Il ponte sulla Morla in Borgo Palazzo, la statua di San Giovanni Nepomuceno e le “macchiette”

Il ponte che ancor oggi regge validamente il traffico di via Borgo Palazzo fu costruito nel 1550, ma la presenza di un ponte sulla Morla, proprio là dove oggi sorge l’attuale, è sicuramente antichissima. Lasciamo stare la solita storiella di chi lo volle innalzato su ordine di Carlo Magno: quella di voler nobilitare edifici e monumenti attribuendoli a grandi personaggi del passato, era un’abitudine piuttosto diffusa.

In realtà, il ponte cinquecentesco fu rifatto al posto di un altro che aveva un livello più basso. L’ing. Fornoni nelle sue “Vicinie” precisa che, sul finire dell’Ottocento, in occasione dello scavo per una fognatura, ad oltre un metro al di sotto del piano attuale venne trovato il lastricato della strada antica: l’antico ponte era piantato a filo della casa sull’angolo con la via Madonna della Neve, per cui la strada era tutta letto del torrente.

La statua collocata sulla spalletta orientale del ponte risale al 1747 e rappresenta San Giovanni Nepomuceno, il santo polacco che, torturato e buttato nella Moldava dal celebre ponte Carlo IV di Praga, venne eletto patrono e protettore non solo (o non tanto) dei ponti, come si crede, bensì di tutte le persone in pericolo di annegamento. In seguito la sua protezione venne estesa anche ai confessori (il perché lo scoprirete leggendo la didascalia sottostante, che dobbiamo a Tosca Rossi).

Il ponte sul torrente Morla in Borgo Palazzo e la sua statua. San Giovanni Nepomuceno (Jan di Nemopuk, località presso Pilsen in Boemia) era il vicario generale dell’arcidiocesi di Praga e al contempo canonico della cattedrale di Praga, nonché predicatore alla corte di re Venceslao IV e confessore della regina Giovanna di Baviera. Visse nella seconda metà del XIV secolo e venne martirizzato nel 1393 per volontà dello stesso re, a cui rifiutò di svelare quanto detto dalla consorte durante la Penitenza. Il suo corpo venne gettato dal ponte Carlo IV di Praga nel fiume Moldova e secondo le diverse versioni riemerse il giorno successivo esibendo per alcuni una lingua dorata, a riprova della sua fedeltà nel rispettare i termini del sacro sacramento, per altri recando una corona di stelle attorno al capo. Da allora la sua protezione è rivolta a tutte le persone in pericolo di annegamento e successivamente estesa anche ai confessori

La sua storia così come il modo in cui venne martirizzato giustificano quindi la consuetudine di collocare una statua che lo ritrae sopra i ponti fluviali, intento ad adorare il Cristo crocifisso, messo bene in vista per la devozione di chiunque si trovasse a transitare in quei luoghi: oltre al ponte sul torrente Morla, a Bergamo e provincia molte sono le sue presenze, tra cui ad esempio sul ponte di Gorle o a Trescore Balneario.

Il nostro, realizzato in Pietra di Zandobbio ed elevato su un alto piedistallo, è privo di aureola ma calza il copricapo distintivo; è vestito dell’abito talare, della cotta e dell’almuzia impreziosita da un’alta fascia in pizzo, aperta sul petto e alzata alle estremità dal gesto che porta all’orazione visiva e mentale del Cristo.

La scolpì Giovanni Antonio Sanz (lo stesso che ritrasse le allegorie delle quattro stagioni e delle Arti Maggiori di Palazzo Terzi in Bergamo Alta) per esaudire il desiderio di un nobile residente nel borgo, il conte Gerolamo Albani (tenente maresciallo e cameriere della Chiave d’Oro di sua Maestà Imperiale), il quale, morto il 20 agosto 1747, lasciò per testamento che si ponesse una statua di San Nepomuceno, lasciando l’incarico al fratello Carlo.

La statua fu realizzata quello stesso anno, includendo il nome del conte nella specchiatura affacciata sulla via, recando la scritta seguente: PER TESTAMENTO / DEI CONTI / GIROLAMO ALBANI / I MARESCIALLO / CESAREO / MDCCXLVII.

IL PONTE E LE SUE “MACCHIETTE”, ANIME DEL BORGO

Borgo Palazzo ebbe i suoi personaggi e anche le sue macchiette. Figure pittoresche, che hanno lasciato una traccia nella cronaca spicciola e in qualche racconto. Una di queste, celebre nei primi decenni del Novecento, sia nel borgo che in tutta Bergamo, fu Giovanni Servalli detto “ol Barba”, “il principe delle macchiette bergamasche, principe lustrascarpe”, come definito dal giornalista Giovanni Banfi in un opuscolo del 1920. Anche il poeta Guerrino Masserini, “Ol Girù”, si è occupato del Servalli. Ma è il ritratto delicato di Geo Renato Crippa, a restituire a Servalli, al di là di ogni faciloneria, la dignità che gli spetta, quella cioè di un uomo sensibile e sfortunato.

Descritto come pazzoide e accattone dignitoso, con una gran barba profetica, il lustrascarpe ed attacchino Servalli era un oratore spassoso, incarnando a meraviglia la parodia oratoria. Con il suo berrettone calato sulla fronte e l’ampia palandrana, soleva intrattenere gli avventori nel recinto della vecchia Fiera, dove innalzava una tribuna improvvisata convinto di rivolgersi “al colto pubblico”, cui proclamava la propria nobiltà.

Giovanni Servalli presso la chiesa di S. Bartolomeo nella caricatura del talentuoso  Alfredo Faino, disegnatore alla Daumier nonché scultore. Del Servalli, la cosa più importante, consisteva nel suo vestiario. Dal cappelluccio con l’aletta corta, sino a certi calzari di tipo “biblico”, tutto era uno sfavillio di stagnole argentee o dorate, tali da farlo sembrare un cavaliere dell’era medievale che camminasse dopo una battaglia. Trovava queste carte presso drogherie e pasticceri, dalle suore di istituti educativi e conventini, dopo le feste dedicate alle loro fondatrici. Dopo le festività natalizie o pasquali, i negozianti lo rifornivano con ciò che, nelle vetrine, aveva sfavillato per una o due settimane. Qualcuno regalava persino qualche nastro colorato mandandolo in estasi, togliendogli, dalla gioia, il respiro che, in ultimo, aveva pesante

Sosteneva di essere un figlio bastardo della “gloriosa casa Giovanelli di Venezia” e di essere giunto in città da una grossa borgata di montagna, dove quella famiglia, un tempo di famosi commercianti s’era talmente avvantaggiata, in mercature nell’Oriente, da richiedere alla Serenissima titoli nobiliari e cavallereschi. Vantando l’appartenenza al lignaggio principesco, finiva col parlare di tutto, stralunando ogni tanto gli occhi e volgendosi impietosito al cielo, gesticolando con solennità, come un patriarca.

“Ol Serval” invita la popolazione a visitare la mostra di Alfredo Faino

I suoi discorsetti pomposi erano per lo più un caotico aggrovigliamento di idee d’ogni sorta, buttate fuori alla brava, con parole in lingua italiana non certo ossequienti ai precetti della Crusca. Non si potevano ascoltare alcune delle sue frasi senza abbandonarsi ad una irrefrenabile ilarità, scatenata dalla sua potenza comica e dalle inflessioni della voce, Il Servalli continuava allora il suo proclama sottolineando la serietà degli argomenti ed esclamando “L’è roba internazionale!”.

Agghindato di stagnole e nastrini, girava l’intera città rullando su un tamburello che gli era stato donato dai componenti della fanfara degli alpini. Circa gli itinerari da percorrere non sbagliava giorno ed ora: alla periferia di dedicava il mattino, ai borghi il pomeriggio, al tramonto raggiungeva il centro cittadino picchiando a più non posso il suo strumento. Di tanto in tanto emetteva una parola di saluto e se incontrava persone di sua conoscenza, ma molto rispettate e riverite, il rullio del tamburo prendeva tono solenne, seguito da silenzi ritmati durante i quali, da fermo, pronunciava cenni d’ossequio ripetuti con calma dignitosa. Possedeva, il Servalli, regole di galateo di sua invenzione, sostenute con toni tra il religioso e il melodrammatico.

Giovanni Servalli s’incammina verso il ponte della Morla con la lampada votiva. La caricatura è di Alfredo Faino, che ha eternato “Ol Barba” in gustosissimi bozzetti, in sapide caricature anche in creta e nei piccoli bronzi

Appena faceva buio, se ne tornava in Borgo Palazzo, suo dominio incontrastato, e all’imbrunire si recava al ponte della Morla reggendo una scala pioli, che saliva per accendere una lampada ad olio innanzi alla statua di San Giovanni Nepomuceno, protettore dei ponti e delle acque.

Giovanni Servalli è ricordato dalle cronache anche per la consuetudine di accendere ogni sera una lampada votiva ai piedi della statua del suo santo protettore, quella di San Giovanni Nepomuceno, sul ponte della Morla, in Borgo Palazzo. Chi narra che “ol Servàl” fosse devoto al santo dei ponti perché proteggeva la sua nobile miseria e chi attribuisce tale consuetudine al ricordo di un miracolo, ottenuto in passato, a favore della sola donna, “amata in purezza, poi, dopo un lustro, morta consunta in una corsia d’opedale, invocando il nome di quegli che fu il suo sogno incantato”. Gli fosse stato possibile, il Servalli avrebbe ornato quel luogo – dove negli anniversari recava qualche fiore – di ori e di gemme (caricatura di Alfredo Faino)

Soddisfatto della sua buona azione quotidiana, rincasava con la scala a spalla; la sua stamberga era luogo di abituale convegno di topi e di gatti, educati – diceva egli stesso – ad un fraterno vicendevole amore. Si seppe poi, allorché egli passò a miglior vita, come la sua povera dimora, che era accanto ad una stalla, fosse pulita ed in ordine, il giaciglio tenuto con cura, le casse e le cassette per riporre la sua roba, linde e divise con accuratezza, giornali e cartoni ammucchiati con esattezza in un angolo. Lo stanzone era illuminato da una finestra che dava su un’ortaglia e la porta aperta sul retro di un “cortilone” d’osteria, con gioco delle bocce, usato nel passato per radunare greggi e mandrie di passaggio. Il silenzio non veniva rotto che la domenica, le sere d’estate e nei giorni di mercato. Appeso a un chiodo pendeva il tamburo. Accanto un tascapane zeppo di libriccini e foglietti che celavano poesie e canzoni che il Servalli cantava nei giorni di sagra, sugli sterrati dei paesini o sui sagrati delle chiese. Dopo lo strazio subito da suo cuore, di pretesti amorosi egli non volle mai saperne: bastavano le storie di re e regine, principi e principesse, marchesi e conti, castelli, foreste, ruscelli, fonti, uccelli variopinti. Fiabe leggere leggere, oneste, dense di umanità, umili, trasognate e innocue. Di lui si conserva ancora un vivido ricordo.

Più modesto un altro personaggio, “ol Fioruna”, che percorreva il borgo e lo stradale di Seriate tutto infagottato con un cappellaccio a piuma, sempre scuotendo un campanello. “Trin trin ‘l passa ol Fioruna, che quando ‘l viasa al suna”.

Anche lui raggiungeva il ponte della Morla ma, mentre il “Barba” Servalli vi si attardava con la sua barba profetica per accendere il lume sulla statua del santo, il Fioruna, che viveva di carità e si sborniava di frequente, utilizzava il ponte, o meglio, uno dei suoi archi, per passarvi la notte. Morì nel vicino manicomio.

All’incrocio tra via Camozzi e l’asse Pignolo/Borgo Palazzo alla fine degli anni Cinquanta. L’edificio in primo piano sulla destra fu adibito tra il 1919 e il 1955 a Dormitorio pubblico. Successivamente venne impiegato anche come Asilo degli Ebbri, ovvero ricovero per gli amanti di Bacco, i quali, dopo essere stati raccolti per le vie della città dalle forze dell’ordine, venivano messi a letto dopo una doccia gelata…. I nuovi edifici, tra cui il supermercato PAM, sono sorti intorno al 1967

E poi c’era “ol Roco de Borg Palass”, che aveva una propria dimora all’Albergo popolare. Era sempre infagottato in vestiti più grandi di lui, con certe calzature scalcagnate. Lo si vedeva sempre correre borbottando frasi, certo, nell’intenzione di erudire i passanti sui fasti o insuccessi della sua grande Atalanta; poi via di corsa svettando a destra e a sinistra, stralunando gli occhi. Si accontentava di qualche pezzo di pane, che condiva con l’immancabile “repubblica” che otteneva facilmente e con larghezza dai bottegai della città. Non si lamentava mai di questa sua vita grama. Gli bastava essere libero di borbottare le sue preferenze atalantine.

Rocco girava trascinando le gambe, sempre malmesso, con un lungo pastrano anche in estate e si appoggiava a un bastone. Fuori dal suo borgo, la zona prediletta era quella dei giardini Donizetti. Fu ricoverato alla casa di riposo “Clementina” a spese del Comune e gli fu riservato un trattamento speciale. Gli fu anche assegnato un letto col televisore a fronte; e quando era in programma una partita dell’Atalanta, il vecchio Rocco tirava fuori un bandierone e lo sventolava a mo’ di sudario sul proprio letto

 

Il pittore Jannucci ha immortalato in questa caricatura le sembianze del Rocco, ai suoi tempi definito il più popolare tifoso dell’Atalanta. L’ultima macchietta cittadina, con lo smunto berretto da agente daziario, i vecchi giornali su braccio e le cianfrusaglie in saccoccia, il passo caracollante e il vociare sgraziato. Anche la sua figura appartiene ormai al mondo dei ricordi di casa nostra

Ultimo di questi singolari personaggi che si addentravano dalla periferia nei borghi, ma raramente per giungere fino in centro, fu il “Gioanì de Tor”. Doveva risiedere a Torre Boldone, o esservi nato, ma nessuno lo seppe mai con precisione. Era un ometto che portava anche d’estate un cappotto sdrucito e un largo cappello. Più alto di lui, un grosso bastone intagliato gli conferiva come una statura diversa. Scomparve improvvisamente. Un giorno nessuno lo vide più. Forse era più vecchio di quanto non si credesse ed era finito in qualche ricovero. O forse non gli era riuscito di superare qualche malanno dell’ultimo inverno. Oggi per lui, sull’asfalto, nel traffico, nella periferia senza più orti e pollai, non ci sarebbe più posto.

L’ex chiesa di S. Antonio in foris in Borgo Palazzo

All’inizio di Borgo Palazzo, poco oltre lo splendido palazzo Camozzi si apre a sinistra un piccolo slargo – dove un tempo funzionava la pesa pubblica -, sul quale si affaccia un edificio che vanta oltre ottocento anni di storia ma che la nuova destinazione d’uso risalente al Settecento ha fatto dimenticare: quella che un tempo fu la chiesetta di S. Antonio in foris, risalente all’anno 1208, sorta per desiderio del “dominus” Giovanni Gatussi di Parre, personaggio che aveva una certo appoggio politico cittadino (1).

L’edificio della chiesetta di S. Antonio in foris esiste ancora, ma trasformato in negozio

Il piccolo edificio, pressoché sconosciuto, è di misure tanto modeste da non essere notato: bisogna andarlo a cercare di proposito, tanto più che nulla, nemmeno un cartello, ricorda al passante la presenza della chiesetta – con il portale più antico rimasto della città -, sopravvissuta a tutti i mutamenti e alle demolizioni (2).

Portale laterale della chiesa con la lunetta affrescata

Era posta fuori dall’antica porta del borgo S. Antonio, nel suburbio di Mugazzone (termine che appare già nel 928, con il quale si indicava l’antico nome di Pignolo), quartiere al tempo poco abitato ma posto in prossimità di due corsi d’acqua: la Morla a sud e il canale Roggia Serio a nord, che favoriva il “forte insediamento di attività tessili, tra cui tintorie, folli, purghi e mulini” (3) all’estremità meridionale del borgo S. Antonio.

Nella veduta di Alvise Cima la chiesetta di Sant’Antonio Abate in foris è posta fuori l’antica porta di S. Antonio, aperta nelle Muraine, all’imbocco di Borgo Palazzo e in angolo con la strada che conduceva al monastero degli Umiliati del Galgario, anch’esso lambito dalla Roggia Serio a nord e non molto distante dal torrente Morla a sud. Proprio questo tratto, compreso dall’imbocco della via – dal lato di via Frizzoni – fino al ponte della Morla, corrisponde alla parte più antica del borgo ed è detto contrada della Rocchetta, con evidente riferimento ad un fortilizio. Un toponimo, questo, che si aggiunge a quello di S. Antonio, che però fa riferimento anche ad un’area esterna a borgo Palazzo

Nonostante la sua posizione apparentemente marginale, assunse ben presto una certa importanza, confermata in particolare da un documento del 1263, citato da Angelo Mazzi, in cui lo statuto della città creava una nuova vicinia staccata da quella di Mugazone, intorno alla chiesa sorta da pochi decenni (4): fatto che denota quanto il borgo stesse crescendo e acquisendo una sua autonomia rispetto a quello di Pignolo.  

Fu dunque grazie alla presenza della chiesa di S. Antonio in foris, che la zona oggi designata come Pignolo bassa assunse la nuova titolazione di vicinia di S. Antonio, cui faceva capo anche il convento di Santo Spirito. Il toponimo S. Antonio coincide dunque con la parte più antica di Borgo Palazzo, ma fa anche riferimento ad un’area esterna allo stesso, fino a comprendere l’attuale piazzetta Santo Spirito.

La porzione di Borgo Pignolo che noi tradizionalmente chiamiamo basso in passato era un Borgo dalla propria identità, per l’appunto Borgo Sant’Antonio. Fino alla metà del XIII secolo, la parte bassa di Borgo Pignolo (futuro Borgo S. Antonio) faceva parte della vicinia di S. Andrea (Via Porta Dipinta) e i suoi confini al piano correvano a ridosso delle antiche Muraine medioevali, dalla Porta di Santa Caterina, posta all’imbocco del borgo omonimo, fino al Borgo di San Leonardo, transitando quindi lungo l’attuale asse urbano di Via San Giovanni-Frizzoni-Camozzi. Fu la presenza della chiesa di Sant’Antonio in foris e dell’annesso ospedaletto, eretti nel 1208 all’estremità meridionale del borgo di Mugazone (l’antico nome di Pignolo) a giustificare la sua autonomia e la sua nuova titolazione. La vicinia di S. Antonio si estendeva dalla stongarda esistente al Maglio del Rame (allora del Vegete) fino a S. Spirito e da qui fino ad una colonna al prato di S. Alessandro

 

Insieme alla chiesa di S. Antonio in foris, la chiesa di S. Spirito faceva capo alla vicinia di S. Antonio, sorta nel 1263  (piazza S. Spirito nel 1909, Raccolta Gaffuri)

E’ difficile comprendere oggi l’area su cui si estendeva in passato questo toponimo, soprattutto quando esisteva l’omonima vicinia: la topografia del luogo è molto mutata, non solo per la scomparsa delle Muraine, della porta di S. Antonio e per la copertura della Roggia Serio, ma anche perché le vicinie in un certo senso costituivano anche dei confini fisici, coincidendo questi con recinzioni, muri di edifici, portoni (5).

La porta daziaria di S. Antonio, posta in corrispondenza del limite meridionale dell’attuale via Pignolo (Gaudenzi, 1885-1900)

 

Come si presentava la porta di S. Antonio alla fine Ottocento (Raccolta Gaffuri)

 

Il canale Roggia Serio all’altezza della torre del Galgario (attuale via Frizzoni), a pochi passi dall’ex monastero degli Umiliati del Galgario e sulla strada per la chiesa di S. Antonio in foris

La chiesa era detta “in foris” (fuori) proprio per distinguerla dalla chiesa di Sant’Antonio Abate (o di Vienne o dell’Ospedale), che sorgeva entro le Muraine, sul prato di Sant’Alessandro, demolita nell’Ottocento per l’erezione del palazzo Frizzoni (attuale Municipio).

Era affiancata da un ospedale (oggi difficilmente individuabile), il cui giuspatronato rimase alla famiglia Gatussi di Parre fino al XV secolo e fino a quel momento il piccolo ospizio duecentesco rivestì una certa importanza, e cioè fino a quando, nel 1458, venne assorbito dal nuovo e centralissimo Ospedale Grande di S. Marco insieme ad altri dieci disseminati in varie località della città (6).

Così come stava accadendo in altre città, anche a Bergamo verso la metà del Quattrocento si deliberò l’accorpamento di 11 ospedaletti sparsi tra il colle e il piano in un unico grande organismo (l’Ospedale Grande di S. Marco), al fine di ottimizzare i servizi e creare un’unica dirigenza, esercitando così un maggior controllo. Nell’Ospedale Grande di S. Marco confluì anche quello di S. Antonio Abate in foris, istituito nel 1208 sulla strada che conduceva a Seriate. Dopo cinque secoli di vita, l’Ospedale Grande venne chiuso e quasi interamente  demolito nel 1937, con l’erezione dell’ospedale Maggiore e sulla sua area fu innalzata la Casa del Fascio, che caduto il fascismo venne ribattezzata come Palazzo della Libertà

Nonostante la ex-chiesa sia ormai da tempo priva del suo campaniletto, osservando con attenzione possiamo ancora rintracciarne l’antica foggia: nel tetto spiovente (un tempo a falde in vista), nella facciata a capanna attigua al portale con stipiti in pietra che immette nella corte interna, nell’oculo sovrastante la facciata e nel piccolo portale romanico posto sul fianco, sovrastato dalla lunetta affrescata: l’unico, tra i tanti affreschi rinvenuti nella chiesa, conservatosi in loco.

Nella veduta di Alvise Cima (tela della Biblioteca), la chiesa si affaccia su una piccola rientranza di via Borgo Palazzo “Un praticello avanti le s’appiana”, scriveva l’abate Angelini). Si nota il campanile, oggi non più visibile, il tetto a spiovente e la facciata a capanna, a cavallo del portone che immette alla corte interna. L’ospedale non compare nelle didascalie e forse, suppone Tosca Rossi, neppure rappresentato: “forse rimandi del vecchio nosocomio sono rintracciabili in pianta in fronte all’attuale palazzo Camozzi e in angolo con l’attuale via Frizzoni, dove si contano tre caseggiati addossati tra loro”

Nella corte, sopra lo spazio in cui viene raccolta l’immondizia dello stabile, resta la traccia di un grande affresco devozionale. All’interno, la semplice aula unica della chiesa è ancor oggi scandita in tre campate da due arconi ogivali in pietra impostati su semipilastri (7).

Portale d’ingresso alla corte interna

 

Particolare dello stemma scalpellato sulla chiave di volta

 

Scorcio della corte interna, con il semplice portale con stipiti in pietra, oggi tamponato. In alto si intravede l’oculo

Secondo Luigi Angelini l’antico ospedale duecentesco, demolito nel Settecento, doveva trovarsi negli edifici attuali che recingono il cortile interno. In quell’epoca fu distrutto anche il campanile, per edificare i nuovi condomini che sorgono tutt’intorno (8).

La chiesetta continuò a funzionare “col nome di S. Antonio in foris, officiata fino al 1806, finché, sconsacrata nell’Ottocento (9), diverrà officina per un fabbro, poi un anonimo ambiente di magazzeno, ridotto poi ad ufficio e negozio, subendo lavori di sistemazione interna che ne hanno in parte snaturato le forme suddividendola in due piani.

Le cronache riferiscono che la chiesa non fosse molto curata e che venisse utilizzata solo per celebrare la messa quotidiana da parte dei Padri Zoccolanti del vicino convento delle Grazie, remunerati dall’Ospedale Grande di San Marco (10).

Con il tempo la chiesa finì con l’essere del tutto abbandonata. L’ultimo suo destino era la demolizione, che si voleva porre in atto nel 1937 secondo un progetto di totale rifacimento dello stabile. Demolizione che non avvenne grazie alla scoperta, da parte di don Angelo Rota, degli affreschi che l’ornavano quasi interamente (11) e al successivo intervento di Luigi Angelini (a quei tempi ispettore onorario della Soprintendenza ai monumenti), che riconobbe l’importanza della chiesetta, alla quale venne posto il vincolo.

Fu proprio in quella occasione che, scrostando l’intonaco, in corrispondenza di una traccia di porta nell’antico ingresso laterale della chiesa, affiorò la lunetta affrescata che sovrasta l’architrave del portale romanico, portato alla luce ed ancor oggi visibile sulla via, dove, scrutando con attenzione, si possono ancora notare le tracce dell’affresco duecentesco, tra i più antichi del territorio, raffigurante Madonna in trono col Bambino affiancati da sant’Antonio Abate e un santo vescovo, che malgrado lo stato di degrado è stato identificato in base ad antiche foto in san Tommaso di Canterbury; l’affresco è posto sotto un arco in pietra sui cui conci sono affrescate una serie di teste entro tondi.

Sulla lunetta del portale laterale della ex-chiesa di S. Antonio in foris, seppure sbiadita è ancora visibile la decorazione ed affresco rappresentante una Madonna in trono col Bimbo, affiancata dai santi Antonio abate e Tommaso di Canterbury. Tutt’intorno, suIl’arco di pietra intonacato che chiude Ia Iunetta, appare un motivo decorativo formato da quindicl tondi accostati l’uno accanto all’altro, racchiudenti teste di Santi di tono grigio roseo, in parte consunti e in parte anche mancanti. Ritenuti da Angelini di pregio non comune sia in senso artistico che per la loro rarità. L’affresco è stato assegnato da L. Angelini alla scuola bergamasca deII’inizio del XIII secolo, ritenendolo eseguito subito dopo il 1208, anno in cui un documento attesta Ia scelta del Iuogo di edificazione della chiesetta e deIl’ospedaIe di S. Antonio: “Le tre figure bizantineggianti aureolate (…) denotano nella Ioro ieratica rigidità il carattere tipico della pittura duecentesca”. Angelini trovava conferma alla antichità del dipinto nella vicinanza stilistica ad affreschi, anch’essi frammentari, nella cripta di S. Michele al Pozzo Bianco, nei riquadri deIl’arcone della Curia antistante alla facciata di S. Maria Maggiore e nelle figure di Santi nella bifora dipinta dell’aula della Curia

GLI AFFRESCHI DELLA CHIESA DI S. ANTONIO IN FORIS, ESPOSTI AL MUSEO DELL’AFFRESCO IN BERGAMO ALTA

I pregevoli affreschi che rivestivano quasi interamente le pareti interne della chiesa furono eseguiti tra il XIII e il XVI secolo e risultano essere tra le testimonianze più antiche del nostro territorio insieme a quelli della chiesa di San Michele al pozzo bianco di via Porta Dipinta, della Vecchia Cattedrale e della chiesa a di San Giorgio ad Almenno San Salvatore.

Le ritroviamo oggi nel cuore di Bergamo Alta in piazza Vecchia all’interno del Palazzo della Ragione, dove riaffiorano dalle pareti settentrionali della Sala delle Capriate, allestita a sede museale dagli anni Novanta del secolo scorso, divenendo Museo dell’Affresco di Bergamo, cui è possibile accedere in occasione di mostre ed eventi.

I numerosi strappi provenienti dalla chiesa di Sant’Antonio in foris di Borgo Palazzo, sono i più antichi esposti nel Museo dell’Affresco nella Sala delle Capriate al Palazzo della Ragione e sono tra i più antichi presenti nel territorio bergamasco, insieme a quelli della chiesa di San Michele al pozzo bianco di via Porta Dipinta, del Museo della Cattedrale in Piazza Vecchia e della chiesa a di San Giorgio ad Almenno San Salvatore nel parco del Romanico

 

La Vergine con S. Giuseppe e il Bambino esposta al Museo dell’Affresco di Bergamo proveniente dalla chiesa di S. Antonio in foris. E’ assegnata all’inizio del XIII secolo da L. Angelini, che lo considera coevo a quello della lunetta, risultando più arcaico del dipinto iconograficamente affine deII’aula della Curia

Proprio in quest’antica sede, si conservano molti altri lacerti o porzioni smunte e sbiadite dallo scorrere del tempo, provenienti da edifici sacri e profani della nostra città (come il monastero di S. Marta): gli affreschi della chiesetta di Sant’Antonio in foris fanno capo al secondo e terzo gruppo affisso alla parete nord del palazzo, paradossalmente il comparto più numeroso considerando la minima superficie della chiesetta da cui provengono, e ci restituiscono numerose immagini di Sant’Antonio abate, della Vergine con Bimbo, apostoli e Santi vari tra cui Bartolomeo. Giacomo e Giovanni Battista.

 Note

(1) La chiesa fu fondata nel 1208 dal vescovo di Bergamo Lanfranco (successore di Guala), per desiderio del “dominus” Giovanni Gatussi de Parre, la cui famiglia doveva risalire a quella dei conti di Parre, paese dell’alta val Seriana. Già nel 1156 un “filius Iohannis de Parre” risulta essere inserito nell’elenco dei “mille homines” che giurarono dopo la Battaglia di Palosco la pace con Brescia, mentre nel 1176 è citato un canonico della basilica alessandrina che godeva di un certo prestigio. Giovanni Gatussi de Parre aveva una certo appoggio politico cittadino. Viveva in prossimità di una fonte che viene indicata come fontana coperta nella vicinia di San Lorenzo (prossima a quella di San Pancrazio), considerata di pregio per le importanti famiglie cittadine che la abitavano. La famiglia raggiunse una certa stabilità economica acquisendo beni fondiari alla fine del XII secolo tra cui il terreno dove poi sorse la chiesa, che venne venduto nel 1208 a Giovanni dal console dalla vicinia di San Pancrazio, proveniente dalla famiglia molto vicina a quella guelfa dei Rivola (Maria Teresa Brolis, LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995). L’importanza del personaggio e i legami con le più importanti famiglie sotto l’aspetto sia politico che religioso di Bergamo (come i del Zoppo, i Rivola, i Sorlasco, i de Foro, gli Albertoni) motivano la presenza di tutte queste famiglie alla fondazione dell’ospedale con il vescovo Lanfranco e i canonici della chiesa di San Vincenzo che tre mesi dopo si presentarono per la consacrazione della prima pietra della chiesa. L’atto di consacrazione è del 28 giugno 1208 eseguita con le disposizioni canoniche della “ecclesiae hospitalis”. Fu quindi accolta la domanda di fondare una chiesa e il vescovo Lanfranco impose al Gatussi di provvedere alla custodia e alla illuminazione degli edifici, cosa che ebbe risposta affermativa indicando la protezione della chiesa alla canonica di San Vincenzo alla quale doveva versare una libra di cera annua, quale segno di sottomissione al clero, che però non poteva aggiungere altri tributi dovendo essere la chiesa e l’ospedale libero come indicato dall’atto poi perduto: “de protectione et municione et securitate ipsius hospitalis” (Maria Teresa Brolis, LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995). Il Fornoni (“Le vicinie cittadine”) precisa che “La concessione di piantare la croce, in segno di edificazione della chiesa, porta la data 13 giugno 1208 ed è rilasciata dal vescovo Lanfranco, alla presenza e col consenso di Algisio da Credario arciprete della chiesa di Bergamo, di Lanfranco arciprete di Clusone e dei canonici di S. Vincenzo”. Alla sua morte Gatussi dotò l’ospedale di vari beni, tra cui una casa situata in Città Alta, nei pressi del Mercato del Fieno (Pino Capellini e Renato Ravanelli, “I borghi di Bergamo”. Grafica & Arte, 1984).

(2) Eppure l’Angelini una targa l’aveva preparata: QUESTA CHIESETTA MEDIOEVALE/ERETTA INTORNO AL 1210/COL PORTALE AFFRESCATO/IL PIU’ ANTICO RIMASTO DELLA CITTA’. Ma la lapide non fu mai applicata (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966).

(3) Tosca Rossi, “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”. Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012.

(4) L’importanza della chiesa è confermata da documenti citati dal Mazzi: uno del 1249, per un atto steso “in burgo de Mugatione” “in claustro hospitalis Sancti Antonii” e un altro del 1263, in cui lo statuto della città creava una nuova vicinia staccata da quella di Mugazone intorno alla chiesa sorta da pochi decenni: “vicinancia nova quae dicitur vicinia S. Antonii” (“Note suburbane” di Angelo Mazzi, Bergamo, 1892, pag. 230).

(5) Vanni Zanella “Bergamo Città”. Edito nel 1971 dall’Azienda di turismo di Bergamo.

(6) Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

(7) Luigi Angelini, “La lunetta duecentesca della chiesetta di Sant’Antonio in Foris”. In: “Cose belle di casa nostra”, Bergamo, Stamperie Corti, 1955.

(8) Secondo Angelini l’ospedale venne demolito e trasformato nel Settecento in edificio civile (Luigi Angelini, Op, Cit.).

(9) “Per il Maironi è il 1806 (…). Nella Pianta della città e borghi esterni di Bergamo dell’architetto Giuseppe Manzini del 1816 non è più presente” (Tosca Rossi. Op. Cit., pag. 219). Riferisce Luigi Pelandi che “La chiesetta ed i locali del modesto ospedale…vennero ceduti dal Demanio al sig. Pesenti di Alzano, poi alla famiglia Zanchi (commercianti in latticini), che avevano negozio sull’angolo della via Rocchetta con l’attuale via Frizzoni, allora via Muraine sulla Circonvallazione, ove esiste tutt’ora una trattoria, quella denominata S. Antonio” (della famiglia Zanchi faceva parte il sottotenente Gioachino Zanchi, nato in Borgo Palazzo il 25 maggio 1909, “che nella guerra d’Africa immolò la sua vita in un fatto di arme glorioso”. Alla sua memoria venne concessa la medaglia d’oro al valor militare). La chiesetta “fino a pochi decenni or sono, venne passata alla ditta Agostino Moretti, che già conduceva un negozio di cesterie, sedie e scope sull’angolo di via Camozzi (n. 1). Intorno al 1955 subentrava il negozio di calzature Sperani. Fu in quel tempo che vennero asportati gli affreschi…Pare che nel frattempo i locali fossero stati invasi dai ‘barboni’, i disgraziati senza tetto dei dintorni che non trovavano posto al Dormitorio pubblico, o non volevano sottostare alle abluzioni obbligatorie del dott. Favari, nè tanto meno al ‘cordial Favari’” (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”, Op. Cit.).

(10) La trascuratezza della chiesa è confermata da padre Donato Calvi nelle “Effemeridi” (pubblicate nel 1676), dove informa che sotto la data del 17 dicembre 1530 la chiesa, “ridotta a cattivo stato”, correva il pericolo di cadere. Per questo “l’Ospital Maggiore a cui detta chiesa è unita diede hoggi l’ordine per il risarcimento, come infatti seguì a primo opportuno tempo”. La chiesa, aggiungeva padre Donato Calvi, ha un solo altare, “ove continuamente si celebra, e le feste si convoca per l’esercitio della Dottrina Christiana” L’intervento dell’ospedale non dovette bastare perché la chiesa, prima dipendente dalla parrocchia di S. Alessandro della Croce e poi dalla parrocchiale di S. Anna, finì con l’essere del tutto abbandonata. Fu soppressa nel 1806. L’ultimo suo destino, dopo essere servita come officina per un fabbro, era la demolizione (Pino Capellini, Renato Ravanelli. Op. Cit.), che si voleva porre in atto nel 1937 secondo un progetto di totale rifacimento dello stabile.

(11) Per gli affreschi, si veda la missiva di Don Angelo Rota pervenuta a Luigi Pelandi, il quale cita anche quelli desunti da una nota di Luigi Angelini: Madonna col Bambino e S. Giuseppe (sec. XIII); Madonna col Bambino e S. Antonio (sec. XV); Madonna con Bambino; frammenti vari; teste di santi; figura di S. Antonio (Luigi Pelandi, Op. Cit.).  Nel 1954 Angelini rinvenne poi un affresco nella sacrestia: una Natività attribuita al XIII secolo (strappata nel ’55 da Allegretti o da Arrigoni, forse sotto la direzione di Pelliccioli) e alcuni affreschi frammentari (Laura Marini, “Affreschi trecenteschi: S. Marta e S. Antonio in Foris”, Osservatorio delle arti: rivista semestrale dell’Accademia Carrara, n. 1, Lubrina, Bergamo, 1988, pagg. Da 30 a 37).

Riferimenti bibliografici

Luigi Angelini, “La lunetta duecentesca della chiesetta di Sant’Antonio in Foris”. In: “Cose belle di casa nostra”, Bergamo, Stamperie Corti, 1955.

Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966.

Tosca Rossi, “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012.

Maria Teresa Brolis, “LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995.

Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

Pino Capellini e Renato Ravanelli, “I borghi di Bergamo”. Grafica & Arte, 1984.

Francesco Rossi, “Accademia Carrara-Gli affreschi a Palazzo della Ragione”, Accademia Carrara, 1995.

Laura Marini, “Affreschi trecenteschi: S. Marta e S. Antonio in Foris”, Osservatorio delle arti: rivista semestrale dell’Accademia Carrara, n. 1, Lubrina, Bergamo, 1988, pagg. Da 30 a 37.

La storica drogheria Mologni ben presto sarà solo un ricordo (divagando tra piazza Sant’Anna e dintorni)

E’ di questi giorni la notizia dell’imminente chiusura della storica drogheria “Fratelli Mologni” in piazza Sant’Anna, l’antica “istituzione” cittadina gestita dal ’53 da Norberto Mologni – classe 1933 – ma vecchia di quasi un secolo perché è in piazza dal 1921, fondata da papà Calisto e zio Carlo.

All’angolo fra via Ghislandi e via Borgo Palazzo, affacciata su piazza Sant’Anna, la storica Drogheria F.lli Mologni: un pezzo di storia della città

Una notizia che lascia increduli e sgomenti i bergamaschi, da sempre abituati a vederla lì, all’angolo fra la piazza e via Ghislandi, rassicurante coi suoi giusti rimedi per qualsiasi problema casalingo, come se conoscesse a menadito e da generazioni, tutti gli abitanti del Borgo.

 

Il signor Norberto Mologni negli ultimi giorni di apertura, dopo una vita dietro al bancone della storica drogheria, fondata dal padre nel 1921. Nella conduzione dell’azienda sè stato affiancato dalla nuova generazione dei Mologni, con Mauro, Ombretta e Umberto, mentre il fratello, Valerio, è scomparso nel 2010 all’età di 72 anni, investito da uno scooter in piazza Sant’Anna mentre attraversava la strada per tornare al negozio (Fotografia di Giuseppe Preianò)

Bergamo perde non solo la più antica drogheria della città – e chiamarla “drogheria” è un eufemismo – ma anche il sorriso del titolare e il sapere dell’insostituibile signor Carlo, dipendente della ditta da oltre trent’anni, durante i quali ha dispensato con saggezza consigli e rimedi d’ogni sorta da dietro il bancone ottocentesco in noce, attorniato da spezie e caramelle sfuse in quantità, tutte raccolte in deliziosi barattoli in vetro trasparente.

Al banco il signor Carlo, dipendente della ditta Mologni da oltre trent’anni con gli immancabili occhiali dalla sottile montatura e il grembiule verde

La storica insegna che campeggia sulla piazza ne ha molte da raccontare, a partire dal cartello “Coloniali” voluto da papà Calisto per indicare non certo boccette di miscele profumate evocanti speziati profumi esotici, bensì le antiche Colonie europee in Oriente, da cui giungevano le famose spezie di Mologni.

 

Norberto Mologni durante gli ultimi giorni di attività nello storico negozio di piazza Sant’Anna (Fotografia di Giuseppe Preianò)

 

In vetrina

La ditta era nata infatti come “spezieria” – l’unica della città a quei tempi -, rifornita di ogni genere di spezie: dalla curcuma in polvere allo zenzero, dal pepe al cardamomo, all’ormai introvabile radice di liquirizia.

 

 

Il signor Carlo, dipendente della ditta Mologni, durante gli ultimi giorni di attività nello storico negozio di piazza Sant’Anna (Fotografia di Giuseppe Preianò)

E approfittando di tutto questo “ben di Dio”, il titolare aveva creato la celeberrima “miscela Mologni”, un misto di ben dodici spezie per insaporire la carne, composta tra gli altri da coriandolo, cardamomo, pepe, zenzero, noce moscata e cannella, aumentando la quale, si creava la miscela perfetta per i deliziosi biscotti di Panpepato a forma di omino.

Per un tempo che sembra indefinito gli arredi hanno custodito rimedi infallibili per qualsiasi problema casalingo, rappresentando un vero e proprio servizio per la comunità.

 

Il che richiedeva la presenza costante non di commessi qualsiasi, ma di personale esperto che avesse parecchia familiarità con i rimedi le composizioni chimiche dei prodotti.

 

Il signor Carlo, dipendente della ditta Mologni, durante gli ultimi giorni di attività nello storico negozio di piazza Sant’Anna (Fotografia di Giuseppe Preianò)

Qui, tra gli altissimi scaffali lignei laccati color panna risalenti al primo Novecento, le antiche credenze screpolate dai vetri sottili e un caleidoscopio di vasi, barattoli, boccette e profumini d’ogni sorta, il tempo ha passeggiato con calma tra mille mercanzie: dai detersivi più comuni per la pulizia della casa ad improbabili specialità medicinali (e un tempo il chinino, per curare la malaria) ai prodotti chimici o ai detersivi per l’industria (dalla soda caustica agli acidi solforico e nitrico e polveri di ogni tipo), candele, cera d’api, vernici naturali, ma anche specialità dolciarie o meravigliosi oli essenziali purissimi, vari tipi di te in foglia, capperi, caffè, caramello, vini e persino Champagne!

 

E le immancabili spezie, come nei migliori bazar, ma in versione orobica.

E ancora, liquori in gran quantità, acque imbottigliate di ogni marca e persino acqua sulfurea proveniente direttamente dall’Ungheria; rimedi per smacchiare, lucidare ogni tipo di pavimento, eliminare le tarme dagli abiti o dal mobilio: sperimentato personalmente ed infallibile grazie ai consigli sagaci del signor Carlo.

Il signor Carlo, dipendente della ditta Mologni, durante gli ultimi giorni di attività nello storico negozio di piazza Sant’Anna (Fotografia di Giuseppe Preianò)

 

Per non parlare dell’incredibile assortimento di saponette e di barattoli per la pulizia personale: una delizia in cui perdersi.

Tutto doveva passare dal suo magazzino di via Ambrogio da Calepio, che fungeva anche da ingrosso e che ora inizia ad essere desolatamente sgombro di merci e scatoloni.

Norberto Mologni durante gli ultimi giorni di attività nello storico negozio di piazza Sant’Anna (Fotografia di Giuseppe Preianò)

 

E caramelle sfuse, tante caramelle che oltre ai classici gusti comprendevano gli introvabili e antichi zucchero matricale (un bonbon zuccherino con genziana e rabarbaro), il confetto al chinotto, la caramella con nocciola e ciocco fondente Moretto Nougatine e la goccia menta, quella con il cuore morbido che ti si scioglie in bocca.

 

Il tutto, tra caramelle e profumi di Colonia, le fondenti Perugina e l’odore morbido del sapone di Marsiglia, i rimedi della nonna e quelli d’ogni sorta esposti in vetrina e corredati da simpatiche istruzioni scritte a mano e scolorite dagli anni.

E se il prodotto non era sullo scaffale, bastava chiedere e Mologni era in grado di procurarlo, sempre ben disposto a soddisfare ogni richiesta della clientela, lavorando con la serietà e la competenza ereditata da papà Calisto.

Norberto Mologni, titolare della drogheria di Piazza Sant’Anna

Un’atmosfera tale, quella del negozio, da meritarsi un reportage fotografico contenuto nel libro “Certi silenzi” di Nicoletta Prandi – un libro in cerca di emozioni catturate in città -, e relativa mostra all’ex ateneo in Città Alta, dove il titolare, Norberto Mologni, è immortalato insieme ad immagini fortemente evocative ed accenni a personaggi che han fatto la storia di Bergamo come il conte Giacomo Carrara, Gaetano Donizetti, il grande giocoliere Enrico Rastelli, affiancati, nell’oggi, al burattinaio Vittorio Moioli detto “ol Bachetì”: fra personaggi monumenti e persone di passaggio, chiese e distributori di caramelle, la squadra dell’Atalanta e la tradizione di Santa Lucia c’era anche lui, conosciuto ed amato da tutta la città.

Certo negli ultimi anni Mologni lamentava una diminuzione del forte via vai di allora e anche il fatto che specialmente la sera la piazza fosse mal frequentata.

Scorcio di piazza Sant’Anna oggi

Ma in fondo il borgo nella sua semplicità sa ancora rivelare la sua antica identità, con il lungo serpentone, affiancato da strettoie, che dalla porta di Sant’Antonio andava verso i corpi santi,  i laghi, Brescia e Venezia e che oggi si snoda lungo un susseguirsi ininterrotto di botteghe dal sapore artigianale e case, quelle del popolo e della borghesia, curate e dignitose, accatastate le une sulle altre in una cornice confidente e familiare, confortata dall’atmosfera ottocentesca dei suoi palazzi gentilizi e dall’eco delle antiche osterie con alloggio e stallo, di cui restano ancora i segni sui pilastri delle corti.

Un rione, in fin dei conti, ancora molto intenso ed animato, dove non mancano iniziative come il tradizionale appuntamento con la festa del Borgo con la sua gente semplice e cordiale, sempre pronta a difendere e riscoprire le origini e le tradizioni antiche di quel Borgo Palazzo che prende il nome dal palatium imperiale creduto eretto da Carlo Magno.

Un Borgo ricco: di chiese, come quella antichissima e ormai irriconoscibile di Sant’Antonio in Foris, di conventi, chiostri e ameni giardini, di palazzi e di acque generose: la Morla, che ha dato il nome all’antica  Curtis Murgula dove sorgeva l’antico palazzo, e, più a monte, la Roggia Serio, cui si aggiunge la Morlana presso i Cappuccini in un fitto intrecciarsi di corsi d’acqua, un tempo utilizzati per muovere mulini e far funzionare magli, seghe per legname, per la macina della calcite, per filatoi.

Via Ghislandi nel 1916, ancora abbracciata dagli orti e con la chiesa di S. Anna sullo sfondo

Così anche in piazza Sant’Anna, importante crocevia di transito e commerci di cui si avverte ancora l’eco, anche se bisogna lavorare un po’ di fantasia.

La drogheria Mologni nel 1954 (Archivio Wells)

Non c’erano alberi (introdotti nel ‘78), ma una spianata, con un benzinaio e la pesa per i veicoli che trasportavano merci, piantonata dai vigili pronti a multare i mezzi sovraccarichi, traditi da un’evidente flessione delle balestre. Al tempo esisteva già un’edicola per giornali ma molto più piccola rispetto a quella odierna.

Piazza Sant’Anna verso l’incrocio tra via Angelo Maj e via Borgo Palazzo, nel 1954

 

Piazza Sant’Anna nel 1954, con il benzinaio, la pesa per i veicoli che trasportavano merci e a sinistra l’edicola

 

Piazza Sant’Anna (data non precisata), ancora con il benzinaio e priva di arredo. Il gabbiotto al centro sembrerebbe un vespasiano. In primo piano a destra manca la scalinata per i bagni pubblici sotterranei e  la “corrierina ” A.T.B. è forse quella della linea automobilistica Gorle- Scanzo – Negrone

Gli interventi di ammodernamento della piazza erano iniziati verso gli anni ‘60; la fontana neoclassica posta al centro venne donata dal parroco Don Antonio Ruggeri proveniente dalla casa parrocchiale.

Piazza Sant’Anna presumibilmente alla fine degli anni anni ’50 con le aiuole di nuova realizzazione e la fontana al centro; a destra l’ingresso per i bagni pubblici sotterranei, poi tolti per questioni di sicurezza. Non c’è ancora il passaggio a fianco del campanile. Il filobus è il n° 4, Cimitero- via San Bernardino

 

Piazza Sant’Anna negli anni ’50. Di fronte, il Piccolo Credito Bergamasco

 

Piazza Sant’Anna alla fine degli anni ’50, con il chiosco di benzina e  la bellissima 1100/103 TV del ’53 con terzo faro centrale inserito nella mascherina. L’auto partecipò alla Mille Miglia dal ’54 al ’57

 

Piazza Sant’Anna dal campanile (Archivio Wells)

 

Piazza Sant’Anna verso la fine degli anni ’60/inizi ’70. Sono stati eliminati i servizi igenici pubblici sotterranei (Archivio Wells)

 

Il personale del ristorante-pizzeria-Arlecchino negli anni ’60

Oggi come ieri, un groviglio di negozi, alcuni ammiccanti e raffinati ed altri démodé come quello di Mologni, ricavato nei locali del bell’edificio liberty che lo sovrasta.

Il servizio di bike sharing in piazza Sant’Anna

Poco distante, la rinomata pizzeria Arlecchino e di lato gli ormai storici panificio e fruttivendolo, con la farmacia omeopatica, la banca, l’edicola, la pasticceria, la chiesa – tra le più belle di Bergamo -, legata allo storico oratorio maschile del “Sacro Cuore”, dove nel 1945 venne fondata la società sportiva U.S. Olimpia, per promuovere la pratica dello sport tra la gioventù del Borgo e della città.

Il ristorante-pizzeria Arlecchino

 

C’è tutto nella piazza: una città nella città, persino il cinema e, a pochi passi, un tempo c’era anche uno splendido teatrino nella breve via Anghinelli.

L’insegna del Teatro Augusteo in via Anghinelli, costruito nel 1923 e rimasto attivo fino alla Seconda guerra mondiale; dopo un abbandono durato oltre 40 anni, nel 2007 è stato demolito per ricavarne abitazioni di lusso.

Accanto a Mologni, c’è la stretta lavanderia della signora Giò, dagli occhi verdi e il viso magro, i riccioli scomposti e gli orecchini dorati e, tra questa e la drogheria, un piccolo bar con parquet ed uno stretto bancone in legno scuro dove Mario, il titolare, riempie l’aria con la sua risata, frizzante, come bollicine dello Champagne di cui è cultore.

Veduta aerea di piazza Sant’Anna (Archivio Wells). La maestosa chiesa parrocchiale di S. Anna fu costruita in circa 15 anni, su progetto dell’insigne architetto Giuseppe Berlendis. E’ una magnifica costruzione ispirata ai canoni del più puro stile neoclassico. Fu inaugurata il 25 luglio 1856 dal Vescovo Mons. Pier Luigi Speranza, che nel 1859 fondò la Parrocchia di S. Anna, sul territorio che prima era della parrocchia di S. Alessandro della Croce, in Pignolo. Letizia Roncalli, archivista parrocchiale, racconta che prima c’era una chiesa del 1600

Tra qualche settimana molto a malincuore il signor Norberto chiuderà per sempre i battenti: Carlo, lo storico dipendente, tra poco se ne andrà in pensione e nessuno – né Mauro, il figlio del titolare e né i nipoti, occupati altrove – potrà portare avanti l’ormai secolare attività.

Qualche metro più in là, sulle vetrine che si affacciano su piazza Sant’Anna campeggia la scritta “cessione attività” accompagnata da uno sconto sugli ultimi prodotti in vendita. La gente non manca di passare per gli ultimi acquisti e salutare la storica insegna, dove lascia un pezzo di cuore: è la vecchia Bergamo che un pezzo alla volta se ne va.

Fotografia di Giuseppe Preianò

Con Mologni Bergamo perde una certezza, l’ultimo depositario di un sapere che sa di antico e familiare, che per decenni ha accolto i bergamaschi dispensando rimedi e rassicurandoli con preziosi consigli.

Un’insegna che ha attraversato indenne la crisi degli ultimi anni e la tassazione insostenibile che ha costretto diversi negozi alla chiusura.

Che è sopravvissuta alla nascita dei primi minimarket nonché a quella ben più insidiosa dei centri commerciali e delle grandi catene di Acqua & Sapone, grazie alla competenza e alla disponibilità del personale in grado di stabilire un legame che è andato ben oltre il piccolo tessuto del borgo per allargarsi alla città e riverberarsi alla provincia.

Norberto Mologni, un signore cordiale e simpaticissimo

Non sarà facile passarle accanto e fermare lo sguardo sulle serrande chiuse, ed accettare l’idea che in nessun posto troveremo quel miscuglio variopinto di merci, profumi e sorrisi: quelli del titolare e del signor Carlo, che non possiamo che contraccambiare con tanta riconoscenza e non poca malinconia.

Il torrente Morla e le sue storie

Veduta di Città Alta dal torrente Morla presso il Galgario. Racc. Ing. Angelini. Da Luigi Angelini, “Il volto di Bergamo nei secoli”

Benchè sia ormai inglobato nel tessuto cittadino, Il torrente Morla – “la Morla” per tradizione – è storicamente considerato il “fiume di Bergamo”, dal momento che ben 8 chilometri dei 14 totali sono compresi nel territorio comunale del capoluogo orobico.

Anche se la Morla non può, e non poteva competere, per volume d’acqua e per lunghezza di percorso, con i due fratelli maggiori – il Serio e il Brembo, onorati dal Tasso nel famoso sonetto – supera questi ultimi per importanza storica; per centinaia d’anni essa fu ammessa nella nomenclatura dei fiumi: nei diplomi imperiali di dieci secoli fa è chiamato flumen, e
Mosè del Brolo otto secoli or sono nel suo Pergaminus cantava: “un fiume a cui di Morla han dato il nome”.

Nasce dal Monte Solino, alle pendici del Canto Alto, e dal Col di Ranica, propaggine della Maresana, e all’altezza di viale G. Cesare riceve il contributo del torrente Tremana; del Gardellone riceve soltanto le acque di sfioro, e ciò da quando, nel 1950, per evitare che la Morla esondasse in città in caso di abbondanti piogge, tale torrente fu deviato direttamente al fiume Serio in territorio di Torre Boldone.

Come facilmente intuibile, la  portata della Morla è largamente dipendente dagli apporti meteorici.

Dopo aver attraversato, con andamento meandriforme, Sorisole, Ponteranica e Bergamo, la Morla assume un andamento quasi rettilineo, delimitando il perimetro comunale a est e lambendo il Corpo Santo di Campagnola a sud.

Oggi l’alveo attivo del torrente Morla scorre in una direzione completamente diversa rispetto al passato, in seguito ad importanti interventi di rettifica e canalizzazione.

Lasciata la città, la Morla attraversa Azzano S. Paolo, fiancheggiata lungo le rive da un’ampia fascia boschiva, procede verso Zanica, segnandone i poderi con le antiche linee di confine, ed infine raggiunge Comun Nuovo, dove si dirama in canali minori: una parte piega verso sud, accompagnata da un’interessante fascia alberata, per poi dividersi i in altre diramazioni che irrigano i campi al di sopra della Strada Francesca. La parte finale si disperde infine nel sistema irriguo di Spirano e zone limitrofe (elaborazione grafica su mappa tratta da Mapire)

Anticamente, il paleoalveo della Morla, documentato al XIII secolo, raggiunta la città di Bergamo a est, dopo aver compiuto un’ampia curva che la evitava proseguiva verso la zona dell’insediamento dell’ex-Gres di via S. Bernardino (ed esattamente a ovest di tale insediamento industriale),  continuando poi in direzione di Grumello del Piano. Da qui si disperdeva in una zona acquitrinosa con altri corsi d’acqua provenienti dalle pendici collinari occidentali.

Nell’area compresa tra la ferrovia e l’area dell’ex-Gres (via S. Bernardino), si possono ancora chiaramente riconoscere le tracce dell’antico corso della Morla: un tracciato ampio fino a qualche decina di metri, delimitato da due principali scarpate e da una serie di terrazzamenti che segnano l’area di influenza del torrente durante gli episodi di esondazione. “Fino agli anni Ottanta del secolo scorso i tratti del paleoalveo venivano sfruttati, sia per la natura limosa dei terreni che per la loro pendenza costante, per realizzare le marcite, tipico sistema di coltivazione lombardo, costituito da prati stabili irrigati con un velo continuo d’acqua perché seguitino a vegetare per permettere tagli d’erba, anche fino a 8-10 nella stagione fredda (Galizzi, 2012)”. Tale morfologia è ancora parzialmente presente nel disegno dei pochi campi agricoli ancora esistenti (Il paleoalveo del torrente Morla).

L’antico percorso della Morla venne deviato nel Duecento per irrigare nuovi campi bonificati, e nel 1253 il Municipio di Bergamo “alienò parte dei suoi terreni a sud di Campagnola e li affidò a ricche famiglie aristocratiche (tra cui i Suardi e i Grumelli) che li gestirono e li coltivarono destinando la produzione di fieno e ortaglie alla città. Le tracce di tale operazione permangono oggi nei designatori, con la presenza della via dei Prati, a Campagnola, che corre ancora oggi lungo la roggia. Successivamente lo stesso schema della bonifica venne applicato per la fondazione del centro di Comun Nuovo, situato qualche km a sud di Colognola in direzione di Caravaggio” (Il paleoalveo del torrente Morla).

Nei tempi antichi la Morla costituiva una fonte di vita per gli abitati che lambiva.
Durante il periodo medioevale la stessa città di Bergamo ricorreva alle sorgenti della collina per i propri bisogni idrici e domestici, ed ancora in tempi più recenti, almeno fino alla prima metà del XX secolo, la Morla fu utilizzata per fini domestici, in primis per lavare i panni, in quanto le sue acque erano dotate di una grande limpidezza.
Le persone più anziane ricorderanno certo con nostalgia i tempi in cui la Morla pareva “acqua sorgiva”, al punto tale che le massaie utilizzavano la sua acqua per lavare la biancheria, che stendevano sulle rive e nei prati ad asciugare e che, secondo l’esperienza di allora, con la luce ed il calore solare acquistava maggiore candore.
Inoltre, il suo alveo, adagiato su uno strato impermeabile argilloso, permetteva l’estrazione agli inizi del secolo di un’eccellente qualità di argilla (“unica nel suo genere”), con la quale venivano fabbricate stoviglie fra le migliori della Bergamasca.

La Morla lungo la sua storia causò grossi guai, paurosi straripamenti, inondazioni e vittime, ricordate in una lapide risalente all’epoca della dominazione veneta, affissa sulla facciata di una ex chiesetta costruita sul suo argine in località “Scuress” (Ponteranica).

Particolare tratto dall’aerofotografia della Città di Bergamo del 1924. La Morla, ancora scoperta, nell’area prospiciente lo scomparso edificio noto come “Nave”, in via Pitentino 1. La “Nave” guadagnò tale denominazione per la sua caratteristica forma

 

La Nave di via Pitentino (fotofrafia Rinaldo Della Vite) tratta dal libro di Don Francesco Garbelli

La Morla infatti è un torrente dal corso tortuoso con il fondo lastricato di rocce cenericce e sfaldabili chiamate  Sass de la Luna: quando è in secca non ci si accorge della sua esistenza, mentre in occasione di abbondanti precipitazioni si sveglia e può diventare pericolosa.

La Morla a Valverde. Fotografia di Carlo Scarpanti

 

La Morla a Valverde. Fotografia di Carlo Scarpanti

Le calamità naturali legate alle esondazioni della Morla sono ricordate dal poeta bergamasco Mosè del Brolo e dal Mazzi nella sua corografia bergomense. Quest’ultimo scriveva: “Il torrente provenendo dalle alture di Ponteranica, corre vicino alla città dalla sua parte orientale e se non è infelice esagerazione di poeta, si può credere che negli antichi tempi recasse non pochi guasti alle vicine campagne, giacchè di esso canta il nostro Mosè: Prossimo al Monte cittadin trascorre, un fiume a cui di Morla han dato il nome, e crudelmente le campagne inonda”.

Ricordiamo anche gli enormi guasti arrecati alla città di Bergamo, e in particolare a Borgo S. Caterina e Borgo Palazzo, nella primavera del 1936, quando persero la vita due persone.

Il cronista di allora così scriveva su “L’Eco di Bergamo”:
“il 3 maggio 1936 nel tardo pomeriggio dopo una giornata afosa si avevano i prodromi di un temporale proveniente da est e che è stato veramente impressionante.
La zona fortemente colpita è stata Borgo S. Caterina tanto che oltre alle case e cantine allagate le ossa del vecchio cimitero di Valtesse affiorarono sul terreno.
Questo grave episodio è stato determinato dallo straripamento dei torrenti Tremana e Gardellone, confluenti del Morla. Essi sono alimentati dal bacino imbrifero del Canto Alto da un lato e dalla zona collinare dall’altro.
Un fenomeno del genere si è avuto nel 1932 ma meno grave, perché avvenuto in un periodo di siccità mentre questo a seguito di continue piogge…”

Accanto a quella tragica del 1936, la storia della Morla registrò altre drammatiche piene, e tra queste, quella del 1896, del 1932, del 1937, del 1940, del 1946, del 1949 e del 1976.
In quelle occasioni si accesero discussioni, polemiche, dibattiti, volti a porre rimedio a queste calamità, studiando quindi una soluzione definitiva.
Dopo numerosi progetti si decise di canalizzare parte del corso cittadino del fiume, coprendone alcuni tratti. L’opera, che comportò ingenti sforzi non soltanto economici, si concluse nei primi anni sessanta modificando definitivamente la natura del torrente.

Via Cesare Battisti fiancheggiata dal torrente a cielo aperto

 

La “Nave” dopo la copertura della Morla. L’edificio venne abbattuto nel 1985, per far posto all’attuale parcheggio

La zona maggiormente interessata fu Borgo Santa Caterina, che vide scomparire totalmente il corso d’acqua che ne aveva caratterizzato la storia, posto sotto il manto di nuove strade e piazzali, su cui venne costruito anche il nuovo palazzetto dello sport della città.

Il Palazzetto dello Sport in costruzione. Proprietà Archivio Wells

 

La “Nave” e sullo sfondo a destra il Palazzetto dello Sport in un disegno a carboncino di A. Gritti, eseguito nel 1970 e rinvenuto in un mercatino

Venne quindi eliminato anche il caratteristico ponte di Borgo santa Caterina, da secoli delimitazione territoriale del quartiere stesso.

Il Ponte di S. Caterina nel 1910. Il tracciato delle Muraine seguiva l’andamento del muro che delimitava l’alveo del torrente dal lato di via Cesare Battisti, fungendo anticamente da fossato difensivo. La via Pitentino (a destra) era esterna alle mura dei borghi. Il massiccio muro verso la Morla serviva per proteggere le abitazioni della zona dalle piene del torrente, causa frequente di notevoli danni. Il vecchio cancello daziario e gli edifici annessi, erano già stati demoliti, ed è anche scomparso il ponte di vecchie pietre sopra il torrente, ora scavalcato da un ponte in cemento. Sono però visibili gli archi del ponte originario. Nel 1962 la Morla fu coperta anche nel tratto da S. Caterina al largo del Galgario

Un altro tratto in cui il torrente venne nascosto alla vista della città fu immediatamente dopo il ponte di Borgo Palazzo, per riemergere dal buio in prossimità della stazione ferroviaria, sotto la quale scorre l’ultimo tratto sotterraneo.

A seguito di questa grande opera il torrente venne relegato ad un ruolo sempre più marginale, tanto che col passare del tempo venne considerato sempre più una sorta di discarica a cielo aperto.

La Morla in via Battisti in un’immagine antecedente la copertura della Morla e la costruzione del Palazzetto dello Sport, inaugurato nel 1965. Sullo sfondo si individua l’edificio della “Nave”

 

La Morla nel 1960, tra via Cesare Battisti e via Pitentino (scattata da sud): una fogna a cielo aperto coperta nel 1962

 

Un immagine non molto dissimile dell’area, nel periodo in antecedente la copertura del torrente e la costruzione del Palazzetto dello Sport. Proprietà Archivio Wells

Soltanto con l’avvento del XXI secolo cominciò a verificarsi una nuova presa di coscienza da parte dei cittadini e delle autorità, che hanno posto la Morla al centro di un’opera di recupero ambientale. A tal riguardo è nato anche un Parco Locale ad Interesse Sovracomunale (PLIS) volto alla tutela ed al rilancio delle aree della pianura bergamasca interessate dal corso della Morla e dalle rogge da essa derivate.

L’arcata del vecchio Ponte di Borgo S. Caterina, immortalata nei primi mesi del 2013 in occasione del rifacimento della copertura stradale

La Morla fu  immortalata nei diplomi regi e imperiali, poiché diede il nome alla Corte regia di Borgo Palazzo. Il Lupi, che nel 1780 scriveva : “la corte Morgola… presso al fiume che fino ad oggidì porta lo stesso nome, in quel luogo che ora è detto Borgo Palazzo”, spiega che la curtis era un possedimento, o vasto feudo, appartenente a qualche particolare famiglia, la quale aveva la propria abitazione in forma di castello o di palazzo, con adiacenti alcune case per la  servitù o coloni addetti alla coltivazione dei terreni che si estendevano intorno ai fabbricati: il castello di Malpaga e le abitazioni che lo circondano possono rendono l’idea di cosa fossero le corti.

La Curtis regia era invece proprietà di un re o di un imperatore e talvolta abbracciava un villaggio (vicus) o anche un insieme di villaggi (pagus); aveva ampi fabbricati, che dimostravano la potenza e la dignità regia. In città la curtis regia era ubicata nell’area attualmente occupata dalla fontana di San Pancrazio.

Ora, la curtis: “… quae vocatur Morcula in comitatu Pergamo”, appare per la prima volta in un diploma dell’875 di Lodovico re di Germania; in questo documento si menziona l’esistenza di una corte Morgula o Murgula –  poiché essa era dislocata lungo il corso del torrente Morla -, situata nei pressi di un Palatium imperiale, nella parte bassa di Bergamo. Un palazzo destinato alla residenza degli imperatori di passaggio nei loro viaggi nelle provincie italiane.

Il ponte sul torrente Morla in Borgo Palazzo (1885 circa). Raccolta D. Lucchetti 

Fonti

http://www.comune.ponteranica.bg.it/territorio/maresana.php
http://it.wikipedia.org/wiki/Morla_(torrente)#cite_ref-0

IL TORRENTE MORLA. CARATTERI, VALORI, PROSPETTIVE
Saggi di: Lelio Pagani, Andrea Tosi, Moris Lorenzi, Gian Pietro Armanni, Fabrizio Conti, Renato Ferlinghetti, Fulvio Caronni, Silvano Ceresoli, Mario Di Fidio, Claudio Merati, Piervincenzo Scalpelli, Stefano Stecchetti, Graziano Vitali.

Il paleoalveo del torrente Morla

Provincia di Bergamo

Per la mappa storica: Mapire – le mappe storiche dell’impero asburgico, con Bergamo e provincia mappate nella seconda indagine militare (1806-1869).