Salendo da Piazza Pontida verso Città Alta lungo l’antico e stretto budello di via Sant’Alessandro, si arriva in uno slargo al cui margine sorge l’antica chiesa di Sant’Alessandro in Colonna, così nominata per l’elegante colonna eretta sul sagrato, composta da alcuni blocchi di epoca romana.
Vuole la tradizione che la colonna sia stata eretta sul luogo dove subì il martirioAlessandro, vessillifero romano della leggendaria Legione Tebea, divenuto patrono della città di Bergamo.
Ma cosa sappiamo davvero riguardo le sue origini?
Così come la vediamo oggi, la colonna è frutto di una rocambolesca ricostruzione risalente al 1618, quando, dopo essere stata smembrata e dispersa, venne nuovamente rizzata sul sagrato assemblando ad alcuni rocchi della colonna originaria parti realizzate ex-novo: di quella originaria, d’età romana, oggi vediamo solo i tre blocchi superiori scanalati e in marmo bianco.
Secondo la documentazione, tutta esaminata da Mons. Mario Lumina, la colonna si trovava in quel luogo almeno dal 1133, data in cui la Chiesa di S. Alessandro è indicata dal Lupi come “Ecclesia S. Alexandri quae dicitur in columna”, in riferimento alla presenza in loco di resti romani, come colonne monumentali appunto (1).
E grazie ai decreti della visita compiuta dal Cardinale di Milano Carlo Borromeo, sappiamo che essa doveva essere ancora sul sagrato nel 1575 – anno della visita apostolica –, quand’era ancora oggetto di venerazione (2).
E’ dunque inevitabile chiedersi quali traversie possa aver subito tra il 1575 e il 1618 – anno della sua ricomposizione sul sagrato della chiesa –, e dove possano essere finiti i pezzi dispersi della colonna, davanti alla quale fu decollato il capo di Alessandro.
I tre rocchi superiori, quelli originari d’età romana, dovevano appartenere alla colonna di Crotacio, che, come vuole la tradizione, fu innalzata in onore di un mitico personaggio romano,citato dalle narrazioni antiche (3) .
Queste ultime dovettero rifarsi almeno in parte alla leggenda che descrive Crotacio come un cittadino importante (forse un valoroso condottiero, poi eletto duca della città: “principe e signore di Bergamo”), padre di Lupo e nonno di S. Grata (4).
Il suo prestigio era tale che alla sua morte sarebbe stato divinizzato, come si usava con gli imperatori, e dopo grandiose onoranze funebri il figlio Lupo gli avrebbe eretto una colonna, che ne reggeva un’altra sormontata da un idolo: entrambe in marmo e in stile corinzio, con scanalature verticali e con il capitello a foglie d’acanto.
A detta di Lumina e sempre secondo la tradizione la colonna sarebbe stata eretta nel giardino dello stesso Crotacio, nella località che ne mutuò il nome (“Vico Crotacio”), e che cominciò a chiamarsi “Vico S. Alessandro” solo dopo il Mille.
Quando in quel lontano 1618 la colonna venne nuovamente rizzata sul sagrato, i dirigenti del Consorzio di S. Alessandro fecero incidere sui quattro lati del basamento un’iscrizione:
CROTCII BERGOMI DUCIS IDOLO SUPERSTITIOSE, HIC PRIUS ERECTAM, S. ALEXANDRI LEGIONIS THEBEAE SIGNIFERI, CHRISTUM PRAEDICANTIS MIRACULO EVERSAM, EIDEM TUTELARI DIVO ALEXANDRO MART. HIC PALMAM, ADEPTO RELIGIOSE REPONENDAM, EX PIORUM STIPE CONSORTII PRAESIDES C.C., IOANNE EMO EPIS. AN. SAL. MDCXIIX
In essa si affermava che era senza alcun dubbio quella di Crotacio, che con la sua presenza indicava il luogo dove il Santo patrono era stato decapitato e che era finita miracolosamente in pezzi mentre il Santo predicava.
Tali fantasiose affermazioni, di certo concepite per mistificare lo scempio compiuto rimuovendo la colonna e lasciando che i pezzi venissero dispersi, sono smentite sia dal documento del 1133 e sia dai decreti della visita apostolica di S. Carlo: testimonianze che attestano la presenza in loco della colonna originaria almeno sino al 1575 (5).
Ma c’è di più: la testimonianza dello storico Celestino Colleoni, che nella sua Historia Quadripartita, pubblicata nel 1618 – in un momento di poco antecedente la ricomposizione della colonna sul sagrato -, parla dell’esistenza nel luogo di due colonne: una grossa e alta di marmo bianco, sormontata da una più piccola dello stesso marmo, entrambe lavorate in stile corinzio, con sulla cima la statua del dio Crotacio. E si parla anche della sua scomposizione: afferma infatti lo storico che la “colonna picciola vedesi anco hoggidì, sopra il muro della Chiesa di S. Alessandro in colonna: ed invece dell’idolo tiene in cima una croce di ferro; della più grossa qui pur trovansi due pezzi grandi; il capitello dicesi essere quello che è nel prato che di S. Alessandro s’appella; il resto non so dove“.
Perchè la colonna era stata smembrata?
Quando S. Carlo nel 1575 venne in visita a Bergamo, ordinò che il luogo circostante la colonna venisse “recinto con inferriata, alquanto distante dalla colonna stessa“, e ciò per proteggere, evidentemente, la sacralità dell’area.
Ma i dirigenti del Consorzio decisero, anzichè innalzare l’inferriata, di rimuovere addirittura la colonna: lo deduciamo – spiega Lumina – da una delibera del 1615, dove essi, pentiti di aver fatto scempio di una colonna cosi prestigiosa, proclamano l’intenzione di ricomporre “per honorevolezza della chiesa di S. Alessandro in Col. [(…)] la colonna del Crotacio, sopra la quale fu decapitato S. Alessandro“, colonna della quale “alcuni pezzi sono presso la chiesa et un pezzo si ritruova nel sedume di [(…)] Bressano, a S. Lazzaro, qual gli serve per pondero per suo torchio”.
In pratica, cos’avevano combinato i maldestri dirigenti del Consorzio di S. Alessandro?
Anziché recingere la colonna con un’inferriata, probabilmente per evitare di ingombrare il sagrato (che allora era di sei metri più stretto rispetto all’attuale), avevano preferito rimuoverla incorporando la parte superiore (quella che in origine reggeva l’idolo) nella facciata della chiesa, dov’era stata effettivamente vista dal Celestino e poi da un altro personaggio, il Manganoni, eletto parroco nel 1713 (6).
Ne avevano poi deposto la parte inferiore nel vicino prato, dove il Celestino disse di aver visto i due pezzi, mentre un altro pezzo se l’era preso un certo Bressano riutilizzandolo come peso per il suo torchio, che si trovava in Borgo San Lazzaro.
Per riparare il misfatto, “pentiti di aver fatto scempio di una colonna cosi prestigiosa“, avevano quindi deciso di recuperare i due blocchi grandi nel prato presso la chiesa e il blocco presso il Bressano, e di integrarli a pezzi nuovi così da poter nuovamente ricomporre un’imponente colonna commemorativa da rizzare sul sagrato della chiesa.
In quel 1618, i tre blocchi recuperati della “colonna grande” vennero quindi ricomposti nell’attuale parte superiore, mentre la base, i primi due rocchi e il capitello vennero realizzati ex-novo: la base e i primi due rocchi da comuni “picapietra”, mentre il capitello fu commissionato ad un artigiano più abile e rinomato, tal Domenico Fantone.
I tre rocchi che oggi rimangono della colonna originale d’epoca romana, sono dunque gli stessi che in origine componevano la parte inferiore della colonna.
E la storia potrebbe concludersi qui, così come è stata ricostruita da Mons. Lumina, se non fosse che Celestino Colleoni ci ha tramandato un indizio di capitale importanza, che sembrerebbe sfuggito (o forse dimenticato) alle cronache attuali.
Per capire di quale indizio si tratti, dobbiamo rileggere il passo di Celestino, il quale dice che le colonne erano due: una grande e, sopra, una più piccola, “E questa colonna piccola vedesi anco hoggidì, sopra il muro della Chiesa di S. Alessandro in Colonna: ed invece dell’idolo tiene in cima una croce di ferro; della più grossa qui pur trovansi due pezzi grandi“.
E fin qui nulla da eccepire, la colonna piccola è ormai perduta mentre i due pezzi della colonna inferiore furono recuperati.
Celestino aggiunge poi di non sapere dove sia il resto ma che “il capitello dicesi essere quello che è nel prato che di S. Alessandro s’appella“, cioè in quello che viene chiamato “Prato di S. Alessandro”, zona che si estendeva nell’area dell’attuale centro cittadino, tra il Sentierone e piazza Vittorio Veneto.
E scopriamo che la testimonianza di Celestino è corroborata da quella dello storico Rota, il quale riferisce che il capitello stava “‘nel prato di S. Alessandro non molto lungi dal Portello’ [del dazio]“.
Apprendiamo questa notizia da Raffaella Poggiani Keller – autorevole voce della Soprintendenza ai Beni archeologici della Lombardia -, nel suo testo divenuto da tempo una pietra miliare dell’archeologia bergamasca.
Secondo la soprintendente il capitello, ritrovato e trasferito presso l’ingresso del Museo Archeologico in Cittadella, potrebbe pertanto riconnettersi con i rocchi di colonna in marmo che anche il Rota – oltre a Celestino – vide nel prato vicino alla Chiesa di S. Alessandro, quegli stessi che componevano la colonna del Crotacio, di cui si conservano tre esemplari nella colonna eretta davanti alla chiesa (7).
Tale connessione sembrerebbe ulteriormente suffragata dall’epoca di appartenenza del capitello nonché dallo stile (corinzio) che lo accomuna ai tre rocchi romani della colonna eretta sul sagrato: motivi più che sufficienti per accorrere al Museo Archeologico ed ammirare quella che sembrerebbe essere la parte mancante, più bella e significativa, del monumento più amato dai Bergamaschi: la colonna-simbolo della nostra città.
Note
(1)Codex Diplomaticus, II, co. 975. La tradizione vuole che la chiesa sia già stata eretta nel VI secolo.
(2) Dal libro di Mario Lumina (cit. in bibliografia) ricaviamo informazioni riguardo la colonna originaria, che nel 1575 doveva essere ancora visibile sul sagrato della chiesa, com’è deducibile dalla relazione redatta in occasione della visita compiuta in quell’anno dal Cardinale di Milano Carlo Borromeo: “Nei decreti della visita di S. Carlo, si legge: “Il luogo fuori della Chiesa, dove c’è la colonna sulla quale, come si crede con certezza (‘ut certo creditur’) a S. Alessandro titolare di questa Chiesa fu mozzato il capo…“.
(3) In merito ai tre rocchi superiori della colonna attuale, essi fanno “probabilmente parte della colonna originaria innalzata in onore di Credacio, mitico personaggio romano” (Maria Fortunati Zuccala, Bergamo dalle origini all’altomedioevo, cit. in bibliografia).
(4) Giovanni Maironi da Ponte, a proposito di Crotacio, figura ammantata da un’aura leggendaria, così si esprime: “I primi secoli del’Era Cristiana quanto alla storia nostra politica sono ancora più d’ogni altro antecedente avvolti nella incertezza, e in una invincibile oscurità. In que’ tempi alcuni nostri scrittori assegnarono alla patria un governo di duchi, de’ quali Crotacio il primo, investito dall’imperator probo, e s. Lupo l’ultimo, che fu padre della beatissima Grata curatrice del corpo di S. Alessandro. Ma sulla erroneità di siffatta opinione, e sulla incompetenza di un tal titolo ai governanti in quell’epoca convien leggere il precitato Codice del canonico Lupo capo IV. e § V., e altrove” (Dizionario odeporico: o sia, storico-politico-naturale della provincia bergamasca (Giovanni Maironi da Ponte). Inoltre, secondo la tradizione Crotacio fu il padre di Lupo e il nonno di S. Grata, la fanciulla che aveva raccolto il capo mozzato del martire e ne aveva seppellito il corpo laddove più tardi sorse la basilica alessandrina, poi distrutta per l’erezione delle mura veneziane; una storia bella e malinconica che ho descritto qui.
(5) Riguardo la colonna composta arbitrariamente sul sagrato nel 1618, si legge che anche “il Belotti nella sua Storia di Bergamo, così si esprime: “Intorno ad essa (colonna) si intrecciano leggende circa la gloriosa morte di Alessandro, tantoché nel 1618, i presidenti del Consorzio di S. Alessandro, riunendo vari pezzi… composero la colonna attualmente esistente avanti la Chiesa anzidetta, vi aggiunsero un piedestallo con iscrizioni ed affermarono senz’altro di aver rimesso in piedi la colonna del Crotacio” (M. Lumina, cit. in bibliografia).
(6) E’ sempre Lumina a raccontarci che “il Manganoni, eletto parroco di S. Alessandro in Colonna nel 1713, nelle sue Memorie sulla Chiesa Prepositurale di S. Alessandro in Colonna, scrive: ‘Fu poi la Chiesa nominata S. Alessandro in Colonna, perché in questo luogo ove è piantata la Chiesa vi era una colonna di marmo, drizzata in onore di Crotacio padre di Lupo, ed avolo di S. Grata, principe e signore di Bergamo. La qual colonna medesima (od altra in sua memoria) fu issata anticamente nel muro di detta Chiesa dalla parte sinistra della porta grande; ed un’altra fu posta sulla sommità del muro verso tramontana, e questa l’ho veduta ancor io; che fu levata, saranno circa vent’anni, nella riedificazione della Chiesa. Sta anche di presente davanti alla Chiesa medesima da un lato piantata una gran colonna di marmo che rammenta la famosa intrepidezza del glorioso nostro tutelare Alessandro” (M. Lumina, cit. in bibliografia).
(7) Raffaella Poggiani Keller scrive che la provenienza del capitello “è desumibile dal Rota il quale riferisce che il capitello stava ‘nel prato di S. Alessandro non molto lungi dal Portello’ [del dazio]. Non è dato sapere se fosse isolato“(Rota 1804, p. 127 nota 4. In: Bergamo dalle origini all’altomedioevo, cit.). Il capitello rinvenuto “è forse da riconnettersi con i rocchi di colonna in marmo che il Rota vide vicino alla Chiesa di S. Alessandro e di cui si conservano tre esemplari nella colonna eretta davanti alla chiesa” (Bergamo dalle origini all’altomedioevo, cit.).
Riferimenti
– Mario Lumina, La chiesa di S. Alessandro in Colonna, S. Alessandro in Colonna, Greppi, Bergamo, 1977, pp. 6-8.
– Raffaella Poggiani Keller (a cura di), “BG – Via S. Alessandro, Chiesa di S. Alessandro in colonna”, Bergamo dalle origini all’altomedioevo: Documenti per un’archeologia urbana, Panini, Modena, 1986, pagg. da 121 a 123.
La festa dell’Apparizione in Borgo Santa Caterina è legata a un evento straordinario, descritto da Padre Donato Calvi nelle sue “Effemeridi”.
Il 18 agosto del 1602 una stella apparsa nel cielo di mezzogiorno illuminava con tre raggi l’affresco della Madonna Addolorata posto sul muro di una casa presso l’antico ponte della Stongarda. Sotto gli occhi di una folla numerosa i raggi prodigiosi riportavano l’affresco – già deteriorato in alcune parti – alla bellezza originaria. Al prodigio seguirono grazie miracolose e frequenti guarigioni.
L’affresco, che era stato dipinto il 27 luglio del 1597 dal pittore locale G. Giacomo Anselmi, è lo stesso che si venera da oltre quattro secoli nell’altare maggiore del Santuario.
Dopo un anno il Vescovo concedeva ai borghigiani di edificare un Santuario, di cui la prima pietra – come ricorda la lapide affissa a fianco dell’ingresso sul lato ovest – fu benedetta dal vescovo Giovan Battista Milani l’11 luglio del 1603.
Entro il gennaio del 1605 la fabbrica veniva portata a termine ed aperta al culto, con il trasporto sull’altare maggiore del muro affrescato.
L’anno successivo (1606), grazie all’offerta della famiglia Galina venne realizzato, su modello del dipinto miracoloso, il gruppo ligneo dell’Addolorata portato ogni anno in processione per le strade del borgo nel giorno che rievoca il miracoloso evento.
La colonna votiva sul piazzale del Santuario in origine si trovava invece nel bel mezzo della contrada, essendo stata posata in sostituzione di una grande croce in legno, rimossa per timore che potesse arrecare danno ai passanti: per tale motivo la colonna venne chiamata “crocetta”.
La colonna, eseguita nel 1614 da Antonio Abbati e benedetta il 24 dicembre dal vescovo Emo, è sormontata dal gruppo scultoreo della Beata Vergine Addolorata, in tutto simile al simulacro che si porta ogni 18 agosto in processione (2).
Nei due dipinti votivi di Marco Gozzi (1759-1839) collocati nella cappella in cui ogni anno si espone il gruppo ligneo dell’Addolorata, la colonna appare nella sua collocazione originaria, ovvero al centro della contrada di Borgo S. Caterina, in asse con l’edificio sacro.
Gli ex-voto documentano due fasi salienti del passaggio di truppe straniere avvenuto senza arrecare danni al borgo e sono al contempo una bella testimonianza della vita e dell’aspetto di Borgo S. Caterina all’inizio ed alla fine del secolo XVIII. Mentre del primo avvenimento l’autore dovette affidarsi alla memoria storica e alla fantasia, del secondo fu probabilmente testimone diretto.
Nel passaggio di truppe francesi ed alemanne in Borgo Santa Caterina (1705) l’Addolorata proteggere dall’alto i suoi devoti. Il borgo è osservato dal ponte della Morla e la colonna, visibile in lontananza, compare al centro della via.
L’altro evento è legato all’ingresso degli austro-russi (1799) senza che alcun danno venga arrecato al borgo: un fatto miracoloso, attribuito all’intervento della Madonna Addolorata venerata nel Santuario, dipinta in alto tra nuvole ed angeli.
Il dipinto è vivissimo nel rappresentare la colonna, il Santuario con il suo campanile, le case con i balconi e le finestre da cui si affacciano figure incuriosite ma non spaventate, mentre in primo piano soldati e cavalleggeri sostano e si intrattengono con alcuni borghigiani.
Fu solo alla fine dell’Ottocento che, probabilmente per la posa dei binari del tram la colonna venne spostata nella sede attuale e cioè nel punto di convergenza ottico del piazzale antistante il Santuario.
Nel frattempo l’edificio si arricchì di opere d’arte: oltre al Gozzi, dello Zucco, del Salmeggia, del Fantoni, ad esempio.
Nell’agosto del 1886 iniziò la ristrutturazione del Santuario su disegno di Antonio Piccinelli, mentre la cupola (1894) e la facciata (1897) vennero eseguite su disegno di Elia Fornoni.
Il campanile assunse invece la forma attuale nel 1906 su disegno del Pandini.
All’interno, ricco di stucchi e affreschi, vi operarono inoltre gli artisti Ponziano Loverini, Giovanni Pezzotta, Giuseppe Riva, Antonio Rota (che eseguì dodici statue raffiguranti santi), Nino Nespoli, Luigi Angelini, Attilio Nani.
E ancor’oggi i festeggiamenti dell’Apparizione continuano ad essere sinonimo di grande devozione da parte di migliaia di fedeli, che vi si riuniscono sin dal primo mattino.
Sotto la luce carezzevole delle Litanie Lauretane, all’intento squisitamente religioso si associa così anche quello umano: si ammirano le opere d’arte che arricchiscono l’edificio, si ascolta musica sacra e si rivedono amici del borgo in una salutare rimpatriata dove si respira quella dolce e familiare “aria dè paìs”.
E attraverso canti, suppliche, acqua santa, processioni, reliquie, incenso, luci, statue, ori, fuochi e banda, i sensi entrano nel gioco virtuoso della devozione, dando corpo alla fede: una fede antica e ancora molto viva.
NOTE (1) Altre opere di Gian Giacomo Anselmi presenti nella bergamasca: un dipinto della Vergine col Bambino tra San Giuseppe e San Carlo (firmato e datato Jacobus de Anselmis –1597), collocato nell’altare a sinistra del Tempio dei Caduti di Sudorno, dove fu posto quando il tempio sostituì la vecchia chiesetta dedicata alla Madonna; nella Chiesa di Sant’Andrea; nella sagrestia di Redona; Pala d’altare della Chiesa Parrocchiale di Pedrengo.
(2) “Ottenuta il 27 settembre 1614 la licenza dai “giudeci delle strade’, Marco Antonio Mutio e Gio Battista Advinatri, su istanza del deputato della chiesa Giacomo Bagis, si procedette alla costruzione”, affidandone l’esecuzione, come attestano i documenti dell’archivio parrocchiale, ad Antonio Abbati “…che risulta già morto quando il 25 luglio 1615 i sindaci e reggenti del santuario si riunirono per saldare con gli eredi il debito contratto” (Andrea Paiocchi, Il Santuario dell’Addolorata in Borgo Santa Caterina, Edizioni Grafital, Bergamo, 2002, pag. 43).
BIBLIOGRAFIA
Per la colonna
Elia Fornoni, St. Di Berg., XVI.
Luigi Pelandi, 1962, IV.
Arnaldo Gualandris, “Monumenti e colonne di Bergamo”, a cura del Circolo Culturale G. Greppi. Bergamo, 1976.
Vecchio inventario dei Beni Culturali e ambientali – Geo-Portale del Comune di Bergamo.
Per il Santuario
Elia Fornoni, St. Di Berg., Ms. XVII, 53-67.
Luigi Angelini, 1960, 12.
Luigi Pelandi, 1962.
Sandro Angelini, 1966.
Ezio Bolis e Efrem Bresciani, Il Santuario dell’Addolorata in Borgo Santa Caterina, Chiesa di santa Caterina, 2002.
“Cenni storici intorno al Santuario di Maria SS. Addolorata di Borgo Santa Caterina in Bergamo”. Pubblicato in occasione della “Solenne incoronazione – Feste Centenarie dell’apparizione della Beata Vergine di Borgo Santa Caterina”. Bergamo, Legrenzi).
Il ricordo della celebre fontana che per un certo periodo accompagnò la quotidianeità del popoloso borgo di San Leonardo, è ancor’oggi ben presente nella memoria collettiva quale simbolo del cuore pulsante della Bergamo di un tempo, nonostante oggi spunti al suo posto una fontana “minimale”, estranea al fascino e dell’atmosfera degli antichi borghi, di cui qui si avverte ancora sommessamente l’eco.
Basta osservare la piazza irregolare, con i suoi caratteristici portici e il groviglio multiforme delle sue case colorate, o passeggiare tra le viuzze che ancora ricordano le attività di un tempo ed inoltrarsi nei vicoli stretti e bui, come è quello che da via Broseta porta in vicolo S. Rocco, tutto voltato a mattoni rossi e, per certi versi, un po’ inquietante.
Dai lati irregolari di questo spazio, che andò articolandosi spontaneamente nel corso dei secoli, si dipartivano radialmente, allora come oggi, le contrade di S. Lazzaro (che si ricongiungeva alla Porta Broseta con la via omonima), di Osio (al tempo della Repubblica Cisalpina chiamata Strada Napoleonica, ora via G. B. Moroni), di Colognola (attuale via S. Bernardino), di Cologno (via Quarenghi dopo il Novecento), di San Defendente (poi via Nova, ora via Zambonate), oltre a quella di di S. Alessandro e la contrada di Prato (oggi via XX Settembre). Nella piazza confluvano così, oltre alle strade che vi affluivano dall’alta città, anche quelle dai paesi della vasta pianura bergamasca.
Il borgo, popolare e borghese, affollato centro di incontri e di traffici, godette per secoli del primato commerciale e artigianale rispetto al resto della città, così da costituire un vero e proprio emporio di merci e somigliare a una città dentro la città.
Qui, più che altrove, “era cospicuo il numero di negozi, botteghe, laboratori, officine, studi. Qui stavano notai, medici fisici, ciroici, barbitonsori, aromatari, preti, magistri di scuola, dipintori, marengoni, calzolai, maestri murari, pellettieri, sarti, confettieri, pristinari, grassinari, osti, locandieri” (1).
Al centro della piazza “Fontana di S. Leonardo” – oggi Largo Rezzara -, accanto alla chiesa da cui il borgo prese il nome, la Fiascona simboleggiava il cuore mercantile della città ed era il fulcro dell’incessante brulichìo del popoloso borgo che la ospitava.
Tutt’attorno – descrive Pelandi – vi prosperavano locande ed osterie: quelle, ormai scomparse, del Bacco, del Borlazò, del Fondech, dell’Ofelì, dell’Asperti, della Zagna, delle Due Ganasse, che era dirimpetto alla stretta degli Asini (l’attuale vicolo delle Macellerie), punto dal quale nell’Ottocento partiva la diligenza per Milano; della Micheletta, quest’ultima luogo di ritrovo del primo direttore de L’Eco di Bergamo, prof. G. Battista Caironi e del professore Nicolò Rezzara.
Di tutte le vecchie osterie del borgo, l’unica sopravvissuta ai giorni nostri è la storica Osteria dei Tre Gobbi, l’ultima vera osteria della Città, che nell’Ottocento era frequentata da artisti, poeti vernacolari, cantanti e musicisti, come il Masi, il Coghetti il Benzoni, il Rubini e il grande Gaetano Donizetti, che amava sostarvi con gli amici più cari durante i suoi soggiorni nella città natale.
In piazza della Legna si tramò contro la Serenissima, innalzando il simbolico Albero della Libertà e “sacrificando i rivoltosi che non volevano abbracciare il nuovo verbo francese” (2).
(2) Luigi Pelandi, Passeggiando per le vie di Bergamo scomparsa – Il Borgo di S. Leonardo. Collana di Studi Bergamaschi – A cura della Banca Popolare di Bergamo. Bergamo, Poligrafiche Bolis, 1962.
Il 3 agosto del 1848, da questa stessa piazza, auspicando l’avvenire di un’Italia unita e repubblicana, “Giuseppe Mazzini, sapendo di comunicare al cuore grande dei bergamaschi, rivolse loro parole infiammate per la lotta contro l’Austria” (3). Durante l’insurrezione antiaustriaca la Fiascona catalizzò gli umori più accesi della città facendo da portavoce al malcontento popolare, un po’ come le famose “pasquinate” di romana memoria: spesso al mattino era facile trovarvi appesi cartelli con satire e sberleffi, o incitazioni di vario genere contro i dominatori asburgici, “come quel Romeo Rosa che nel 1848 pose in cima alla Fiascona il berretto frigio, un copricapo rosso, icona rivoluzionaria, che fece irritare gli austriaci” (4).
(3) Fermo Luigi Pelandi, cit.
(4) L’Eco di Bergamo, Lunedì 04 Novembre 2013, “Demolita o venduta? È un giallo. Ma la Fiascona non zampilla più”. Di Emanuele Roncalli.
Eppure, a dispetto di quella sagoma panciuta quasi evocante le antiche osterie del borgo, le origini della Fiascona sono legate all’Ospedale Grande di San Marco e più precisamente alla ristrutturazione eseguita nel 1536 da Pietro Isabello, progettista del “bell’edificio rinascimentale dotato di cortile, di una fontana (la Fiascona)…” citati dalle fonti (5).
(5) ..”le fonti parlano di un bell’edificio rinascimentale dotato di cortile, di una fontana (la Fiascona)…”. Tosca Rossi, A volo d’uccello – Bergamo nelle vedute di Alvise Cima – Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa, Bergamo, 1012, p. 210.
Dal prezioso libro “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”, a cura di Maria Mencaroni Zoppetti (6), apprendiamo che la Fiascona compare in un disegno ottocentesco conservato presso l’Archivio dell’ospedale maggiore (7). Il disegno, eseguito prima delle modifiche apportate al chiostro nel 1858 dall’ing. Carlo Donegani, ci restituisce l’aspetto del cortile dell’Ospedale Grande di San Marco nella risistemazione del 1536 eseguita da Pietro Isabello; sullo sfondo è ormai visibile il torresino della Fiera in muratura, edificata tra il 1734 e il 1740.
Eppure, fatto strano, la Fiascona è ancora al centro del cortile.
(6) Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.
(7) AOMBg, Copia di un disegno con timbro Ernesto Suardo, 1926; cfr. G. INVERNIZZI, Storia e vicende dell’ospedale di S. Marco in Bergamo, “La Rivista di Bergamo”, marzo-aprile 1927, p. 7. Dei disegni delle strutture rinascimentali di Isabello, solo quello del cortile cinquecentesco è conservato presso l’Archivio dell’ospedale maggiore (Maria Mencaroni Zoppetti, cit.).
E’ opinione comune, e ormai da tempo, che la Fiascona abbia fatto la sua comparsa nella piazza “già detta Fontana di S. Leonardo, davanti alla chiesa omonima” (8) nel 1548, come chiaramente tramandatoci da Luigi Pelandi (Bergamo 1877 – 1969) (9). Così nella rubrica “Bergamo scomparsa”, curata dalla studiosa Andreina Franco Loiri Locatelli, dove si legge che “Al decoro della grande piazza del borgo contribuiva nel 1548 l’edificazione di una fontana chiamata popolarmente la ‘Fiascona’ a causa della forma inusitata. Sostituiva l’antica fontana vicinale” (10).
Pelandi – e lo ribadisce più volte – racconta che quando, nel 1575, il cardinale S. Carlo Borromeo pervenne nella piazza di Borgo S. Leonardo, “già da qualche anno (1548), era stata posta la fontana […] (la cosiddetta Fiascona)” […]. Aggiunge poi – ma è solo una curiosità – che “presso la fontana che è segnata sulla carta topografica del XVII secolo” compare una colonna, innalzata a ricordo di “una porta trionfale eretta sull’entrata della piazza” in occasione della Visita Apostolica di S. Carlo Borromeo nel 1575. “Ora tutto è scomparso” (11).
Colonna e fontana sono incise a bulino anche nella”Planimetria prospettica di Bergamo”, eseguita da Stefano Scolari nel 1680, eseguita su disegno di Giovanni Macheri (o Macherio), datato 1660.
(8) “Piazza Fontana”, “nome popolare” dato alla piazza, abolito nel 1910 allorchè quella parte di Borgo S. Leonardo assume il nome di Piazza Pontida (Bergamo e provincia guida 1910 Soc. Editoriale Commerciale). L’indicazione della piazza come “Largo Rezzara” (personaggio eminente del contesto sociale, economico e cattolico tra fine Ottocento e Novecento) risale all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento (Guida 1953).
(9) Luigi Pelandi, Passeggiando per le vie di Bergamo scomparsa – Il Borgo di S. Leonardo, cit.
In tutta questa vicenda dunque, l’unico punto fermo sembra riguardare l’originaria presenza della Fiascona nel cortile dell’Ospedale Grande di S. Marco, fatto riportato anche in un più recente articolo apparso sul quotidiano “L’Eco di Bergamo”, che in riferimento al già citato ampliamento cinquecentesco dell’ospedale Grande di San Marco, scrive che è “Proprio qui, in mezzo al grande cortile, che si trovava la Fiascona”.
..salvo poi aggiungere che “Con l’abbattimento del vecchio Ospedale, la fontana dovette traslocare in piazza Fontana (o della Fontana), l’attuale largo Rezzara, in fondo a via XX Settembre”[…] “È stata lì per più di tre secoli – ha scritto Renato Ravanelli –, quasi simbolo ideale di un borgo, come il San Leonardo […] e “Lì resistette sino alla fine dell’Ottocento (1887), quando dovette lasciare spazio ai binari dei primi tram a cavalli” (12).
(12) Dal momento che la Fiascona “È stata lì per più di tre secoli” è lecito pensare che tale riferimento riguardi non la demolizione definitiva del 1937, bensì la ristrutturazione operata dall’Isabello, datata 1536. L’Eco di Bergamo, Lunedì 04 Novembre 2013, “Demolita o venduta? È un giallo. Ma la Fiascona non zampilla più”. Di Emanuele Roncalli.
Eppure, ancora nel 1723, e dunque a distanza di circa due secoli dalla realizzazione del chiostro dell’Isabello, la Fiascona risulta essere ancora nel cortile dell’Ospedale di San Marco: ce lo attesta un cabreo eseguito in quella data da Bernardino Sarzetti (“descritto con precisione nelle sue dimensioni, nel suo andamento, nelle sue specializzazioni, nella sua posizione nella città”), nel quale viene riprodotta la fontana a forma di fiasco che si trovava nel cortile isabelliano e di cui – è il caso di sottolinearlo – “non resta più traccia” in una fotografia ottocentesca eseguita da G. Leidi, che ci restituisce l’aspetto del nuovo chiostro progettato da Donegani (13).
(13) M. Mencaroni Zoppetti, cit.
Dopo quanto osservato e comparando l’immagine delle due fontane – quella al centro del cortile dell’Ospedale Grande di S. Marco e quella in piazza Fontana nel Borgo di S. Leonardo – dobbiamo forse ipotizzare l’esistenza di “due Fiascone”, molto simili ma non identiche, collocate per un dato periodo in due diversi luoghi della città e nominate allo stesso modo?
Comparando invece la Fiascona di Borgo S. Leonardo e quella riprodotta nel cabreo del Sarzetti, si riscontra una vistosa similitudine: nella vasca, nel profilo della fontana vera e propria e persino nella sua parte terminale, verosimilmente una struttura in ferro, terminante a cuspide.
Il chiostro cinquecentesco dell’Isabello subirà trasformazioni solo nel 1858, allorchè l’ing. Carlo Donegani procederà ad una modifica interna del complesso ospedaliero: è solo a quella data che, nel chiostro, “al posto di quella a forma di fiasco è posta una fontana con vasca ottagonale e putti” (14).
(14) M. Mencaroni Zoppetti, cit.
In mancanza di prove tutto è possibile, ma possiamo affermare con certezza che, almeno fino al 1723 – come eloquentemente attestato dal cabreo dell’agrimensore Sarzetti – la Fiascona si trova ancora in mezzo al cortile dell’Ospedale Grande di S. Marco.
Dovremo attendere il 1810 per vederla allegramente zampillare nella chiassosa “piazza di fronte a S. Leonardo”, riprodotta in una mappa topografica della Roggia Serio, conservata nella Biblioteca Civica A. Mai, e ritrovata in un testo pubblicato nel 2001 a cura dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo (15), corredata dalla seguente didascalia: “Dalla contrada di Prato si arrivava alla piazza di fronte a S. Leonardo dove era situata la Fiascona, fontana che veniva rifornita dall’acqua della Roggia Serio”.
La Roggia Serio, allora tutta scoperta, esisteva sin dal XIII secolo, quando fu scavato l’alveo con presa d’acqua ad Albino; lambiva la cinta muraria costruita a metà Quattrocento, chiamata “Muraine”, ed entrava nel Borgo, per il quale era la principale fonte di energia e di lavoro. Ancora sino a metà Ottocento azionava mulini, filatoi, fucine, serviva per l’irrigazione degli orti, per i lavatoi pubblici e privati.
(15) Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo, “Evoluzione di un luogo urbano – Dal Convento delle Grazie al Credito Bergamasco”. Bergamo – Edizioni dell’Ateneo, 2001.
Nel già citato articolo dell’Eco di Bergamo (16) si legge invece che la Fiascona “Distribuiva l’acqua agli abitanti di Borgo San Leonardo ed era alimentata dalla sorgente di Sant’Erasmo, poi, causa siccità, venne alimentata da una derivazione della roggia Curna” (roggia che interessa il lato meridionale del prato di S. Alessandro, la contrada di Prato e il borgo S. Alessandro).
E’ lecito chiedersi il perchè di tale discordanza, ed apprendiamo ad una prima indagine che “In Borgo Canale esisteva la fontana di S. Erasmo, dotata di ampia cisterna, non solo provvedeva ai bisogni degli abitanti ma alimentava un canale che, attraverso i prati, portava l’acqua alla fontana del ‘Paesetto’, a lato del monastero di s. Stefano, quindi alla fontana di s. Benedetto e infine alla fontana di borgo s. Leonardo, in piazza Fontana. Interrotta e non più riparata la conduttura, la fontana del Paesetto continuò a ricevere acqua attraverso una condotta che scendeva dalla fontana di s. Giacomo. Tracce dell’antico canale lungo la via s. Alessandro (o contrade del Mattume) furono trovate nel 1889 in occasione di scavi e giudicate in parte romane e in parte medievali. Si accertò, tra l’altro, che l’acqua veniva fatta scorrere in una canaletta formata da coppi accostati e sovrapposti” (17).
(16) L’Eco di Bergamo, Lunedì 04 Novembre 2013, “Demolita o venduta? È un giallo. Ma la Fiascona non zampilla più”. Di Emanuele Roncalli.
(17) Pino Capellini, “Acqua e acquedotti nela storia di Bergamo”. Ferruccio Arnoldi Editore, Bergamo (manca anno di edizione), p. 143, 148.
La Fiascona continuò la sua permanenza in piazza Fontana sin verso la fine dell’Ottocento, come del resto attestato da un ricco corredo iconografico, benchè possa esserci qualche dubbio riguardo la data esatta della sua rimozione (18).
(18) Riporto a beneficio d’inventario un dato rinvenuto in un catalogo della Biblioteca Civica, dove, in riferimento al periodico “La Rivista di Bergamo”, si legge: “Piazzetta con la fontana detta la Fiascona posta nell’anno 1548 e tolta nel 1890” (Biblioteca Civica di Bergamo, La Rivista di Bergamo, anno 37, vol. 10, data ott. 1936, Autore: Gritti Pietro, Titolo: Piazza Pontida. Declino di un luogo protagonista. Pagina 9).
In quanto alle motivazioni, è ancora L’Eco ad avanzare ipotesi: “Lì resistette sino alla fine dell’Ottocento (1887), quando dovette lasciare spazio ai binari dei primi tram a cavalli. In sostanza la Fiascona era d’intralcio alle vetture trainate dai cavalli che transitavano lungo la contrada di Prato (via XX Settembre). In realtà fu dapprima chiusa agli inizi del 1882 perché, da analisi effettuate dall’Ufficio di sanità nel 1881, risultò che l’acqua era inquinata e, poi, con decreto del 26 settembre 1883 fu rimossa dal Comune. Molti ritennero invece che il vero motivo fosse da ricercare nel passaggio della linea tranviaria” (19).
Il servizio di trasporto pubblico venne inaugurato nella città di Bergamo nel 1887, gestito su concessione del Comune dalla società dell’ing. Ferretti, istituita nel 1887. il progetto di Ferretti “includeva, oltre la funicolare, una modesta rete di tram a cavalli allacciata alla funicolare”, che percorreva il tratto da Piazza Pontida (Cinque Vie) a Borgo Santa Caterina, transitando per le Vie Tasso e Pignolo. Dopo aver posato, a partire dal luglio del 1887, le guide sul viale della Stazione (dove il 30 settembre dell’88 il Brembo e il Serio – le prime due macchine a vapore – percorrevano il viale Vittorio Emanuele), nell’ottobre dello stesso anno “si posero le guide di ferro in Piazza Pontida per il tram a cavalli dei Borghi”. (20).
Bisognerà attendere il 1904 perchè la linea “a cavalli” tra piazza Pontida e la parrocchia di Borgo S. Caterina, venga elettrificata.
“Sulla soglia del 1900 Bergamo era afflitta dalla febbre di grandezza. Si pensi che in quel tempo (1899) si facevano adunanze su adunanze per l’attuazione della ferrovia della Valle Brembana, per lo studio della tramvia Bergamo-Sarnico, si studiava d’estendere la trazione elettrica a tutti i tram cittadini, che fino allora erano trainati da cavalli. Vi ricordate, egregi miei coetanei, del gobbo che accompagnava il terzo cavallo, per assicurare la salita di via Pignolo?” (21).
(19) L’Eco di Bergamo, Lunedì 04 Novembre 2013, “Demolita o venduta? È un giallo. Ma la Fiascona non zampilla più”. Di Emanuele Roncalli.
(20) Luigi Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea. Collana di Studi Bergamaschi, a cura della Banca Popolare di Bergamo. Poligrafiche Bolis, Dicembre 1963.
(21) L. Pelandi, cit.
Non resta che chiedersi che fine abbia fatto “La tozza fontana a forma di fiasco, contornata da un’ampia vasca ottagonale” che “finì per essere d’intralcio. Bella non era ma caratteristica sì, con gli spruzzi sottili che gemicavano dai fianchi pietrosi dell’olla pancuta. La sua scomparsa seguì di poco tempo quella delle colonne del Prato, poste fra l’omonima contrada e il campo della Fiera” (22).
Una volta rimossa, dove finì? Lasciamo il finale alle cronache cittadine.
“Fu sicuramente smontata e portata nei magazzini comunali, ma durante la rimozione venne rotta nella parte centrale. Non fu in ogni caso fatta a pezzi, ma da quel magazzino un ben giorno sparì. Dove è finita dunque? Una risposta la diede il compianto assessore Aldo Ghisleni che nell’aprile del 1998 durante una seduta della seconda Commissione consiliare affermò: «La fontana appartiene a un privato, che l’ha regolarmente acquistata dal Comune. D’intesa col sindaco, sto cercando di riacquistarla». Il tentativo fallì. E il fatto che per molti la fontana sia finita ad abbellire il bel parco di una villa (Longuelo? Colli?) non pare più una leggenda metropolitana. Anche Palafrizzoni potrebbe dunque tornare sulle tracce della fontana. O forse anche il legittimo proprietario potrebbe farsi avanti. La Fiascona è sua. Nessuno gliela porta via. Ma almeno ce la mostri. Perché questo pezzo di storia bergamasca non può rimanere nascosta fra aceri e platani” (23).
Luigi Pelandi, Passeggiando per le vie di Bergamo scomparsa – Il Borgo di S. Leonardo. Collana di Studi Bergamaschi – A cura della Banca Popolare di Bergamo. Bergamo, Poligrafiche Bolis, 1962.
L’Eco di Bergamo, Lunedì 04 Novembre 2013, “Demolita o venduta? È un giallo. Ma la Fiascona non zampilla più”. Di Emanuele Roncalli.
Tosca Rossi, A volo d’uccello – Bergamo nelle vedute di Alvise Cima – Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa, Bergamo, 1012, p. 210.
Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.
Bergamo scomparsa: la nascita di Piazza Pontida. Andreina Franco Loiri Locatelli per Bergamosera.
Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo, “Evoluzione di un luogo urbano – Dal Convento delle Grazie al Credito Bergamasco”. Bergamo – Edizioni dell’Ateneo, 2001.
Pino Capellini, “Acqua e acquedotti nela storia di Bergamo”. Ferruccio Arnoldi Editore, Bergamo, p. 143,148.
Luigi Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea. Collana di Studi Bergamaschi, a cura della Banca Popolare di Bergamo. Poligrafiche Bolis, Dicembre 1963.
Benchè sia ormai inglobato nel tessuto cittadino, Il torrente Morla – “la Morla” per tradizione – è storicamente considerato il “fiume di Bergamo”, dal momento che ben 8 chilometri dei 14 totali sono compresi nel territorio comunale del capoluogo orobico.
Anche se la Morla non può, e non poteva competere, per volume d’acqua e per lunghezza di percorso, con i due fratelli maggiori – il Serio e il Brembo, onorati dal Tasso nel famoso sonetto – supera questi ultimi per importanza storica; per centinaia d’anni essa fu ammessa nella nomenclatura dei fiumi: nei diplomi imperiali di dieci secoli fa è chiamato flumen, e
Mosè del Brolo otto secoli or sono nel suo Pergaminus cantava: “un fiume a cui di Morla han dato il nome”.
Nasce dal Monte Solino, alle pendici del Canto Alto, e dal Col di Ranica, propaggine della Maresana, e all’altezza di viale G. Cesare riceve il contributo del torrente Tremana; del Gardellone riceve soltanto le acque di sfioro, e ciò da quando, nel 1950, per evitare che la Morla esondasse in città in caso di abbondanti piogge, tale torrente fu deviato direttamente al fiume Serio in territorio di Torre Boldone.
Come facilmente intuibile, la portata della Morla è largamente dipendente dagli apporti meteorici.
Dopo aver attraversato, con andamento meandriforme, Sorisole, Ponteranica e Bergamo, la Morla assume un andamento quasi rettilineo, delimitando il perimetro comunale a est e lambendo il Corpo Santo di Campagnola a sud.
Oggi l’alveo attivo del torrente Morla scorre in una direzione completamente diversa rispetto al passato, in seguito ad importanti interventi di rettifica e canalizzazione.
Anticamente, il paleoalveo della Morla, documentato al XIII secolo, raggiunta la città di Bergamo a est, dopo aver compiuto un’ampia curva che la evitava proseguiva verso la zona dell’insediamento dell’ex-Gres di via S. Bernardino (ed esattamente a ovest di tale insediamento industriale), continuando poi in direzione di Grumello del Piano. Da qui si disperdeva in una zona acquitrinosa con altri corsi d’acqua provenienti dalle pendici collinari occidentali.
L’antico percorso della Morla venne deviato nel Duecento per irrigare nuovi campi bonificati, e nel 1253 il Municipio di Bergamo “alienò parte dei suoi terreni a sud di Campagnola e li affidò a ricche famiglie aristocratiche (tra cui i Suardi e i Grumelli) che li gestirono e li coltivarono destinando la produzione di fieno e ortaglie alla città. Le tracce di tale operazione permangono oggi nei designatori, con la presenza della via dei Prati, a Campagnola, che corre ancora oggi lungo la roggia. Successivamente lo stesso schema della bonifica venne applicato per la fondazione del centro di Comun Nuovo, situato qualche km a sud di Colognola in direzione di Caravaggio” (Il paleoalveo del torrente Morla).
Nei tempi antichi la Morla costituiva una fonte di vita per gli abitati che lambiva.
Durante il periodo medioevale la stessa città di Bergamo ricorreva alle sorgenti della collina per i propri bisogni idrici e domestici, ed ancora in tempi più recenti, almeno fino alla prima metà del XX secolo, la Morla fu utilizzata per fini domestici, in primis per lavare i panni, in quanto le sue acque erano dotate di una grande limpidezza.
Le persone più anziane ricorderanno certo con nostalgia i tempi in cui la Morla pareva “acqua sorgiva”, al punto tale che le massaie utilizzavano la sua acqua per lavare la biancheria, che stendevano sulle rive e nei prati ad asciugare e che, secondo l’esperienza di allora, con la luce ed il calore solare acquistava maggiore candore.
Inoltre, il suo alveo, adagiato su uno strato impermeabile argilloso, permetteva l’estrazione agli inizi del secolo di un’eccellente qualità di argilla (“unica nel suo genere”), con la quale venivano fabbricate stoviglie fra le migliori della Bergamasca.
La Morla lungo la sua storia causò grossi guai, paurosi straripamenti, inondazioni e vittime, ricordate in una lapide risalente all’epoca della dominazione veneta, affissa sulla facciata di una ex chiesetta costruita sul suo argine in località “Scuress” (Ponteranica).
La Morla infatti è un torrente dal corso tortuoso con il fondo lastricato di rocce cenericce e sfaldabili chiamate Sass de la Luna: quando è in secca non ci si accorge della sua esistenza, mentre in occasione di abbondanti precipitazioni si sveglia e può diventare pericolosa.
Le calamità naturali legate alle esondazioni della Morla sono ricordate dal poeta bergamasco Mosè del Brolo e dal Mazzi nella sua corografia bergomense. Quest’ultimo scriveva: “Il torrente provenendo dalle alture di Ponteranica, corre vicino alla città dalla sua parte orientale e se non è infelice esagerazione di poeta, si può credere che negli antichi tempi recasse non pochi guasti alle vicine campagne, giacchè di esso canta il nostro Mosè: Prossimo al Monte cittadin trascorre, un fiume a cui di Morla han dato il nome, e crudelmente le campagne inonda”.
Ricordiamo anche gli enormi guasti arrecati alla città di Bergamo, e in particolare a Borgo S. Caterina e Borgo Palazzo, nella primavera del 1936, quando persero la vita due persone.
Il cronista di allora così scriveva su “L’Eco di Bergamo”:
“il 3 maggio 1936 nel tardo pomeriggio dopo una giornata afosa si avevano i prodromi di un temporale proveniente da est e che è stato veramente impressionante.
La zona fortemente colpita è stata Borgo S. Caterina tanto che oltre alle case e cantine allagate le ossa del vecchio cimitero di Valtesse affiorarono sul terreno.
Questo grave episodio è stato determinato dallo straripamento dei torrenti Tremana e Gardellone, confluenti del Morla. Essi sono alimentati dal bacino imbrifero del Canto Alto da un lato e dalla zona collinare dall’altro.
Un fenomeno del genere si è avuto nel 1932 ma meno grave, perché avvenuto in un periodo di siccità mentre questo a seguito di continue piogge…”
Accanto a quella tragica del 1936, la storia della Morla registrò altre drammatiche piene, e tra queste, quella del 1896, del 1932, del 1937, del 1940, del 1946, del 1949 e del 1976.
In quelle occasioni si accesero discussioni, polemiche, dibattiti, volti a porre rimedio a queste calamità, studiando quindi una soluzione definitiva.
Dopo numerosi progetti si decise di canalizzare parte del corso cittadino del fiume, coprendone alcuni tratti. L’opera, che comportò ingenti sforzi non soltanto economici, si concluse nei primi anni sessanta modificando definitivamente la natura del torrente.
La zona maggiormente interessata fu Borgo Santa Caterina, che vide scomparire totalmente il corso d’acqua che ne aveva caratterizzato la storia, posto sotto il manto di nuove strade e piazzali, su cui venne costruito anche il nuovo palazzetto dello sport della città.
Venne quindi eliminato anche il caratteristico ponte di Borgo santa Caterina, da secoli delimitazione territoriale del quartiere stesso.
Un altro tratto in cui il torrente venne nascosto alla vista della città fu immediatamente dopo il ponte di Borgo Palazzo, per riemergere dal buio in prossimità della stazione ferroviaria, sotto la quale scorre l’ultimo tratto sotterraneo.
A seguito di questa grande opera il torrente venne relegato ad un ruolo sempre più marginale, tanto che col passare del tempo venne considerato sempre più una sorta di discarica a cielo aperto.
Soltanto con l’avvento del XXI secolo cominciò a verificarsi una nuova presa di coscienza da parte dei cittadini e delle autorità, che hanno posto la Morla al centro di un’opera di recupero ambientale. A tal riguardo è nato anche un Parco Locale ad Interesse Sovracomunale (PLIS) volto alla tutela ed al rilancio delle aree della pianura bergamasca interessate dal corso della Morla e dalle rogge da essa derivate.
La Morla fu immortalata nei diplomi regi e imperiali, poiché diede il nome alla Corte regia di Borgo Palazzo. Il Lupi, che nel 1780 scriveva : “la corte Morgola… presso al fiume che fino ad oggidì porta lo stesso nome, in quel luogo che ora è detto Borgo Palazzo”, spiega che la curtis era un possedimento, o vasto feudo, appartenente a qualche particolare famiglia, la quale aveva la propria abitazione in forma di castello o di palazzo, con adiacenti alcune case per la servitù o coloni addetti alla coltivazione dei terreni che si estendevano intorno ai fabbricati: il castello di Malpaga e le abitazioni che lo circondano possono rendono l’idea di cosa fossero le corti.
La Curtis regia era invece proprietà di un re o di un imperatore e talvolta abbracciava un villaggio (vicus) o anche un insieme di villaggi (pagus); aveva ampi fabbricati, che dimostravano la potenza e la dignità regia. In città la curtis regia era ubicata nell’area attualmente occupata dalla fontana di San Pancrazio.
Ora, la curtis: “… quae vocatur Morcula in comitatu Pergamo”, appare per la prima volta in un diploma dell’875 di Lodovico re di Germania; in questo documento si menziona l’esistenza di una corte Morgula o Murgula – poiché essa era dislocata lungo il corso del torrente Morla -, situata nei pressi di un Palatium imperiale, nella parte bassa di Bergamo. Un palazzo destinato alla residenza degli imperatori di passaggio nei loro viaggi nelle provincie italiane.
Fuori porta S. Alessandro, nello slargo posto al bivio tra via Tre Armi e via Borgo Canale, s’innalza una colonna (“con un pinnacolo e croce e una inferriata di contorno”) , fatta erigere il 28 Settembre 1621, in memoria dell’avvenuta distruzione della Basilica alessandrina, dal vescovo Giovanni Emo. La colonna si trova poco più a monte del sito effettivo in cui si trovava la basilica, definita dai documenti “antiquam et excelsam eiusdem basilicae columnam”.
In quella circostanza si murava, su una parete retrostante la colonna, una piccola lapide in cui si ricordava in parole latine la benedizione data alla stessa dal vescovo Emo. La parete recingeva l’area già di proprietà Gallina, poi sede del Collegio Orfane di Guerra (1).
Nell”intento di ricordare il triste evento cittadino dell’abbattimento dell’antica basilica, avvenuto esattamente quattrocento anni prima, il parroco di S. Grata in Borgo Canale, don Giacomo Carrara aveva pubblicato su L’Eco di Bergamo dell’11 marzo 1961 un pregevole articolo di carattere storico illustrante le notizie di quel sacro edificio, avanzando la proposta di perpetuare il ricordo dell’insigne sacro edificio dedicato al Santo Protettore di Bergamo, con l’esecuzione di lapidi rievocanti – con dati e rilievi topografici – sul muro retrostante alla colonna eretta dal vescovo Emo in Borgo Canale nel 1621.
Il compito del progetto di sistemazione della colonna e dello spazio antistante venne affidato all’ing. Luigi Angelini, che il 14 aprile del 1961 presentò al Vescovo Piazzi una proposta, subito inviata a Roma e favorevolmente accolta da Papa Giovanni XXIII (illuminato cultore di ricerche storiche, che “per decenni aveva dato tanto attivo lavoro di studi agli argomenti della storia cittadina”), il quale aderì con entusiasmo, assumendo a proprio carico l’onere finanziario per la sua realizzazione (2).
Alla risposta giunta dal Vaticano in merito al progetto proposto dall’Ing. L. Angelini, il Cardinal Testa, amico personale del Papa e studioso di storia locale, allegò una serie di indicazioni attraverso elementi aggiuntivi alla lapide secentesca posata dal Vescovo Emo, volte a concretizzare “un più visibile ricordo dello storico evento” (3).
Il fatto che più importava alla Curia romana era che tutto fosse pronto per quando l’urna di Sant’Alessandro sarebbe stata trasportata in processione solenne dalla Chiesa di Santa Grata alla Cattedrale, in occasione delle feste del quarto centenario della sua traslazione che si era resa necessaria a causa dell’imminente demolizione della basilica, voluta dai provveditori militari, per far spazio al cantiere delle nuove mura e fortificazioni della città.
ll 13 agosto 1961, durante le feste del santo patrono, tenutesi nel quarto centenario della traslazione delle reliquie dei Corpi Santi dalla basilica alessandrina alla cattedrale, mons. Loris Capovilla, segretario particolare di papa Giovanni XXIII°, presentava in Duomo la nuova veste della colonna di borgo Canale eretta a ricordo dell’antica cattedrale di Bergamo poco lontana dal luogo sul quale essa sorgeva.“Ma i secoli invecchiano anche i marmi e le intemperie li corrodono. Ora per la munificenza di Giovanni XXIII°, la colonna e i rilievi statistici e topografici tornano a risplendere. Il gesto del papa ha una significazione che i bergamaschi sanno cogliere”, concludeva mons. Capovilla.
LA NUOVA VESTE DELLA COLONNA NEL PROGETTO DELL’ING. ANGELINI
Ai grafici del progetto inviato a Roma l’ing. Angelini aveva accluso una relazione esplicativa che vale la pena riportare: “Gli studi e gli scritti che trattarono l’argomento con valutazioni e affermazioni di carattere generico, salvi i dati lasciati dal Can. Guarneri sulle misure in cubiti delle dimensioni della Basilica, non portarono a concreti elementi per comporre in modo sicuro le incerte valutazioni in descrizioni e grafici. Esiste però un lavoro composto dallo studioso concittadino Ing. Elia Fornoni pubblicato nell’anno 1885 su “La Basilica Alessandrina e i suoi dintorni” che dimostra, con copia di notizie, di ricerche fatte in posto e serietà di metodo, l’attenta cura da lui messa per formare un quadro attendibile della planimetria della zona ove oggi non si eleva nessun elemento antico.
È appunto questo studio, in cui la Basilica è stata graficamente definita sul carattere delle basiliche paleocristiane tuttora esistenti in Italia e particolarmente in Roma, che il Fornoni ha potuto tracciare l’orientamento, le piante e le sezioni della basilica primitiva (del IV° o V° secolo) e dell’ampliamento e restauro al tempo del Vescovo Adalberto che resse la diocesi dall’anno 894 (funesto per distruzioni cittadine da parte delle truppe di Re Arnolfo di Germania) fino al 929”.
Su dati di scrittori vari, il Fornoni ricompose in più, in questo punto della città ove si imbocca Borgo Canale, le determinazioni in posto della chiesetta di S. Pietro, dello xenodochio, della zona cimiteriale, dell’ospedale di Filiberto, così da comporre una planimetria generale che rappresenta in modo pressoché convincente lo stato reale in cui trovavasi questo tratto cittadino in quell’anno 1561 in cui furono abbattute “circa settecento case” – forse il dato è un po’ sovrastimato – per tracciare il perimetro di oltre cinque chilometri della grande opera difensiva.
Sulla lapide centrale, costituita da una grande lastra di marmo di cm.117 per 150 sono incise due epigrafi:
la prima in alto è la traduzione italiana della lapide fatta murare dal vescovo Emo nel 1621;
la seconda, pure scritta in italiano, ricorda l’attuale sistemazione.
I testi delle epigrafi sono i seguenti:
L’anno del Signore MDCXXI essendo vescovo Giovanni Emo
II Capitolo di S. Alessandro questa colonna fece erigere
Presso la Basilica Alessandrina
Antichissima e insigne prima cattedrale di Bergamo
Demolita nel MDLXI
Allorquando la Repubblica veneta costruì
L’attuale cinta delle mura
L’anno del Signore MCMLXI essendo vescovo Giuseppe Piazzi
Questo luogo dove nel secolo IV
Sorse la primitiva cattedrale
Dal vescovo Adalberto nel secolo X ampliata
Nella ricorrenza del IV Centenario della demolizione
Giovanni XXIII P.M.
Dei fasti antichi della sua diletta patria fervido Cultore
Fece adornare di marmi e munire di storici richiami
a sacra perenne memoria.
Subito sotto questa lapide è collocata l’antica(cm. 33 x 118) che dice:
Anno CI) I) CXXIII Kal OCTOBRIS
IO EMVS EPYS RITV SOLEMNI MONVMENTV HOC BENEDIXIT
IAC°. SVR°. PRAEF. OPT. FAVENTE, ERECTV. A.R.moCAPLO.
S. ALEXANDRI
AD MEMORIAM SEMPITERNA. ILLIVS AECCLAE CATIS
ANTIQUISSIME, IN QVA
EIVSDEM SS.maMARTYRIS CORPUS A B. GRATA TVMVLATVM,
ET ALIORVM SANCTORVM RELIQVIAS CIVITAS VENERABATVR
Nel corpo laterale di sinistra, su lastra marmorea, è incisa la pianta grafica della zona, ricavata dalle planimetrie dell’ing. Elia Fornoni, con l’ubicazione dell’antica basilica (sorgeva a circa 30 metri dalla colonna).
Nel corpo laterale di destra, sempre su lastra marmorea, è incisa la pianta e la sezione longitudinale della basilica.
La colonna, la cui sistemazione è stata curata dalla ditta Camillo Remuzzi, dalle imprese Oberti e Gritti e dal fabbro Scuri, poggia su un basamento a forma di dado allungato, alto circa 50 cm., con inciso sui lati, il giglio di Sant’Alessandro.
A sua volta il basamento è posto su un gradino, al quale è stata rifatta la zoccolatura e sul quale si trova la cancellata di protezione.
Alla sommità della colonna si innalzano un pinnacolo e una croce.
Sino al 1961 si era ritenuto che tale colonna fosse in pietra di Sarnico, ma a seguito di un attento esame fatto dal cardinale Testa, risultò essere di granito di Numidia, lo stesso granito usato nella costruzione delle basiliche costantiniane di Roma. Questa coincidenza fa pensare ad un contributo imperiale per l’antico tempio paleocristiano.
NOTE (1) Qualche decennio prima della sistemazione dell’Angelini, “il muro era stato sistemato formando una parete di metri 6.98 di lunghezza e m. 3.40 di altezza e lateralmente, in modo simmetrico rispetto alla colonna, fiancheggiata da due spazi di luce di m. 2.35 entro pilastrini in ceppo rustico e chiusi un tempo da cancellata ora mancante” (Luigi Angelini).
(2) Nella sua opera monumentale “Gli atti della visita apostolica di San Carlo Borromeo alla diocesi di Bergamo “, Papa Giovanni XXIII aveva riportato un documento in lingua latina relativo alla Cattedrale in cui il tempio veniva descritto minutamente nelle sue strutture e nei suoi particolari. I preventivi alla fine risultarono inferiori a quanto pattuito, malgrado fossero state apportate modifiche e migliorie nel corso dei lavori.
Mentre il 7 luglio 1961 perveniva il richiesto nulla osta dalla Soprintendenza ai Monumenti, la lettera di autorizzazione del Comune giunse il 28 settembre di quello stesso anno. La sistemazione della colonna, comunque, anche se a grandi linee, era pronta per la data desiderata.
Inoltre, Papa Giovanni XXIII, illuminato cultore di ricerche storiche, nella sua opera monumentale “Gli atti della visita apostolica di San Carlo Borromeo alla diocesi di Bergamo “, aveva riportato un documento in lingua latina relativo alla Cattedrale, in cui il tempio veniva descritto minutamente nelle sue strutture e nei suoi particolari.
(3) Su indicazione del Cardínal Testa, lo spazio antistante al muro e racchiudente la base della colonna secentesca fu sistemato con lastricato di pietra. Gli spazi vuoti laterali (di m. 2,35 di vano) fra i pilastrini esistenti in ceppo furono chiusi da inferriate semplici di ferro piatto.
Riferimento
Arnaldo Gualandris, “Monumenti e colonne di Bergamo”, a cura del Circolo Culturale G. Greppi. Bergamo, 1976 (con introduzione di Alberto Fumagalli).