla regolamentazione delle acque nel loro territorio. Oggi rimane solo la lapide e un debole ricordo perché, cessata la sua utilità, fu abbandonata ed inglobata negli edifici che le sorsero accanto.
Il venir meno di questa sorgente spinse alla costruzione in loco della fontana del Delfino. Si trova esattamente sulla prima casa di via Masone scendendo dalla piazzetta di Pignolo.
Fonx Lux Morum, antica sorgente-fontana in via Pignolo. Fu abbellita nel 1500 con un arco fiancheggiato da due colonne e pare che la sua cisterna avesse una capacità di 500 brente di acqua (circa 28.000 litri). Padre Donato Calvi menziona questa fonte nelle sue “Effemeridi” e dice che nel 1600 era già in secca
Il gruppo scultoreo della Fontana del Delfino è contornato da un bacino d’acqua chiuso da un parapetto a pianta ovale appoggiato su un gradino, recinto perifericamente da paracarri, pure marmorei.
Giovanni Da Lezze, nel 1596, la descrive così:“…una fontana nel mezzo fatta a vaso di prede roane che spande et rende mirabile vista…”.
Sui fianchi del basamento, due maschere di divinità marine emettono due alti getti d’acqua nel bacino.
Ma un dettaglio importante ci riporta ad un antico significato: sul frontone è scolpita in rilievo una grossa pigna, simbolo dell’antica contrada di Pignolo: infatti, ancor prima dell’erezione delle mura veneziane, il versante che conduceva al dosso di S. Agostino abbracciando le vie Pelabrocco e Cornasello, doveva essere boschivo ed ammantato di conifere, che, a ben guardare, conferivano a questa zona un aspetto più montano che “marino”.
Ricordando l’antico paesaggio di questa zona, il dettaglio della pigna ricorda perciò l’origine del nome di questo borgo.
L’opera è di considerevole eleganza di proporzioni e di nobile fattura plastica: la movenza del tritone sul delfino, nella difficile commistione di tre code, è resa dai vari punti di veduta con la sicura abilità di ottimo artista cinquecentesco, il cui nome però è a noi totalmente ignoto, come indicato da una lapide posta sul basamento.
Si conosce la data dell’opera: 1526, sorta perciò in quel quarto di secolo di fioritura d’arte architettonica e decorativa in cui nel borgo si innalzano i bei palazzi Martinengo ora Bonomi, Grataroli ora De Beni, Casotti-Mazzoleni ora Bassi-Rathgeb, Tasso ora Lanfranchi, Morandi Lupi poi Comando militare (1).
E forse la fontana fu il dono di una di quelle insigni famiglie patrizie.
Nota
(1) Alcuni fanno risalire la sua costruzione attorno all’anno 1530. Calvi, nelle sue “Effemeridi”, afferma che la fontana fu inaugurata il 9 agosto 1572.
Riferimento principale
Luigi Angelini, “La fontana del delfino”, Antiche fontane e portali di Bergamo, Stamperia Conti, Bergamo, 1964, pagg. da 20 a 22.
Insieme al torrente Morla la città di Bergamo è interamente attraversata da una fitta geografia sotterranea di antichi canali, oggi in gran parte interrati, la cui presenza ha intrecciato per secoli un rapporto strettissimo con la vita, le attività e le abitudini dei Bergamaschi, svolgendo un’importante funzione nell’assetto topografico e nell’evoluzione economica della città prima del loro degrado e della conseguente, parziale copertura.
Con un pizzico d’immaginazione, di quel passato non poi così lontano possiamo sentire ancora l’eco: nei luoghi più appartati dei vecchi rioni è ancora possibile imbattersi nei vecchi canali oppure sentire, attraverso grate e chiusini, l’umidore del fiume imprigionato sotto la città e quasi dimenticato.
I MODULI DI PLORZANO E LA ROGGIA SERIO NEL QUARTIERE DI BORGO S. CATERINA
Tornando ai miei ricordi di bambina, si affacciano alla memoria alcuni scorci del mio quartiere di nascita, dove amavo seguire con lo sguardo lo scorrere pigro e poderoso della roggia Serio Grande – giustamente considerato il “fiume per Bergamo”, che scorre in via Barzizza a lato di Borgo S. Caterina ed è lo stesso che si scorge anche in via S. Lazzaro.
Via Borgo Santa Caterina
Ad un tratto l’acqua verdastra scompariva inghiottita nel nulla, lasciandomi assorta a fantasticare, fra apprensione e curiosità, su quel misterioso mondo sotterraneo, che immaginavo di esplorare, rabbrividendo.
I moduli di Plorzano, partitori della roggia Serio Grande, in via Barzizza nel 1910. Derivato dal fiume principale poco a valle del ponte di Albino, il canale – Fossatum communis Pergami – era stato scavato in età comunale a scopi irrigui e artigianali e poi sfuttato ad usi industriali. Lungo il canale e le sue derivazioni (“seriole”) sorsero officine, magli, mulini, laboratori tessili. L’edificio di fronte fu la sede di un filatoio che, situato all’inizio del borgo, sull’angolo con via Barzizza, sfruttava la forza della roggia Serio (Raccolta D. Lucchetti)
Un tempo, qui era tutto un altro mondo: sull’altro lato della stradicciola sorgeva un’officina poi abbattuta per consentire il transito del tram. Nei pressi venne realizzato il primo impianto per la produzione dell’energia elettrica – pure mosso dall’acqua della roggia -, con cui furono alimentate la funicolare e la rete tranviaria. Vi sorgevano anche un filatoio e la trattoria “Il Giardinetto”, con i tavoli all’aperto sotto i grandi tigli e le stalle da un lato.
Le massaie lavavano i panni presso il rudimentale lavatoio formato da un unico blocco di pietra, levigata dal continuo lavorìo.
Un’altra versione della fotografia precedente. Dalla roggia Serio Grande deriva la roggia Nuova – che si diparte a destra dell’immagine -, ricevendo da quella principale una quantità d’acqua sufficiente grazie allo sbarramento dei moduli di Plorzano. La roggia Nuova scorre alle spalle del borgo – entra nel Parco Suardi – e attraversa tuttora il centro cittadino, passando anche davanti alla chiesa di S. Bartolomeo
Non posso fare a meno, ora, di sorridere pensando che quel mondo creato dalla mia fantasia era lo stesso che popolava l’universo mentale di ogni bambino: le stesse domande, i medesimi turbamenti e fantasticherie.
LA ROGGIA SERIO GRANDE E LA ZOGNA, UN TOPONIMO DIMENTICATO
Un altro pezzo della Bergamo scomparsa si trovava nell’attuale via Suardi, dove attualmente sorge l’ex Caserma Scotti, che dal 1884 ha inglobato parzialmente la “Zogna” – una bella villa suburbana d’inizi cinquecento – per edificare l’Infermeria Militare.
L’ingresso della Caserma Scotti, in via Suardi (anni ’70)
La villa, che a monte si affacciava sulle sponde della roggia Serio, era posta ai margini dell’allora “Campo di Marte”, nome popolare con cui si designava quella che sulle mappe era indicata sulle come “Piazza d’Armi”.
A destra, il gruppo edificato della “Zogna”, tra le attuali vie Cairoli, Ghislandi, Giovanni da Campione e Suardi, quest’ultima ben tracciata a sinistra dell’immagine, benchè non ancora terminata. Verso destra la “Piazza d’Armi” (la foto risale al 1924)
Come indicato nelle mappe sottostanti, il vicino quartiere di via Fratelli Cairoli, risalente al 1912, ha mutuato la titolazione di “Zognina” proprio dalla cinquecentesca villa “Zogna”: un toponimo di cui abbiamo perso la memoria.
La “Zogna”, villa suburbana fra la Roggia Serio e l’ex Piazza d’Armi, nel 1884 fu parzialmente inglobata nella Caserma Scotti. L’edificio presentava richiami architettonici a Pietro Isabello e affreschi interni di Andrea Previtali (1510-12), in seguito strappati e conservati nel Palazzo del conte Guido Suardi (litografia – Bergamo – racc. Gaffuri)
In una mappa novecentesca, i nomi tratti da una guida del 1910 e 1913, con la Nuova Pizza d’Armi e l’Infermeria Presidiaria
In una mappa del 1938, l’Infermeria Presidiaria, cerchiata in rosso. Le Case Popolari “della Zognina”, a margine della Piazza d’Armi, denotano l’acquisizione del toponimo “Zogna”, relativo alla villa cinquecentesca poi inglobata nella caserma
Se ci spostiamo all’altezza di via degli Albani, pare di immaginare la bella dimora affacciata sull’antico canale, sulle acque che scorrono limpide e gaie in una chiara giornata di sole.
Da Villa “Zogna” a Caserma Scotti. L’edificio, affacciato da un lato sull’attuale via Suardi e dall’altro sulla roggia Serio Grande, è ripreso dalle chiuse di via degli Albani
“IL MORLA” O “LA MORLA”?
Il ponte sul rio Morla in Borgo Palazzo (1885 circa). Il torrente fu immortalato nei diplomi regii ed imperiali poiché diede il nome ad una Corte regia: “la corte Morgola… presso al fiume che fino ad oggidì porta lo stesso nome, in quel luogo che ora è detto Borgo Palazzo” (Lupi, 1780) – ( Raccolta D. Lucchetti)
Appunto: “Il Morla” o “la Morla”? Un quesito a proposito del quale l’indole bergamasca non nutre alcun dubbio, e che indusse Gino Cortesi a vergare con piglio poetico :
“Mi auguro che non mi capiti più di sentir dire, o di leggere, il Morla. Per i bergamaschi l’antica Murgula, più che un torrente (maschile), è una leggiadra ninfa che scende nottetempo dal Canto Alto, attraversa sinuosa e ancheggiante la città e va ad adagiarsi mollemente nei verdissimi prati della Bassa. Non facciamole barba e baffi, per carità!” (1).
Veduta di Città Alta da via Torretta. Autore ignoto (Propr. Museo Storico di Bergamo)
Ricordiamo che anche il compianto studioso bergamasco Lelio Pagani la chiamava al femminile, rivelando con ciò un legame davvero forte e viscerale con la sua amata città.
IL GALGARIO, UN INCROCIO DI CORSI D’ACQUA
Due corsi d’acqua a cielo aperto, oggi interrati, cingono l’ex monastero del Galgario: la Morla, che da via Muraine va ad intersecare le attuali vie Suardi e Galgario, e la roggia Serio Grande, che corre parallela a via Suardi facendo di quest’angolo un punto nodale della città, legato alla presenza dei due principali corsi d’acqua cittadini.
L’ex monastero del Galgario e la torre del Galgario nella ell’aerofotografia del 1924. La via Suardi in questo tratto non è ancora tracciata, mentre via Pitentino (attuale via Frizzoni) è lambita dalla Roggia Serio Grande, che prosegue verso il centro della città. A destra dell’ex monastero corre la Morla
E fu proprio nella verdeggiante ansa, oggi completamente trasfigurata, che gli Umiliati fondarono il convento (occupato dalla seconda metà del XVII secolo dai frati Paolotti), compreso tra i due corsi d’acqua particolarmente ricchi di calcare (calcherium=Galgario): elemento prezioso per un Ordine dedito alla lavorazione e alla follatura della lana (2).
Giuseppe Rudelli (1790-1850). La chiesa e la torre del Galgario. Al Galgario, nella primitiva chiesa del SS. Salvatore trovarono sede dall’inizio del XIII secolo gli Umiliati, che vi restarono sino al 1570, anno della soppressione dell’Ordine
Adibirono alcuni stabili a mulino e a calchera (forno per la fabbricazione della calce) mentre la forza motrice della Morla azionava i macchinari per la produzione della polvere da sparo. Polvere che ancora nel Seicento veniva fabbricata presso la “polverista” (“edificio da polvere”) del Galgario, a costi inferiori e in quantità maggiori rispetto alle vetuste macine della Rocca.
Giuseppe Berlendis, La Morla dal Galgario (Bergamo, Biblioteca Civica)
Se in precedenza era soprattutto Venezia – alla quale Bergamo inviava il salnitro – a rifornire la nostra città di polvere da sparo, nell’ex-convento la produzione avrebbe dovuto bastare per il fabbisogno non solo della fortezza ma anche per le fortezze vicine.
La torre del Galgario fungeva così da deposito, in tutto simile alle polveriere dell’alta città, comunque ancora in uso almeno sino alla metà del Settecento.
La piazza del Galgario, con la torre e l’ingresso al monastero nell’Ottocento, in un disegno di Giuseppe Rudelli (1790-1850). Il Galgario fu sede della prima fabbrica della polvere a Bergamo. In tempi più recenti è stato sede della Questura, sino a che negli anni Ottanta non è stata edificata quella nuova (Propr. Sandro Angelini)
Ma essendo la collocazione nel Galgario troppo pericolosa per le vicine abitazioni (presso l’ex-convento si erano verificati alcuni incendi), la fabbrica per la polvere venne trasferita in una nuova e più sicura costruzione nei pressi della cappella del Sant’Jesus, dietro il monastero di Santa Maria delle Grazie, tra le vie Taramelli e Casalino, dove passavano due canali.
La cappella del Santo Jesus, tra le vie Taramelli e Casalino, demolita nel 1889. Accanto sorgeva la nuova fabbrica della polvere da sparo
Una nuova fabbrica venne poi costruita nell’edificio dell’ex convento di Santa Maria di Sotto, l’attuale “Conventino”, lambito dalla roggia oggi coperta.
Via Gavazzeni ieri e oggi. Nell’immagine più antica, la roggia è ancora scoperta
I Paolotti vi giunsero nel 1668 dopo aver sostenuto a proprie spese anche i pregevoli interventi decorativi riemersi durante gli ultimi lavori di restauro in una porzione del convento, oggi destinato ad ospitare il dormitorio per i poveri. Fra questi, spiccano le opere di Frà Galgario (al secolo Vittore Ghislandi, il più importante ritrattista lombardo della prima metà del XVIII secolo) e del figlio di Domenico, il più importante quadraturista locale del XVII secolo di cui ricordiamo, fra gli altri, gli interventi a Palazzo Terzi e Palazzo Moroni.
A Vittore in particolare, spetta il merito di aver devoluto al convento i proventi di molte sue opere, che servirono per edificare anche il ponte sul torrente Morla.
Pietro Ronzoni (1781 – 1862). Il ponte sopra la Morla al Galgario nella prima metà dell’Ottocento (proveniente dall’eredità di Daniele Farina da Bonate Sotto, nipote del Ronzoni)
Poi anche qui tutto è cambiato. La roggia Serio è stata per gran parte interrata.
Raffronto fra….Oggi & Ieri, 1916: la Roggia Serio nell’attuale via Frizzoni (allora via Pitentino), alla curva presso la torre del Galgario, lungo la Strada di Circonvallazione. La roggia scorreva esterna e parallela alla trecentesca cerchia delle Muraine che circondava i borghi, ponendosi a spartiacque fra la città e la campagna e scoraggiando anche eventuali incursioni nemiche. Le Muraine vennero atterrate nel 1901
Via Tiraboschi ancora lambita dalla roggia Serio Grande (sulla destra)
Via Tiraboschi Ieri & Oggi
Oggi nei pressi di via Suardi la roggia Serio sottopassa il torrente Morla con un sifone.
Ponte di via Suardi: la griglia a protezione del sifone e sulla sinistra il canale di scarico al torrente Morla utilizzato per “alleggerire” il centro cittadino dalle piene
Intorno agli anni Ottanta si decise di coprire il torrente Morla per costruire la nuova sede della Questura, all’angolo tra via Noli e via Suardi: dell’area resta però qualche foto-ricordo.
Il ponte di via Suardi osservato da via Noli, prima della copertura del torrente Morla e della costruzione della nuova Questura
In lontananza, il ponte del Galgario osservato da sotto il ponte di via Suardi
Il ponte di via Suardi dall’alto con a destra la via Noli, nell’area attualmente occupata dalla sede della Questura
Tra via Noli e via Suardi Ieri & Oggi
I TANTI REGNI DELLE LAVANDAIE
Quando rogge e canali scorrevano per lunghi tratti a cielo aperto, le nostre nonne e bisnonne vi si recavano a lavare i panni in ogni stagione. Vi arrivavano la mattina presto, sospingendo le carriole cigolanti e cariche di biancheria o curve sotto un bastone assicurato al collo dal quale pendevano, in equilibrio, due grandi secchi.
Il dipinto di Costantino Rosa – “La Morla al mulino del Galgario” – ritrae in una visione idealizzata e romantica una donna con accanto una cesta ricolma di panni (Bergamo – Proprietà arch. M. Frizzoni)
L’abbondanza di corsi d’acqua permetteva a molte famiglie di ricavare sostentamento grazie all’attività di lavandai, che si svolgeva sulle rive della Morla (e l’abbiamo visto qui), della Tremana e sui canali delle rogge Serio, Nuova, Morlana, Guidana: sui tanti piccoli e grandi corsi d’acqua che disegnano la complessa geografia del sottosuolo della città.
La “Ca dei sòi”, nella valletta di Valverde, attorniata da lunghe fila di LENZUOLA stese ad asciagare, segno evidente della presenza nella cascina dell’attività di lavandai (Raccolta D. Lucchetti)
Uno scorcio dell’attuale centro cittadino ripreso intorno al 1895 con la chiesa di S. Maria delle Grazie la roggia Morlana (risalente almeno al secolo XII), derivata dal Serio all’altezza di Nembro e ancora visibile in via Madonna della Neve. Al partitore del Casalino essa si divide nelle rogge Colleonesca e Coda Morlana, dirette ad irrigare i territori di Stezzano, Levate e Pognano: venne infatti ampliata da Bartolomeo Colleoni per poterne poi derivare altre rogge
La roggia a Campagnola, nel 1910
Colognola nel 1952: la roggia Guidana, realizzata prima del 1453
La roggia alla Malpensata
La filanda sulla roggia, in via Daste e Spalenga
LA “PICCOLA VENEZIA” SUL CANALE
Dall’Ottocento il Comune volle dotare diversi rioni di lavatoi, alcuni dei quali sorsero anche lungo il complicato reticolo dei canali della roggia Serio. Uno di questi si trovava lungo la via San Rocco: un angolo pittoresco del borgo di San Leonardo – scomparso nella prima metà del Novecento sotto una gettata di cemento -, che restò a lungo uno dei soggetti preferiti dai pittori.
Il canale Serio nella zona di via S. Lazzaro (Racc. Gaffuri)
Il canale Serio in via S. Lazzaro (Racc. Gaffuri)
Il canale Serio tra via Broseta e via San Lazzaro (Racc. Gaffuri)
E ci fu chi lo chiamò “piccola Venezia”.
La Seriola nuova in via San Rocco, prima della copertura. Ospitava il regno delle lavandaie, che vi giungevano attraversando le passerelle affacciate sulla roggia: quella a fianco della chiesa di San Rocco è utilizzata ancor oggi (Raccolta D. Lucchetti)
Vi sorgeva la “trattoria La Morala”, la cui insegna campeggia nella foto e cui si accedeva dal ponticello da via San Rocco o da via Broseta, da cui proveniva la maggior parte delle massaie. Poco distante c’era la trattoria dei Tre Gobbi, preferita da Gaetano Donizetti.
In via Manzù nei pressi dell’attuale Triangolo rimane un tratto che scorre in superficie, testimonianza dell’antico rapporto del centro urbano con il millenario fossato. Era attraversato da un ponte con alzata che portava alla chiesa di San Rocco. Lo stesso ponte con portichetto è ricordato in un’immagine ottocentesca ed esiste tuttora anche se dalla parte di vicolo San Rocco non ha più le sembianze di un ponte poiché il canale è stato interrato. Uno stretto passaggio sotto il portichetto lo collega ancor oggi all’entrata della chiesa in via Broseta
La tettoia lungo il canale consentiva di lavare i panni stando al riparo dalla pioggia. Era l’unica comodità concessa alle massaie, che nella seriola trovavano acqua in abbondanza rispetto ai pochi secchi forniti dai pozzi nei cortili.
Il lavatoio di via S. Lazzaro (vecchie cartoline della Raccolta D. Lucchetti)
La signora Fiorella, in una foto-ricordo davanti al lavatoio di via San Lazzaro (per gentile concessione di un amico)
Di questo minuscolo regno delle lavandaie si avverte ancora l’eco: delle voci, dei canti e delle risate, del fragore dei panni strusciati e battuti sulla pietra, dove le donne davano libero sfogo alle gioie ed ai dolori, che non trattenuti scorrevano via, insieme alla corrente.
Via S. Lazzaro Ieri & Oggi
QUANDO SI PESCAVA NELLA MORLA
Come molti di noi hanno appreso dai racconti dei rispettivi padri e nonni, nelle rogge cittadine, ricche di pesci e gamberi, pescare era la norma.
Città Alta dal rio Morla dalla zona di via Suardi. E’ riconoscibile, a sinistra, il campanile della chiesa di S. Alessandro della Croce, in via Pignolo alta (Raccolta D. Lucchetti)
Tutti sanno che quand’essi erano ragazzi la Morla era assai pescosa; un abitante di Valtesse ricorda la pesca col martello: si tramortiva il pesce sferrando un colpo secco su di una pietra che affiorava dall’acqua affinché questi venisse a galla per poi essere agevolmente catturato.
Giuseppe Rudelli – Veduta di Città Alta dal torrente Morla presso il Galgario (Bergamo – proprietà ing. L. Angelini)
Un altro metodo consisteva nel pescare con un tubo in vimini a forma d’imbuto, rivolto controcorrente per far sì che il pesce vi restasse intrappolato.
Ma una scoperta fantastica è la seguente: il nome di via Pescaria deriva dal fatto che questa era una zona di acquitrini dove ancora ai primi del Novecento si veniva a pescare pesciolini e gamberetti.
I BAGNI E I TUFFI NELLA MORLA
E ovviamente, nelle limpide acque della Morla – “il Tevere bergamasco” secondo la definizione di Carlo Traini – si facevano anche i bagni.
Nella zona di Valtesse il torrente offriva ai nostri nonni diversi punti favorevoli a belle nuotate, bagni ed anche tuffi: si andava al gor di Tajocchi, in fondo alla strada della Morla, algor di Vanai, poco dopo i Mortini e a quello di Cornago, un po’ più a valle.
E poi, al gor del cimitero o del piantù, ritenuto il più grande e il più interessante anche per la presenza di un grosso gelso che fungeva da piattaforma di lancio per i tanti ragazzi che, tuffandosi, battevano talvolta la zucca sul fondo poiché… l’acqua non era poi così profonda.
1925: due bimbi della famiglia Corti, della parte alta di via Valverde fanno il bagno nella Morla all’altezza dell’attuale via Serena
Si andava anche al gor di Capù, nella zona di via Baioni sotto le mura di S. Agostino, frequentato anche dai ragazzi di Città Alta e nelle belle estati degli anni Cinquanta si amava nuotare alla Mezza della Morla, dove poco prima dello Stadio una piega del torrente formava una graziosa insenatura con tanto di spiaggetta.
Ieri & Oggi: Palazzina Scanzi in piazzale Oberdan
QUESTIONI DI DECENZA
Luigi Deleidi detto Il Nebbia – Il Ponte di Borgo Palazzo. Penna e acquarello su carta (dall’album Vimercati Sozzi, Bergamo – Biblioteca Civica)
Come in tutti gli specchi d’acqua della città, anche sulle rive della Morla vigeva per questioni di decenza una tacita regola che richiedeva di adottare costumi da bagno non troppo ridotti; regola che peraltro sovente non veniva rispettata, come del resto evidenziato in una lettera recapitata all’Eco di Bergamo:
“Richiamo ancora una volta l’attenzione delle Autorità di pubblica sicurezza su alcuni bagnanti che, senza alcun riguardo, senza alcuna decenza, si tuffano in acqua nella Morla, in Borgo Palazzo, proprio nel momento in cui dallo stabilimento Oeticker escono le operaie. Si tratta di cosa indecentissima e non si capisce perché l’Autorità, più volte sollecitata, continui a fare orecchie da mercante”.
Una irriconoscibile via Borgo Palazzo. Piazza S. Anna ancora non esiste e la via A. Maj non è stata tracciata
LA TRAGEDIA ALLA CHIUSA DI VIA COGHETTI
Va annotato purtroppo anche un tragico fatto accaduto nel 1946 alla chiusa di via Coghetti, quando la roggia fu fatale per un povero ragazzino che, per non essere da meno con gli amici, si cimentò – solo e al riparo dagli sguardi beffardi dei coetanei – in una pericolosissima prova di coraggio che in quel periodo veniva messa quotidianamente in atto dai monelli del posto.
Via Coghetti con il campo di grano, prima della costruzione del quartiere San Paolo
Una prova che gli costò la vita perché rimase intrappolato nel meccanismo della chiusa e venne semi-tranciato dalle lamiere.
All’angolo tra via Palma il Vecchio e via Coghetti
INSEGUENDO LA TREMANA
Come la Morla, anche le acque della Tremana erano linde e trasparenti e prima della sua copertura i bambini si divertivano a percorrerla a piedi scalzi sino alle pendici della Maresana, laddove il torrentello veniva inghiottito dalla roccia.
La Tremana nasce sotto la chiesetta della Maresana e scende formando una valletta incantevole fino a Monterosso, dove – ahinoi – viene ingoiata in una galleria di cemento.
Il colle della Maresana dalla Montagnetta, sopra Valverde. Il torrente Morla nasce alle pendici del Canto Alto e all’altezza di viale Giulio Cesare riceve il contributo del torrente Tremana, il cui bacino interessa proprio il versante della Maresana (Racc. Gaffuri)
Il corso d’acqua costeggiava tutta la via, che negli anni ’40/’50 era solo un sentiero in terra battuta. Si gonfiava solo in certi periodi dell’anno e l’acqua era così limpida da consentire il bagno e la pesca.
Via Tremana negli anni ’40, ancora percorsa dal torrente, con il Lazzaretto, lo Stadio comunale e le piscine annesse; a metà via è visibile il “Ponte di pietra” che attraversava il torrente Tremana
Il suo alveo fu coperto con la costruzione dei condomini del quartiere di Monterosso e il ponte venne demolito
LA ROGGIA SERIO: “IL MARE DI BERGAMO” AL GALGARIO
Ci fu poi un tempo in cui presso la torre del Galgario sorgeva una sorta di piscina, costituita dal corso del Serio Grande: l’antesignana della pubblica piscina cittadina realizzata dapprima presso lo Stadio comunale e molto più tardi presso l’attuale “Italcementi” nella Conca d’Oro.
Nell’Aerofotografia del 1924, si individuano i primi bagni pubblici di Bergamo, nel groviglio di strade ed edifici (scala 1:2000 – Società Anonima Airone)
La piscina – un vero e proprio stabilimento balneare – si trovava all’altezza dell’ex monastero del Galgario, dove più tardi sorse il comando ormai in disuso di Polizia Stradale, ed è proprio qui che faceva bella mostra l’insegna “Bagni pubblici”.
L’attuale via Frizzoni ai primi del Novecento, con la roggia ancora scoperta e, sullo sfondo l’edificio dei “Bagni pubblici”
Erano stati aperti il 2 giugno del 1886 in seguito a un’ordinanza del sindaco per consentire alla cittadinanza, al costo di qualche centesimo, il bagno e il nuoto pubblico. Lo stabilimento balneare era aperto ogni giorno, da giugno a settembre, dalle ore 5 alle 14 e dalle 16 alle 21.
Quando i nostri avi scavarono il canale Serio, mai e poi mai avrebbero potuto immaginare che i loro lontani successori vi avrebbero realizzato una piscina colmata dalle acque correnti della roggia!..
L’alveo della roggia Serio presso la torre del Galgario (Racc. Gaffuri) E’ sicuramente antecedente al 1910 in quanto venne pubblicata in quella data sul libro“Bergamo” di Pietro Pesenti, per la collana Italia Artistica. Dietro la torre, l’ingresso ai “Bagni pubblici”
La Caserma Colleoni presso il Galgario con relativa torre e la roggia Serio ancora scoperta, che correva parallela alle demolite Muraine
Luigi Pelandi assicura che ancora negli anni Sessanta era visibile il portone che dava accesso al “misero stabilimento dei bagni pubblici popolari”.
L’attuale via Frizzoni da Borgo Palazzo verso la torre del Galgario: è visibile in fondo a destra l’edificio che fu sede dei “Bagni pubblici”
Nella piscina dello stabilimento – che tutti chiamavano “I bói” ad indicare i bollini che certificavano il pagamento dell’ingresso -, la metà più a monte era riservata ai nuotatori più esperti e la parte a sud ai principianti. C’erano anche dei camerini – alcuni dei quali in uso dei facoltosi – che con l’annesso servizio di biancheria costavano solo due soldi.
Il medesimo tratto negli anni successivi, con la roggia ormai interrata
La sorveglianza naturalmente assicurava che venissero osservate le predette regole di decenza affinché i costumi non fossero troppo ridotti.
IL BAGNO DI CAPODANNO NELLA ROGGIA SERIO
Ne “Il Novecento a Bergamo”, Emilio Zenoni assicura che nello “stabilimento balneare” per un periodo vi era stato una specie di fuori programma, il bagno – o per meglio dire la Gara – di Capodanno. Nell’occasione, “I bòi” venivano riaperti in via del tutto eccezionale e i nuotatori esentati dal prezzo del bollino.
La prima competizione si era tenuta il 14 gennaio del 1906; la gloriosa stagione “Cimento invernale” si chiuse con la gara del 14 gennaio 1920.
La temeraria impresa – un centinaio di metri in totale – partiva dalla torre del Galgario per raggiungere la Porta di Sant’Antonio, all’imbocco di via Pignolo bassa.
Porta S. Antonio con a lato la roggia Serio Grande
1916: la roggia Serio Grande all’altezza della torre del Galgario nell’allora via Pitentino (oggi Frizzoni), da cui partivano le dispute del “Cimento invernale”
Memorabile la gara del primo gennaio del 1915 quando alle 14.30 quattro nuotatori della Società Bergamasca di Ginnastica e Scherma fecero una bella nuotata nelle acque della roggia Serio, lungo l’ormai consueto percorso. L’acqua era gelida e la temperatura dell’aria misurava meno quattro gradi!
Il “teatro” del “Cimento invernale”: il tratto di via Frizzoni da Borgo Palazzo alla torre del Galgario
L’Eco di Bergamo annotava: “Ieri largo concorso pubblico assiepato lungo gli argini del canale. Malvezzi, ha coperto l’andata ed il ritorno risalendo la corrente, raccoglie insistiti applausi. Gli organizzatori offrono una medaglietta ricordo e un provvidenziale vin brulé. I Rarinantes benestanti, a loro spese, bevono un grappino al bar della piazzetta di Santo Spirito”.
LE DRAMMATICHE PIENE DELLA MORLA
Il ponte di Borgo S. Caterina nel 1910. Luogo di rogge e fiumane che si incontrano ed accelerano, precipitando dagli scivoli dell’alveo sotto il manto stradale
Nonostante la sua modesta portata, nel corso del tempo la Morla ha causato non pochi guai, ricordati persino da Mosè del Brolo: paurosi straripamenti, inondazioni e vittime, ricordate in una una lapide apposta sulla facciata di un’ex chiesetta costruita sul suo argine in località “Scuress”, a Ponteranica.
Presso il Ponte di Santa Caterina, un muro massiccio serviva per proteggere le abitazioni dalle piene del torrente, causa frequente di notevoli danni.
Il Ponte di Borgo S. Caterina tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, quando il cancello daziario e gli edifici annessi sono già scomparsi insieme al ponte di vecchie pietre sulla Morla, ora scavalcata da un ponte un cemento sul quale sta transitando il tram (sotto il ponte, sono tuttavia ancora ben visibili gli archi del ponte originario)
La Morla infatti è un torrente dal corso tortuoso con il fondo lastricato di rocce cenericce e sfaldabili chiamate Sass de la Luna: quando è in secca non ci si accorge della sua esistenza ma in occasione di piogge abbondanti si sveglia e può diventare pericolosa, gonfiandosi anche grazie all’apporto della Tremana, che intercetta in viale Giulio Cesare, e del Gardellone, di cui dal 1950 riceve soltanto le acque di sfioro.
Tra le non poche calamità naturali causate in passato dal torrente in particolare nei borghi di Santa Caterina e Palazzo, memorabile è quella del 3 maggio 1936 quando, in una bella giornata di sole seguita a molti giorni di maltempo, senza alcun preavviso un vero e proprio diluvio si abbatté sulla città: i torrenti Tremana e Gardellone furono presto in piena e riversarono tonnellate d’acqua nella Morla, il cui straripamento era già stato causa di danni nel 1932.
Il ponte sulla Morla in Borgo Palazzo (Racc. Gaffuri)
La parte bassa a oriente della città era in stato d’allarme. Nonostante verso le 20 si cominciassero ad udire le sirene dei pompieri (che ricevettero la bellezza di 106 chiamate in meno di un’ora!), non v’era l’impressione che in diversi punti della città stesse avvenendo qualcosa di grave. Invece in Borgo Santa Caterina e in Borgo Palazzo le acque erano ormai straripate e scorrevano nelle strade come nel letto di un fiume.
Si videro delle ossa galleggiare, dovevano essere quelle dell’antico cimitero di Valtesse. La violenza dell’acqua fu tale da sfondare numerose saracinesche di negozi ed anche quelle della Banca Mutua Popolare, che venne piantonata dai carabinieri. I pompieri compirono diversi atti “eroici” di salvataggio, mettendo in salvo soprattutto donne anziane che stavano per essere travolte dalla corrente.
La piena della Morla a Valverde. Fotografia di Carlo Scarpanti
Lungo l’elenco dei danni: particolarmente ingenti quelli arrecati alla ditta Seguini, la cui vasta e fornitissima cantina era stata devastata, data la rottura di numerose botti, di ben dodicimila fiaschi di vino e di bottiglie di liquori, che si mischiarono all’acqua che scorreva per strada.
A Valverde e a Valtesse la furia delle acque abbatté diversi muri e sradicò non pochi alberi, mentre sue violentissime scariche elettriche causarono la rottura dei vetri di numerose abitazioni. Annegarono molti animali da cortile. Il rumore della corrente era pauroso e impressionante.
La piena della Morla a Valverde. Fotografia di Carlo Scarpanti
All’ospizio della Bonomelli, dove l’acqua aveva superato i due metri, fra i ricoverati si contarono 11 feriti e due vittime per annegamento.
In tutta la città fu interrotta l’energia elettrica ma fortunatamente il telefono continuava a funzionare. Intervennero anche i soldati e il podestà, anch’egli gettandosi in acqua per salvare qualcuno.
Anche alla Malpensata la furia della corrente abbattè dei muri, bloccando la gente al cavalcavia, mentre in Borgo Palazzo il tram per Seriate era semi-sommerso e a Torre Boldone le acque divelsero i binari del tram di Albino.
Anche la furia del Gardellone fece una vittima, il ventenne Giuseppina Bonomi.
L’allarme cessò soltanto alle 2 di notte e quando le acque si ritirarono, lasciarono al suolo una coltre di fango spessa 20 centimetri.
La piena aveva lasciato i suoi segni funesti su tantissime case (3).
E POI TUTTO (O QUASI) VENNE COPERTO
Accanto a quella tragica del 1936, la storia della Morla registrò altre drammatiche piene (di cui memorabili furono quelle del 1896, 1932, ’37, ’40, ’46, ’49 e ’76), che accesero discussioni e rafforzarono il convincimento di coprire le rogge cittadine.
La piena della Morla presso il piazzale della stazione, 1937
Al carattere insidioso del regime torrentizio della Morla, che alternava lunghe secche a potenti e rovinose piene, si era aggiunto il progressivo degrado del torrente causato dall’aumento delle acque di scarico civili: con l’incremento edilizio gli antichi pozzi neri erano stati abbandonati e gli scarichi delle fognature finivano nel torrente, dove peraltro la popolazione trovava più comodo e sbrigativo gettare rifiuti.
Nella foto sopra, la Morla nel 1960 tra via Cesare Battisti e via Pitentino, ripresa dal Palazzetto dello Sport; si intravede l’edificio detto “Nave”, in primo piano nella seconda fotografia: Il torrente venne coperto nel 1962 e la via venne dedicata all’Ingegnere Idraulico Alberto Pitentino, gran maestro di chiuse e canali, vissuto nell’ultimo scorcio del XII secolo
Ieri & Oggi: il ponte di Borgo Santa Caterina, dove un tempo la Morla scorreva a cielo aperto (piazzale Oberdan)
L’arcata del vecchio Ponte di Borgo S. Caterina ripresa nel gennaio del 2013 in occasione del rifacimento della copertura stradale
Tutto ciò contribuì in breve tempo a fare della Morla una discarica a cielo aperto: era spaventosa a vedersi e fu per molto il regno dei topi, delle zanzare, di insetti di ogni sorta, che trovavano nel “pittoresco” un ambiente quantomai favorevole, portando alla decisione di coprire il torrente nel 1962.
Giustamente o ingiustamente, la stessa sorte toccò gran parte delle rogge cittadine, che vennero in gran parte obliterate dal cemento per ragioni igieniche, di vivibilità e per allargare strade o realizzare parcheggi.
La zona di Borgo Santa Caterina vide scomparire totalmente il corso d’acqua che ne aveva caratterizzato la storia, posto sotto il manto di nuove strade e piazzali, su cui venne costruito anche il nuovo palazzetto dello sport della città
Le poche sopravvissute in città sono oggi ridotte a rivi maleodoranti. La pittoresca Bergamo dei canali e delle rogge è quasi del tutto scomparsa.
Note
(1) Gino Cortesi, “L’Eco di bergamo del 14/07/’97.
(2) Tosca Rossi, “A volo d’uccello – Bergamo nelle vedute di Alvise Cima – Analisi della rappresentazione della città trà XVI e XVIII secolo”, Litostampa, Bergamo, 2012.
(3) “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.
Riferimenti essenziali
– “Valverde e dintorni” – Centro ricreativo Valtesse per la Terza Età – A cura di Gino Pecchi.
– “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”, Pilade Frattini e Renato Ravanelli – UTET.
– Per il “Cimento invernale: L’Eco di Bergamo – 28 dicembre 2013.
A coronamento del centro storico di Bergamo, esiste un vasto territorio collinare fatto di campi, prati e boschi, costellato di antiche vestigia e innervato da una fitta rete di bucolici percorsi, sentieri, viottoli e scalette. Il percorso qui proposto, compreso fra le località di Valmarina e Castagneta lungo il versante orientale della collina, conduce alla riscoperta di una delle porzioni più suggestive di questo meraviglioso patrimonio paesaggistico di natura e cultura. Si tratta di un itinerario che oltre a costituire una variante al classico tour ciclopedonale Green Way del Morla – Sentiero di Ilaria (ciclovia dei torrenti Morla e Quisa), consente di muoversi in un ambiente che conserva, all’interno di un considerevole patrimonio faunistico e floristico, la presenza di edifici rurali e manufatti storici di pregio quali l’ex monastero benedettino in Valmarina e i manufatti dell’acquedotto dei Vasi, l’impianto che per secoli ha costituito parte integrante della primitiva rete di distribuzione delle acque della città di Bergamo. L’acquedotto, di cui le prese d’acqua sono già documentate e rilevate in alcuni manoscritti del Settecento, raccoglie lungo il suo tragitto le acque sorgive dislocate tra gli avvallamenti boscosi posti dalle pendici del Monte Bastia ai fianchi del crinale, spingendosi sin verso Valmarina, da cui risale per Gallina e Castagneta. Il nostro itinerario, attraversando pressoché interamente un’area boschiva consente di praticare agevolmente attività sportive anche nella stagione più torrida.
Il percorso ideale qui proposto si diparte dal tratto della Green Way del Morla che si innesta da via Maironi da Ponte nella località di Valverde, giungendo a Valmarina all’ombra delle pendici boscose di Castagneta ed assecondando le pieghe del torrente tra ponti e divertenti passerelle lignee.
Lungo la Green Way del Morla, in vista di Valmarina
La vista si apre all’improvviso sul grandioso anfiteatro di Valmarina, accarezzando le morbide pendenze su cui poggia l’antico monastero, magicamente sospeso fra prati, boschi rigogliosi e terrazze tenute a vite.
Non troppo distante dalla viabilità principale, ma lontano quanto basta da costituire un’oasi a parte, l’antico monastero campeggia placido nella radura, splendidamente fuso con il tessuto che lo circonda in verde abbraccio.
L’ex monastero di Santa Maria in Valmarina, al confine tra la città e la località Ramera, in territorio di Ponteranica, è posto alle pendici del versante nord-orientale del Colle ed è oggi sede del Parco dei Colli di Bergamo
Fra scorci di rara bellezza, il suo caldo color nocciola – ancor più vivo quando il sole lo accarezza – è come un bagno tiepido e benefico per gli occhi, invitandoci alla sosta.
Fondato nel XII secolo da una piccola comunità di monache benedettine è oggi sede del centro direzionale del Parco dei Colli, al centro di un ambiente ideale dove natura, cultura e attività sportive si coniugano in perfetta armonia.
Cascina Valmarina
In questa splendida conca suburbana – irrinunciabile polmone verde cittadino – l’antico monastero esibisce i due momenti salienti della sua storia secolare, mostrando i locali “canonici” della vita benedettina e cioè la chiesa, il refettorio e la sala del capitolo – il lato interamente affacciato sulla strada per la Val Brembana -, con le aggiunte realizzate dalla fine del Settecento per adattare il complesso ad aia rustica.
Dalla fine del Quattrocento, da quando le monache si trasferirono dentro le muraine, il monastero ormai abbandonato fu riadattato a cascina, subendo interventi che ne snaturarono soprattutto la parte interna.
Il nucleo originario romanico è quello esteso lungo il lato orientale, affacciato sulla strada provinciale, formato dal lungo braccio che si unisce alla chiesa (da tempo privata delle decorazioni ad affresco medioevali), valorizzato dal recente restauro
Dalla fine del Settecento dunque, l’aggiunta progressiva di nuove volumetrie ha finito col raddoppiare le dimensioni dell’antico recinto fino a formare la grande corte chiusa che vediamo oggi: una tipologia inconsueta in una zona collinare – qual è quella di Valmarina -, dove le cascine hanno generalmente i corpi di fabbrica giustapposti, disposti a L, oppure contrapposti.
Comunque sia, specialmente nel lato est il complesso conserva ancora un notevole fascino, con ciò che resta della primitiva chiesetta romanica incorporata nello spigolo settentrionale del complesso.
L’ex chiesa di Santa Maria in Valmarina
La parete piena e compatta della chiesa è alleggerita da due elegantissime monofore, dallo slancio quasi gotico, separate da una lesena sottile entro la quale alcune porzioni di calda arenaria richiamano la parte superiore delle monofore.
Al di sopra di queste, due piccoli oculi catturano la luce dall’esterno e allo stesso tempo ammiccano verso valle, quasi a richiamare l’attenzione verso il bel monastero, intriso di storia secolare.
Il porticato, addossato al nucleo originario, trova precisa corrispondenza in complessi rustici che ritroviamo in diversi punti del territorio, dalle pendici della Maresana al castello della Moretta, in quel di Sorisole.
All’interno, fra un anfratto e l’altro sono conservati gli antichi arnesi impiegati nelle attività rurali e la loro semplicità riporta piacevolmente alla memoria quei frangenti di vita contadina vissuti in questo luogo sino a pochi decenni or sono.
Dall’osservazione dei particolari, emerge con chiarezza la filosofia che ha accompagnato ogni fase del magistrale restauro, che ha saputo calibrare perfettamente la conservazione di ogni singola parte con i nuovi adattamenti, mantenendo intatto il fascino e le suggestioni del manufatto antico.
Lasciata alle spalle questa piccola valle della Biodiversità – consorella della valletta di Astino – dove è preservato anche il più minuscolo gambero di fiume, imbocchiamo in salita la vera via dei Vasi, un viottolo a tornanti da non confondere con l’omonimo sentiero che frequentiamo abitualmente nei fine settimana, e che raccorda Valmarina alla località Cascina Costa, situata nella parte mediana di via Ramera.
“Questa” via dei Vasi, è così nominata perché il suo tracciato cela un condotto dell’antico acquedotto che da Valmarina, proprio al di sopra dell’antico monastero, si dirige sino all’uschiolo della valle dei Romanelli (di cui oggi si sono perse le tracce), concludendosi in località Gallina.
Via dei Vasi costituisce il tratto di raccordo tra la Valmarina e la parte mediana di via Ramera (località Cascina Costa). Il condotto di Valmarina, di poco al di sopra del monastero lungo via dei Vasi, presenta un uschiolo di ispezione e una cisterna per la raccolta delle acque. Da qui risale sino alla località Gallina per poi percorrere via Castagneta ed infilarsi nella cisterna interrata nel baluardo di S. Alessandro
Dopo aver percorso la piccola serie di tornanti che si snodano fra la boscaglia, si raggiunge località Cascina Costa con il breve slargo posto a crocevia fra la ciclopedonale della Quisa e la via Ramera.
Pieghiamo decisamente verso la parte alta di via Ramera, che si impenna impietosamente lasciando brevi attimi di respiro ma ripagandoci, almeno inizialmente, con una vista impagabile su Valmarina.
Percorriamo l’ertissima salita sino alle pendici del Monte Bastia, e cioè sino a che non incontriamo la “cisterna del fontanino”: una fonte oggi ridotta a un rivolo, alimentata dalle sorgenti della Noce e dallo Scudo. Qui un pannello illustrativo indica l’inizio del sentiero 912, che procedendo in leggera pendenza lungo la valle della Costa ricalca il percorso dell’acquedotto lungo il Sentiero dei Vasi, percorso interamente boschivo che si raccorda alla località Gallina, in quel di Castagneta.
I pannello illustrativo ubicato lungo il bordo settentrionale di via Ramera, da cui prende avvio il sentiero 912, ricalca il tracciato dell’antica “via dei Vasi” – i Vatia” -, già citati in un documento del 1013 ed utilizzati in età viscontea per alimentare la grandiosa cisterna del Fontanone (ex Ateneo). Dalla sorgente di origine (Sorgente della Noce, 435 m s.l.m.) sino a porta S. Alessandro (365 m s.l.m.) l’acquedotto copriva un dislivello di 70 metri
Il tracciato del sentiero 912, un percorso ombreggiato e pianeggiante, ideale per attività sportive svolte en plein air, coincide con l’antica “via del Canale”, secondo la denominazione riportata nelle mappe catastali del 1853.
Lungo il sentiero dei Vasi
Lungo il sentiero dei Vasi
VASO è un termine antico per indicare un canale adibito al trasporto dell’acqua: entrambe le denominazioni indicano appunto con evidenza la presenza in loco di un acquedotto, il cui tracciato, benché testimoniato già in epoca medievale, ricalca probabilmente il percorso di un precedente manufatto di epoca romana.
Lungo il “Sentiero dei Vasi”, un percorso ombreggiato in falsopiano, ricalcante il tracciato dell’omonimo acquedotto che riforniva la città
Lungo il sentiero è possibile osservare alcune parti dell’antico manufatto, che nonostante la condizione di attuale abbandono ancora denota la cura che nei secoli passati si riservava ad opere decisive come quelle idriche: il vaso maestro (la condotta principale), cisterne di raccolta e decantazione, uschioli d’ispezione, tombini, lastricati nonché un interessante sistema di condutture minori, in parte sopravvissute, che raccoglievano le acque delle sorgenti convogliandole dalle vallette nel “Vaso” principale.
Il primo uschiolo d’ispezione, con l’accesso al canale ed alla vasca di decantazione s’incontra al termine della gradinata da cui prende avvio il sentiero dei Vasi. Il secondo uschiolo è quello, già osservato, ubicato in Valmarina
I canali (realizzati in blocchi squadrati di pietra legati con malta di calce e cocciopesto) presentano mediamente di 25 x 40 cm; ogni canale era inserito in un cunicolo ispezionabile di 90 cm d’altezza e 70 cm di larghezza controllato periodicamente dai “fontanari”, gli addetti alla manutenzione di acquedotti e fontane, che ancora sul finire dell’800 ivi svolgevano lavori di manutenzione e restauro.
Le relazioni dei fontanari incaricati dei lavori, a noi pervenute, sono fonti preziose per lo studio del percorso, delle modalità e delle tecniche usate per la pulitura e le riparazioni
Lo apprendiamo grazie ad alcune date incise nei cunicoli che tuttora si snodano, in eccezionale stato di conservazione, negli orti delle case “Colombà” lungo la via Castagneta.
Un tratto della condotta principale (Vaso maestro) esistente lungo il sentiero dei Vasi, in cui confluiscono, tramite condotte minori, le acque delle sorgenti. Lungo il pavimento v’è come un invaso di modeste dimensioni utilizzato per convogliare l’acqua
Una lapide inserita nel muro medioevale, in prossimità della località Gallina, ricorda che nel 1329 il podestà Beccaro Beccaris provvide a far effettuare la pulitura dell’acquedotto di Castagneta.
Lapide in località Gallina di Castagneta
Presso una casa, sempre in località Gallina è stata rinvenuta una traccia della scritta AQ che dal 1728 costituiva, talvolta accompagnata da una croce, la sigla identificativa di tutti gli acquedotti facenti capo alla città di Bergamo.
L’iscrizione “AQ” denota la presenza del manufatto lungo il percorso dell’acquedotto dei Vasi
Lungo il sentiero, il bosco, ricchissimo di Castagni e funghi, attira sovente nella mite e variopinta stagione autunnale, intere comitive intente alla raccolta.
Raggiunta l’estremità meridionale del sentiero dei Vasi in località Gallina all’altezza del segnavia 912, il condotto, ricongiungendosi con il canale proveniente dalla sezione inferiore di via Castagneta, si dirige verso la cisterna del baluardo di S. Alessandro percorrendo il nucleo di Castagneta.
L’imbocco del Sentiero dei Vasi in località Gallina di Castagneta
Il segnavia che raccorda la località Gallina a via Ramera
Entrambi gli insediamenti, allungati lungo la strada percorsa attraverso i secoli dall’acquedotto dei Vasi, presentano i caratteri tipici della zona collinare di Bergamo.
Castagneta, località Gallina
Castagneta, località Gallina
Dalla località Gallina, l’acquedotto inizia, tra tratti incerti e non, a seguire il percorso di via Castagneta sino a via Beltrami, che percorre per un breve tratto, prima di infilarsi nelle Mura, attraversandole nello spalto di S. Pietro.
Fuoriesce poi nella seguente via Sforza Pallavicino, dov’è rimasta un’antica fontana.
Da qui riattraversa la via Beltrami, passa davanti alla polveriera superiore, attraversa il vicolo Colle, e attraversando il baluardo di S. Gottardo raggiunge la porta di S. Alessandro; la percorre lungo la parte superiore prima d’entrare nell’omonimo baluardo e raggiungere la cisterna in cui avviene il congiungimento delle sue acque con quelle portatevi dall’altro acquedotto, quello di Sudorno.
Anticamente, proprio qui, in prossimità dell’antica porta di S. Alessandro queste acque si univano nella fontana-serbatoio del “Saliente”, andata distrutta in occasione della costruzione delle Mura veneziane. Nonostante la sua distruzione, il nome di “Saliente” rimase per un certo periodo ad indicare l’intero acquedotto.
Dopo la costruzione delle Mura, il punto di confluenza venne spostato all’altezza del baluardo di Sant’Alessandro ma nel 1892 si procedette ad una nuova canalizzazione, resasi necessaria per ridurre l’inquinamento delle acque dovuto al passaggio della condotta all’interno delle case e sotto la sede stradale.