La Fontana di Sant’Agata e quel che c’era intorno: un percorso lungo due millenni

Fontana di S. Agata – Foto Giuseppe Preianò

Per lungo tempo la Fontana vicinale di Sant’Agata ha zampillato lungo la via, accogliendo gli avventori desiderosi di rinfrescarsi all’ombra del suo grande arcone, fino a quando i lavori di recupero effettuati nel 2009 ne hanno riportato alla luce l’assetto primitivo, rimasto per anni nascosto all’interno della volta murata.

Fino a una quindicina d’anni fa, e cioè prima dei lavori di ripristino, la fontana mostrava un muro posticcio, aggiunto nell’Ottocento, al centro del quale campeggiava un mascherone in arenaria consunto dal tempo, da cui usciva un semplice bocchettone per l’acqua. Della facciata originaria si intravedevano solo delle pietre disposte a formare un arco nella parte superiore, unica parte visibile della grande volta a tutto sesto, un tempo aperta sulla strada ed ora celata alla vista dei passanti.

La Fontana di S. Agata prima dei lavori di recupero effettuati nel 2009

 

La Fontana oggi

 

Oltre l’arcone della Fontana di S. Agata

Il suo aspetto originario non è dissimile a quello di tante altre fontane medioevali della città antica, come quella di Antescolis a fianco di S. Maria Maggiore, la Fontana secca in piazza Mercato delle Scarpe, la fontana del Corno alla Fara e quelle delle vie Porta Dipinta, Osmano, Solata, S. Giacomo, Donizetti, Pignolo, e Vagine, realizzate tutte presumibilmente nel corso del XIII secolo, come si deduce dall’uniformità dell’impianto, volta ad assicurare all’intera città una uguale fornitura d’acqua.

Pianta ricostruttiva della Bergamo medioevale (XIII secolo), secondo la ricostruzione di S. Angelini (1950)

L’evidente finalità di pubblica utilità è leggibile nell’aspetto sobrio ed essenziale, con la parte anteriore aperta al pubblico sormontata da un imponente volta e sul retro una cisterna, alla quale era possibile accedere attraverso uno sportello per i periodici spurghi e per le riparazioni.

Fontana vicinale di via Solata

Dagli statuti cittadini risulta che la manutenzione e la custodia delle fontane era affidata alle vicinie (associazioni di abitanti dello stesso quartiere che si riunivano per tutelare gli interessi comuni), allo stesso modo con cui alle stesse era fatto obbligo di provvedere ai portici, alle pizze e ad altre strutture utilizzate dagli abitanti in ogni singola vicinia; al Comune restava il compito di provvedere al buon funzionamento dell’acquedotto, sia fuori che dentro le mura: una consuetudine che si prolungò fino all’Ottocento.

La Fontana vicinale di S. Agata è citata nello Statuto del 1248 insieme alla Fontes Lux Morum di via Pignolo, e alle fontane del Vagine, del Cornus (via Fara), del Later (via Boccola), dove si ordina alle rispettive vicinie di provvedere alla loro custodia e di osservare la regolamentazione dell’uso delle acque.

La chiesa di S. Agata, documentata dal 908 ma forse presente anche nel secolo antecedente (1) divenne ben presto vicinale. A Bergamo l’organizzazione della città in vicinie è documentata dagli statuti cittadini che ne riferiscono i nomi e ne tracciano i confini a partire dal 1263 (giuntoci nella trascrizione del successivo statuto del 1331). Nel 1251, come risulta nella stesura di un trattato di pace tra Bergamo e Brescia, la città era divisa in diciassette vicinie e la vicinia di S. Agata comprendeva anche quella di Arena, che sarebbe diventata autonoma prima del 1263 mantenendo “intatti i diritti sulla chiesa di S. Agata e sul suo cimitero” (2)

LA BERGAMO ROMANA, MEDIOEVALE E RINASCIMENTALE 

L’intervento di rimozione delle strutture sovrapposte è stato guidato dalle testimonianze storiche sulla Fontana e dalle cognizioni sul sistema delle acque in quest’area della città: se da un lato il suo recupero ci ha privati delle sue preziose acque, dall’altro ha restituito alla cittadinanza un piccolo, ma significativo spaccato che abbraccia duemila anni di storia: oltre all’intero sistema idrico della fontana medioevale, anche i resti di un ambiente domestico d’epoca romana e il trigramma di San Bernardino, risalente al Rinascimento, affrescato sulla volta a botte che copre la Fontana. Il tutto oggi visibile all’interno di un esercizio commerciale, nel cuore antico della città, dove le case romane si impreziosivano di mosaici unici, le donne medievali attingevano alla Fontana e il trigramma celebrava la pace e le speranze all’alba del Rinascimento.

Del medioevale impianto idrico della Fontana di S. Agata sono stati recuperati il bacino di raccolta dell’acqua, il locale cisterna e i resti di una vasca di decantazione, nonché una canaletta di scarico di epoca romana.

Quest’ultimo ritrovamento, stimola ulteriori considerazioni sul perché, secoli dopo, proprio in questo luogo sia stata collocata una fontana: in via Salvecchio 12, durante i lavori di sistemazione di un edificio è tornato alla luce un tratto di acquedotto romano in maiolica, un calcare compatto (3) formato da nove setti in ghiera ad incastro, saldati con malta, ciascuno dei quali riporta la sigla del costruttore e i numeri romani per rispettarne la sequenza. Le caratteristiche della condotta, facente parte di un sistema finale di distribuzione dell’acqua, fanno ritenere che fosse in relazione con un edificio di notevole importanza.

Il tratto di acquedotto romano, risalente alla seconda metà del I secolo d.C. e perfettamente conservato, rinvenuto nel 1985 in un edificio privato di via Salvecchio e ritenuto raro anche in relazione agli insediamenti romani sul territorio lombardo. I setti, lunghi ciascuno 70-80 centimetri e dal diametro interno di 18, sono saldati con malta, mentre la conduttura era protetta da uno strato d’argilla, che ne aumentava l’impermeabilità. L’acquedotto romano era collegato con il con il Saliente di Castagneta, un’antica cisterna di raccolta delle acque (foto da Pino Capellini, “Acqua e acquedotti nella storia di Bergamo”. Ed. Ferruccio Arnoldi, Bergamo, 1990)

Dallo scavo è emerso che lungo lo stesso asse della conduttura idrica romana di via Salvecchio correva sia l’acquedotto medioevale che quello cinquecentesco, ancor oggi quasi interamente conservati (4). Per essere distribuita dentro la città, l’acqua doveva essere fatta passare per quei medesimi livelli che i Romani avevano sicuramente individuato e utilizzato, seguendo quindi un tracciato ben preciso, codificato dalle quote dello stesso abitato (5): nelle vicinanze passava infatti l’acquedotto Magistrale, che nel Medioevo andava ad alimentare 16 fontane, quante erano le vicinie, presentando una diramazione anche lungo la via Salvecchio, in direzione appunto della Fontana di Sant’Agata.

Dal Medioevo e fin verso la fine dell’Ottocento, l’impianto della Fontana di Sant’Agata fu dunque alimentato dall’acquedotto Magistrale: in un disegno del 1806 si individuano due collettori provenienti dal colle di S. Giovanni che si incrociano in via Salvecchio, uno dei quali prosegue nel vicolo S. Agata e l’altro raggiunge sulla destra la cisterna, interrompendosi con due fuoruscite nel vano della Fontana (6).

L’immagine riproduce lo schema di distribuzione delle acque nella città antica desunto da un disegno dell’ing. Elia Fornoni. All’altezza di Colle Aperto, gli acquedotti dei Vasi e di Sudorno confluivano in un’unica condotta, o acquedotto Magistrale, il cui percorso dentro la città seguiva un tracciato ben preciso. Per la distribuzione tra le varie fontane esistevano tre “partitori”, o vasche dalle quali si “dipartivano” dei canali più piccoli. Il primo partitore era situato nell’orto degli Albani, all’estremità nord-ovest della Cittadella. Rami minori portavano l’acqua dentro la Cittadella e al Mercato del Lino; più avanti un canale scendeva per via Salvecchio, tenendosi sul lato sinistro, fino alla fontana di S. Agata, mentre un altro provvedeva ad alimentare il monastero di S. Grata (schema di distribuzione delle acque nella città antica desunto da un disegno dell’ing. Elia Fornoni (fine ‘800) che si conserva presso la Civica Biblioteca di Bergamo – Diramazione degli antichi canali nella città di Bergamo – manoscritti AB-77 -, tratto da “Gli antichi acquedotti di Bergamo”, Nevio Basezzi, Bruno Signorelli. Comune di Bergamo, Assessorato all’urbanistica, 1992

DUE PAROLE SULLA BERGAMO ROMANA

Con la costituzione di Bergamo a municipium civium romanorum nel 49 a.C., si costituisce il centro politico, amministrativo, religioso e residenziale della Bergamo romana, con la creazione della cinta muraria, della rete idrica e fognaria, delle necropoli, dell’area forense, degli edifici da spettacolo, dei monumenti pubblici, delle domus e del sistema viario, che ha lasciato una forte eredità in termini urbanistici, influenzando notevolmente anche le successive fasi di sviluppo.

La Bergamo romana secondo l’ipotesi Angelini (1974)

È proprio all’incrocio tra le due principali arterie ortogonali (decumano massimo e cardine massimo) che è stato localizzato il Foro, cuore pulsante della città, esteso lungo un quadrilatero compreso tra Piazza Vecchia e Piazza Duomo-Ateneo  e via Bartolomeo Colleoni.

L’intersezione tra il decumano maximus (asse via Colleoni – via Gombito) e il cardine maximus (asse via S. Lorenzo-via Mario Lupo), si colloca in prossimità della torre di Gombito, costruita nell’antico punto di incontro tra le due vie romane principali, il cardo e il decumano. Il nome Gombito discende dal latino compitum, perché da quell’incrocio si cominciavano a contare le strade secondarie

La centralità del luogo, rispondeva all’intento di creare effetti monumentali e scenografici, tipici dell’architettura romana di quel periodo (età tardo-repubblicana e di prima età augustea), favoriti dall’essere Bergomum una città d’altura: il suo disegno dovette essere concepito secondo una “prospettiva dinamica”, perché fosse ben visibile dal basso e dall’esterno, facendo in modo che nei luoghi emergenti spiccassero gli edifici più emblematici o monumentali.

La città alta di Bergamo osservata dal torrente Morla nella zona di via Suardi. Sin dall’età romana, il modello canonico di pianificazione regolare dell’impianto urbano, tipico delle aree di pianura, è declinato alle caratteristiche topografiche e morfologiche di Bergamo Alta, che han dato luogo a un impianto caratterizzato da una particolare disposizione dell’abitato su piani inclinati, con isolati di forma irregolare. La “prospettiva dinamica” ne favorisce la visione dal basso e dall’esterno, esaltando nei luoghi emergenti gli edifici più emblematici o monumentali, come quelli oggi affastellati lungo le vie S. Giacomo e Porta Dipinta e sul cocuzzolo le chiese principali della città antica, a formare lo skyline di Bergamo

Sulla piazza circondata da portici, si affacciavano i più importanti edifici della città: i luoghi di culto (templi), la Curia dove si riuniva il Senato, la Basilica dove si celebravano i processi, il Tabularium (archivio), le botteghe, e i gabinetti pubblici.

Ne rintracciamo i resti in alcune domus, come quelle rinvenute sotto la Cattedrale di S. Alessandro, nel Museo degli scavi e del tesoro del Duomo e alla base della Torre del Campanone, dove lungo una grande parete del I secolo d.C., estesa per oltre trenta metri, si sarebbero allineate le tabernae dei commercianti, che segnano la delimitazione del Foro sul lato meridionale: via Colleoni confinava con il lato nord della piazza del foro, delimitata da un portico colonnato, di cui si è rinvenuto un blocco di architrave nel Teatro Sociale.

Porzione meridionale del Foro romano nei locali del Palazzo del Podestà (Hospitium Comunis Pergami), ai piedi della Torre civica (Campanone)

 

Porzione meridionale del Foro romano nei locali del Palazzo del Podestà (Hospitium Comunis Pergami) di Bergamo, ai piedi della Torre civica (Campanone)

È in quest’area nevralgica della città, che dovevano trovarsi anche le abitazioni più significative del tempo: non solo ricche domus provviste di pozzi (7), ma anche importanti edifici monumentali, come testimonia il recente ritrovamento davanti alla settecentesca facciata dell’ex chiesa di Sant’Agata,  al limitare del giardino oggi sede della Cooperativa Città Alta (Circolino): un poderoso muro – lungo una decina di metri e largo sino a un metro e sessanta centimetri – e frammenti di intonaci affrescati con frutti e fogliame dai colori vividi, resti di pavimenti in marmo policromo, tracce di stucchi a rilievo ed elementi decorativi in terracotta che ornavano il tetto dell’edificio: l’ennesima testimoninza dell’importanza rivestita da Bergamo in epoca romana, che rafforza l’ipotesi di un esteso e prospero insediamento urbano, posto nel punto di raccordo tra le montagne e la pianura.

I resti di un imponente edificio pubblico, venuti alla luce nel corso dei lavori di restauro dell’ex monastero di S. Agata, davanti alla facciata della ex chiesa, confinante col giardino. La struttura (muro) indica chiaramente la presenza di un grande ed importante edificio pubblico. scoperta rilevante per la storia della città

Le ragguardevoli dimensioni del muro, posto al centro degli scavi, e i resti degli elementi architettonici e ornamentali rinvenuti, suggeriscono la presenza di un imponente palazzo, affacciato sul decumano massimo – odierna via Colleoni -, nel quale si svolgevano funzioni pubbliche (8).

Fanno da quinta al sito archeologico una fila di sepolture e un muro con archi di epoca medievale: tutto materiale ancora allo studio degli esperti, e che altro racconterà della storia antica di Bergamo

Un altro edificio importante d’epoca romana è attestato dai resti rinvenuti all’interno del ristorante “Da Mimmo”, al civico 17d (9), pertinenti a un tempio oppure a un propileo o ad un ingresso monumentale (10), inseriti, come vedremo, in un contesto di epoca medioevale e rinascimentale.

Nei locali del ristorante “Da Mimmo”, in via Colleoni 17d, si è rinvenuta, a un metro e 70 dal piano stradale, una base attica di colonna in maiolica, inquadrabile nel II sec. d.C. La base poggiava su un parallelepipedo di pietre spesso 30 cm pertinente a una struttura d’età imperiale che si estendeva per circa 7 metri (ma probabilmente anche oltre) sotto le case che costeggiano la via. Si tratta probabilmente di quanto resta di un edificio di grande importanza, dato che le relative colonne dovevano avere un’altezza di 8 o 9 metri: probabilmente un tempio, oppure poteva far parte di una costruzione aperta come un propileo o un ingresso monumentale

La strada doveva essere lastricata, come dimostrano i tratti rinvenuti in via Colleoni/angolo via Salvecchio (11) e quello, notevole, formato da lastre in pietra arenaria delle cave di Castagneta, rinvenuto presso le case Pesenti,  dove già si erano rinvenuti preziosissimi cimeli e resti architettonici d’epoca romana (12), tornati alla luce nel corso dei lavori di demolizione di un vecchio edificio, abbattuto per dar aria e luce all’abitazione dei Secco Suardo: frammenti di un arco di marmo ed un frontone, chiari indizi di un edificio importante, una ben conservata aquila di bronzo, l’insegna della legione romana (13), e una tavola bronzea con iscrizione, che rappresenta un decreto onorario per M. Sempronius Fuscus, prefetto della coorte Betica (14).

In via Colleoni, dove oggi sorge il giardino di casa Tresoldi, nel 1871 sono tornate in luce  parecchie monete, una delle quali portante l’effigie di Trajano; i cocci di una grande anfora, alcuni tratti di un pavimento a mosaico e qualche grossa scaglia di marmo ornato di fregi (14). Inoltre, un’aquila di bronzo (metà del I secolo d.C./fine del II secolo d.C. ), che, con le ali spiegate, stringe tra gli artigli un globo e molti frammenti di una sottile tavola di bronzo rettangolare, fittamente incisa a caratteri alfabetici, rappresentante un decreto onorario per M. Sempronius Fuscus, prefetto della coorte Betica, disposto sotto la magistratura dei duoviri di una colonia non identificabile. Il personaggio in questione, evidentemente di rango equestre, si rese meritevole di questo onore per la moderazione nello svolgimento delle funzioni militari e per la liberalità nell’assolvere i debiti della colonia, alla pari di un concittadino. I duoviri esprimono la speranza che il successore sia simile a lui e intendono inviare due legati dell’ordine senatorio all’imperatore per rendere nota la sua ottima condotta e raccomandarlo. Per la datazione della tavoletta, l’ipotesi più accreditata la fa risalire al II secolo d.C., dall’età di Adriano in poi (15)

 

La tavola di bronzo rinvenuta nel 1871  nella gola di un pozzo, in corrispondenza dell’attuale giardino di casa Tresoldi, in via Colleoni

IL MOSAICO D’EPOCA ROMANA NEL SITO DELLA FONTANA DI S. AGATA

Ed e qui, a pochi passi dal centro della vita pubblica di Bergomum, che si trova ciò che resta di un ambiente domestico, rinvenuto al di sotto della Fontana di S. Agata. Si tratta di un pavimento a mosaico di grande superficie (mt. 2,30×2,40), realizzato con piccoli motivi cruciformi bianchi e tessere nere al centro e il cui motivo decorativo è attestato tra il I sec a.C. e il Il secolo d.C., collocandosi proprio nel periodo di consolidamento e strutturazione della città e delle istituzioni romane. Anche questo mosaico rappresenta un’ulteriore importante scoperta, costituendo un piccolo ma significativo tassello che arricchisce il quadro della Bergamo romana.

Fontana di S. Agata – Interno

 

Il pavimento a mosaico d’epoca romana rinvenuto nei locali della Fontana di S. Agata. Grazie ritrovamenti archeologici, sappiamo che in quest’area la strada era lastricata ed era posta a quota -1,80 m. rispetto all’attuale Corsarola

DALL’ALTOMEDIOEVO AL MEDIOEVO: VERSO LA NASCITA DELLE FONTANE VICINALI

Con la caduta dell’Impero Romano, a Bergamo come in altre città, ci furono mutamenti radicali nella ripartizione degli spazi urbani, nella destinazione e nella struttura degli edifici: già dalla fine del IV e soprattutto nel corso del V secolo, alcuni edifici della porzione centrale della città vennero abbandonati e, nel secolo successivo, spoliati allo scopo di recuperare materiali utili per nuove fabbriche.

Il complesso forense, edificato tra l’età tardo repubblicana e la prima età augustea, rimase in uso anche tra il II e il IV secolo d.C., con qualche modifica e ristrutturazione, ma alla fine del IV secolo fu abbandonato e subì opere di spoliazione di materiali edili da reimpiegare in nuove costruzioni. Nell’insula poco più ad est del foro, occupata da ricche domus, fu eretta nel V secolo una maestosa cattedrale a tre navate, con colonnati e pavimenti a mosaico, i cui resti sono oggi visibili al di sotto della cattedrale di Sant’Alessandro. La scelta del luogo è indicativa delle importanti trasformazioni religiose e civili avvenute in Bergamo e si pone come l’elemento maggiormente innovativo, sia urbanisticamente che socialmente. In questo settore si edificherà anche il complesso episcopale. Ulteriori mutamenti avverranno tra la tarda antichità e l’Altomedioevo.

Nell’area sottostante la Cattedrale di S. Alessandro, a seguito del disuso e dell’abbandono di domus di età romana che costituivano un complesso residenziale molto vicino al foro, viene fondata nel V secolo l’ecclesia della città, una basilica di grandi proporzioni, a tre navate, in cui sono riutilizzate basi di colonne romane, forse provenienti dal foro. Questo edificio rimane in uso fino alla realizzazione del grande complesso episcopale, che, tra la fine dell’XI e gli inizi del XII, sul medesimo luogo, porterà alla edificazione di una Cattedrale. D’altro lato, nell’area dell’Hospitium Comunis Pergami, in età altomedioevale l’area è divenuta luogo di sepoltura finché la ripresa dell’attività edilizia, diverrà assai più consistente tra XI e XIV secolo. Ed è in questo periodo che viene edificata la Torre Civica,  già attestata nel 1197

Nell’area sottostante la Cattedrale di S. Alessandro, a seguito del disuso e dell’abbandono di domus di età romana che costituivano un complesso residenziale molto vicino al foro, viene fondata nel V secolo l’ecclesia della città, una basilica di grandi proporzioni, a tre navate, in cui sono riutilizzate basi di colonne romane, forse provenienti dal foro. Questo edificio rimane in uso fino alla realizzazione del grande complesso episcopale che, tra la fine dell’XI e gli inizi del XII, sul medesimo luogo, porterà alla edificazione di una Cattedrale. D’altro lato, nell’area dell’Hospitium Comunis Pergami, in età altomedioevale l’area è divenuta luogo di sepoltura finché la ripresa dell’attività edilizia, diverrà assai più consistente tra XI e XIV secolo. In questo periodo viene edificata la Torre Civica, già attestata nel 1197.

Fontana di S. Agata – Foto Giuseppe Preianò

 

Fontana di S. Agata – Foto Giuseppe Preianò

 

Fontana di S. Agata – Foto Giuseppe Preianò

Nell’Altomedioevo, nei pressi della futura Fontana sorgeva, presso l’antica cinta muraria romana (ampliata all’inizio del X secolo), la chiesa di S. Agata, citata già nel 908 ma forse presente anche nel secolo antecedente: sappiamo che nel XII sec. la chiesa e il convento di S. Agata erano presieduti dall’ordine religioso degli Umiliati, dedito alla lavorazione e alla follatura della lana, per la quale era necessaria la vicinanza a un corso d’acqua o a una sorgente molto ricca di calcare, elemento indispensabile per l’infeltrimento (quindi la compattezza) del tessuto.

Il ristoro “Circolino” occupa la ex chiesa di S. Agata (l’ala sud del complesso monastico), uno spazio in origine a navata unica, chiuso a est da un presbiterio con abside semicircolare (oggi corrispondente alla cucina) e coperto da una volta a botte suddivisa in tre campate. L’antica navata corre parallela al bancone del locale

All’inizio del secondo millennio il governo cittadino avverte chiaramente la complementarietà della zona pianeggiante posta ai piedi del mons civitatis e l’esigenza di assorbirla, quale presupposto indispensabile del suo sviluppo: mentre la città sul colle si infittisce di torri, si articolano i borghi e si segna il territorio suburbano col tracciato di canali artificiali destinati ad incrementare le attività artigianali e gli insediamenti produttivi del Comune. Nel contempo, il vasto suburbio della città è oggetto di un preciso piano difensivo volto a creare un sistema fortificato costituito da porte-torri (come la stongarda di Longuelo), torri isolate e veri e propri castelli.

All’interno di questo sistema vi era anche il castello dell’Allegrezza nella valletta di Astino, disposto a formare con altre tre torri poste nei pressi un quadrilatero. Il castello dovrebbe corrispondere a quel castrum de Lungullo, posto tra il castello di Mozzo e Astino, che viene indicato per la prima volta nello statuto del 1353 come proprietà di Alberto Suardi e anteriormente dei La Crotta: un presidio fortificato inserito nel sistema difensivo del suburbio (Ph Claudia Roffeni)

All’interno delle mura, Bergamo si arricchisce di edifici, spazi commerciali, strutture di servizio per raccogliere e distribuire l’acqua. E’ a questo periodo, il XIII secolo, che risale la Fontana di Sant’Agata, sorta con la suddivisione della città in vicinie (quella di S. Agata è citata nello statuto del 1248), quando ogni quartiere viene dotato di fontane che svolgeranno un ruolo importante nella vita quotidiana della Bergamo medioevale.

Fontana di S. Agata – Vano cisterna.

 

Fontana di S. Agata – Vano cisterna. Sulla sinistra compare l’incisione del Sole delle Alpi, simbolo di età longobarda

Provvista di un vano aperto al pubblico e protetta da un arco a tutto sesto con retrostante cisterna, la fontana di S. Agata era situata a un livello inferiore rispetto al piano della strada, raggiungibile da una breve scalinata; le coperture dovevano essere sfalsate e a due falde ed era probabilmente isolata, cioè non inglobata in nessun edificio, come quella che appare ancor oggi in via Porta Dipinta, presso la chiesa del Pozzo Bianco.

Come la Fontana di via Porta Dipinta, presso la chiesa del Pozzo Bianco, anche la primitiva Fontana di S. Agata  era probabilmente isolata

Con il sorgere del Comune numerose torri si elevarono sul colle all’interno delle mura. Esse appartenevano ai feudatari inurbati che per affrancarsi dal regime feudale, sentivano il bisogno di porre la loro residenza turrita in città, dove volevano inserirsi nella vita sociale del Comune, sia pure con spiegabili pretese di egemonia militaresca. Costoro spesso mantenevano le proprietà fondiarie nella campagna e la loro torre urbana sottolineava la persistente autonomia e isolamento all’interno della cinta muraria (16).

Le torri, erette prevalentemente all’inizio del periodo comunale come segno di potenza e di distinzione, divennero gli strumenti principali di difesa e offesa solo sul finire del XII secolo, quando, cessata la minaccia del Barbarossa, che era stata motivo di concordia interna, con il subentro del regime podestarile si scatenarono le violente lotte civili. Le torri evidenziavano nel paesaggio urbano i vari nuclei di potere, divisi anche a Bergamo tra Guelfi e Ghibellini, capeggiati i primi dai Rivola, i secondi dai Suardi, che avevano residenze fortificate nelle vicinie di S. Agata, di S. Matteo e di S. Pancrazio. Una torre dei Suardi dominava la zona centrale e più importante della città, e proprio per questa sua posizione baricentrica dovette essere ceduta nel XIII secolo al Comune e diventò espressione stessa del regime comunale. A differenza delle altre torri, molte delle quali vennero mozzate o mutarono proprietario, la torre civica si elevò ulteriormente, aprendosi a loggia per accogliere le campane del Comune (AA.VV., “Le Mura di Bergamo”. Azienda Autonoma del Turismo di Bergamo. 1977)

Nel corso del XIII secolo la Fontana di S. Agata venne inglobata in un’ampia costruzione che comprendeva probabilmente anche una TORRE ritenuta dei Suardi, impostata proprio sulle strutture della Fontana e ancora riconoscibile osservando la struttura muraria su vicolo S. Agata (17). A pochi passi,  la vicina chiesa di S. Agata era presieduta dai frati Militi Gaudenti, incaricati di garantire la pace fra le fazioni cittadine.

La fontana posta al piede della torre dei Suardi (parzialmente conservata). Le fronti sul vicolo delle Carceri hanno aperture di diverso tipo, con tracce di antiche aperture ora murate (18) – (AA.VV., “Le Mura di Bergamo”, cit.)

Il nuovo edificio avanzò di circa due bracci verso l’attuale via Colleoni, coprendo la scalinata di accesso della Fontana. Nel frattempo il livello stradale si era notevolmente alzato per la rimanenza il loco di macerie provenienti da demolizioni di costruzioni, che al tempo, date le estreme difficoltà di trasporto, rimanevano sul posto (19). Ciò rendeva il prelievo dell’acqua molto più scomodo.

Apprendiamo che l’edificio sovrastante la fontana, intorno al 1263 doveva ospitare la “Canova” ossia il magazzino comunale del sale. La “Canova” mutò sede nel corso dei secoli, e si suppone che la vicina via Salvecchio possa aver preso il nome da un precedente vecchio deposito.

L’edificio all’angolo tra via Colleoni e vicolo S. Agata (civico 13 di via Colleoni) dovette essere, nel XIII secolo, un deposito del sale, ingrediente preziosissimo allora utilizzato anche per la conservazione degli alimenti e da sempre soggetto a monopolio governativo. Il compito di ripartire la gabella sul sale era demandato alle vicinie. Si legge in un articolo on line redatto da Andreina Franco Loiri Locatelli per Bergamosera (non più reperibile) che il Comune dava in cessione la riscossione del dazio ad una compagnia di appaltatori verso i quali le singole vicinie risultavano solidalmente responsabili. Ogni vicinia, ricevuta la quantità di sale che ad essa spettava e che veniva conservata in uno “stacium” attrezzato, la ripartiva fra le famiglie “in una ragione composta dei loro averi e dei membri che le componevano”. Ma a partire dall’inizio del Trecento l’acquisto del sale, a Bergamo come in molte altre città, divenne un obbligo. Anzi alla tassa sul “sale vivo”, cioè effettivamente acquistato, si aggiunse quella sul “sale morto”, non distribuito. Si trattava di una tassa aggiuntiva il cui importo era determinato dalla quantità di “sale vivo” assegnato a ciascuna famiglia. E al “sale morto” si fece ricorso con sempre maggiore frequenza in occasione di impreviste spese di guerra

Da quanto rimane delle attrezzature idrauliche si può ipotizzare che l’acqua proveniente dalla conduttura di via Salvecchio raggiungesse la cisterna per poi diramarsi nei caseggiati circostanti, tra cui troviamo la Casazza (in origine dei Suardi, oggi ristorante “Da Mimmo” e risalente alla prima fase del Trecento/1357), il Luogo Pio Colleoni (voluto da Bartolomeo Colleoni nel 1466, sorto nelle case un tempo appartenenti a Baldo e Giovanni Suardi) e il convento di S. Agata (iniziato a costruire nella prima metà XVIII secolo, ma preceduto, dalla prima metà del XIV secolo, da alcune domus ecclesiae S. Agathae collocate a ridosso dell’abside). Dal serbatoio l’acqua, attraverso un bocchello entrava nel vano della fontana pubblica da dove poteva essere prelevata (20).

La Casazza, dimora fortificata, in parte in conci squadrati di pietra arenaria di Sarnico, oggi occupata dai locali de ristorante “Da Mimmo”, presenta al piano terra una lapide che riporta la descrizione utilizzata nel tardo Medioevo per descrivere l’edificio: “QUESTO EDIFICIO DETTO ‘LA CASAZZA’/COSTRUITO DA BALDINO SUARDI NEL 1357/RITENUTO ALLORA IL PIU’ FASTOSO/PALAZZO PRIVATO DELLA CITTA’/FU SEDE DEL SERVIZIO POSTALE VENETO/ACA 1951”. Secondo un recente articolo pare invece che l’edificio risalga alla prima fase del Trecento, quando il ghibellino Baldino Suardi decise di acquistarlo e renderlo dimora del proprio casato, ubicato in posizione strategica nei pressi della Cittadella voluta da Bernabò Visconti, con il quale Baldino si era imparentato tramite il matrimonio fra i rispettivi figli. Con l’avvento della Repubblica di Venezia, la casata fu costretta a cedere lo stabile ai Veneziani, che decisero di destinarlo al deposito del sale e al servizio postale della Serenissima. La Casazza fu nuovamente acquistata dai Suardi prima nel 1509 e poi nel 1598 prima di cederla definitivamente nei decenni successivi ai Benaglio. Le aperture architravate del pianterreno conservano l’aspetto tipico delle botteghe medioevali

IL RINASCIMENTO E IL TRIGRAMMA DI SAN BERNARDINO SULLA VOLTA A BOTTE CHE SOVRASTA LA FONTANA

Sulla volta a botte che copre la fontana è venuto alla luce un antico affresco con il trigramma di San Bernardino, databile tra il XV ed il XVI secolo. diffuso da San Bernardino da Siena dopo la sua venuta a Bergamo tra il 1411 e il 1419 per predicare la concordia tra i Guelfi ed i Ghibellini della città: è il simbolo legato alla presenza del santo a Bergamo, in cui realizzò un nuovo convento francescano dove ora sorge la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Porta Nuova.

Il trigramma è iscritto in un sole raggiato giallo oro su campo bianco stellato, databile tra il XV e il XVI secolo. La sigla IHS (in greco IHZ) indica per alcuni il nome IHZOYZ (cioè “lesous’: Gesù); per altri il motto costantiniano “ln Hoc Signo (Vinces), “Con questo segno vincerai”.

Il trigramma fu ideato e disegnato da San Bernardino stesso (considerato non a caso patrono dei pubblicitari), che diede ad ogni elemento del simbolo un significato: il sole centrale è chiara allusione a Cristo che dà la vita e suggerisce l’idea dell’irradiarsi della Carità. I dodici raggi serpeggianti sono i dodici Apostoli; gli otto raggi diretti rappresentano le beatitudini; la fascia che circonda il sole rappresenta la felicità infinita dei beati, il celeste dello sfondo è simbolo della fede; l’oro dell’amore.

Il trigramma di S. Bernardino da Siena affrescato sulla volta a botte che copre la fontana ed iscritto in un sole raggiato giallo oro su campo bianco stellato. La sigla IHS indica le prime tre lettere del nome “Iesous” (Gesù). le lettere H e S erano rispettivamente una eta e una sigma dell’alfabeto greco; ma si sono date anche altre spiegazioni, come l’abbreviazione di “In Hoc Signo (vinces)”, il motto costantiniano, [“in questo segno vincerai”] oppure Iesus Hominum Salvator [“Gesù salvatore degli uomini”]. Il significato mistico dei raggi serpeggianti era espresso in una litania: rifugio dei penitenti; vessillo dei combattenti; rimedio degli infermi; conforto dei sofferenti; onore dei credenti; gioia dei predicanti; merito degli operanti; aiuto dei deficienti; sospiro dei meditanti; suffragio degli oranti; gusto dei contemplanti; gloria dei trionfanti
Il Rinascimento fu per Bergamo un’epoca di profondi cambiamenti. La città doveva essere meglio difesa, essere un valido bastione verso Milano e tenere aperti i valichi preziosi verso i Grigioni e il centro Europa. Pur tenendo attive alcune parti della cinta muraria medievale, furono costruiti nuovi bastioni e nuove piattaforme ed infine l’intero impianto fu rivisto e ridisegnato.

All’interno delle mura, intanto, avvenivano analoghi mutamenti nelle costruzioni, negli stili, nel modo di vivere. Se da una parte infatti una parte della popolazione fu costretta a reinsediarsi nella citta bassa a causa delle demolizioni operate per la costruzione delle Mura e dei controlli che danneggiavano i mercanti non particolarmente ricchi, un’altra porzione di popolazione risalì il colle alla ricerca di un alloggio all’interno del fitto tessuto di case, perlopiù medioevali, costituite da uno o due piani, oltre al piano terra occupato da botteghe o laboratori e con le aree libere interne agli isolati.

Condizionati dall’anello delle Mura e costretti a cercare spazio, gli edifici vennero innalzati con sopralzi di uno o due piani, superandosi l’uno sull’altro alla ricerca di luce e di sole. Venne poi costruita una seconda linea di case, interna al fronte affacciato su strada, inserendo nella fascia intermedia diversi corpi trasversali intervallati da cortili. Ad infittirsi fu soprattutto l’asse principale della città che corre lungo le attuali vie Gombito e Colleoni.

Fontana di S. Agata – Foto Giuseppe Preianò

LA FONTANA TRA SETTE E OTTOCENTO

Sappiamo che la torre dei Suardi, posta a fianco della fontana, fu inglobata in un edificio del XVIII secolo (21), inserita cioè nel palazzo Secco Suardo, tra le famiglie della nobiltà bergamasca che potevano vantare origini più antiche: uno dei rami, insieme a quello dei Suardi e dei Suardo, provenienti da un unico ceppo risalente al XIII secolo, precisamente da un Lanfranco del secolo XIII. “I vari rami del casato hanno legato il loro nome a quattro edifici, in Bergamo: l’antica “Domus Suardorim” di Piazza Vecchia, sede del Podestà dopo il 1216; quello successivamente passato alla Funicolare, quello dei Secco Suardo in via S. Salvatore, 7; infine quello di via Pignolo” (22).

L’edificio Tresoldi risale al XIII secolo (torre) con trasformazioni nel Settecento e nell’Ottocento e restauri parziali nel 1941. Al primo piano volte a padiglione con affreschi, al pt locali con volte a botte e a crociera (23 ) Nell’inventario dei beni culturali il palazzo è indicato al civico 13-13A-B-C-D (Foto Giuseppe Preianò)

In effetti, nel 1758 l’area in cui sorge la fontana risulta di proprietà Secchi-Suardi (24), che da queste parti dovevano possederne altre, in quanto già nel 1686, di fronte al palazzo esisteva un vero e proprio teatro privato di estrazione nobiliare, costruito su iniziativa del conte Giuseppe Secco Suardo, nel suo palazzo sito in contrada di Sant’Agata (25).

Nelle adiacenze della Fontana, vi era inoltre un pons Suardorum, che compare ancora nella mappa catastale del 1811, ma che viene demolito nel 1825 (26).

Ad ogni modo, nella mappa catastale del 1876 (che mostra i mappali del teatro secentesco) l’edificio oltre il vicolo con n. di mappa 410 risulta in proprietà alla Partita 3814 dei fratelli Scotti nobile Giovanni e sacerdote Carlo. L’ edificio che occupava l’area dell’attuale giardino Tresoldi risultava in proprietà dei fratelli Conti Secco Suardo Bartolomeo e Giulio (27).

Palazzo Secco Suardo (413, 415) nella mappa castastale di Bergamo (1876). Il teatro Secco Suardo, un un vero e proprio teatro privato di estrazione nobiliare, fu costruito nella seconda metà del 1686 (attivo fino al 1695) su iniziativa del conte Giuseppe Secco Suardo, nel suo palazzo sito in contrada di Sant’Agata (ASBg, Catasto lombardo veneto, mappe) – (da Francesca Fantappiè, «Per teatri non è Bergamo sito». La società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ’600 e ’700. Copyright © 2010 by Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo)

L’accesso alla fontana fu possibile fino all’Ottocento, quando ancora il prelievo avveniva in sottoquota, ma a causa delle continue lamentele dei residenti, per agevolare il prelievo dell’acqua nel 1884 (28) il fronte venne chiuso da un muro di tamponamento e il punto di prelievo spostato in avanti ed innalzato al livello della via, grazie all’installazione di una pompa meccanica ad azionamento manuale; nel contempo il collegamento dei due vani ne raddoppiò la capacità (29): si poterono così evitare “tutti gli otto o dieci gradini che prima bisognava fare per attingere l’acqua e che costituivano un pericolo grave” (30).

Un articolo de L’Eco di Bergamo informa che sopra la fontana vi era un vecchio tabernacolo consacrato alla Madonna Addolorata, che dietro insistenza degli abitanti venne ricollocato al suo posto alla fine dei lavori. Grazie a una raccolta di fondi intrapresa da un gruppo di operai, il vecchio quadro della Madonna fu fatto pulire, ornato di una nuova cornice e collocato “in una nicchia difesa da un forte graticcio di ferro e adorna di un bel lanternino” (31).

Intorno al 1928 fa la fontana era stata risistemata dagli ing. Luigi Angelini e Cesare Selvelli e sul muro di fondo (32), tra l’arco e la volta vi era un bassorilievo in ceramica colorata di tipo robbiano rappresentante l’Annunciazione (33).

Fontana di S. Agata – Foto Giuseppe Preianò

L’impianto della Fontana di Sant’Agata fu alimentato dall’acquedotto Magistrale fin verso la fine dell’Ottocento e nel 1889 entrò in funzione un nuovo acquedotto municipale, con l’acqua che veniva pompata dal serbatoio di S. Agostino a quello sul colle del Seminario, mentre una condotta per i colli entrò in esercizio nel 1892 (34).

Nel 1920 la Fontana fu restaurata da Ciro Caversazzi che, probabilmente, fece collocare il mascherone da cui sgorga l’acqua (35). Dopo questa data, in un periodo imprecisato l’immobile risulta di proprietà Donadoni, per essere acquistato dalla Famiglia Tresoldi nel 1953 (36).

Negli ultimi anni i due vani collegati erano stati utilizzati come cisterna per la nafta al servizio dell’impianto per la panificazione e solo con la metanizzazione i vani erano stati liberati e utilizzati a ripostiglio (37), fino all’intervento di recupero promosso dalla proprietà dello stabile effettuato nel 2009, che, come detto, ha riportato alla luce, oltre all’intero sistema idrico medioevale – con il suo bacino di raccolta dell’acqua, il locale dove attingerla e i resti di una vasca di decantazione -, anche un affresco d’epoca rinascimentale sulla volta della fontana e i resti di un ambiente domestico d’epoca romana, con annessa canaletta di scarico: un tassello piccolo ma prezioso nel quale si concentrano due millenni di storia di Bergamo.

Come beffardo contrappasso al posto della fontana era sorta un’enoteca, in seguito sostituita da un altro esercizio commerciale.

Note

(1) A. Mazzi, “Alcune indicazioni per servire…” pag. 20. La chiesa di S. Agata fu presieduta dapprima dall’ordine religioso degli Umiliati, poi dai frati Militi Gaudenti, incaricati di garantire la pace fra le fazioni cittadine e, a partire dal 1357, dai Padri Carmelitani, che la ampliarono nel 1450. Insieme alla sua consacrazione nel 1489, il Vescovo Lorenzo Gabrieli ne ufficializzò l’investitura parrocchiale, considerato che la vicinia contava ormai un congruo numero di abitanti. Per le vicende degli Umiliati, si veda: Maria Teresa Brolis, “Gli Umiliati a Bergamo nei secoli XIII e XIV”. Casa editrice: Vita e Pensiero, 1991.

(2) Fornoni 1905, p.70.

(3) Stefania Casini, Maria Fortunati (a cura di), “Bergomum. Un colle che divenne città”. Catalogo della mostra (Bergamo, 16 febbraio-19 maggio 2019). Lubrina Bramani Editore, 2019.

(4) Raffaella Poggiani Keller, Maria Fortunati Zuccàla, Il caso di Bergamo. In “La Città nell’Italia settentrionale in età romana. Morfologia, strutture e funzionamento dei centri urbani delle Regiones X e XI”. Atti del convegno di Trieste (13-15 marzo 1987).

(5) Pino Capellini, “Acqua e acquedotti nella storia di Bergamo”. Ed. Ferruccio Arnoldi, Bergamo, 1990.

(6) Il documento in questione è una copia in scala 1/2 del disegno topografico delle acque sotterranee nell’interno della Città di Bergamo dell’ing. Andrea P. Respino redatta dall’ Arch. Carlo Capitanio e risalente al 1806 (copia visibile presso il restauratore Leonida Stefanoni di Bergamo). A quella data il Fontanaro risultava certo Bortolo Beretta. Dal disegno si evince che a quella data il vano della Fontana era ancora perfettamente agibile e funzionante, essendo individuabili due collettori provenienti dal Colle S. Giovanni che si incrociano in via Salvecchio, di cui uno prosegue nel vicolo S. Agata e l’altro raggiunge sulla destra la cisterna, interrompendosi con due fuoruscite nel vano della Fontana. Il numero dell’ utenza risulta il 234 (Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata. Bergamo 1995).

(7) In via Colleoni si sono ritrovati una domus al civico 30, un pozzo (i pozzi erano generalmente collegati a cisterne) e resti di struttura (Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana. Catalogo della Mostra tenuta a Bergamo nel 1986. Comune di Bergamo, Assessorato alla cultura, Civico museo archeologico. Giampietro Brogiolo. Panini, Modena, 1986).

(8) L’Eco di Bergamo, sabato 20 Aprile 2024, “Sant’Agata svela la Bergamo romana”.

(9) Il numero civico è precisato in Stefania Casini, Maria Fortunati (a cura di), “Bergomum. Un colle che divenne città” (op. cit.), che indica per i n. civici 23-24 un’altra base di colonna.

(10) Notizia rintracciata in Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana”, op. cit. e nell’Inventario dei Beni Culturali, Ambientali e Archeologici del Comune di Bergamo.

(11) Stefania Casini, Maria Fortunati (a cura di), “Bergomum. Un colle che divenne città” (op. cit.).

(12) Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana”, op. cit.

(13) In via Colleoni, in corrispondenza del civico 69, c’era una vecchia casupola un tempo appartenuta a Bartolomeo Colleoni e da questi donata nel 1468 al Luogo Pio della Pietà, acquistata dal conte Alessandro Secco Suardo e da questi demolita nel 1871 per dar aria e luce all’attigua abitazione. Durante la demolizione, fu trovata in un pozzo una tavola bronzea con iscrizione, insieme ad oggetti fittili e di metallo, tra cui monete imperiali, un’aquila di bronzo che, con le ali spiegate, stringe tra gli artigli un globo: nell’Ottocento, nella bergamasca se ne trovò una simile anche a Cicola sul colle Roccoli e da confronti effettuati, potrebbe risalire a un periodo compreso tra la metà del I secolo d.C. e la fine del II secolo d.C. (Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana”, op. cit.).

(14) Le condizioni del rinvenimento sono descritte da Paolo Vimercati Sozzi nel manoscritto dal titolo Raccolta di iscrizioni di vari tempi e luoghi della città e provincia. In: Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana”, op. cit.

(15) Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana”, op. cit.

(16)  AA.VV. “Le mura di Bergamo”. Azienda Autonoma del Turismo di Bergamo. Anno 1977.

(17) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.

(18) Inventario dei Beni Culturali, Ambientali e Archeologici del Comune di Bergamo.

(19) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.

(20) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.

(21) Arnaldo Gualandris, La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta.  U.C.A.I., 2008.

(22) Bascapè Giacomo C., Perogalli Carlo (a cura di), “Palazzi privati di Lombardia”. Milano, Electa Editrice per Banco Ambrosiano, 1964. Altrove si legge che nel 1517 ebbe origine il casato dei Secco Suardo, a partire da Maria Secco Suardo, figlia di Socino Secco e data in sposa a Lodovico Suardi. Il doppio cognome era dovuto a questioni di eredità che Socino Secco lasciò, a patto che il suo cognome fosse tramandato in aggiunta a quello del genero (Andreina Franco Loiri Locatelli, La casa della Misericordia, La Rivista di Bergamo, p. 81). Di questo casato si ricordano Giovanni noto restauratore, e Paolina Secco Suardo, meglio conosciuta con lo pseudonimo di Lesbia Cidonia nei suoi componimenti risalenti al XVIII secolo.

(23) Bascapè Giacomo C., Perogalli Carlo (a cura di), “Palazzi privati di Lombardia”, op. cit.

(24) Nel 1758, “nell’Inventario dei Beni della Città dell’agrimensore Gio. Tomaso Botelli non risulta alcuna proprietà pubblica della Fontana, ma, se si riferisce alla zona il cabreo di pagina 10, di 11 botteghe e abitazioni nelle adiacenze, mentre l’area della Fontana sarebbe indicata di proprietà Secchi-Suardi” (Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.).

(25) Francesca Fantappiè, “Per teatri non è Bergamo sito”. La società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ’600 e ’700. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

(26) Nella mappa catastale del 1811 “la Fontana è individuata nella sua estensione e compare ancora il Pons Suardorum nelle adiacenze”, demolito nel 1825 (Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.).

(27) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit., dove si aggiunge che l’ingombro della Fontana non compare.

(28) Arnaldo Gualandris, “La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta”, op. cit., che trae la notizia da un articolo de L’Eco di Bergamo datato 22 febbraio 1884.

(29) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.

(30) Arnaldo Gualandris, “La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta”, op. cit., che trae la notizia da un articolo de L’Eco di Bergamo datato 22 febbraio 1884.

(31) Arnaldo Gualandris, “La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta”, op. cit., che trae la notizia da un articolo de L’Eco di Bergamo datato 22 febbraio 1884.

(32) Arnaldo Gualandris, “La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta”, op. cit.

(33) Inventario dei Beni Culturali, Ambientali e Archeologici del Comune di Bergamo.

(34) Nevio Besezzi, Bruno Signorelli, “Gli antichi acquedotti di Bergamo”. Stamperia Stefanoni, Bergamo, 1992.

(35) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit., dove si precisa che la notizia non è accertata.

(36) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.

(37) Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata, op. cit.

Riferimenti

Francesco Gilardi Architetto, Eugenio Bonomi Architetto, Fontana di Sant’Agata. Bergamo 1995.

Raffaella Poggiani Keller, Maria Fortunati Zuccàla, Il caso di Bergamo. In “La Città nell’Italia settentrionale in étà romana. Morfologia, strutture e funzionamento dei centri urbani delle Regiones X e XI”. Atti del convegno di Trieste (13-15 marzo 1987).

Pino Capellini, “Acqua e acquedotti nella storia di Bergamo”. Ed. Ferruccio Arnoldi, Bergamo, 1990.

Stefania Casini, Maria Fortunati (a cura di), “Bergomum. Un colle che divenne città”. Catalogo della mostra (Bergamo, 16 febbraio-19 maggio 2019). Lubrina Bramani Editore, 2019.

Nevio Besezzi, Bruno Signorelli, “Gli antichi acquedotti di Bergamo”. Stamperia Stefanoni, Bergamo, 1992.

Arnaldo Gualandris, La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta.  U.C.A.I., 2008.

L’Eco di Bergamo, sabato 20 APRILE 2024, “Sant’Agata svela la Bergamo romana”.

Raffaella Poggiani Keller, Gian Pietro Brogiolo, “Bergamo: dalle origini all’alto Medioevo: documenti per un’archeologia urbana. Catalogo della Mostra tenuta a Bergamo nel 1986. Comune di Bergamo, Assessorato alla cultura, Civico museo archeologico. Giampietro Brogiolo. Panini, Modena, 1986.

Bascapè Giacomo C., Perogalli Carlo (a cura di), “Palazzi privati di Lombardia”. Milano, Electa Editrice per Banco Ambrosiano, 1964.

Francesca Fantappiè, “Per teatri non è Bergamo sito”. La società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ’600 e ’700. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

Il Fontanone Visconteo – il più grande serbatoio di Città Alta da oltre 700 anni – e la nascita dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti

“Da ragazzino, insieme ai compagni ci infilavamo dentro, facevamo gli speleologi perlustrando le vasche. E’ immensa, passa sotto la basilica di Santa Maria Maggiore, a berla sapeva di pane” (Domenico Lucchetti in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, 28/04/2002)

Il Fontanone, stupendo manufatto a conci bicromi, bianchi e neri, sorge nel 1342 nella vicinia di Antescolis, nel cuore della Città Alta di Bergamo, tra l’abside della basilica di Santa Maria Maggiore e l’antica Cattedrale di San Vincenzo (Duomo dal IX secolo). E’ sormontato dalla mole della ex sede dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, eretto nel 1768

Nei sotterranei dell’ex Ateneo, in piazza Reginaldo Giuliani, si cela un grandioso serbatoio d’acqua, scavato nella viva roccia. E’ quello che chiamiamo “il Fontanone”, realizzato (o forse ripristinato) nel 1342 da Luchino Visconti – che governava Bergamo anche a nome del fratello arcivescovo Giovanni – nel centro politico, religioso e commerciale della città, oggetto in quegli anni di un grande fervore costruttivo.

La piazza, anticamente occupata dal Foro romano e divenuta nel medioevo “platea magna Sancti Vincentii”, ebbe fin dagli albori del Comune soprattutto vocazione commerciale.

La piazzetta antistante il Fontanone nell’incisione di Giuseppe Berlendis (1830). Sovrasta il Fontanone la sede dell’Ateneo. A lato è visibile la Basilica mentre a sinistra fa capolino la lanterna della Chiesa della Carità, indagata da Tosca Rossi in “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”

Il Fontanone si inserì nel centro monumentale urbano, a sottolineare la presenza dei nuovi signori. Vi si trovava una fontana citata come fontana “berlina”, forse perché nei suoi pressi si trovava la berlina, luogo di pena che esponeva al pubblico disprezzo i colpevoli di reati che erano di danno alla cittadinanza. C’era inoltre una struttura porticata, citata in alcuni documenti come “porticus pelipariorum” (portico dei pellicciai), e la cisterna inglobò ovviamente sia la fontana che il “porticus” preesistenti (1) e venne protetta da un riparo (2).

Donato Calvi nelle Effemeridi (Vol. I, pag. 324) dà la notizia di essere il volume d’acqua contenuto di tremila seicento cinquanta carri d’acqua, pari a 43.800 brente bergamasche (1200 mc.)

Capace di circa ventiduemila ettolitri d’acqua (secondo le testimonianze di allora tremilaseicentocinquanta carra, pari a 43.800 brente bergamasche), la cisterna era alimentata dall’antica conduttura dei Vasi proveniente da Castagneta, acquedotto di origine romana che, dopo secoli di abbandono e i danni causati dalle invasioni barbariche, i Visconti avevano provveduto a ripristinare per poter intervenire al meglio sull’impianto urbanistico, con la definizione di alcune piazze del centro storico: Mercato del Fieno, delle Scarpe, delle Biade, della Carne, del Pesce, differenziate per mercanzia allo scopo di agevolare la tassazione.

L’antico acquedotto dei Vasi proveniente da Castagneta, sui colli a nord della città, venne ripristinato in età viscontea rimediando ai danni delle invasioni barbariche, come recita la lapide presente in località Gallina, inserita in un bel tratto di muro medioevale. Il testo ricorda che nel 1339, sotto il podestà Beccaro Beccaris, l’acquedotto fu interamente ripulito (“Sguratum”) fino al Saliente (partitore finale o Castellum acquae), situato nei pressi dell’antica porta medioevale di S. Alessandro, distrutto con l’edificazione delle Mura veneziane

Nelle intenzioni della Signoria Viscontea, che dominò Bergamo dal 1331 e al 1428, la cisterna doveva, per misura di capacità, superare di gran lunga le camere di serbatoio delle altre fonti della città, che era già provvista di tre pozzi pubblici (3) e di 17 fontane vicinali.

La realizzazione della nuova cisterna (Fontanone) non aveva fatto eliminare la fontana di Antescolis unita alla basilica

E ciò non tanto, come asserivano i Visconti, per assicurare il rifornimento idrico ai poveri bergamaschi, quanto piuttosto per garantirlo ai militi viscontei, in quei difficili anni gravati da guerre, carestie e pestilenze, nell’eventualità di un lungo assedio da parte dei nemici.

Il fonte doveva perciò servire solo per attingere acqua: non vi dovevano essere né vasche per lavare, né abbeveratoi per i cavalli. come esistevano presso le fontane del Vagine, del Lantro, della Boccola, del Corno alla Fara, per le quali gli statuti della città, riassunti nel volume del 1727 (coll. VIII, cap. 75-78), imponevano ai guardiani misure di pulizia e di ordine: “custodes teneantur mundare et sgurare lavanderia et lavellos in quibus bibunt equi”.

Cisterna del Fontanone Visconteo. Recenti studi assicurano che prima di versarsi nella cisterna, l’acqua confluiva in una piccola vasca di decantazione posta sul lato occidentale verso la basilica; dalla parte opposta c’era la zona di aspirazione con il pescaggio nella parte inferiore (ora interrato e nascosto)

L’ACQUEDOTTO MAGISTRAE E IL PARTITORE DEL VESCOVADO

Con la costruzione delle Mura veneziane e la conseguente distruzione dell’antico serbatoio del Saliente in Colle Aperto, da cui si diramavano i canali per servire le diverse fontane, il Fontanone venne alimentato dall’Acquedotto Magistrale, il cui condotto prendeva origine dal punto di unione dell’Acquedotto dei Vasi con l’Acquedotto di Sudorno, all’interno del baluardo di S. Alessandro.

Snodandosi all’interno di Città Alta, tramite partitori delle acque e canalizzazioni minori, tale condotto distribuiva acqua alle fontane, cisterne ed utenze private che avevano la concessione per l’estrazione.

Le acque giungevano al Fontanone tramite il “Partitore del Vescovado”, il più importante fra i tre partitori delle acque costruiti lungo l’acquedotto, posizionato al di sotto del giardino della della Curia Vescovile. Da qui si dipartivano le canalizzazioni per alcune utenze interne alla Curia stessa, per la fontana di San Michele dell’Arco, la fontana di Antescolis o di Santa Maria Maggiore, il palazzo della Mia in via Arena, il Fontanone e il partitore successivo di piazza Mercato del Pesce.

Partitore del Vescovado. Provenendo da dietro la Cittadella, l’acquedotto magistrale raggiungeva il Vescovado, da dove un partitore distribuiva l’acqua in più parti della città E’ indicato il canale maggiore e le diramazioni per la fontana di S. Maria Maggiore (Antescolis) per il Fontanone e per la fontana di S. Michele (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole)

GLI ANTICHI CONDOTTI

Fondamentali tra le diramazioni del partitore del Vescovado due canali che passavano in senso longitudinale sotto la basilica di Santa Maria Maggiore. Uno di essi, in parte ancora esistente, attraversava un ambiente ipogeo di forma circolare e con soffitto a volta in cotto, ubicato sotto la sacrestia nuova. Il condotto proseguiva andando quindi ad alimentare la grande cisterna del Fontanone.

A riprova dell’esistenza di un preesistente sistema di canalizzazione, all’interno del suddetto ambiente ipogeo il Gruppo Speleologico Bergamasco Le Nottole ha individuato una struttura muraria più antica fornita di un tubo circolare in bronzo che doveva assicurare l’approvvigionamento idrico al sito. Ciò non deve stupire in quanto strutture come gli acquedotti dovevano seguire determinati percorsi, rispettando quote e livelli.

E’ da ritenere quindi che tra il condotto che assicurava l’acqua alla città romana e medievale, e poi a quella del ‘600, non vi fossero molte differenze, dovendo giocoforza attestarsi su alcune emergenze fondamentali come il colle di S. Giovanni e quello di S. Salvatore.

Vano ipogeo a pianta circolare con soffitto a volta in cotto esistente sotto la sagrestia di Santa Maria Maggiore. Era attraversato dall’acquedotto che, provenendo dal partitore del Vescovado, correva longitudinalmente sotto il pavimento della Basilica per poi alimentare la cisterna del Fontanone Visconteo (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole)

 

L’Acquedotto Magistrale rimase in funzione sino al 1892, quando venne costruito un nuovo impianto che rispondesse alle nuove esigenze, con la costruzione di nuovi lavatoi quello in via della Boccola, in Borgo canale e il lavatoio in via Mario Lupo, in fotografia

LA SIGLA AQ

La presenza dell’antico Acquedotto è segnalata dalla sigla AQ, incisa su un muro a lato del Fontanone, accanto allo scalone posto fra l’Ateneo e Santa Maria Maggiore e vicino a una porticina di legno, antico uschiolo di ispezione.

L’iscrizione AQ incisa su un muro a lato del Fontanone, accanto a una porticina in legno cui accedevano i fontanari per ispezionare la cisterna viscontea

 

La sigla AQ presso il Fontanone

Un tempo questa sigla, insieme alle lettere “A” o “AQM” si notava un po’ ovunque in Città Alta e sui colli, incisa sui muri di alcune case o su appositi cippi di arenaria. Era così che, nel ‘700, gli addetti alla manutenzione e alla pulizia della rete idrica (i cosiddetti “fontanari”) indicavano i punti in cui passavano i tracciati dell’acquedotto, altrimenti impossibili da individuare.

E dal momento che la rete idrica sotterranea si diramava per oltre sei chilometri, si presume che in passato tali sigle fossero numerose. Ancor oggi sopravvivono alcune tracce, ad esempio su un cippo di via Sudorno, su pietre del muro di sostegno in via San Vigilio o lungo il percorso dei Vasi (vie Castagneta, Ramera, Beltrami.

IL CARTIGLIO TRECENTESCO E LE BOCCHE DELL’ANTICA FONTANA

Al di sotto del doppio scalone un arco inquadra le bocche dell’antica fontana e un grande cartiglio trecentesco in marmo grigio, inciso in latino e in caratteri gotici.

L’epigrafe riporta il 1342 come data di edificazione del Fontanone ed oltre a ricordare i fratelli Giovanni e Luchino Visconti, riporta i nomi del podestà cittadino, Gabrio Pozzobonelli, e del tesoriere, Bondirolo de’ Zerbi, milanesi, nonché nomi dei costruttori, Giovanni da Corteregia e Giacomo da Correggio, forse scultori comacini che, all’epoca della costruzione, avevano da poco ultimato, sotto la direzione di Ugo e Giovanni da Campione, la ricca decorazione ornamentale del Battistero, ora affacciato sulla Piazza del Duomo di fronte alla Cattedrale.

Il pregevole cartiglio trecentesco

Il dominio di Luchino e Giovanni Visconti è visualizzato non solo nei nomi ma da tre interessanti riquadri araldici scolpiti nella parte superiore, con a sinistra lo stemma della città con sei strisce, vermiglie e gialle, disposte “a palo”; al centro la targa con l’aquila (pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero) allusiva a Giovanni Arcivescovo di Milano e, alla destra, come emblema del fratello minore Luchino, la raffigurazione in parte consunta di un aquilotto che artiglia un animale (lupo o cinghiale).

Gian Galeazzo Visconti, già vicario imperiale e signore della capitale lombarda, aveva ottenuto il titolo di Duca di Milano l’11 maggio 1395 mediante diploma imperiale da Venceslao di Lussemburgo. Con un secondo documento datato 13 ottobre 1396 i poteri ducali furono estesi a tutti i domini viscontei e nei centri più significativi del ducato. Gian Galeazzo ottenne la patente per inquartare il biscione visconteo con l’Aquila imperiale – pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero – nella nuova bandiera ducale. Il nome dei Visconti deriva infatti dal latino vice comitis, che significa “vice conti”, vice – colui che fa le veci e conti – comites (con-te) indicava colui che stava con qualcuno, cioè con l’imperatore: per i Visconti con l’imperatore del Sacro Romano Impero. La famiglia dei Visconti era quindi colei che in Italia rappresentava l’Impero, tanto da agognare allo status di primi Principi italiani, che a fatica Gian Galeazzo ottenne nel 1402

Nella parte inferiore, i due mascheroni a rilievo e a testa di moro posti a lato della bocchetta sono modellati con gusto secentesco, rivelando l’aggiunta di elementi in epoca molto più tarda.

In alternativa alla bocche dell’antica fontana c’era una bocchetta, ancora visibile sul lato breve che volge verso via Mario Lupo, che tramite una pompa prelevava l’acqua dal serbatoio, presente sino a pochi decenni or sono

Il Fontanone intorno al 1915 e la bocchetta ancora presente sul lato breve che volge verso via Mario Lupo (Raccolta D. Lucchetti)

 

1948: un bambino aziona la pompa per prelevare l’acqua del Fontanone

 

Una delle due finestrelle aperte ai lati più corti della struttura, attraverso la quale è possibile osservare la cisterna. La pompa e la bocchetta verso via Mario Lupo sono ancora presenti

IL PORTICO E LA NASCITA DEL MUSEO LAPIDARIO

La costruzione del Fontanone permise la realizzazione di un sovrastante piazza rettangolare sulla quale fu successivamente costruito un piccolo edificio, che compare nella cosiddetta veduta di Bergamo a volo d’uccello di Alvise Cima, dove è indicato come una minuscola struttura. Il prospetto sud, murato, è provvisto di tre piccole porte; molto probabilmente il fronte nord, non visibile nella rappresentazione, era aperto e scandito da colonne.  Poteva trattarsi o di un deposito di armi in disuso (4).

La freccia indica, di fronte alla chiesa di S. Vincenzo (attuale Duomo) il Fontanone visconteo privo del sopralzo neoclassico del 1768, con il prospetto sud murato e provvisto di tre piccole aperture; si presume che il fronte nord, non visibile nella rappresentazione, fosse aperto e scandito da colonne (4) (Anonimo, Bergamo a volo d’uccello, eseguita verso la fine del XVI secolo e con modifiche apportate entro il 1662, Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo. Foto Dimitri Salvi. Dettaglio)

Nel 1743 il portico esistente sopra il Fontanone fu trasformato in un ambiente destinato ad ospitare la sede del nascente museo lapidario, voluto dalla municipalità per ospitare le lapidi antiche provenienti da materiale di scavo, disperse a Bergamo e nel territorio. Il progetto fu affidato all’architetto veronese Alessandro Pompei. I lavori iniziarono nel 1759 e terminarono nel 1768 con la posa della monumentale scalinata d’ingresso a rampe contrapposte. Non siamo a conoscenza del disegno originario, ma è possibile immaginare una struttura essenziale, presumibilmente un loggiato aperto, dove internamente erano collocate le antiche lapidi.

La divisione in moduli proporzionale al piede veronese del l’edificazione – circa 35 cm – è stata recentemente confermata. Questo ha condizionato negli aspetti metrici tutta la sua successiva funzionalità e modifiche stilistiche (la sequenza lesene-arcate ricalca quella rapporto 1:3 e la larghezza di ciascun pilastro è pari a due piedi).

DALLA LA NASCITA DELL’ATENEO AI GIORNI NOSTRI

Nel 1818 l’Imperial Regia Delegazione Provinciale dispose di dare come sede definitiva dell’ “Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti” il pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone, che venne quindi adattato, ovvero modificato, per divenire un ambiente chiuso.

Ed è appunto in seguito al 1818, che viene eretto, su progetto dell’architetto Raffaello Dalpino, l’attuale costruzione di gusto neoclassico.

L’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, istituito con decreto napoleonico il 25 dicembre 1810, è sorto dall’unificazione di due antichissime accademie: degli Eccitati e degli Arvali. L’Accademia degli Eccitati, fondata nel 1642 da un gruppo di eruditi, tra cui Bonifacio Agliardi, Clemente Rivola e Donato Calvi, ebbe attività prevalentemente letteraria; rinnovata nel 1749 ad opera soprattutto di Pierantonio Serassi e di Mario Lupo. Ebbe tra i suoi soci anche Lorenzo Mascheroni (un “Eccitato”) e Giovanni Maironi da Ponte (un “Arvale”). L’Accademia degli Arvali sorse nel 1769, dietro invito della Repubblica di Venezia, con lo scopo di introdurre sistemi innovativi nell’agricoltura e nell’economia in genere. Gli Arvali erano sacerdoti appartenenti a famiglie patrizie dell’antica Roma dediti al culto di Cerere, dea delle messi. Ecco perché questa accademia si occupava in particolar modo di agricoltura. Dapprima l’istituzione si intitolò Accademia d’Agricoltura o degli Arvali; quindi, a partire dal 1787 fu denominata Accademia Economico-Arvale; ad essa sono legati i nomi della nobiltà terriera bergamasca: Benaglia, Rivola, Tomini-Foresti, Mozzi, Brembati, Secco Suardo, Calepino. Con il decreto napoleonico del 25 dicembre 1810, che tendeva a riformare ed unificare gli istituti culturali, le due istituzioni furono fuse in un solo organismo con il nome di Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Bergamo. L’Ateneo trovò sede provvisoria nell’ex refettorio e in alcune stanze contigue del monastero di Rosate (nel luogo dell’attuale Liceo Classico Sarpi), trovando sede definitiva (1818) nel pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone, per risarcire il debito che la città aveva aperto nei confronti dell’istituzione accademica quando, nel 1796, chiese in prestito 4000 scudi per far fronte alle spese che la Municipalità doveva sostenere per l’alloggiamento delle truppe francesi (Maria Mencaroni Zoppetti).

Scartato il progetto di adattamento e di messa in sicurezza di Carlo Capitanio, architetto responsabile dell’ufficio tecnico della città, furono incaricati gli architetti Gian Francesco Lucchini e Giacomo Bianconi (membri di l’Ateneo che nel frattempo finanziava l’edificio) il cui progetto – oggi perduto – prevedeva la chiusura dei portici con finestre e la realizzazione di due grandi ambienti nelle due campate laterali opposte. Il primo per creare un ampio vestibolo con ingresso secondario e il secondo ad uso ufficio e biblioteca.

La distribuzione spaziale fu mantenuta dall’architetto Raffaello Dalpino (anch’egli socio), al quale dobbiamo un nuovo progetto che è stato realizzato e completato nel 1859.

Il progetto dell’architetto Raffaele Dalpino, 1854

Il progetto di Dalpino è un progetto colto e raffinato, con un sapiente uso degli ordini architettonici e un rigoroso rispetto dei moduli adeguati, nelle proporzioni, al sito e al contesto dato dagli edifici preesistenti (5).
Uno spazio apparentemente semplice e simmetrico che in realtà ha diversificato fortemente le due parti attraverso una diversa caratterizzazione degli arredi, delle funzioni e della disposizione delle lapidi (presenti solo nella parte sinistra). Una perfetta combinazione tra la funzione museale e il ruolo istituzionale della sede dell’Ateneo.

Questa configurazione rimase immutata per circa ottant’anni e cioè fino al 1933 quando l’edificio fu ceduto al locale gruppo fascista Garibaldi; furono poi rimosse le collezioni e sostituiti gli arredi.

L’Ateneo con le aperture ancora tamponate (foto non datata)

L’intensa attività culturale dell’Istituzione aveva cominciato ad essere compromessa quando tra il luglio del 1899 e il gennaio del 1900 la biblioteca e i manoscritti erano stati collocati in deposito presso la Biblioteca Civica A. Mai.

Nel 1905 la Società di Cultura di Bergamo si offrì per accogliere ciò che restava della biblioteca degli scambi con le altre Accademie . Nel 1917 la sede fu concessa al Comune per il Museo del Risorgimento (opere d’arte e libri dell’Ateneo vennero quindi trasferiti nella biblioteca Mai). Quando questo fu poi installato in Rocca, i soci dell’Ateneo non poterono rientrarvi, perché al posto dell’istituzione culturale si insediò un’organizzazione fascista.

La rinascita avvenne dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1952, quando l’Ateneo ottenne una nuova sede, in via Torquato Tasso, dove si trova oggi.

Nel quadro di Luigi Brignoli, datato 1934, la mole Ateneo volutamente non compare: la sala sopra il Fontanone è ritenuta ormai inutile, anche perché nel 1933 è stata modificata. In quell’anno l’Ateneo è stato scelto come locazione della sezione del Partito fascista di Città Alta (proprietà Ateneo di Scienze Lettere e Arti)

 

Luigi Brignoli, L’Ateneo e S. Maria Maggiore, 1934 (proprietà Ateneo di Scienze Lettere e Arti)

Dopo molti anni di inattività, il monumento fu restaurato alla fine del secolo scorso per essere adibito a spazio espositivo per mostre temporanee ed eventi pubblici.

Il progetto di restauro dell’architetto Bruno Cassinelli, 1997

 

Sala interna dell’Ex Ateneo oggi

Va detto che quando ancora era accademia, l’Ateneo, a tutt’oggi molto attivo, per lungo tempo ha rappresentato l’unica istituzione interamente dedicata alla cultura. Basti pensare che la Biblioteca Civica arrivò solo più tardi. La sua istituzione non costituì soltanto un cambiamento di tipo amministrativo, dalla fusione nacque un organismo moderno, adeguato ai tempi nuovi che si preparavano.

A duecento anni dall’intitolazione l’Ateneo continua a parlare di storia, con l’intento di far conoscere ai bergamaschi l’origine della società in cui viviamo, affinché ognuno possa orientarsi in questo mondo e capire quale direzione prendere in futuro.

Note

(1) Andreina Franco-Loiri Locatelli per Bergamosera, rivista on line non più esistente.

(2) G. Petrò fa invece riferimento a un “porticus longa” documentato dagli statuti del 1331. Si tratta di una struttura porticata che funge da parapetto al forte dislivello che si crea tra la strada e la platea magna Sancti Vincentii  (Gianmario Petrò, “Dalla Piazza di San Vincenzo alla Piazza Nuova”. I luoghi delle istituzioni tra l’età comunale e l’inizio della dominazione veneziana attraverso le carte dell’archivio notarile di Bergamo”. Bergamo, Sestante, 2008).

(3) Ronchetti, “Memorie storiche”, 1838 (Vol. V, pag. 83).

(4)The International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, Volume XLVIII-M-2-2023 29th CIPA Symposium “Documenting, Understanding, Preserving Cultural Heritage: Humanities and Digital Technologies for Shaping the Future”, 25–30 June 2023, Florence, Italy. THE PALAZZO DELL’ATENEO IN THE UPPER CITY OF BERGAMO (CITTÀ ALTA): NEW DOCUMENTATION AND CONSERVATION STUDIES. Alessio Cardaci , Antonella Versaci, Pietro Azzola.

(5) G. Colmuto Zanella, 2001  L’elegante e ben inteso Edifizio sopra il fontanone visconteo, in “L’Ateneo dall’età napoleonica all’unità d’Italia”, Edizioni dell’Ateneo, Bergamo, 249-276.

Riferimenti
Renato Ravanelli, “Palazzo dell’Ateneo”, Bergamo: una città e il suo fascino, Grafica e arte, Bergamo, 1977, pagg. da 174 a 175.

Luigi Angelini, “La costruzione trecentesca del Fontanone”, La Rivista di Bergamo già “Gazzetta di Bergamo”, Anno VII, n. 11, Edizioni della Rotonda, Bergamo, Novembre 1956, pagg. da 3 a 4.

“L’elegante e ben inteso edifizio…sopra il Fontanone Visconteo” – Andrea Pasta alla presentazione del nuovo Museo Lapidario, 1775.

The International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, Volume XLVIII-M-2-2023 29th CIPA Symposium “Documenting, Understanding, Preserving Cultural Heritage: Humanities and Digital Technologies for Shaping the Future”, 25–30 June 2023, Florence, Italy. THE PALAZZO DELL’ATENEO IN THE UPPER CITY OF BERGAMO (CITTÀ ALTA): NEW DOCUMENTATION AND CONSERVATION STUDIES. Alessio Cardaci , Antonella Versaci, Pietro Azzola.

L’Eco di Bergamo, 17 giugno 2010. Intervista a Maria Mencaroni Zoppetti. “La passione per la città nasce dalla necessità di capirla”.

Alla scoperta del tempietto di Santa Croce, nel cuore nascosto della città

Situato in una corte tra la Curia Vescovile e l’angolo sud-occidentale di Santa Maria Maggiore, il sacello quadrilobato di Santa Croce precede la rifondazione di Santa Maria, avvenuta nel 1137

La piccola cappella romanica di Santa Croce, nel cortile della Curia e a ridosso di Santa Maria Maggiore, è posta in un’area densa di significati per la storia della città. Ma trovandosi in un punto “marginale”, almeno dal punto di vista spaziale, si è trovata nelle epoche successive ad avere uno sviluppo autonomo.

Il centro episcopale di Bergamo

Due sono i percorsi che consentono di raggiungerla, ed ognuno di essi offre diverse prospettive ed approcci emozionali. Il punto di vista più defilato è quello che scende da vicolo San  Salvatore, da dove il sacello è visibile poco prima di immettersi in via Arena. Quello ufficiale avviene invece da piazza Rosate tenendo sulla destra il portale settentrionale di Santa Maria Maggiore, da dove una  scalinata metallica conduce al suo cospetto.

L’accesso alla Cappella di Santa Croce da piazza Rosate

Sino a qualche decennio or sono però, vi si arrivava anche da piazza Vecchia passando attraverso la penombra dell’Aula della Curia, oggi preclusa al pubblico passaggio; da lì si usciva alla luce dello spiazzo di Santa Croce ma distratti dalla possente mole di S. Maria: era quello che Luigi Angelini definiva un punto di vista conquistato, sofferto, da “percorso iniziatico”, tuttavia, alquanto suggestivo.

Ma in quei tempi il piano inferiore di Santa Croce era ancora interrato, e così si presentava l’edificio dal 1938, dopo le demolizioni che avevano liberato l’area dalle strutture ottocentesche che lo deturpavano e comprimevano, nascondendolo agli occhi dei visitatori.

Il tempietto di Santa Croce visto dall’area interna della Curia vescovile dopo le demolizioni ed il restauro eseguiti nel 1938, nell’ambito dei lavori per il Piano di Risanamento per Bergamo Alta, coordinati da Luigi Angelini

Prima d’allora dunque, una serie di edifici addossati al tempietto ne impediva la completa fruizione, come attesta l’immagine sottostante.

Il tempietto di Santa Croce dallo stesso punto, come era nel 1934, con i locali addossati

Nel corso dei lavori, l’attuale ingresso da piazza Rosate era stato liberato dalla casa del sacrista, una superfetazione che addossata alla medioevale fontana di Antescholis non lasciava intravvedere Santa Croce.

Piazza Rosate e prospetto sud della basilica di Santa Maria Maggiore. A sinistra dell’immagine la casa del sacrista (Raccolta Gaffuri)

 

Area di Santa Maria Maggiore. La casa del sacrista sopra la fonte medioevale, come si presentava nel 1934, prima dei lavori eseguiti per il Piano di Risanamento

 

Area di Santa Maria Maggiore. La casa del sacrista sopra la fonte medioevale, come si presentava nel 1934

Ora, una scalinata a ventaglio consentiva finalmente l’accesso diretto al sacello nonché una sua trionfale messa in scena.

1938: la sistemazione dopo la demolizione della casetta con la gradinata di accesso al Tempietto di Santa Croce

Sgomberate le strutture contigue, Angelini liberò il tiburio ottagonale e dopo aver individuato una precedente linea di gronda abbassò la “cupoletta” di circa 90 cm, attribuendo la sopraelevazione ad un rifacimento del 1561, come indicherebbe una fonte documentaria peraltro non bene specificata.

Il tempietto di Santa Croce e i locali addossati come erano nel 1934, prima degli interventi di ripristino e restauro

I tetti furono completamente rifatti e nel corso della rimozione di quello superiore furono ritrovati tre frammenti di capitelli che Angelini interpretò come appartenenti a bifore originarie, ma che non volle ricostruire, mantenendo stranamente le finestre rettangolari definite “sgraziate”.

1938: il Tempietto liberato dalle costruzioni ottocentesche e restaurato, visto dalla platea sopra la fontana di Antescholis

Riportò alla luce il tessuto murario in conci calcarei bruni sommariamente sbozzati, ritmato dal coronamento di eleganti archetti pensili raccolti in gruppi di tre da lesene sottili: una decorazione che segue e sottolinea il profilo delle quattro absidi, creando un chiaroscuro modulare. Al contempo recuperò le aperture, tra cui le due monofore strombate.

Rese omogenee le varie fasi costruttive, Angelini riuscì perciò a dare unitarietà all’aspetto esterno, che nel corso del tempo aveva subito diverse trasformazioni.

1938: il tempietto dopo la demolizione dei locali contigui, la messa in luce di una delle due  monofore ed il restauro. Degli intonaci rimane oggi solo qualche piccolo lacerto; i giunti della muratura esterna furono completamente “ripassati” in cemento e la muratura integrata con intenti mimetici

La porzione inferiore dell’edificio restava però ancora in ombra, interamente sepolta da oltre due metri di macerie, apportate tra il XV e il XVI secolo per adeguare le quote di calpestio del cortile a quelle imposte dalle modifiche della basilica e di una porzione degli ambienti medievali dell’adiacente palazzo episcopale (1).

L’area circostante Santa Croce prima degli scavi archeologici eseguiti fra il 1999 e il 2007. Nel riquadro le due differenti quote del piano di calpestio, quella  più bassa, originaria, e quella dovuta agli interventi eseguiti tra il XV e il XVI secolo

 

La scalinata che da piazza Duomo immette all’Aula della Curia, innalzata nel 1444 sulle macerie di un portico ad essa addossato (Raccolta Gaffuri))

L’originaria Santa Croce infatti si sviluppava su due livelli di cui l’ambiente principale era costituito dal vano inferiore, posto allo stesso piano di calpestio della Basilica e dell’Aula della Curia, fra loro strettamente collegate; tanto che il tempietto comunicava con la Curia mediante una porta difesa da un muro, che ancora oggi vediamo.

Il sopralzo della copertura con la lanterna ottagonale è solo un’aggiunta della seconda metà del Cinquecento.

Nel tondo, la porzione originaria del tempietto di Santa Croce, con la parte superiore liberata negli anni Trenta dall’Angelini e la parte inferiore (priva di lesene e provvista di due finestre rettangolari), riportata alla luce nel corso degli scavi eseguiti fra il 1999 e il 2007. E’ visibile la porta che nel medioevo comunicava direttamente con l’Aula della Curia, difesa da un muro. Il piano superiore è provvisto di un portale sul lato ovest

I due vani sono da sempre privi di comunicazione interna, divisi da una volta a crociera.

La volta all’interno del vano inferiore di Santa Croce

Considerando perciò come contemporanei i primi due livelli dell’edificio, questi acquisterebbe in alzato misure e proporzioni più giustamente analoghe ad altri edifici a pianta centrale come San Tomè di Almenno San Bartolomeo e l’oratorio di San Benedetto di Civate, cui è assimilato anche per le decorazioni esterne della superficie muraria.

Il tempio romanico di San Tomè, a 3 km a sud-ovest di Almenno San Bartolomeo

Il tempietto (“Capella Episcopi”), di cui la più antica citazione risale al del 1133 (2), era infatti un elemento integrante del grande complesso episcopale, sorto nella sua forma più monumentale nell’area storicamente più importante della città tra l’XI e la  prima metà del XII secolo.

Il centro storico-monumentale di Bergamo: A) Basilica di Santa Maria Maggiore; B) Duomo-cattedrale di San Vincenzo; C) Palazzo della Ragione;  D) Palazzo del Podestà e Torre del Comune; E) Piazza Vecchia; F) Palazzo Episcopale; G) Santa Croce. Nella prima metà del XII secolo il complesso Episcopale viene ristrutturato ed ampliato, soprattutto nella sua parte meridionale, con la costruzione della Basilica di Santa Maria Maggiore (che sostituisce la S. Maria Vetus dell’VIII secolo) e il riassetto della Cattedrale di San Vincenzo nonché la costruzione del Palazzo Episcopale e dell’annessa cappella di Santa Croce. Un complesso il cui sviluppo caratterizzerà a lungo Bergamo, sia dal punto di vista religioso che architettonico

In quel periodo, anche la cattedrale di S. Vincenzo era interessata da lavori, trasformandosi da “modesta” basilica paleocristiana a grande cattedrale romanica, mutando aspetto sia internamente che esternamente, sviluppandosi in verticale ed adottando per il rivestimento l’uso di grossi blocchi di arenaria grigia, quasi a voler indicare la ricerca di un’uniformità anche visiva dell’insieme in un collegamento tra le due chiese, San Vincenzo e la nuova Santa Maria.

Cattedrale di San Vincenzo, con in primo piano la base di colonna e il pavimento musivo di età paleocristiana e sullo sfondo la base del pilastro cruciforme d’epoca romanica

Un collegamento che doveva essere anche fisico, come pare suggerire il frammento di arco che parte dall’angolo nord-orientale della nuova Santa Maria e doveva terminare contro quello sud-occidentale di S. Vincenzo.

L’arco in pietra presente sull’angolo nord orientale della Basilica di Santa Maria Maggiore

NEL CUORE DELLA BERGAMO ROMANA

L’area in cui oggi sorge il complesso episcopale costituisce il punto nevralgico della città sin dall’età romana. Qui sorgeva il foro, con i suoi edifici pubblici e le domus, i cui resti sono venuti alla luce nel corso di numerosi scavi archeologici. Anche nell’area di Santa Croce doveva sorgere una domus, gravitante nell’area del foro.

Uno spaccato della Bergamo romana all’interno del Palazzo del Podestà in Piazza Vecchia, dove, nell’area del foro, si sono rinvenuti i resti di un grande edificio pubblico. Nella zona sottostante la Cattedrale di S. Alessandro sono invece tornati alla luce i resti di abitazioni che occupavano alcune insulae nonché la Cattedrale di San Vincenzo; nelle adiacenti vie Reginaldo Giuliani e Arena, quelli di una domus, mentre altri interessanti ritrovamenti riguardano proprio l’area di Santa Croce

PRIMA DI SANTA CROCE, SULLE TRACCE DEL PIU’ ANTICO NUCLEO EPISCOPALE

Nella tarda antichità, la domus esistente presso Santa Croce fu demolita, in vista della risistemazione urbanistica che attorno al V-VI secolo ha interessato tutta la zona con l’edificazione della basilica paleocristiana di S. Vincenzo, eretta in concomitanza con la realizzazione del più antico nucleo episcopale della città.

A quest’ultimo potrebbero appartenere i resti di un edificio a pianta trilobata (quasi sicuramente una chiesa, vista la sua posizione) emersi tra Santa Croce e il lato occidentale di Santa Maria Maggiore, seminascosta al di sotto dello sperone rinascimentale che sorregge lo spigolo Sud-Ovest di Santa Maria, realizzato in seguito al terremoto della metà del 1400.

E’ certo che questo edificio fosse collegato alla chiesa di Santa Maria Vetus, demolita per far posto alla Basilica (1137), nell’ambito della realizzazione del nuovo e più monumentale complesso episcopale di XII secolo; complesso in cui rientra a pieno titolo la costruzione di Santa Croce, che è stata eretta sulle macerie, oggi parzialmente visibili, dell’edificio trilobato.

L’area circostante Santa Croce dopo lo scavo eseguito nel 2004. A) edifici di età romana; B) edificio trilobato; C) acquedotto a cavallo del quale è stata costruita la cappella di Santa Croce; D) sperone rinascimentale a sostegno della Basilica di Santa Maria Maggiore (foto Studio Arch. Calzana)

Non è un caso infatti che Santa Croce, con la sua pianta polilobata richiami l’edificio più antico, dal quale non si discosta molto sia per le dimensioni (10 x 10 metri) che naturalmente per il tessuto murario, essendo probabilmente realizzata reimpiegando i conci piccoli e rozzi in pietra calcarea provenienti dalla demolizione dell’edificio trilobato: questo spiegherebbe anche la difformità, rispetto alla Basilica e a San Vincenzo, del materiale lapideo impiegato.

La struttura a pianta trilobata di età tardoantica, accanto a Santa Croce, è dotata di absidi semicircolari sui lati est, ovest e sud e di un probabile accesso dal lato nord. Le murature, delle quali si conserva ancora parte dell’alzato, sono realizzate con pietre spaccate messe in opera con corsi orizzontali. Il notevole spessore dei muri (80 cm) a fronte di dimensioni esterne relativamente modeste (8 x 6.5 metri) potrebbe indicare un suo sviluppo in verticale

 

Particolare dell’edificio triabsidato di età tardoantica, oggi visibile accanto al tempietto di Santa Croce

La chiesa di Santa Croce, sorta nella seconda metà dell’XI secolo al centro dell’area libera, fu costruita letteralmente a cavallo di un antico acquedotto che sino a pochi decenni fa alimentava la fontana di Antescholis, presso Santa Maria.

Prima di sfociare nella fontana di Antescholis, l’acquedotto tange l’abside meridionale di Santa Croce, sottopassando un arco in muratura

La sua esistenza è posteriore a quella dell’edificio trilobato, ed anteriore alla nuova Santa Maria (del 1137). Il manufatto potrebbe quindi ricollegarsi all’antica canalizzazione in bronzo rinvenuta sotto la sagrestia della Basilica, rafforzando l’ipotesi dell’esistenza di un antico impianto idrico coevo alla chiesuola di S. Maria Vetus (VIII secolo), dove poteva alimentare il fonte battesimale. Mentre non è confermata l’ipotesi che la cappella di Santa Croce fosse chiesa battesimale, nonostante la sua particolare pianta quadrilobata trovi i suoi confronti più pertinenti con altri edifici battesimali (in primis con quelli di Mariano Comense e Biella, datati tra X e XI secolo) e, soprattutto, in assenza di tracce della vasca battesimale.

Di questo acquedotto è stata riportata alla luce una parete in pietre squadrate lunga 20 metri ed alta di 3; il consistente deposito calcareo rinvenuto sul canale testimonia che il manufatto restò in uso molto a lungo.

La ben conservata muratura dell’acquedotto, ad andamento est ovest; il canale vero e proprio è largo 25 cm

 

Il muro dell’acquedotto attraversa il piano inferiore della Cappella di Santa Croce per dirigersi nella fontana di Antescholis, riducendo lo spazio interno della cappella a un triconco asimmetrico con probabile funzione di servizio

Per consentire il collegamento tra la zona nord e quella a sud dell’acquedotto, nella cappella venne realizzata una porta, poi murata ed ancora visibile al suo interno.

La porta tamponata all’interno di Santa Croce

Nel secolo XV, prima che Santa Croce fosse interrata fino alla soglia del piano superiore, per motivi non chiariti l’acquedotto fu dotato di una canalizzazione secondaria che aggirava il tempietto sul lato meridionale, seguendone l’andamento.

La canalizzazione di età rinascimentale che aggirava la Cappella di Santa Crooce

Fu all’incirca in questo periodo (1561) che su iniziativa del vescovo Federico Cornaro vennero realizzati il sopralzo della copertura ed altri interventi che trasformarono l’opera originaria; opera che dagli studiosi datano alla seconda metà dell’XI secolo, individuando per la sua realizzazione una sola fase romanica, se si escludono ovviamente tutte le modifiche subite nel tempo (come ad esempio l’apertura di alcune porte).

Nell’arcata che sovrasta la porta tamponata, un lacerto sopravvissuto ai restauri degli anni Trenta, Si ha notizia che nel 1360 fu promossa la decorazione di Santa Croce dal vescovo Lanfranco

Ritroviamo in Santa Croce l’irregolarità della tessitura tipica del primo Romanico, che conferisce al piccolo edificio un valore e una bellezza particolare, così diversa da quella che si riscontra negli edifici sicuramente databili ai primi decenni del secolo XII: e ciò a partire dal gruppo abisdale della Basilica di Santa Maria Maggiore e dal monastero suburbano di Valmarina, dove si nota la perfetta regolarità e omogeneità dei singoli conci (generalmente di dimensioni maggiori) e della tessitura che ne risulta.

Scorcio sull’interno dell’ambiente superiore di Santa Croce

Nonostante ciò, la chiesa di Santa Croce è nata da una composizione piuttosto complessa di volumi, che ha imposto precise difficoltà di cantiere (come l’inserimento della volta asimmetrica del piano terra): un cantiere incerto nelle sue prime fasi e che sembra aver trovato le proprie soluzioni man mano si è proceduto alla realizzazione dell’opera.

LA DECORAZIONE INTERNA

Nella prima metà del XVII secolo venne realizzata la nuova decorazione sull’intradosso dei semicatini delle absidi, completata nel secolo successivo con quella nelle trombe, nella lanterna e nella Cupola.

Nei catini absidali, attribuiti quasi unanimemente a Cristoforo Baschenis il Giovane (Averara, 1561 – 1626): La Deposizione, Il ritrovamento della croce da parte di S. Elena, Il miracolo attestante l’autenticità della croce, L’imperatore Costantino recante la croce in Roma; dipinti che vengono accompagnati nelle trombe dalle immagini di quattro angioletti muniti di oggetti liturgici.

 

 

Al di sopra dei quattro pilastri angolari sono collocati quattro bassorilievi raffiguranti i simboli degli Evangelisti.

 

Nella lanterna, quattro vegliardi con la mitra vescovile, probabilmente i Padri della Chiesa (S. Agostino, S. Ambrogio, S. Gregorio Magno, S. Girolamo, l’unico rappresentato senza mitria avendo rifiutato l’onore vescovile) e,  nella cupola,  l’affresco raffigurante il Padre Eterno: tutte opere attribuite a Francesco Coghetti.

Il tempietto è quasi sempre chiuso e non visitabile.

 

Note

(1) Non si può comunque escludere che questo apporto di terreno sia in qualche modo da collegarsi con il terremoto della seconda metà del Quattrocento che, proprio in questo punto, richiese la realizzazione del grande sperone di rinforzo (Angelo Ghiroldi, La Cappella di Santa Croce in Bergamo, in “Storia Economica e Sociale di Bergamo – I Primi Millenni – Dalla Preistoria al Medioevo”, vol II. Ed. Castelli Bolis Poligrafiche, Cenate Sotto (Bg), 2007.

(2) “Sponsio privatarum personarum facta coram Ambrosio Bergomati Episcopo”…….in Ecclesia Sancte Crucis …”, ACVB Archivio Capitolare, pergamena 2390, Lupo liber V 975 978. Una successiva citazione si riscontra in un documento rogato dal vescovo Guala nel 1173, dove il tempietto è citato come “Capella Episcopi”, formula generica nella quale si riconosce un implicito riferimento alla chiesa di Santa Croce.

Riferimenti 

A. Cardaci, D. Gallina, A. Versaci, “La Chiesa di Santa Croce in Bergamo”, 2013.

Giuseppina Zizzo, “S. Croce – Bergamo”, Itinerari dell’Anno Mille: Chiese romaniche nel Bergamasco”, Sesaab, Bergamo, 1999, pagg. da 63 a 66.

Angelo Ghiroldi, La Cappella di Santa Croce in Bergamo, in “Storia Economica e Sociale di Bergamo – I Primi Millenni – Dalla Preistoria al Medioevo”, vol II. Ed. Castelli Bolis Poligrafiche, Cenate Sotto (Bg), 2007.

Bibliografia essenziale

– Giuseppina Zizzo, “S. Croce – Bergamo”, Itinerari dell’Anno Mille: Chiese romaniche nel Bergamasco”, Sesaab, Bergamo, 1999, pagg. da 63 a 66.
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– Gian Maria Labaa. San Tomè in Almenno. Studi, ricerche, interventi per il restauro di una chiesa romanica. Bergamo, Lubrina, 2005.
– Lorenzo Moris, Alessandro Pellegrini. Sulle tracce del romanico in provincia di Bergamo. Bergamo, Prov. Bergamo, 2003.
– Raffaella Poggiani Keller, Filli Rossi, Jim Bishop. Carta archeologica della Lombardia: carta archeologica del territorio di Bergamo. Modena, Panini, 1992.
– Carlo Tosco. Architetti e committenti nel romanico lombardo. Roma, Viella, 1997.

Da Valmarina al sentiero dei Vasi, fra natura, storia e trekking

A coronamento del centro storico di Bergamo, esiste un vasto territorio collinare fatto di campi, prati e boschi, costellato di antiche vestigia e innervato da una fitta rete di bucolici percorsi, sentieri, viottoli e scalette.
Il percorso qui proposto, compreso fra le località di Valmarina e Castagneta lungo il versante orientale della collina, conduce alla riscoperta di una delle porzioni più suggestive di questo meraviglioso patrimonio paesaggistico di natura e cultura.
Si tratta di un itinerario che oltre a costituire una variante al classico tour ciclopedonale Green Way del Morla – Sentiero di Ilaria (ciclovia dei torrenti Morla e Quisa), consente di muoversi in un ambiente che conserva, all’interno di un considerevole patrimonio faunistico e floristico, la presenza di edifici rurali e manufatti storici di pregio quali l’ex monastero benedettino in Valmarina e i manufatti dell’acquedotto dei Vasi, l’impianto che per secoli ha costituito parte integrante della primitiva rete di distribuzione delle acque della città di Bergamo. L’acquedotto, di cui le prese d’acqua sono già documentate e rilevate in alcuni manoscritti del Settecento, raccoglie lungo il suo tragitto le acque sorgive dislocate tra gli avvallamenti boscosi posti dalle pendici del Monte Bastia ai fianchi del crinale, spingendosi sin verso Valmarina, da cui risale per Gallina e Castagneta.
Il nostro itinerario, attraversando pressoché interamente un’area boschiva consente di praticare agevolmente attività sportive anche nella stagione più torrida.

Il percorso ideale qui proposto si diparte dal tratto della Green Way del Morla che si innesta da via Maironi da Ponte nella località di Valverde, giungendo a Valmarina all’ombra delle pendici boscose di Castagneta ed assecondando le pieghe del torrente tra ponti e divertenti passerelle lignee.

Lungo la Green Way del Morla, in vista di Valmarina

La vista si apre all’improvviso sul grandioso anfiteatro di Valmarina, accarezzando le morbide pendenze su cui poggia l’antico monastero, magicamente sospeso fra prati, boschi rigogliosi e terrazze tenute a vite.

L’ex monastero di Santa Maria in Valmarina, tra boschi e vigneti

Non troppo distante dalla viabilità principale, ma lontano quanto basta da costituire un’oasi a parte, l’antico monastero campeggia placido nella radura, splendidamente fuso con il tessuto che lo circonda in verde abbraccio.

L’ex monastero di Santa Maria in Valmarina, al confine tra la città e la località Ramera, in territorio di Ponteranica, è posto alle pendici del versante nord-orientale del Colle ed è oggi sede del Parco dei Colli di Bergamo

Fra scorci di rara bellezza, il suo caldo color nocciola – ancor più vivo quando il sole lo accarezza – è come un bagno tiepido e benefico per gli occhi, invitandoci alla sosta.

Fondato nel XII secolo da una piccola comunità di monache benedettine è oggi sede del centro direzionale del Parco dei Colli, al centro di un ambiente ideale dove natura, cultura e attività sportive si coniugano in perfetta armonia.

Cascina Valmarina

In questa splendida conca suburbana – irrinunciabile polmone verde cittadino – l’antico monastero esibisce i due momenti salienti della sua storia secolare, mostrando i locali “canonici” della vita benedettina e cioè la chiesa, il refettorio e la sala del capitolo – il lato interamente affacciato sulla strada per la Val Brembana -, con le aggiunte realizzate dalla fine del Settecento per adattare il complesso ad aia rustica.

Dalla fine del Quattrocento, da quando le monache si trasferirono dentro le muraine, il monastero ormai abbandonato fu riadattato a cascina, subendo interventi che ne snaturarono soprattutto la parte interna.

Il nucleo originario romanico è quello esteso lungo il lato orientale, affacciato sulla strada provinciale, formato dal lungo braccio che si unisce alla chiesa (da tempo privata delle decorazioni ad affresco medioevali), valorizzato dal recente restauro

Dalla fine del Settecento dunque, l’aggiunta progressiva di nuove volumetrie ha finito col raddoppiare le dimensioni dell’antico recinto fino a formare la grande corte chiusa che vediamo oggi: una tipologia inconsueta in una  zona collinare – qual è quella di Valmarina -, dove le cascine hanno generalmente i corpi di fabbrica giustapposti, disposti a L, oppure contrapposti.

Comunque sia, specialmente nel  lato est il complesso conserva ancora un notevole fascino, con ciò che resta della primitiva chiesetta romanica incorporata nello spigolo settentrionale del complesso.

L’ex chiesa di Santa Maria in Valmarina

La parete piena e compatta della chiesa è alleggerita da due elegantissime monofore, dallo slancio quasi gotico, separate da una lesena sottile entro la quale alcune porzioni di calda arenaria richiamano la parte superiore delle monofore.

Al di sopra di queste, due piccoli oculi catturano la luce dall’esterno e allo stesso tempo ammiccano verso valle, quasi a richiamare l’attenzione verso il bel monastero, intriso di storia secolare.

Il porticato, addossato al nucleo originario, trova precisa corrispondenza in complessi rustici che ritroviamo in diversi punti del territorio, dalle pendici della Maresana al castello della Moretta, in quel di Sorisole.

All’interno, fra un anfratto e l’altro sono conservati gli antichi arnesi impiegati nelle attività rurali e la loro semplicità riporta piacevolmente alla memoria quei frangenti di vita contadina vissuti in questo luogo sino a pochi decenni or sono.

 

 

 

 

 

Dall’osservazione dei particolari, emerge con chiarezza la filosofia che ha accompagnato ogni fase del magistrale restauro, che ha saputo calibrare perfettamente la conservazione di ogni singola parte con i nuovi adattamenti,  mantenendo intatto il fascino e le suggestioni del manufatto antico.

 

 

Lasciata alle spalle questa piccola valle della Biodiversità – consorella della valletta di Astino – dove è preservato anche il più minuscolo gambero di fiume,  imbocchiamo in salita la vera via dei Vasi, un viottolo a tornanti da non confondere con l’omonimo sentiero che frequentiamo abitualmente nei fine settimana, e che raccorda Valmarina alla località Cascina Costa, situata nella parte mediana di via Ramera.

“Questa” via dei Vasi, è così nominata perché il suo tracciato cela un condotto dell’antico acquedotto che da Valmarina, proprio al di sopra dell’antico monastero, si dirige sino all’uschiolo della valle dei Romanelli (di cui oggi si sono perse le tracce), concludendosi  in località Gallina.

Via dei Vasi costituisce il tratto di raccordo tra la Valmarina e la parte mediana di via Ramera (località Cascina Costa). Il condotto di Valmarina, di poco al di sopra del monastero lungo via dei Vasi, presenta un uschiolo di ispezione e una  cisterna per la raccolta delle acque. Da qui risale sino alla località Gallina per poi percorrere via Castagneta ed infilarsi nella cisterna interrata nel baluardo di S. Alessandro

Dopo aver percorso la piccola serie di tornanti che si snodano fra la boscaglia, si raggiunge località Cascina Costa con il breve slargo posto a crocevia fra la ciclopedonale della Quisa e la via Ramera.

Pieghiamo decisamente verso la parte alta di via Ramera, che si impenna impietosamente lasciando brevi attimi di respiro ma ripagandoci, almeno inizialmente, con una vista impagabile su Valmarina.

Percorriamo l’ertissima salita sino alle pendici del Monte Bastia, e cioè sino a che non incontriamo la “cisterna del fontanino”: una fonte oggi ridotta a un rivolo, alimentata dalle sorgenti della Noce e dallo Scudo. Qui un pannello illustrativo indica l’inizio del sentiero 912, che procedendo in leggera pendenza lungo la valle della Costa ricalca il percorso dell’acquedotto lungo il Sentiero dei Vasi, percorso interamente boschivo che si raccorda alla località Gallina, in quel di Castagneta.

I pannello illustrativo ubicato lungo il bordo settentrionale di via Ramera, da cui prende avvio il sentiero 912, ricalca il tracciato dell’antica “via dei Vasi” – i Vatia” -, già citati in un documento del 1013 ed utilizzati in età viscontea per alimentare la grandiosa cisterna del Fontanone (ex Ateneo). Dalla sorgente di origine (Sorgente della Noce, 435 m s.l.m.) sino a porta S. Alessandro (365 m s.l.m.) l’acquedotto copriva un dislivello di 70 metri

Il tracciato del sentiero 912, un percorso ombreggiato e pianeggiante, ideale per attività sportive svolte en plein air, coincide con l’antica  “via del Canale”, secondo la denominazione riportata nelle mappe catastali del 1853.

Lungo il sentiero dei Vasi

 

Lungo il sentiero dei Vasi

VASO è un termine antico per indicare un canale adibito al trasporto dell’acqua: entrambe le denominazioni indicano appunto con evidenza la presenza in loco di un acquedotto, il cui tracciato, benché testimoniato già in epoca medievale, ricalca probabilmente il percorso di un precedente manufatto di epoca romana.

Lungo il “Sentiero dei Vasi”, un percorso ombreggiato in falsopiano, ricalcante il tracciato dell’omonimo acquedotto che riforniva la città

Lungo il sentiero è possibile osservare alcune parti dell’antico manufatto, che nonostante la condizione di attuale abbandono ancora denota la cura che nei secoli passati si riservava ad opere decisive come quelle idriche: il vaso maestro (la condotta principale), cisterne di raccolta e decantazione, uschioli d’ispezione, tombini, lastricati nonché un interessante sistema di condutture minori, in parte sopravvissute, che raccoglievano le acque delle sorgenti convogliandole dalle vallette nel “Vaso” principale.

Il primo uschiolo d’ispezione, con l’accesso al canale ed alla vasca di decantazione s’incontra al termine della gradinata da cui prende avvio il sentiero dei Vasi. Il secondo uschiolo è quello, già osservato, ubicato in Valmarina

 

I canali (realizzati in blocchi squadrati di pietra legati con malta di calce e cocciopesto) presentano mediamente di 25 x 40 cm; ogni canale era inserito in un cunicolo ispezionabile di 90 cm d’altezza e 70 cm di larghezza controllato periodicamente dai “fontanari”, gli addetti alla manutenzione di acquedotti e fontane, che ancora sul finire dell’800 ivi svolgevano lavori di manutenzione e restauro.

Le relazioni dei fontanari incaricati dei lavori, a noi pervenute, sono fonti preziose per lo studio del percorso, delle modalità e delle tecniche usate per la pulitura e le riparazioni

Lo apprendiamo grazie ad alcune date incise nei cunicoli che tuttora si snodano, in eccezionale stato di conservazione, negli orti delle case “Colombà” lungo la via Castagneta.

 

Un tratto della condotta principale (Vaso maestro) esistente lungo il sentiero dei Vasi, in cui confluiscono, tramite condotte minori, le acque delle sorgenti. Lungo il pavimento v’è come un invaso di modeste dimensioni utilizzato per convogliare l’acqua

Una lapide inserita nel muro medioevale, in prossimità della località Gallina, ricorda che nel 1329 il podestà Beccaro Beccaris provvide a far effettuare la pulitura dell’acquedotto di Castagneta.

Lapide in località Gallina di Castagneta

Presso una casa, sempre in località Gallina è stata rinvenuta una traccia della scritta AQ che dal 1728 costituiva, talvolta accompagnata da una croce, la sigla identificativa di tutti gli acquedotti facenti capo alla città di Bergamo.

L’iscrizione “AQ” denota la presenza del manufatto lungo il percorso dell’acquedotto dei Vasi

Lungo il sentiero, il bosco, ricchissimo di Castagni e funghi, attira sovente nella mite e variopinta stagione autunnale, intere comitive intente alla raccolta.

Raggiunta l’estremità meridionale del sentiero dei Vasi in località Gallina all’altezza del segnavia 912, il condotto, ricongiungendosi con il canale proveniente dalla sezione inferiore di via Castagneta, si dirige verso la cisterna del baluardo di S. Alessandro percorrendo il nucleo di Castagneta.

L’imbocco del Sentiero dei Vasi in località Gallina di Castagneta

 

Il segnavia che raccorda la località Gallina a via Ramera

Entrambi gli insediamenti, allungati lungo la strada percorsa attraverso i secoli dall’acquedotto dei Vasi, presentano i caratteri tipici della zona collinare di Bergamo.

Castagneta, località Gallina

 

Castagneta, località Gallina

Dalla località Gallina, l’acquedotto inizia, tra tratti incerti e non, a seguire il percorso di via Castagneta sino a via Beltrami, che percorre per un breve tratto, prima di infilarsi nelle Mura, attraversandole nello spalto di S. Pietro.

Fuoriesce poi nella seguente via Sforza Pallavicino, dov’è rimasta un’antica fontana.

Da qui riattraversa la via Beltrami, passa davanti alla polveriera superiore, attraversa il vicolo Colle, e attraversando il baluardo di S. Gottardo raggiunge la porta di S. Alessandro; la percorre lungo la parte superiore prima d’entrare nell’omonimo baluardo e raggiungere la cisterna in cui avviene il congiungimento delle sue acque con quelle portatevi dall’altro acquedotto, quello di Sudorno.

Anticamente, proprio qui, in prossimità dell’antica porta di S. Alessandro queste acque si univano nella fontana-serbatoio del “Saliente”, andata distrutta in occasione della costruzione delle Mura veneziane. Nonostante la sua distruzione, il nome di “Saliente” rimase per un certo periodo ad indicare l’intero acquedotto.
Dopo la costruzione delle Mura, il punto di confluenza venne spostato all’altezza del baluardo di Sant’Alessandro ma nel 1892 si procedette ad una nuova canalizzazione, resasi necessaria per ridurre l’inquinamento delle acque dovuto al passaggio della condotta all’interno delle case e sotto la sede stradale.

Giro ad anello fra Astino e le colline di Mozzo, fra scorci mozzafiato e tracce di storia

La facile escursione, che si svolge nella parte occidentale dei colli, ricca di valenze storico-naturalistiche, si diparte dalla piana di Astino, con al centro il  complesso benedettino vallombrosano, immerso tra campi coltivati e dolci versanti terrazzati coltivati a vite e a frutteto. Il percorso si dirige verso Mozzo – dove spicca per importanza storica l’emergenza di Castello Presati – e prosegue salendo la cima del monte Gussa sino a lambire il balcone soleggiato di Villa Bagnada, dominante sulla pianura. Raggiunta la sella di Madonna del Bosco, il nostro percorso ideale s’inoltra nel Bosco dell’Allegrezza che cela, avviluppati nella folta vegetazione, i ruderi dell’omonimo “Castello”: una delle tante fortificazioni che punteggiano la zona. L’anello si conclude presso il monastero di Astino, uno dei monumenti più affascinanti di Bergamo, che al centro di una conca verdeggiante accoglie e ritempra il viandante, fra la secolare quiete delle sue spesse mura ed un piacevole effluvio aromatico sprigionato da innumerevoli essenze: il tutto, leggendo i tanti segni lasciati dai Vallombrosani in questa valle miracolosamente sopravvissuta al trascorrere del tempo.

Via Astino, arteria dell’omonima valletta compresa fra lo sperone della Benaglia e il bosco dell’Allegrezza. I licheni che vivono sulle cortecce degli aceri americani e dei frassini ornamentali disposti lungo il viale , indicano una qualità dell’aria decisamente superiore a quella cittadina

Il giro ad anello ha inizio dalla via Astino – che raggiungiamo anche dalle vie Sudorno, Torni e Lavanderio -, dove spicca la mole del monastero vallombrosano con la torre gotica del Beato Guala e la chiesa del S. Sepolcro, totalmente recuperati.

All’inizio dalla salita che conduce al monastero, adagiato su un terrazzo prativo alle prime balze della collina, il visitatore è accolto da uno splendido esemplare di Quercus petraea (rovere), che dominava questi territori prima del dissodamento per lasciar posto ai coltivi. I parenti più stretti si trovano nella Riserva boscata di Astino e dell’Allegrezza, sui due versanti della valle

Più in là, la Cascinetta del Mulino, un tempo adibita a legnaia ed oggi reception e spazio ricreativo, ricorda con il suo nome le attività che un tempo si svolgevano nella valle, ancor’oggi caratterizzata da attività agricole ad alto rendimento, grazie alla a un microclima termofilo, alla fertilità del terreno e dell’abbondante presenza d’acqua.

La vocazione agricola della conca di Astino è oggi perseguita sui terrazzamenti coltivati e nella piana, solcata dal reticolo di antiche rogge

Siamo nell’ultimo angolo della città rimasto quasi immutato nel tempo, ricco di presenze storiche e di grande suggestione paesaggistica: qui tutto “parla” del monastero e delle grandi opere intraprese dai benedettini Vallombrosani sin dal lontano 1070, quando si insediarono in terre per gran parte feudo dei Mozzo e dei Suardi, in un latifondo oggi sopravvissuto miracolosamente alla frammentazione e agli appetiti speculativi: da quel momento, i Vallombrosani cominciarono ad intrecciare una fitta rete di relazioni con le vicende politiche e civili della città.

Come quello benedettino di Valmarina all’opposto versante, l’ex monastero di Astino caratterizza fortemente il luogo in cui sorge, facendone il più ricco di valenze culturali all’interno dei Colli di Bergamo

Giunti ad Astino, i frati cominciarono a dissodare e livellare i terreni e a trasformare il luogo con sapienti lavori di irrigazione, terrazzando i declivi anche con muretti a secco di contenimento, così da poterli coltivare a fondo: era il periodo in cui i lavori intrapresi dai grandi impianti conventuali di Astino, Santa Lucia e Valmarina, emancipavano l’intero territorio comunale al ruolo di suburbio agricolo del “Comunis Pergami”.

La via Astino e il suo monastero agli inizi del Novecento. La strada campestre collegava la chiesa della Madonna del Bosco al monastero ed era percorsa da processioni, contadini, carichi agricoli

Se ci guardiamo intorno, possiamo ritrovare le tracce di quel lontano passato nelle cascine sorte intorno al monastero, inserite in un disegno minuto di vigneti ed orti, di pendii tagliati a gradoni, di viottoli e scalette, di muretti costruiti a secco sorretti da archetti.

E boschi, boschi rigogliosi come quello sopra Astino, che gli abitanti del posto chiamano familiarmente “Scabla”: un querceto secolare d’importanza comunitaria, la cui forma ricorda la pelle di un orso.

Il plurisecolare querceto del bosco di Astino (Ph Claudia Roffeni)

Osservando con attenzione, vediamo intrecciarsi strettamente le storie degli uomini e del lavoro nei campi e vedere nelle vicende attuali il futuro di questa fertile valle, da sempre vocata all’agricoltura.

Le cascine sorte con l’arrivo dei Vallombrosani avevano l’aspetto di fortezze, come si evince dalle grosse mura perimetrali o dalle torri poi inglobate in ristrutturazioni postume; solo con il tempo si trasformarono in cascine aperte, i cosiddetti “sedumi” che compaiono negli antichi cabrei.

Prese forma il minuscolo borgo del Lavanderio, e, insieme, ad una fitta rete di percorsi di terra – di cui il convento era il fulcro – e di vie d’acqua.

una delle cascine sopravvissute nella valletta di Astino negli anni ’70 (Ph Edgardo Salvi)

Fin dall’epoca del suo insediamento, il monastero si approvvigionava di acqua dalla fontana “Astina”, ovvero il Lavanderio.

L’antica fontana “Astina” detta “Lavanderio”, da cui ha tratto origine la denominazione del borgo (Ph Claudia Roffeni)

L’autorizzazione alla captazione da parte del Podestà di Bergamo risale al 1203, ma prima, nel 1156, il monastero aveva ottenuto il diritto a captare l’acqua anche dalla fontana dell’Acquamorta, che insieme alla fonte del Gavazzolo alimentava generosamente l’acquedotto di Sudorno.

Dal XII secolo la sorgente dell’Acqua Morta (documentata dal 1156), posta in via S. Sebastiano al di sotto delle Case Moroni, fornì le sue acque alla conca di Astino; ad ovest del monastero resta traccia del condotto che vi giungeva

La piana di Astino è ancor’oggi disegnata dai canali di irrigazione che documentano la sapienza delle antiche opere idrauliche intraprese dai Vallombrosani: come il Canale del Pomperduto (che deriva l’acqua dal Serio sotto il ponte di Gorle e la conduce con tre “seriole” che tagliano la città, fino alla pianura di Stezzano e Levate) e la Roggia Curna, una derivazione della Morlana, a sua volta alimentata con acque dal fiume Serio.

Ideata primariamente dai Benedettini di Astino a cavallo del 1100 d.C., fu rifatta completamente da Bartolomeo Colleoni nel 1475 per portare le acque irrigue nelle sue estese proprietà terriere ad ovest di Bergamo, quindi verso Mozzo, Curno, Treviolo e Ponte San Pietro, notoriamente in balia delle estati siccitose. La Curna è tuttora di proprietà del Luogo Pio della Pietà Istituto dallo stesso condottiero.

Oggi il reticolato idrico è stato semplificato per facilitare il movimento dei moderni mezzi agricoli e i canali sono stati approfonditi allo scopo di drenare i campi convogliando l’eccesso delle acque superficiali.

Affiancato da platani e ontani, l’antico canale disegna oggi una grande ansa tra i campi, accorpati dal secondo dopoguerra in seguito all’abbandono delle campagne. Nel tratto a valle dell’attraversamento stradale, costituisce un corridoio ecologico con canneti e ripe vegetate, offrendo rifugio a fauna e flora spontanea

Ancor’oggi la valle d’Astino ha acque proprie, sia di origine sorgentizia, sia perché solcata da canali d’impluvio (qui nasce il torrente Morletta), mentre la falda sotterranea, ricca d’acqua, alimenta il pozzo recente servendo l’attuale progetto agricolo biologico: acque preziose, da sempre tenute in grande considerazione e gestite con oculatezza, a partire dai primi contadini che vi abitavano.

Tra gli appezzamenti di maggiore estensione oggi si alternano cereali (frumenti, segale, farro) e leguminose (soia), circondati da frutteti coltivati biologicamente. La presenza di un’ampia varietà di prodotti disponibili in ogni stagione, permette di rifornire direttamente i consumatori e i banchetti dei mercatini agricoli: un esempio di produzione a km 0

I PERCORSI

Anche le strade che percorriamo ricalcano l’antica rete dei collegamenti – imperniati sulla presenza del monastero – ed in primis il tracciato che sale al Lavanderio o quello che si inoltra nel bosco dell’Allegrezza per risalire all’antica via Bagnada, scollinando alla Madonna del Bosco.

L’antico monastero era uno snodo della strada proveniente dalla bassa Valle Brembana, che dal ponte di Briolo si dirigeva al Rizzolo del Pascolo e da lì alla sella di Madonna del Bosco, discendendo per l’antica via Bagnada, l’Allegrezza e il monastero. Raggiunto il Lavanderio, si risaliva alla Botta di San Sebastiano e da li a San Vigilio, in direzione Città Alta. Oggi il collegamento più immediato con Città Alta avviene attraverso i Torni e via Sudorno (un altro successivo asse è quello costituito da via San Martino della Pigrizia che da via Longuelo o da Strada Vecchia saliva a confluire in via Borgo Canale, antico confine tra le vicinie)

Il borgo del Lavanderio, il cui nome deriva dal lavatoio ancora presente, è sorto proprio sul percorso che collegava Città Alta – e lo stesso monastero di Astino – ai ponti di attraversamento sul Brembo attraverso Rizzolo del Pascolo; un percorso la cui antichità è comprovata dalla torre difensiva  medioevale, mozzata ed inserita nella cortina edificata posta all’altezza del portico, il quale ne ha celato la vista dalla valletta.

L’erta salita che conduce al minuscolo borgo del Lavanderio (Ph Claudia Roffeni)

IL PERCORSO: TRA VILLE, BOSCHETTI E ANTICHE FORTIFICAZIONI 

In un ambiente così conservato, percorrendo il nostro itinerario possiamo ancora “leggere” i segni del sistema difensivo medioevale eretto attorno alla città, di cui vi sono ampie tracce nelle strutture isolate d’avvistamento e segnalazione presenti tra Longuelo e Mozzo, dove, sia in pianura che in collina, sorgono torri, “castelli” e cascine turrite.

La zona di Astino è proprio quella che conserva il più articolato sistema di torri e fortificazioni, che controllavano le principali vie di penetrazione proteggendo sia il suburbio che la città murata, compresi i borghi che erano sorti lungo i suoi fianchi (a loro volta protetti da addizioni, cui si accedeva attraverso porte fortificate come quella dei Sanici in Borgo Canale).

A oriente della valletta di Astino, il colle di San Matteo della Pigrizia termina con l’emergenza settecentesca di villa Benaglia sorta sul luogo di un’antica fortificazione databile intorno al XV secolo, posta in collegamento visivo le  torri circostanti

All’estremità nord-occidentale dei colli, l’antichissima roccaforte di Sombreno, posta a controllo delle valli Brembana e S. Martino, svolgeva le medesime funzioni di avvistamento, mentre al vertice di tutto il sistema di segnalazione il Castello di S. Vigilio e, dal XIV secolo, la Rocca sul versante opposto, assicuravano in caso di pericolo una puntuale difesa.

Lo stesso monastero era in contatto visivo con la trecentesca casa-torre che sorge ad ovest, in via Astino 41, proprio in angolo con via Ripa Pasqualina: un antico fortilizio inglobato in un edificio.

La torre di via Astino 41

 

La fortificazione all’angolo tra via Astino e via Ripa Pasqualina, come si presentava nel 1910

Era poi in contatto visivo con la torre della cascina Bechèla (Becchella), nella via omonima, che si innesta allo svicolo tra via Astino e via Madonna del Bosco.

La Torre trecentesca della Cascina Becchella, posta al centro di un complesso rurale che incorpora la rozza torre, valorizzata in un successivo restauro. La via prende il nome dall’antica cascina fortificata Boccaleone detta Bechèla

Proseguendo per via Madonna del Bosco ed oltrepassata la cascina-trattoria Lozza, con animali in bella mostra per la gioia dei bambini, ci dirigiamo verso l’edificio delle Suore delle Poverelle (fondato nel 1869 dal Beato don Luigi Palazzolo ed ora casa di riposo per le suore), raggiungendo in breve la Chiesa di Madonna del Bosco, costruita nel 1762 abbattendo la primitiva cappella del 1615.

La chiesa di Madonna del Bosco, sorta nel 1762 in luogo di una cappella votiva dedicata alla Madonna che era stata eretta nel 1615 dalla gente della Val d’Astino, in questa località evidentemente ricca di alberi. Dal 1925 è chiesa parrocchiale

All’inizio dei tornanti che salgono ripidi alla sella di via Madonna del Bosco (strada aperta nel secondo dopoguerra), la piccola via della Vena portava a una cava di pietra arenaria, ora abbandonata, e le cui tracce sono ben visibili sui tornanti della nuova strada.

La fontanella che si incontra all’imbocco di via Castello Presati

Ma all’altezza della chiesa il nostro itinerario piega a sinistra lungo la pianeggiante via Castello Presati, che prende il nome dal possente fortilizio dei Capitani di Mozzo e che si incontra dove la strada, restringendosi, diviene sterrata.

In via Castello Presati

Mantenendoci lungo via Castello Presati costeggiamo il muro del campo da golf, attraversato da un antico bosco di roveri, incontrando diversi edifici tra cui la Casa Carnazzi e l’attigua cappella dedicata a Sant’Anna, sorte in età barocca quando Mozzo acquisì un ruolo di villeggiatura suburbana.

Villa S. Anna, in via Castello Presati

Giungiamo quindi a Castello Presati, adagiato su un dossello coltivato a vite e alla cui base sorgono cascine dal tardo medioevo. L’edificio è identificato nelle sue strutture più antiche con il castello dei signori di Mozzo.

Cartello Presati, citato all’inizio del XII secolo da Mosè del Brolo, è posto su una collinetta  in vista delle difese di Astino ad est e del territorio a ovest

Si sostiene che la sua torre quadrata sia stata fatta abbassare in epoca Napoleonica.

La corte di Castello Presati. Verso monte si intravedono il bellissimo arco acuto dell’ingresso e gli spigoli vivi delle pietre angolari

Da via Castello Presati, lasciata a sinistra la via che scende verso Longuelo, proseguiamo per via Borghetto di Mozzo, ammirando la conca stretta tra lo sperone del castello Presati (265 m.) e quello del colle Lochis (m. 287-309 s.l.m.), la propaggine che conclude a sud-ovest il sistema collinare, caratterizzando il crinale con cipressi secolari e disegnando il pendio con la trama dei vigneti e le case a corte con rustici, aperte a meridione.

Il colle costituiva una linea fortificata avanzata a difesa della città, dominata dal “castrum” dei capitani di Mozzo, un’importante famiglia documentata nel IX secolo, che contribuì alla nascita del monastero di Astino.

Colle Lochis, in territorio di Mozzo, dominato dalla residenza sorta in luogo di un’antica fortificazione, sul crinale caratterizzato da viale di cipressi. Alla base del pendio dolce e riparato si sviluppa il nucleo del Borghetto

Fiancheggiato il centro di recupero funzionale (ex Ospedale di Mozzo), continuiamo su via Borghetto (che segue l’andamento del colle tra villette, vigneti e bosco) sino a via Castello (una via asfaltata chiusa alle auto da una catena), che seguiremo in salita piegando a destra. Più si sale e più il panorama diviene ampio ed invidiabile.

Dopo il tratto di salita, la via Castello diviene pianeggiante sovrastando bellissimi vitigni; raggiunto il punto in cui la strada comincia a scendere, abbandoniamo via Castello per piegare nettamente a destra (indicazioni) imboccando il largo sentiero 805 CAI che si immette nel fitto e fresco bosco.

Poco oltre, raggiunto il primo bivio sentieristico, pieghiamo a sinistra per raggiungere in poco più di dieci minuti la modesta cima del Monte Gussa (390 m) in territorio di Mozzo (segnavia 807 CAI), dove è presente la croce metallica costruita dagli scouts nel 1950 e ricostruita dagli Alpini di Mozzo nel 1981.

La croce metallica del Monte Gussa in territorio di Mozzo: una zona attorniata da sentieri

Torniamo al precedente bivio sentieristico e pieghiamo a sinistra per raggiungere in breve la carrareccia che costeggia il lungo muro di contenimento della tenuta dell’imponente Villa Bagnada , punto panoramico in comunicazione visiva con il colle della Benaglia.

Villa Bagnada, immortalata da Claudia Roffeni. L’interno della villa è completamente affrescato

La villa, un esempio di architettura neoclassica di fine dell’Ottocento concepita come casa di villeggiatura, fu presumibilmente occupata dai capitani di Mozzo, data la sua posizione e i muri medioevali su cui è fondato il corpo centrale.

Vista frontale di Villa Bagnada, immersa nell’omonima tenuta (Ph Claudia Roffeni)

La dimora,  oggi dei fratelli Bonassi, si trova al centro di un paesaggio collinare ancora integro, dominando sola soletta la conca, al limite del bosco, e restando ben visibile dalla pianura.

Villa Bagnada: la semplicità dell’architettura è riscattata dalla bellezza della posizione e della natura. Su via della Vena, ai piedi del colle, è segnalata anche una cascina Bagnada bassa

 

L’interno dell’attigua chiesetta, costruita nel 1661 dal nobile  Giacomo Francesco Bagnati del fu Guardino, conserva una pala d’altare raffigurante una Madonna con Bambino, S. Francesco d’Assisi e S. Felice

Nonostante la modesta quota (338 m), il panorama sulla città di Bergamo e sulla pianura occidentale è davvero apprezzabile e la vicinanza ricorda la vicina frasca, ormai divenuta casa privata, cui si accedeva dalla sterrata di via Caneva (da “cantina, deposito di vino”, appunto).

Via Caneva, strada campestre posta tra via Bagnada e via Rabaiona

Lasciata alle spalle l’omonima villa, ripariamo mantenendoci su via Bagnada, che diviene in breve nuovamente asfaltata, e proseguiamo sempre dritti su via Rabaiona, toponimo derivante probabilmente dal cognome Rabaioni o Rabaglio, conservato nel nome di una cascina.

In lieve discesa raggiungiamo la sella di Madonna del Bosco (il valico che collega la conca di Astino con quella di Sombreno) per immergerci, al di là della strada, nel fitto bosco dell’Allegrezza attraverso un sentiero che ridiscende dolcemente sino al bivio sentieristico che indica verso destra la direzione per il Castello – Cascina dell’Allegrezza.

Il bosco dell’Allegrezza, in vista dell’antica fortificazione. Il toponimo sembra derivare dal termine “Grangia”, deformato in “Granza”; troviamo nel corso dei secoli: “la Granza”, “Alagranza”, “de la legranza”, “Allegraza”, “Allegrezza”. Ma potrebbe essere anche una deformazione del termine “leporizia”, un’allusione alla ricchezza di selvaggina (Ph Claudia Roffeni)

In breve raggiungiamo i ruderi del Castello dell’Allegrezza (280 m), nel medioevo presidio fortificato di proprietà della potentissima famiglia Suardi, inserito nel sistema difensivo del suburbio. Era dotato di un’alta torre di avvistamento posta in contatto visivo con il Castello Presati.

I ruderi del Castello dell’Allegrezza, presidio fortificato medioevale poi adattato a cascina (Ph Claudia Roffeni)

 

Il Castello dell’Allegrezza, proprietà fortificata della potentissima famiglia Suardi (Ph Claudia Roffeni)

Esaurita la funzione originaria, il complesso venne adattato a cascina con l’apertura di alcune finestre, la creazione di una corte e la costruzione di un porticato sul fianco est, per poi essere abbandonato alla fine degli anni 50 del secolo scorso.

I ruderi lasciano trapelare la solida geometria delle sue architetture, con le cortine murarie in massicci blocchi di pietra a vista, accuratamente squadrata (Ph Claudia Roffeni)

Il Castello è immerso in una Riserva tutelata, grazie alla presenza di un querceto misto a specie rare nella collina Bergamasca (come il cerro), lungo il sentiero che congiunge la Madonna del bosco alla valletta di Astino.

Scorcio sul bosco dell’Allegrezza con il suo “Castello” (Ph Claudia Roffeni)

Non mancano i castagni, che erano fonte di alimento e di materiale da impiegare nel vigneto e per riscaldare e, con un po’ di attenzione, si scoprono anche i vecchi terrazzamenti.

Il Castello è immerso in un’area speciale di tutela, grazie alla presenza di un querceto misto a farnia, rovere e specialmente cerro (ampiamente diffuso in Appennino e facilmente riconoscibile per la cupola della ghianda aculeata), con carpino bianco e frassino minore, un’autentica rarità nella collina Bergamasca, ove prosperano i robineti e i vecchi castagneti che tentano a fatica di ritornare querceti come in origine (Ph Claudia Roffeni)

 

Il ruderi del Castello-Cascina dell’Allegrezza (Ph Claudia Roffeni)

Ritorniamo indietro sino al precedente bivio e seguiamo ancora in discesa il sentiero che in breve si immette sulla strada asfaltata di via Allegrezza, da cui si apre una veduta di largo respiro sulla piana coltivata di Astino.

Dalla via dell’Allegrezza si può godere della vista del terrapieno del monastero, un tempo destinato alle colture difese dagli alti muri e i cui prodotti erano destinati alla cucina. Si può anche apprezzare l’eccezionale l’amenità del luogo e il profumo delle essenze (camomilla, malva, calendula, menta ed equiseto) e il colore delle bacche mature (more, lamponi, mirtilli giganti, cespugli di ribes rossi e gialli, di uva-spina e fragole), ricche di vitamine ed antociani dalle proprietà antiossidanti

Percorriamo la strada raggiungendo in breve tempo il complesso monastico, che i frati rinnovarono dagli inizi del ‘500, quando nella valletta fortificata intervennero importanti cambiamenti.

Il chiostro dell’ex monastero di Astino prima degli interventi di recupero

AGLI ALBORI DEL CINQUECENTO: IL RINNOVAMENTO AGRICOLO E LA NASCITA DELLE CASE DI VILLEGGIATURA

Con gli interventi di rinnovamento eseguiti nella chiesa e nel monastero anche  la terra divenne oggetto di un rinnovato impegno di sfruttamento agricolo: le nuove cascine sorte intorno al monastero e distribuite lungo il calibro minuto  dei tracciati medioevali, vennero adattate ad usi rurali, così come i robusti impianti fortificati circostanti quali il Castello dell’Allegrezza o la torre del Lavanderio, che da quel momento vennero a dipendere dall’abbazia: un documento del 1516 rivela che il terreno intorno al Castello dell’Allegrezza era ‘coltivato a vite, prugni, castagni da frutto e da legna, meli, peri, noci, ciliegi, fichi, salici, roveri, cerri’.

L’ambiente naturale intorno ai ruderi dell’antica Cascina-Fortezza dell’Allegrezza (Ph Claudia Roffeni)

Già nel Quattrocento, sulla collina di San Vigilio erano sorti i primi roccoli,  avviando una tradizione tipica della terra bergamasca e dei suoi abitanti. Ora considerata pratica crudele, la caccia con le reti era un tempo l’unica che consentisse a montanari e contadini di aggiungere nel piatto – dove prevaleva la polenta – la saporita carne degli uccelli stanziali e di passo; quotidianamente, dai colli giungevano alla città  lunghe sfilze di tordi.

L’inizio del Cinquecento è anche il momento in cui la plaga di Astino è già ambito e collaudato luogo di villeggiatura suburbana, con le “villulae” che punteggiano qua e là i crinali ed i pendii.

L’ingresso di un’antica dimora affacciata sulla valle di Astino, lungo la strada del Lavanderio (Ph Claudia Roffeni)

 

Prospetto della dimora affacciata sulla valle di Astino, lungo la strada del Lavanderio (Ph Claudia Roffeni)

Ville di dimensioni raccolte affiancate da rustici, in una semplicità di elementi costruttivi, di impiego di materiali e colori, felicemente fusi in un paesaggio disegnato da alberi e coltivazioni. Oggi, non sempre riconoscibili in quanto trasformate da ristrutturazioni successive.

La forcella della Botta di San Sebastiano nel 1938: è in questo importante nodo viario che si concentrano i maggiori interventi del periodo, con la chiesa di S. Sebastiano e la cortina edificata della Botta e la piccola piazza alla quale confluiscono le vie del Colle dei Roccoli,  del Rione, S. Sebastiano (quest’ultima tracciata proprio agli inizi del ‘500) e la via Botta

La tradizione vuole che Plinio il Giovane, nipote dell’altro Plinio (morto nell’eruzione del Vesuvio), avesse una villa sui colli. Nativo di Como, Bergamo doveva essergli familiare e si volle identificare in una villa sul crinale tra il Pascolo dei Tedeschi e la valle d’Astino la dimora – chiamata ancor oggi Villa Plinia, sede delI’Istituto Palazzolo-Noviziato Suore delle Poverelle – dove trascorreva le vacanze.

Com’era Il monastero nel 1972 (Ph Gianni Gelmini)

Del tardo Quattrocento riconosciamo la “Cascina Moroni”, mollemente adagiata su un terrazzo soleggiato al di sotto della Bastia: fu edificata dai monaci di Astino come tubercolosario ad uso privato (è infatti impreziosita da affreschi di soggetto religioso) e poi divenne un edificio padronale.

Al bivio tra via Case Moroni e via del Rione, la “Cascina Moroni” è conservata nel suo aspetto originario. Dal 1600 divenne proprietà dei conti Moroni e negli anni ’50 fu adibita a “frasca”, gestita dalla famiglia Nessi fino agli anni ‘80. La sua origine non rurale si riconosce nella netta distinzione tra la parte padronale e quella rustica giustapposte, la prima con portico ad archi ribassati su pilastri di arenaria e loggia sovrastante ad archi su colonne

 

Come appariva il versante dei Torni negli anni 70, quando ancora si coltivava la vite. Via alle Case Moroni attraversa il pendio fino all’omonima cascina, in quegli anni adibita a frasca

Nella fase cinquecentesca delle ville sui colli rientra anche la non lontana Villa Benaglia, che dominando il piano di Longuelo forma una delle più spiccate emergenze architettoniche e ambientali del Parco dei Colli.

Villa Benaglia, con l’arioso fronte meridionale a portico e loggiato ad archi; il raddoppio delle arcate al primo piano richiama i loggiati rustici e i chiostri conventuali del XV secolo

Dal 1600, il versante meridionale, terrazzato dagli stessi Vallombrosani, fu vitato con uva bianca moscatella, vernaccia e malvasia, regalando la sua impronta al paesaggio della Val d’Astino.

I tralci di vite erano sostenuti da pali ricavati dai castagni del bosco e maritati a olmi o aceri campestri. La terra tra i filari, distanziati tra loro di 3-4 metri, era coltivata zolla per zolla, concimata dal letame che usciva dalle stalle

I grappoli, portati al monastero lungo i sentieri campestri, venivano immersi negli enormi tini delle imponenti cantine, dove affluivano anche uve di altri territori che fecero del monastero la prima cantina sociale della Bergamasca.

Un momento della degustazione dei vini e delle birre artigianali del Birrificio Elav nella suggestiva cornice di antiche volte in pietra delle Cantine del Monastero, tra le secolari botti in legno

 

Astino negli anni ’70 (Ph Edgardo Salvi)

LA STAGIONE LIBERTY DEL COLLE

L’antico spazio rurale è radicalmente mutato, insieme ai colori e alla tessitura dei pendii; i contadini hanno da tempo lasciato le loro cascine, trasformate in residenze stabili o di villeggiatura sul finire dell’Ottocento e ancor di più nel primo Novecento, quando gli abitanti della città hanno cominciato a scoprire le splendide colline panoramiche di monte Bastia e S. Vigilio, felicemente esposte e baciate dal sole in ogni stagione.

La fioritura del Liberty sul colle di San Vigilio (stampa di Partrick Serra)

Alle poche case che punteggiavano la conca, ch’era ancora fortemente rurale, si sono sovrapposti gli edifici in stile liberty, che hanno trasformato questi luoghi sulla scia dei modelli di città-vacanza facendo loro acquisire quella singolarità paesistica e panoramica che oggi ben conosciamo:  non più solo case di villeggiatura nella vecchia casa di famiglia o per le cacce quindi, ma vere e proprie residenze che i cittadini più abbienti hanno cominciato a costruire nei luoghi più accessibili.

L’arrivo della funicolare, con l’impianto di collegamento rapido tra S. Vigilio e Città Alta, impose la sua discreta presenza nel paesaggio collinare

Sui pendii che abbracciano la conca sono fiorite ville e villini di stampo Liberty felicemente fusi nel paesaggio vario di coltivazioni e alberi: è il caso di Villa Keller, a oriente del monastero, o del Villino Neri sui Torni, costruita su una casa preesistente e delicatamente decorata in stile.

Villino Neri sui Torni, dimora decorata in stile liberty costruita una casa preesistente, con il fronte su strada affrescato con soavi figure femminili di gusto preraffaelita e ingentilito da modanature in stile

Villa Keller, di timbro romantico-eclettico, è circondata da uno splendido parco naturalmente legato al plurisecolare querceto di Astino, adagiato sul versante nord-occidentale della dorsale di Sudorno: un bosco che, insieme a quello dell’Allegrezza, ha conservato condizioni che avvicinano agli antichi equilibri.

Villa Keller immersa nel bosco di Astino (Ph Carlo Leidi)

Ai piedi di via Monte Bastia spicca l’emblema più vistoso del fenomeno che in quel periodo fa divenire la località ambito sito di villeggiatura: la monumentale Villa Viviani, nata dalla ristrutturazione e dall’ampliamento negli anni Venti di un edificio cinquecentesco corrispondente alla torretta terminale medioevaleggiante.

Villa Viviani, con lo scenografico giardino che prospetta su via S. Sebastiano. Come altri villini della zona, le due piccole dipendenze rustiche sono di aggiornato gusto déco, mentre la parte nuova, con gli apparati decorativi interni, è neobarocca

A questa singolare ed esclusiva concezione dell’abitare si è accompagnata la fioritura di giardini, che oggi mimetizzano i crinali così come lo stesso Castello di S. Vigilio.

A poco a poco, al verde tradizionale costituito anche da colture legnose come la vite e gli alberi da frutto, si è sostituito il verde dei giardini con la comparsa di nuove essenze, anche esotiche, e l’introduzione di alcune conifere.

Il Belvedere di San Vigilio

A partire dagli anni ’50 del secolo scorso, via via che le famiglie abbandonavano le attività agricole e le cascine intorno al Monastero, si è assistito al degrado degli edifici, all’estirpazione dei vigneti, all’espansione del bosco sui terrazzamenti, alla trasformazione della piana agricola in una grande monocoltura a mais.

Le viti sono così scomparse dalla valle, con qualche rara eccezione, come in prossimità della cascina La Schésa, adagiata sul lato sud-est della conca, databile nelle sue strutture più antiche tra il ‘400 e il ‘500.

Oggi, il nuovo vigneto appena sotto il Monastero rappresenta quindi un grande ritorno.

Oggi il vigneto di Astino produce le prime uve bio della Bergamasca di chardonnay, le uve bianche destinate alla produzione di ‘bollicine’ con metodo classico, 24 mesi sui lieviti. Il terreno interfilare è gestito a prato, in luogo di una precedente monocoltura a mais. Sull’altro lato del viale è previsto un altro impianto con un mix tra due cloni di Pinot bianco e Riesling renano. Inoltre, la coltivazione di luppolo, la prima della Bergamasca, è destinata a diventare componente di una birra biologica aromatizzata con more e lamponi coltivati in loco, insieme a una vasta gamma di frutti di bosco

Anche il “colore” e la tessitura dei pendii, ora disegnati da una più minuta architettura vegetale, è cambiato, ed oggi non possiamo che ammirarne supefatti la bellezza struggente e variegata, fatta di terrazzamenti rigogliosi, campiture di colore e giardini grandi e piccoli, che donano alla valletta uno strepitoso pregio paesaggistico.

Soprattutto, la piana e le prime balze della collina mantengono le caratteristiche di un’oasi agricola, dove permane la  consuetudine della passeggiata domenicale, della colazione sull’erba o in qualche radura del bosco, con frotte di persone che percorrono viuzze, boschi, sentieri e scalette.

La scaletta della Ripa Pasqualina – toponimo derivante dalla famiglia Pasqualini, un tempo proprietaria di alcuni appezzamenti di terreno ai margini della scaletta – attraversa il bosco di Sudorno fino alla splendida balconata affacciata sulla Conca d’Oro, consentendo un percorso ad anello che riconduce alla piana di Astino

Ed infine, ben esposto sulle terrazze secolari che un tempo accoglievano viti e coltivi, è tornato l’olivo, ove un tempo vi era un podere denominato Monte Oliveto, in linea con la lunga tradizione sui colli di Bergamo.

La valle di Astino, un ambiente rurale oggi “rivisitato”, tanto da potersi fregiare dell’ambito titolo di “valle della Biodiversità”, la sezione dell’Orto botanico di Bergamo che avvicina il pubblico al Regno delle Piante utili e contribuisce a dare nuova vita al compendio agricolo e forestale di Astino

Nella piana racchiusa tra i boschi la vita scorre lenta all’ombra del monastero, dove grazie al lavoro dell’uomo la natura elargisce frutti a piene mani.

Dove la sera, il volo delle cornacchie lascia spazio al suono dei rapaci e al gracidìo di raganelle, che zittiscono al sorgere del sole quando un cinguettio indistinto prende a scandire il tempo insieme al canto del Cucù.

Nella Valle che profuma di Storia, dove il tempo sembra essersi fermato.

 

Riferimenti essenziali
“Il Parco dei Colli di Bergamo – Introduzione alla conoscenza del territorio”: “Caratteri urbanistici e presenze architettoniche”, Graziella Colmuto Zanella. “Spunti per una lettura del paesaggio del Parco dei Colli”, Lelio Pagani.
“Alle porte di Città Alta”, V. Bailo, R. Cremaschi, P. Serra – Associazione per Città Alta e i Colli di Bergamo – Spaggiari edizioni Srl, 20.

A cura del Parco dei Colli, “Progetto Il Colle di Bergamo”.  Lubrina, 1989.