L’avvincente vicenda del Battistero, indagando tra Curia, sotterranei della Basilica e corte della Canonica

Dal portico del Palazzo della Ragione, il Battistero nel 1936 con alle spalle il Palazzo vescovile

Oltre le ariose arcate del Palazzo della Ragione, fra i ricami del protiro di Giovanni da Campione e la mole caleidoscopica della Cappella Colleoni, s’innalza un po’ in disparte l’edificio ottagonale del Battistero. Concepito in epoca viscontea come fonte battesimale della basilica di Santa Maria Maggiore, vi restò per quasi tre secoli sino a che cominciò il suo peregrinare: più volte venne smontato, trasferito e ricomposto, finché la vicenda si concluse con la decisione di collocarlo nella posizione in cui oggi si trova, sul lato ovest della Piazza del Duomo, in asse con la facciata del Duomo e quasi a ridosso della Cappella Colleoni. Per come si presenta oggi, il capolavoro gotico dell’architettura trecentesca campionese si mostra frutto di un rimontaggio “in stile”, tappa finale di alterne vicissitudini entro le quali l’integrità della realizzazione di Giovanni da Campione è certo venuta meno, inducendo a chiedersi quanto di originario sia possibile rintracciare nel complesso, così come ci è pervenuto.

Il Battistero dal Porticato del Palazzo della Ragione, prima del 1912

Il Battistero fu eretto nel 1340 su progetto de magister comacino Giovanni da Campione, perché fosse collocato all’interno della basilica di S. Maria Maggiore, la chiesa della città, che la tradizione vuole costruita con le offerte dei cittadini bergamaschi.

La basilica, edificata a partire dal 1137, era sorta sui resti di un’antica chiesuola risalente all’VIII secolo, nota con il nome di S. Maria vetus .

La Basilica di S. Maria Maggiore venne riedificata sui resti di S. Maria vetus a partire dal 1137, e ultimata solo nel 1273, anno della sua solenne dedicazione. In quel tempo si stava formando il grande complesso episcopale che interessa l’area dell’attuale piazza Duomo, con il riadattamento romanico della chiesa di S. Vincenzo (posto sotto l’attuale Duomo), la costruzione del Palazzo vescovile e della Cappella di Santa Croce

Per tutti gli abitanti della città e del suburbio, la celebrazione del rito del Battesimo in basilica era un’antica consuetudine; il Sabato Santo il vescovo vi si recava in processione per benedire il fonte e celebrare il battesimo (1), con la partecipazione di tutta la comunità cittadina.

La Basilica di Santa Maria Maggiore, sorta sulle rovine dell’antichissima S. Maria vetus. La basilica era la chiesa battesimale della cattedrale di San Vincenzo, come risulta del resto dalla sua struttura a pianta centrale (G. Elena, Piazza Ateneo verso il 1870)

Ma da dove proveniva l’acqua del fonte battesimale, di cui si dice fosse “unico per città e suburbio”? E soprattutto, è lecito chiedersi se il canale che lo alimentava si trovasse anche in precedenza in quel punto; ovvero se il rito del battesimo venisse celebrato anche nell’antica chiesuola di S. Maria, sulle cui rovine era poi stata eretta la maestosa basilica.

L’ANTICO ACQUEDOTTO E IL FONTE BATTESIMALE

Nel medioevo le acque provenienti da Sudorno e Castagneta si congiungevano in un serbatoio situato all’altezza dell’attuale bastione di S. Alessandro, da dove formavano un unico condotto che si dirigeva all’interno della città facendo capo ai tre grandi partitori dell’Orto degli Albani, del Mercato del Lino e del giardino del Vescovado: i capisaldi della distribuzione idrica all’interno della città. Dei tre, si è mantenuto solo il partitore del Vescovado, dal quale si diramavano numerose canalizzazioni minori che distribuivano l’acqua verso le più importanti utenze della città.

Partitore del Vescovado. E’ indicato il canale maggiore e le diramazioni per la fontana di S. Maria Maggiore (Antescolis) per il Fontanone e per la fontana si S. Michele (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole, cit.)

Una delle importanti diramazioni era costituita da due canali che passavano longitudinalmente sotto la basilica di Santa Maria Maggiore.

A destra, la fontana di Antescolis (XII secolo), posta a ridosso della Basilica di S. Maria Maggiore, caratterizzata da due aperture

Un canale attraversava un vano ipogeo di forma circolare, tuttora esistente sotto la sagrestia della basilica  e fuoriuscendo proseguiva nella grande cisterna viscontea detta Fontanone.

Vano ipogeo a pianta circolare con soffitto a volta in cotto esistente sotto la sagrestia di Santa Maria Maggiore. Era attraversato dall’acquedotto che, provenendo dal partitore del Vescovado, correva longitudinalmente sotto il pavimento della Basilica per alimentare poi la cisterna del Fontanone Visconteo (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole, cit.)

 

In un piccolo vano ipogeo del sotterraneo della sacrestia di S. Maria Maggiore, passano il canale Magistrale ed il condotto per il Fontanone visconteo

 

Nei sotterranei dell’Ateneo, scavato nella viva roccia si trova il gigantesco serbatoio d’acqua del “Fontanone”, alimentato dagli acquedotti dei colli (Sudorno e Castagneta). Fu fatto erigere nel 1342 da Giovanni e Luchino Visconti, per garantire la sopravvivenza e la resistenza della città nell’eventualità di un assedio

 

Nell’area appena a sud dell’Ateneo, insieme al ritrovamento dei resti di una domus di età romana, venne individuata una vasca-fontana alimentata da una condotta d’acqua in piombo, materiale utilizzato per le condutture in epoca romana

All’interno del vano ipogeo, si è rinvenuta una più antica struttura muraria contenente un tubo circolare in bronzo, testimonianza di un precedente impianto idrico (2).

Resti di un’antica canalizzazione nell’ipogeo di Santa Maria Maggiore, testimoniante l’esistenza di un antico impianto idrico. L’ipotesi circa l’esistenza di un antico acquedotto sotto le fondazioni della basilica, era già stata avvalorata dal Fornoni (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole, cit.)

Non è quindi improbabile che anche la chiesuola di S. Maria vetus (VIII secolo) fosse dotata di un fonte battesimale alimentato da un antico acquedotto, e che potesse trovarsi, se non nello stesso punto, non molto distante da quello in cui venne collocato il Battistero nel 1340.

Questi, doveva essere posizionato sotto l’ultima volta della navata minore destra, dove ora si trova il Monumento funebre al cardinale Guglielmo Longhi, di fronte all’altare dedicato a san Giuseppe, poi rimosso (3).

Basilica di S. Maria Maggiore, il Monumento funebre al cardinale Guglielmo Longhi, nell’arca in fondo ala parete

Sembrano confermare questa considerazione anche il passaggio collegante l’Aula Picta della Curia vescovile, attraverso la quale passavano i diaconi e il clero durante i riti del Sabato Santo; passaggio che in seguito venne coperto da un arazzo.

Giuseppe Rudelli, Il Vescovo Conte Dolfin che dal Vescovado si reca in S. Maria Maggiore, attraverso la porta ora murata (Bergamo, propr. L. Angelini)

 

Basilica di S. Maria Maggiore. Accanto al monumento funebre al cardinale Guglielmo Longhi, l’arazzo che cela il passaggio collegante il passaggio per dell’aula della Curia

E sembra confermare tale considerazione anche la bifora murata dell’aula della Curia, che fino all’inzio del XIV secolo gettava un fascio di luce sul fonte battesimale.

Ingresso della Curia vescovile (da Stoylab)

 

La bifora della parete est dell’Aula della Curia, posta all’attuale ingresso del Palazzo Episcopale, realizzata contestualmente al cantiere della Basilica, metteva in comunicazione visiva l’Aula della Curia con l’altare maggiore, con cui è in asse, forse per dotare di legittimazione sacrale atti o giuramenti. Una volta tamponata, è diventata una sorta di sacello incassato, quasi un richiamo alla “confessio” della basilica di S. Alessandro (distrutta nel 1561 per far posto alle mura veneziane), con i tre santi  realizzati dopo la divisione in altezza dell’Aula: Alessandro, supposto primo evangelizzatore di Bergamo, galoppa al centro della lunetta, sovrastando – e mettendo in comunicazione con gli zoccoli del cavallo – le due luci in cui campeggiano gli altrettanto leggendari primi due vescovi di Bergamo, Narno e Viatore: niente di più efficace per sottolineare il peso della Chiesa bergamasca delle origini

LE TENSIONI TRA IL VESCOVO E LA MIA E LA QUESTIONE DEL BATTISTERO

Se la notizia dello spostamento del Battistero in S. Vincenzo nel 1613 è nota, non sono chiare tuttavia le motivazioni finora addotte per giustificarne il trasferimento.

A un certo punto della sua vicenda, il Battistero, che fino ad allora aveva goduto di un proprio spazio all’interno della basilica, comincia la lunga serie delle ricollocazioni che lo vedrà più volte oggetto di smembramenti, ricostruzioni e trasferimenti.

Nell’incisione di Giuseppe Berlendis, datata 1840 con il titolo Piazza Vescovile, il Battistero non compare ancora

I problemi sorsero alla metà del Quattrocento con l’ingresso in diocesi del nuovo vescovo, il patrizio veneto Giovanni Barozzi, il quale trovava strano che la chiesa che ospitava il fonte battesimale cittadino fosse amministrata da un consorzio di laici.

Iniziarono così un secolo e mezzo di controversie tra il vescovo e i reggenti della MIA, legati al possesso della basilica (alla sua gestione e alla nomina dei sacerdoti che dovevano officiarvi).

Nel 1454 il papa Nicolò V confermava appieno al Consorzio i privilegi di cui essa godeva, riaffermandone l’indipendenza da qualsivoglia autorità laica ed ecclesiastica.

Sottratta dal diretto controllo del vescovo, da quel momento la basilica venne gestita secondo le regole del Consorzio, cosa che di fatto non impedì il verificarsi di continui contrasti con i canonici della cattedrale, che non perdevano occasione per rivendicare diritti sulla basilica.

Un ultimo, “ingombrante” ostacolo – e non solo per le sue imponenti dimensioni – si frapponeva tra la MIA e il pacifico godimento di Santa Maria Maggiore: la presenza all’interno della chiesa del fonte battesimale trecentesco, che offriva ai vescovi il “pretesto” per visitare la basilica ed inoltre acuiva i rapporti con i canonici, che lo consideravano di propria pertinenza e che avevano più volte insistito perché la chiave del fonte – che era custodita dal sacrista della basilica – fosse loro consegnata.

La MIA aveva cercato di disciplinarne l’utilizzo, facendo addirittura redigere appositi atti notarili in cui appariva chiaro che vescovi e canonici si servivano del fonte per benevola concessione del Consorzio. Nonostante tutto, però, la situazione riguardo al battistero restava intricata.

Poiché il battistero causava molto incomodo alla chiesa, non solo per le grandi dimensioni del fonte ma pure per le liti sorte intorno al suo utilizzo, per risolvere definitivamente la questione i reggenti della Misericordia lo offrirono in dono ai canonici perché lo accogliessero nella loro chiesa.

L’interno di Santa Maria Maggiore in un’incisione del 1843

Dopo un primo tentativo in tal senso, avanzato nel 1599 (fallito, anche perché i canonici non avevano lo spazio necessario per accogliere il fonte nella cattedrale), l’occasione si ripresentò nel 1611 quando, in occasione del battesimo del figlio del podestà di Bergamo, il vescovo Emo non si limitò ad amministrare il sacramento ma compì una vera e propria visita del fonte e dell’intera basilica: un affronto che la MIA non poteva tollerare, e che si risolse con l’intercessione di Emo il quale, pur di levar ogni seme di discordia convinse i canonici ad accettare l’offerta del Consorzio, che di propria iniziativa si impegnava al ‘trasloco’ del vecchio battistero, assumendosi anche l’onere della sua nuova sistemazione nella cattedrale di S. Vincenzo (intitolata a Sant’Alessandro Martire solo a partire dal 1689).

Il 18 gennaio 1613, nella sala delle udienze dell’episcopio, si giunse così alla sentenza definitiva: i rettori stabilirono che entro due settimane tutto il vase battismale … che si ritrova nel battisterio nella chiesa sopradetta di S. Maria [fosse] a spese … di detta Misericordia levato et trasportato nella chiesa cathedrale di S. Vincenzo.

Il prezzo che la MIA aveva dovuto pagare era davvero ingente: dopo quasi tre secoli di permanenza in basilica, questo capolavoro d’arte trecentesca venne sacrificato solo per salvaguardare un superiore interesse, ossia la libertà e l’immunità della chiesa di Santa Maria Maggiore (4).

Scorcio di Piazza Duomo, ancora priva del Battistero

COMINCIA UN LUNGO VIAGGIO

Nel 1613 la vasca battesimale venne dunque spostata in S. Vincenzo trasferendo di fatto il sacramento del battesimo alla giurisdizione della cattedrale.

In merito alle sorti successive del battistero e fino alla sistemazione del 1856 nel cortile della canonica, circolano notizie diverse e contraddittorie.

Pare che alla metà del ‘600, dati i lavori di decorazione delle campate eseguiti in Duomo, il battistero fosse ormai decisamente d’intralcio e che da qui si decidesse di smontarlo e portarne i pezzi nella sede della MIA in via Arena.

La sede della MIA in via Arena

Nel 1691, i rilievi ed alcune statue che costituivano l’apparato decorativo interno ed esterno del monumento furono reimpiegati in una cappella del Duomo (5), mentre numerose altre parti andarono disperse o perdute (6).

Di fatto, nel 1856, con l’intento di restituire al Battistero le sue forme trecentesche, il monumento venne ricomposto nell’angusto cortile della Canonica, posta all’interno del passaggio Cà Longa, tra Piazza Vecchia e via Mario Lupo, dove se ne percorrono i due lati consecutivi chiusi da un porticato e con cancellata di ferro: uno degli angoli più nascosti di Città Alta nel quale val la pena soffermarsi brevemente a curiosare.

Pietro Ronzoni. Il Palazzo della Ragione dal Cortile dei canonici

IL RIPRISTINO NEL CORTILE DELLA CANONICA DELLA CATTEDRALE

Il Palazzo della Ragione dal Cortile dei canonici in una ripresa molto simile alla precedente

Il ripristino fu affidato all’architetto bolognese Raffaello Dalpino, che tuttavia vi apportò ingenti modifiche prevedendo numerose aggiunte e ammodernamenti dell’apparato scultoreo.

Il Battistero ricomposto nel cortile della canonica che, sebbene già alterato nel suo aspetto originario, ci restituisce la più antica immagine fotografica giunta sino a noi (Bergamo nelle vecchie fotografie, D. Lucchetti)

Sostituì la più bassa zoccolatura originaria con un alto basamento in marmo nero di Gorno, sul quale murò alcune lapidi sepolcrali di alcuni vescovi, rimosse poi nella sistemazione del 1898-99 operata dall’architetto Muzio.

Il Battistero nel cortiletto dei Canonici. 18-09-1900 (esempio di cartolina venduta dopo la mutazione del soggetto; da D. Lucchetti). Il Battistero di Santa Maria Maggiore, spostato dalla basilica nel 1613 e dopo una serie di traversie interamente ricostruito nel 1856, con aggiunte e rifacimenti, dall’architetto Dalpino nel cortile della canonica, dove rimase fino al 1898-’99

Lapidi molto simili compaiono anche nelle fotografie che ci restituiscono l’aspetto otto/novecentesco del cortile, apposte sulla parete laterale esterna della Cappella del Crocefisso: si tratta di lapidi tombali di vescovi, canonici e prelati, recuperate dal rifatto pavimento della Cattedrale.

Cortile della canonica, Sulla parete rivestita in cotto, corrispondente alla parete laterale della Cappella del Crocefisso, le lapidi tombali recuperate dal rifatto pavimento della Cattedrale.  La Cappella del Crocefisso è un’aggiunta costruita dall’architetto Raffaello Dalpino nel 1855. Prende nome da un Crocifisso del ’500 posto sull’altare e corrisponde alla seconda cappella di sinistra del Duomo. Il lato in pietra grigia risale invece al 1459 e fu costruita sui disegni del Filarete

Di fatto, il cortile della canonica è citato come ex cimitero e sappiamo che nell’ultimo decennio del ‘Seicento, anche l’area che attualmente corrisponde alla nuova Cripta dei vescovi, veniva utilizzata come cimiteriale.

Sulla parete di fondo le lapidi tombali di vescovi, canonici e prelati,  affisse sul basamento: sono le stesse disposte inferiormente lungo tutta una parete del cortile della canonica?

Nel cortile, fra l’altro, vi è anche una colonna molto singolare, tozza, rotonda, liscia e molto semplice, nel tipo di quelle che si innalzavano ai crocicchi delle strade dopo la venuta di S. Carlo Borromeo a Bergamo, o di quelle innalzate dopo la grande peste del 1627-30 narrata dal Manzoni, periodo a cui si fa risalire la sua erezione.

La colonna, probabilmente secentesca, con alle spalle le lapidi tombali dei vescovi, canonici e prelati

LA SISTEMAZIONE DEFINITIVA

1886: il Battistero non è ancora stato collocato in Piazza Duomo; la facciata del Duomo è ancora priva del rivestimento marmoreo e la sommità del Palazzo della Ragione è ancora priva della merlatura

Nel 1898 Virginio Muzio venne incaricato dal podestà Ciro Caversazzi di trovare una migliore posizione all’edificio, che presentava gravi segni di degrado a causa dell’umidità del cortile.

Il Battistero nel cortiletto dei Canonici. 18-09-1900 (esempio di cartolina venduta dopo la mutazione del soggetto; da D. Lucchetti)

Non essendo ormai possibile riportarlo all’interno di Santa Maria Maggiore, Muzio decise di collocarlo nella Piazza del Duomo in modo tale da colmare “splendidamente” l’unica parte disadorna della piazza, lasciando la vista di quel po’ di verde e del cielo che contrastando con “il cospicuo gruppo di monumenti antichi ancor oggi la rende così caratteristica” (7). L’attenzione alla collocazione ambientale rappresenta la cifra stilistica ricorrente nella produzione di Muzio.

Dalla loggia della sede vescovile. La definitiva sistemazione dell’edificio nell’attuale collocazione, sul lato ovest di Piazza Duomo, venne realizzata nel 1898-’99 dall’architetto Virginio Muzio, che lo trasferì sull’area donata dal vescovo Guindani, apportandovi ulteriori modifiche

Egli cercò, per quanto possibile, di riportare il Battistero alle sue forme originarie basandosi sulla sola testimonianza grafica esistente dell’antico assetto, pubblicata da Padre Donato Calvi e conservata presso l’Accademia Carrara (8).

Si tratta di un’incisione realizzata nel 1676 da Simone Durello, quando già era avvenuto il trasferimento del manufatto nella cattedrale. Il disegno, piuttosto schematico e con inevitabili concessioni al gusto barocco (come le improbabili volute sulla copertura), riporta però i tratti essenziali della struttura ottagonale, a partire dalle proporzioni meno slanciate, studiate in relazione all’invaso interno della basilica, dove il Battistero doveva assumere ben altra monumentalità, e in cui Giovanni da Campione dovette operare con la stessa fine intelligenza del tessuto architettonico preesistente che mostrerà negli altri interventi per la basilica.

Il battistero di Giovanni da Campione in un’incisione realizzata nel 1676 da Simone Durello, con le pareti scandite da colonnine e le Virtù, collocate in nicchie incassate agli angoli. Altre statue erano poste sul cornicione e vi era un angelo sopra la lanterna (Accademia Carrara – Gabinetto di Disegni e Stampe)

Nella ricomposizione attuata da Muzio in vista della collocazione all’esterno, l’ottagono venne notevolmente sopraelevato rispetto alla configurazione originaria, con l’inserimento dell’alto basamento esterno in conci di marmo grigio di Gazzaniga e del rivestimento superiore in pietra di Verona a fasce alterne, che gli conferirono le giuste proporzioni in rapporto agli altri edifici della Piazza.

L’intera struttura ottagonale, sopraelevata da Muzio, è di nuova realizzazione

Pur riprendendo il sistema originario, venne realizzata ex-novo l’intera copertura piramidale in marmo, con le ricche cornici e le statue con le Beatitudini che s’innalzano lungo la nuova copertura e con l’aggiunta sulla cuspide della statua di un arcangelo, di fattura relativamente moderna.

Il Battistero nella posizione attuale in una ripresa datata 24 – 4 – 1904. Manca il Palazzo Vescovile, edificato nel 1906

L’incisione di Durello riporta anche la fitta sequenza delle colonnine (come oggi, sormontate da capitelli fogliacei e con protomi umane ed animali): una sorta di diaframma traforato che metteva in relazione l’interno della struttura con l’esterno, escludendo dunque la necessità di finestre munite di imposte vere e proprie.

La sequenza delle colonnine sormontate da capitelli fogliacei e con protomi umane e animali, nella zona superiore delle pareti perimetrali, ancor’oggi mette in relazione l’interno della struttura con l’esterno

Ed è curioso osservare che per le due grandi polifore ai lati del portale sulla facciata della Cappella funeraria del Colleoni, realizzate negli anni Settanta del Quattrocento, l’Amadeo s’ispirò proprio alle cortine diafane del Battistero, mentre la policromia di quella stessa facciata, richiama a suo modo l’alternanza cromatica espressa nel portale nord della basilica.

Per le due grandi polifore ai lati del portale sulla facciata della Cappella Colleoni, l’Amadeo s’ispirò proprio alla sequenza delle colonnine del Battistero

 

S. Maria Maggiore, 1901. La policromia della Cappella Colleoni (Amadeo) richiama l’alternanza cromatica espressa nel portale nord della basilica di S. Maria Maggiore, opera dei Maestri campionesi, insieme al protiro meridionale e al portalino di nord-est, affacciato su Piazza Reginaldo Giuliani

Diversamente da oggi, la griglia delle colonnine si disponeva su sette lati della struttura, dal momento che un lato era occupato dalla porta, che era architravata, mentre nella ricostruzione di fine Ottocento vi fu inserito un elemento estraneo al complesso battesimale: un portalino trecentesco che i documenti dicono provenire da una cappella del Duomo: segnale che nel XIV secolo alcuni interventi scultorei, forse riconducibili anch’essi alla maestranza campionese, interessarono evidentemente anche la cattedrale romanica.

La nuova e definitiva sistemazione del Battistero in Piazza Duomo. Nella ricostruzione di Muzio è stato inserito un portalino trecentesco, di cui si dice fosse l’ingresso della Cappella di San Benedetto costruita a fianco della cattedrale romanica (visibile nel Museo degli Scavi e del tesoro del Duomo), in omaggio a Papa Benedetto XII (la foto è datata 1905)

 

15 – 08 – 1905. il Battistero sul lato ovest della piazza, frutto di un rimontaggio “in stile” a seguito di numerose vicissitudini. Non v’è ancora il Palazzo Vescovile, costruito nel 1906

LE VIRTU’

Le otto statue angolari esterne in pietra di Verona, collocate alla quota delle colonnine, raffigurano le Virtù teologali e cardinali, a cui corrisponde il proprio opposto nella fascia inferiore, dove compaiono figurette rappresentanti i Vizi su cui le Virtù stesse trionfano: sotto la Giustizia sta una scena di omicidio; sotto la Prudenza un uomo che tiene in mano forse un serpente o altri animali; sotto la Temperanza un ingordo; sotto la Pazienza una donna che si dispera; sotto la Speranza un suicida; sotto la Fede un donna con i pugni alzati (che bestemmia?); sotto la Fortezza (recante un macigno) un vecchio adagiato a terra con topi che lo assalgono; sotto la Carità un avaro che stringe la borsa del denaro.

Il Battistero in Piazza Duomo. Da una serie stampata in tricromia dall’Istituto Italiano d’Arti Grafiche nel 1905 ca., riservata al mercato francese (D. Lucchetti)

Si tratta di pezzi tra i più straordinari dell’intero corpus di sculture campionesi a Bergamo, frutto di un vero e proprio virtuosismo tecnico e stilistico.

Statua della Virtù

All’interno, la statua del Battista, in parte dorata, è citata nell’inventario dei pezzi trasportati in cattedrale nel 1613: collocata entro una stretta edicola trilobata nella parete di fronte alla porta d’ingresso, in origine doveva sovrastare, forse sotto un baldacchino, il fonte battesimale. Presenta caratteri di grande affinità con le Virtù, per l’austera concentrazione formale e la nettezza quasi rude dei piani.

Le otto formelle marmoree a bassorilievo, con episodi neotestamentari, oggi murati sulle pareti interne del Battistero, ornavano in origine i lati della vasca battesimale (i pezzi sono tra quelli descritti nel citato inventario dei pezzi trasportati in Duomo nel 1613).

Interno del Battistero. La statua di San Giovani Battista con brocca e patena e alle pareti le formelle marmoree a bassorilievo, con episodi neotestamentari

I pannelli, con figure sottilmente intagliate, rappresentano la vita e la passione di Cristo (Annunciazione; Natività; Adorazione dei Magi; Presentazione al tempio; Battesimo; Cattura, Giudizio e Flagellazione; Crocifissione; Deposizione dalla Croce).

I pezzi che più da vicino si rapportano con le austere figure delle Virtù e pertanto sono forse da ascrivere ad un intervento più diretto di Giovanni, sono i rilievi dell’Adorazione dei Magi e della Presentazione al tempio e forse dell’Annunciazione, mentre – da come si evince soprattutto nelle scene più affollate (Cattura, Crocifissione e Deposizione dalla Croce) – è stata ravvisata l’influenza della plastica toscana, anche coeva, temperata però da forti influenze nordiche, tale da convincere della collaborazione di almeno tre maestri, tutti cooperanti all’interno di un piano iconografico predefinito e tutti sovrastati dalla forte personalità dell’autore.

la vasca battesimale, ricostruita da Muzio

Le altre sculture all’interno del Battistero, sei statue di figure angeliche montate su mensole, sono troppo compromesse dai restauri, se non addirittura totalmente ricostruite sulla base di frammenti, da rendere opportuna per il momento una sospensione del giudizio, da parte degli studiosi.

Note

(1) Valsecchi 1989, p. 127.

(2) B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole, Gli antichi acquedotti di Bergamo, edito dal Comune di Bergamo, Assessorato all’Urbanistica, 1992.

(3) Andreina Franco Loiri Locatelli, la Basilica di Santa Maria Maggiore, 12-13, La Rivista di Bergamo, Giugno 1998, p. 12.

(4) A cura di Francesca Magnoni, Santa Maria Maggiore. Un profilo storico.Testi di Attilio Bartoli Langeli, Paolo Cavalieri, Gianmarco De Angelis, Francesca Magnoni.

(5) Muzio, p. 83 fig. 52; Pinetti, 1925, p. 174. in: Cristina Ranucci, “GIOVANNI di Ugo da Campione”. Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 56, 2001).

(6) Muzio, p. 83 fig. 52; Pinetti, 1925, p. 174, in: Cristina Ranucci, “GIOVANNI di Ugo da Campione”. Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 56, 2001).

(7) Muzio, Note e ricorsi della Esposizione d’arte sacra in Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo, 1899, pp. 82-83; si veda anche: Il Battistero di Bergamo, in “Emporium”, novembre 1898, p. 399 e ss.; Angelo Pinetti, Cronistoria artistica di Santa Maria Maggiore. Il Battistero, in “Bergomum”, 1925, n° 4, pp. 167-183; Angelo Meli, Il crollo di una fantasia diventa comune: dove sorgeva in Santa Maria Maggiore il Battistero, in “L’Eco di Bergamo”, 13 gennaio 1963, p. 3.

(8) D. Calvi, Effemeride sacro-profana di quanto di memorabile sia successo in Bergamo, Milano 1676-1677, I, alla data 7 aprile 1340.

Riferimenti Essenziali

Arnaldo Gualandris, “Monumenti e colonne di Bergamo”, a cura del Circolo Culturale G. Greppi. Bergamo, 1976 (con introduzione di Alberto Fumagalli).

Fabio Scirea Il complesso cattedrale di Bergamo (Academia.edu)

Saverio Lomartire, Magistri Campionesi a Bergamo nel Medioevo – Da Santa Maria Maggiore al Battistero. In Svizzeri a Bergamo, nella storia, nell’arte, nella cultura, nell’economia, dal ‘500 ad oggi. Campionesi a Bergamo nel Medioevo.

Giovanni di Ugo da Campione, Treccani.

A cura di Francesca Magnoni, Santa Maria Maggiore. Un profilo storico (Academia.edu). Testi di Attilio Bartoli Langeli, Paolo Cavalieri, Gianmarco De Angelis, Francesca Magnoni.

Roberto Cassanelli (a cura di), “Bergamo e il suo territorio: Battistero”, Arte gotica in Lombardia, Sesaab, Bergamo, 2007, pagg. da 108 a 113.

B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole, Gli antichi acquedotti di Bergamo, edito dal Comune di Bergamo, Assessorato all’Urbanistica, 1992.

Fotografie e disegni del Battistero, in: Ricomposizione del Battistero di S. Giovanni in Piazza Duomo, Bergamo, 1898/1899 {opere esposte nella Mostra “Virginio Muzio. Architetture (1889-1904). Biblioteca A. Mai, Bergamo}.

Il Tesoro della Catterale di Bergamo nell’antica chiesa di S. Vincenzo

Nell’antica Cattedrale di San Vincenzo, rinvenuta nel 2004 nell’area sottostante il Duomo di Bergamo, oltre la struttura affrescata dell’iconostasi si estende un suggestivo dedalo di camere sepolcrali con soffitto a volta (ricavate già a partire dalla rifondazione dell’architetto Filarete), raggiunte le quali si può ammirare il Tesoro della Cattedrale, un’accurata selezione di preziosi oggetti d’arte sacra scelti in base al criterio suggerito dai consulenti scientifici, i professori Giovanni Romano e Saverio Lomartire.

L’iconostasi della Cattedrale di San Vincenzo evoca le solenni celebrazioni officiate dal vescovo e dai canonici, nelle occasioni solenni rivestiti dei sontuosi paramenti, di cui il museo conserva alcuni esemplari. Radunati nell’aula, i fedeli erano esclusi dalla partecipazione visiva alle sacre cerimonie ma ne ascoltavano il rituale potendo vedere solo i santi vivacemente raffigurati, che mediavano il loro rapporto con la divinità

La selezione, coerentemente alle diverse fasi architettoniche che hanno interessato l’antica cattedrale, si è attenuta al limite cronologico cinque-seicentesco,  escludendo perciò i superbi pezzi dell’epoca barocca che costituiscono  la maggior parte del Tesoro.

Le preziose testimonianze esposte, di cui il presente post offre un breve spaccato, sono confluite in cattedrale in tempi diversi, custodite per la loro importanza e preziosità. Provengono per lo più dalla dotazione della Cattedrale di San Vincenzo ma anche da altre  chiese della città (come la croce di San Procolo, ad esempio).

(Credits Photo Thomas Mayer)

Viene quindi offerta l’occasione di ammirare da vicino e nelle migliori condizioni il Piviale e la Pianeta di S. Vincenzo, del XV secolo; la trecentesca Croce di Ughetto e quella quattrocentesca del Carmine in argento e cristallo di rocca; alcuni calici e reliquiari; l’icona di origine cretese della Madonna dei Canonici; l’affresco delle Opere di Misericordia sinora esposto al Museo diocesano e proveniente proprio dall’antica cattedrale (fu ritrovato dal Fornoni durante i lavori del 1906).
Inoltre, due imponenti lapidi sepolcrali, quella del vescovo Bucelleni e quella del canonico Bresciani la cui tomba, data l’importanza del prelato, venne portata dalla Basilica alessandrina in S. Vincenzo quando la basilica fu atterrata dai Veneziani nel 1561.

Nell’apertura del muro presbiteriale è collocata la cosiddetta Croce del Carmine, dal luogo di provenienza, parte del ricco corredo del Tesoro della Cattedrale, il cui progetto museale si deve all’architetto Giovanni Tortelli, sotto l’egida della Fondazione Bernareggi. È probabile che la splendida oreficeria sia opera della bottega dei Da Sesto, una famiglia operante a Venezia nella prima metà del XV secolo. La croce è particolarmente suggestiva per la presenza, nei bracci, del cristallo di rocca, una varietà di quarzo apprezzato per essere assolutamente incolore e trasparente

Antiche fonti (1) e ricerche recenti (2) ricordano l’esistenza, nell’antica cattedrale di San Vincenzo, di due cori (il chorus magnus, più grande, riservato ai canonici e il chorus parvus, di minori dimensioni, nella cappella di San Pietro), tre altari (San Vincenzo, Santa Maria, San Pietro) e quattro cappelle in chiesa (San Silvestro, San Sebastiano, San Benedetto, Santa Margherita), cui aggiungere quella di Santa Trinità voluta dal vescovo Adalberto. V’erano inoltre due cappelle esterne (Santa Croce e San Cassiano)

Secondo il cerimoniale liturgico della Chiesa di Bergamo riportato da Barozzi, modellato su antiche consuetudini, la recinzione delimitava gli stalli del chorus magnus, posti ante altare e occupati secondo una precisa gerarchia: l’arcidiacono sedeva alla destra del vescovo (dotato di faldistorio mobile, utile alle cerimonie che richiedevano una particolare collocazione rispetto all’altare), mentre il prevosto di Sant’Alessandro alla sua sinistra.

Il pulpito, in posizione non precisata, era sormontato da una croce argentea.

Sopra l’altare maggiore, ornato di antependium, si ergeva la crux magna, estraibile dal piedistallo per essere portata in processione quale simbolo della Bergomensis Ecclesia.

Con scrupolo è descritto il rituale legato ai vasa sacra, la cui consistenza in età romanica è restituita dagli atti del 1189.

Apprendiamo inoltre che il thesaurus comune alle canoniche di San Vincenzo e Sant’Alessandro  – ma custodito presso la prima – era composto da:

– quattro croci con asta, fra cui la crux magna, e quattro senza;
– un cherubino con croce; un calice d’oro e uno d’argento;
– sei corone votive d’argento; tre evangeliari, uno d’oro e due d’argento;
– un messale e un lezionario d’argento;
– un turibolo, due candelabri e due reliquiari d’argento;
– un reliquiario d’oro e uno di avorio; un altare portatile con bordure in oro e argento;
– tavolette di avorio per il canto; una tavoletta di avorio scolpita;
– due casule con stole;
–  manipoli.
(Valsecchi 1989).

(1) Si ricavano preziose informazioni su San Vincenzo nel Medioevo dall’integrale trascrizione nonché dal puntuale commento del Liber ordinarius del vescovo Giovanni Barozzi(1449-1464), minuta del cerimoniale liturgico della Chiesa di Bergamo, modellato su antiche consuetudini (Gatti 2005-2006 e Gatti 2008).
(2) Ricaviamo altre informazioni sull’edificio attraverso le ricerche di Gian Mario Petrò nelle fonti archivistiche notarili. Almeno otto gli altari documentati nella cattedrale di San Vincenzo, compreso quello della sacrestia, e due cori, uno più grande riservato ai canonici ed un altro di minori dimensioni nella cappella di San Pietro.

 

LA CROCE DI UGHETTO

La Croce di Ughetto, straordinario manufatto di arte orafa, prende il nome dal suo principale esecutore, Ughetto Lorenzoni da Vertova, il quale l’ha realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro

La Croce di Ughetto, forse l’opera più rappresentativa del Tesoro della cattedrale, in origine era arricchita da 34 reliquie miracolose, sigillate sotto la sua preziosa oreficeria.
La grande croce processionale prende il nome dal suo principale esecutore, Ughetto Lorenzoni da Vertova, il quale l’ha realizzata su disegno del pittore Pecino Pietro da Nova nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro.

Essa proviene dunque dalla distrutta Basilica alessandrina, ed è questo il motivo per cui il Santo appare vistosamente abbigliato come un cavaliere medievale in sella al suo destriero, mentre sullo sfondo si staglia il profilo ideale della città di Bergamo, conquistata alla fede cristiana.
Grazie a un inventario sappiamo che nell’imminenza dell’abbattimento della Basilica alessandrina (1561), la croce di Ughetto venne portata in solenne processione nella Cattedrale di S. Vincenzo insieme – oltre ai paramenti sacri, organi, campane e corredo liturgico -, alle sacre reliquie: il Capitolo di S. Alessandro perdeva definitivamente la propria sede e da quel momento i canonici Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro si trovarono a convivere fino a che non vennero definitivamente unificati (1689) sotto le insegne di S. Alessandro.

Particolare di S. Alessandro nella croce di Ughetto, realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro, motivo che giustifica la presenza vistosa del Santo

La croce fu rinnovata nel 1614, anno in cui fu sancita la provvisoria riunificazione dei due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro: il restauro della croce è quindi la concreta manifestazione di questo tentativo di unità, tanto che la fisionomia originale della croce è stata stravolta e piegata a questo scopo.

In origine il recto esibiva il Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni, in alto un Angelo e ai piedi S. Alessandro a cavallo; il verso esibiva il Cristo glorioso tra i quattro evangelisti e ai piedi Santa Grata.

Nell’operazione di restauro (oltre alle vere e proprie aggiunte seicentesche) il Cristo crocifisso medievale è stato sostituito con un altro più recente, recuperato da una croce del Capitolo di San Vincenzo.

 

CROCE DI SAN PROCOLO

La crocetta metallica riceve  il suo nome dal fatto di essere conservata unitamente alle reliquie di San Procolo, vescovo di Verona martirizzato nel IV secolo. I sui resti pervennero in Cattedrale insieme a quelli dei Santi Fermo e Rustico, anch’essi martirizzati nel IV secolo e che un’antica “Passio” menziona come originari di Bergamo.
Le reliquie di questi Santi dopo vari spostamenti sono giunte a Verona nella seconda metà dell’VIII secolo e verso la metà del secolo successivo parte delle reliquie sono state trafugate da mercanti bergamaschi e portate nella chiesa di San Fermo a Bergamo.
Nel 1575 Carlo Borromeo ha ordinato la traslazione delle reliquie in Cattedrale ed è questo il motivo che spiega la presenza della croce in questo luogo. Alcuni fori marginali non a caso rendono probabile la sua originaria applicazione su una cassetta reliquiario.

Croce di Procolo – Autore ignoto – (Ambito longobardo?) IX/X secolo. Originariamente le reliquie del santo si trovavano nella chiesa di san Fermo e furono portate successivamente in Cattedrale. La croce è sbalzata su una lamina argentea dai bordi profilati da un listello rialzato. La fattura, meno sfarzosa e complessa rispetto alle altre croci del Tesoro, è affascinante per sua semplicità e per il rigore simbolico dato dalla centralità del corpo di Cristo, che estendendosi lungo tutta la superficie del manufatto rimanda al sacrificio eucaristico. Il corpo di un uomo vivo, con gli occhi aperti, che ha attraversato la morte e che ora vive

Lo stile ci permette di assegnare una datazione. Il primo elemento significativo ci è fornito dal perizoma lungo fino alle ginocchia e mosso da pieghe. Questo tipo di veste non la ritroviamo prima del IX secolo. Un secondo motivo è rappresentato dai pollici in abduzione; sistema adottato non oltre il secolo XI. Quindi la datazione deve aggirarsi intorno al IX-X secolo.

La figura del Cristo domina tutta l’ampiezza della croce: il capo è eretto e dotato di aureola crucifera; il volto è imberbe, secondo un tipo fisionomico diffuso in età tardo antica e altomedievale; gli occhi sono aperti; le mani recano visibili i segni dei chiodi.
Il torace è robusto e ben modellato; le gambe non sono incrociate e i piedi non sono sovrapposti, ma ruotano verso l’esterno senza alcun segno dei chiodi.
Nella parte superiore sono presenti le raffigurazioni del sole e della luna.

 

LA BORSA PER IL CORPORALE

La borsa per corporale è un manufatto nato per custodire il corporale, un telo di tessuto che si stende sull’altare per posarvi calice e patena durante la celebrazione eucaristica.
La borsa era utilizzata nel tragitto che porta dalla sacrestia all’altare, e viceversa.

Il tema del Cristo eucaristico è espresso secondo un modello iconografico molto diffuso e strettamente aderente alla funzione dell’oggetto liturgico.

La Borsa per il corporale, con decorazione a tema eucaristico, è in velluto di seta ricamato con filati in seta e filati metallici, pittura a tempera, applicazioni di pailettes, di manifattura lombarda

La figura di Gesù regge la croce, arricchita con i tre chiodi che ne sostenevano il corpo, da cui ora penzolano due flagelli, con allusione, assieme alla corona di spine, a due momenti della passione che precedettero la crocifissione: flagellazione e incoronazione di spine.
Con gesto enfatico, Cristo si rivolge al calice che sta per ricevere il frutto del suo sacrificio.

Alcuni elementi fanno risalire la borsa a poco prima della metà del Quattrocento (1430 – 1450 ca.): le difficoltà prospettiche nell’assetto della composizione (si noti, ad esempio, la diversa inclinazione dei tre chiodi della croce) rendono incerta e traballante la posizione occupata da Cristo nello spazio. Le sproporzioni innaturali di alcuni dettagli (l’ingigantita mano destra, con l’ingenua profilatura delle unghie, o l’enorme calice che sta per accogliere il disco eucaristico), così come l’andamento sinuoso della preziosa veste di Cristo e le folte e arzigogolanti ciocche della sua capigliatura, conferiscono all’immagine un forte accento tardogotico.

 

IL PIVIALE DI SAN VINCENZO

Il sontuoso piviale di San Vincenzo è un ampio mantello che proviene dalla cattedrale, dove è segnalato per la prima volta in un inventario del 1593. L’epoca della sua realizzazione è però di molto anteriore, risalendo allo scorcio del Quattrocento, periodo dell’episcopato di Lorenzo Gabrieli (1484-1512).

La stola (o stolone) di questo paramento riporta cinque figure per lato di santi, realizzate a ricamo con parti a riporto acquarellate. Si dice che il manto pesi 100 chilogrammi

 

Manifattura lombarda, 1490-1510, particolare del piviale di San Vincenzo, raffigurante S. Alessandro a cavallo. Tessuto laminato in oro, argento e seta policroma, Bergamo, Fondaz. Bernareggi

Questa veste liturgica– costituita da un manto semicircolare lungo fino ai piedi, arricchito da uno stolone e da un cappuccio ricamati – era utilizzata nelle celebrazioni più solenni (3).

Al centro dello stolone è raffigurato Dio Padre benedicente; sui due bordi i Santi Pietro, Andrea, Giovanni episcopo (?), Vincenzo e Maria Maddalena (a destra); e i Santi Marco, Alessandro, Paolo, Gerolamo e Caterina d’Alessandria (a sinistra). Infine sul cappuccio è rappresentato l’episodio narrativo dell’Adorazione dei Magi, d’ispirazione foppesca (4).
Proprio la presenza dei Santi Vincenzo e Alessandro (all’epoca, rispettivamente patroni della Cattedrale e della chiesa cittadina che ne conserva le reliquie), oltre a quella di San Marco (protettore della Serenissima, entro i cui confini amministrativi era inserita Bergamo), lega il manufatto a doppio filo alla storia della città e della sua cattedrale.

(3) Il luogo di realizzazione di questo indumento liturgico è certamente l’area nord italiana. Esso è confezionato in un tessuto laminato d’oro con effetti di quadrettatura, su una base di armatura rossa. Il suo tessuto è caratterizzato dalla presenza del disegno a “melagrana”, molto in voga tra il 1420 e il 1550. Il motivo a melagrana si unisce nella trama al fiore di loto e alla pigna, facendo risalire l’origine dei tessuti alla seconda metà del XV secolo. Agli inizi del XVI secolo è da attribuire, invece, la composizione della trama, per via della suddivisione a scacchiera degli scomparti ogivali e l’evidente stilizzazione del formulario vegetale, elementi tipici di quegli anni. Sia lo stolone che il capino (il cappuccio sul retro del piviale) conservano un ricamo a riporto, con filati serici policromi, filati metallici e parti in tessuto dipinte. Le maglie ogivali disposte secondo un andamento a teorie orizzontali sfalsate, includono un fiore di cardo delimitato ai margini da rami fiorati.
(4) La puntuale ripresa dell’Adorazione dei Magi dall’invenzione foppesca dipinta nel perduto tramezzo di Sant’Angelo a Milano (nota tramite le derivazioni diffuse in diverse chiese lombarde dei Minori Osservanti), serve a istituire un ulteriore legame con la cultura figurativa lombarda e, più in particolare, al magistero di Foppa. I dieci Santi che appaiono sullo stolone abitano nicchie (o formelle) architettoniche non dissimili da quelle – rappresentate in pittura – del polittico di Bernardino Butinone e Bernardo Zenale a Treviglio e del polittico di Santa Maria delle Grazie di Vincenzo Foppa, datato al 1476 (ora alla Pinacoteca di Brera a Milano). Anche la posa della Madonna e di S. Giuseppe fanno presagire stilemi di inizio Cinquecento (con un’evidente richiamo al dipinto di Giacomo Borlone nell’Oratorio dei Disciplini a Clusone, databile intorno al 1470).

I preziosi calici del Tesoro della Cattedrale (Credits Photo Thomas Mayer)

 

L’ELEMOSINA DEI CONFRATELLI DELLA MISERICORDIA

Il lacerto con I confratelli della Misericordia (sinora esposto al Museo diocesano e proveniente proprio dall’antica cattedrale), è quello provieniente dalla zona scavata da Elia Fornoni nel 1906.
La rappresentazione riguarda la confraternita intitolata a Santa Maria della Misericordia, più nota come MIA, una delle associazioni locali più antiche della città e che in origine si radunava nella chiesa di San Vincenzo. Tra gli obblighi della confraternita, che aveva intenti spirituali e caritativi, figurava la distribuzione dell’elemosina ai poveri.

L’affresco fu dipinto negli stessi anni della fine del Duecento in cui si metteva mano alla decorazione dell’iconostasi.

Elemosina dei confratelli della Misericordia (Autore ignoto, ambito lombardo – ca. 1280). L’opera raffigura i quattro confratelli del sodalizio che distribuiscono l’elemosina. Due confratelli (dotati di copricapo e di un abito più ricercato, sono probabilmente i canevari), porgono una forma di pane e una brocca a un povero, seguiti da altri due, dalla veste più dimessa (forse i servi) che portano in spalle un sacco (di pane) e una fiasca (di vino). Il movimento del corteo è molto solenne e il pittore ha enfatizzato la distanza sociale che separa chi dona da chi riceve, con la figura del povero rappresentato in scala minore e collocato in posizione marginale

 

LA MADONNA DEI CANONICI DELLA CATTEDRALE

Fra le opere figurative del Tesoro, si contempla anche l’icona della Madonna dei Canonici della Cattedrale.

La Madonna dei Canonici della Cattedrale, un’icona di scuola cretese del XV secolo, nota anche come Madonna della Consolazione, assimilabile ad una Madonna Nera (Credits Photo Thomas Mayer)

 

Riferimenti
– Le domande di un visitatore, le risposte di una guida. Testi di Simone Facchinetti. Litostampa Istituto Grafico srl – Bergamo, 2012.
– Academia.edu – Fabio Scirea Il complesso cattedrale di Bergamo.
– Cattedrale di Bergamo.

La Basilica alessandrina e quel che ne resta

La fronte della Basilica Alessandrina (domus Sancti Alexandri), prima chiesa paleocristiana della città di Bergamo, demolita nel 1561 per ordine di Venezia perché sorgeva sul tracciato delle nuove fortificazioni.  La stampa raffigura un’interpretazione fantastica di una Basilica paleocristiana dei sec. VI e IX, disegnata nel 1675 per le Effemeridi di Padre Donato Calvi. Ai lati del portale maggiore, le due statue di Adamo ed Eva e nell’arcata superiore la statua di Sant’Alessandro a cavallo

Siamo nell’età dioclezianea, prossimi ormai al quarto secolo. L’editto milanese dell’anno 313 permette libertà di culto ai cristiani; nel 380 quello di Tessalonica, sotto il regno di Teodosio, proclama la nuova religione, unico culto dello stato: a duecentocinquant’anni dalla prima persecuzione neroniana in Roma, Bergamo dà il primo segno d’essere stata toccata dalla nuova parola con Alessandro, miles della Legio Tebana di stanza a Milano, martirizzato  sotto la persecuzione di Massimiano (286-305 d.C.) o di Diocleziano (303-304 d.C.).

Narra la tradizione che nei giorni seguenti il martirio di Alessandro, la nobile Grata, figlia di Lupo, trovò il suo corpo, lo raccolse e con la compagna Esteria ed i suoi servi volle dare sepoltura al martire in un suo podere posto sull’alto dei colli, fuori le mura della città. Giunti al podere disteso tra le vigne, all’inizio di Borgo Canale, Grata dette sepoltura al corpo del Santo, là dove successivamente fu eretta la basilica a lui intitolata, di cui oggi resta una colonna innalzata poco più a monte del sito effettivo in cui la basilica si trovava.

A sud della porta S. Alessandro e all’imbocco di Borgo Canale, nel 1621 il Vescovo Emo fece erigere una colonna, a ricordo della distrutta basilica alessandrina, che si trovava a ridosso di un sepolcreto di origine romana

Le figure dei primi cristiani presenti nella nostra città sono tratteggiate da leggende e tradizioni tramandate oralmente: oltre ad Alessandro, il martire legionario venuto dall’oriente, morto alla fine del III  d. C., Fermo e Rustico, i primi giovani bergamaschi capaci di offrire la vita a testimonianza della loro fede; Grata, la gentile, che tra i gigli solleva la testa mozza del martire; Narno, Viatore e Dominatore, i pastori del primo gregge cristiano; Proiettizio, Giacomo e Giovanni, ombre erranti con le torce accese nella basilica, e Esteria la velata.

Nel territorio bergamasco, dove prevale la presenza contadina e ancora permane fortemente radicata la fede pagana, sono questi personaggi i primi protagonisti di una storia in parte vera e in parte intrisa di emozionanti leggende e di figure levate a volo dall’eccitata fantasia di credenti visionari.

Sulle terre dei morti, sulle aree sepolcrali fuori delle porte cittadine, con ogni probabilità inizia soltanto allora a nascere Bergamo cristiana. Ed è appunto dalla metà del IV secolo che, così come solitamente avveniva nei municipia romani, iniziano a profilarsi a Bergamo i primi edifici della topografia cristiana: nasce IV sec. la basilica alessandrina sul sepolcreto di Borgo Canale, fuori la porta occidentale, là dove Grata aveva deposto il corpo mozzato di Alessandro.

Poco dopo, nel V secolo, in un’area centrale della città sorge la basilica di San Vincenzo, concattedrale insieme alla basilica dedicata ad Alessandro, ognuna governata da un proprio Capitolo: per secoli le due canoniche, diretta espressione dei rispettivi schieramenti cittadini, saranno protagoniste di continui contrasti (a volte anche armati), legati al governo della città, al controllo del contado e delle decime.

Documentata solo dal 774 nel testamento del gasindio regio Taido (“Basilica beatissimi Christi martyris Sancti Alexandri…ubi eius sanctum corpus requiescit”), custodisce i resti del martire Alessandro, eletto compatrono di S. Vincenzo per Bergamo e il suo territorio nel 1561, fino a divenire l’unico titolare della città il 4 novembre 1689, all’atto dell’unificazione in un unico Capitolo.

Altri edifici sacri sorgeranno nel corso dell’altomedioevo e, fra questi,  la basilica cimiteriale di Sant’Andrea (menzionata in documenti del 785), fuori la porta orientale, su un’area sepolcrale sviluppatasi a partire dal VI secolo (e sulla quale verrà costruita la nuova chiesa ottocentesca); a settentrione, la ragguardevole San Lorenzo (1), risalente all’VIII secolo, anch’essa abbattuta nel 1561 per la realizzazione della fortificazione veneziana; la chiesa di S. Salvatore, cui risale un’antichissima tradizione legata al “divo Lupo”, padre di S. Grata; la chiesa di S. Grata inter vites (documentata nel 774), sorta sui terreni di proprietà della famiglia di Grata, di cui conserverà le spoglie fino al 1027, quando verranno traslate nella chiesa di S. Maria Vecchia in via Arena, successivamente intitolata alla santa: per non creare confusione nell’identificazione dei due edifici, alla titolazione della chiesa verrà aggiunta la specifica di inter vites (tra le viti), motivata dalla sua posizione fuori le mura del borgo sul colle (2).

INTRA O EXTRA MOENIA?

Riguardo l’ubicazione della basilica alessandrina, è opinione comune che si trovasse fuori dalla cinta muraria (extra moenia), sebbene in certi documenti fosse indicata come interna e non più esterna alle mura: un’incongruenza derivante forse dal fatto che la fortificazione che proteggeva la cittadella alessandrina, sorgendo a ridosso del settore nordovest delle antiche mura (romane, poi altomedioevali e medioevali), venisse talora considerata come parte integrante delle stesse.

Particolare della lapide realizzata dall’Ing. Luigi Angelini nel 1961, apposta sul muro retrostante la colonna di Borgo Canale. La lapide reca incisa la planimetria generale della zona ricavata dalla pubblicazione (1885) di Elia Fornoni, “La Basilica Alessandrina e i suoi dintorni”

Nella veduta di Alvise Cima appare all’incrocio di quattro direttrici (borgo Canale – via Sudorno poi via S. Vigilio/via Cavagnis – Colle Aperto – via Arena), tra cui la stradina che a sud, affiancata da una siepe, superava la portatorre medioevale di S. Alessandro (GG), entrava nella Cittadella viscontea (X-viale delle Mura) e si connetteva alla via Arena fino a giungere nel cuore del nucleo storico. La sua posizione a valle, rispetto al punto in cui sono state collocate nel Seicento la colonna e le lapidi in sua memoria, indicano anche di come fosse posta proprio all’imbocco del borgo Canale, che dopo la chiesa di S. Grata inter vites (10) piegava in discesa fino all’attuale quartiere di Loreto.

Veduta di Alvise Cima, dettaglio della cittadella alessandrina, un recinto che racchiudeva un complesso sistema di edifici comprendente, oltre alla basilica, la chiesa di S. Pietro, la residenza del Vescovo, la casa del Prevosto, la canonica, lo xenodochio e una torre (non tutti visibili nella veduta)

La sua posizione a cavallo del tracciato delle mura veneziane rese inevitabile la sua demolizione, rendendo extra moenia tutto il vicino borgo, che peraltro già soffriva di una condizione marginale dovuta dai tempi della costruzione della trecentesca Cittadella viscontea (3).

Planimetria del colle di San Giovanni nel periodo alto medioevale. Disegno di A. Mazzi

E’ difficile stabilire se, deviando il bastione di Sant’Alessandro, almeno una parte avrebbe potuto salvarsi, non foss’altro perché le più aggiornate tecniche di architettura militare esigevano la presenza di una vasta area libera intorno alla fortificazione: e così nel borgo, insieme alla cittadella alessandrina  vennero distrutte anche 80 case.

LA CITTADELLA ALESSANDRINA

Particolare della lapide realizzata dall’Ing. Luigi Angelini (1961), apposta sul muro retrostante la colonna di Borgo Canale. L’asse principale della basilica risulta orientato in direzione est-ovest, con l’abside dove ora è il bastione di S. Alessandro, mentre la facciata era rivolta verso la salita di via Borgo Canale

Come attestato in antichi documenti, la basilica si trovava all’interno di un sistema di edifici racchiusi in un recinto fortificato, la “Cittadella alessandrina”, comprendente la piccola chiesa di S. Pietro, adibita al rito battesimale, ampliata verso la fine del Quattrocento e demolita nel 1529.
Vi erano poi, oltre a una grande piazza, edifici con funzione di residenza, assistenza e ospitalità: uno xenodochio (ricovero per pellegrini ed infermi), la casa del Prevosto, la residenza del Vescovo e la canonica, dove si svolgeva la vita comunitaria, nonché un’altissima torre campanaria di carattere difensivo.
I terreni circostanti, di proprietà vescovile, erano denominati “Vigna di Sant’Alessandro”.

In quanto molto antica e custode dei resti del santo, è plausibile che la basilica rivestisse, almeno inizialmente, lo status di unica cattedrale, nonostante le cattedrali paleocristiane sorgessero senza eccezioni entro le mura cittadine, seppur in rapporto con i santuari cimiteriali del suburbio.

Come riportato da Lorenzo Dentella, “Il tempio era per antichità insigne, celeberrimo per frequenza e devozione di popolo […] Distinto per la dignità prepositurale e per Capitolo di diciotto canonici”. Le fonti indicano tale numero per il 975, numero che oscillò nel tempo: essi restarono nella Cittadella alessandrina sino al momento della distruzione del complesso basilicale.

LA GRANDE TORRE

La grande torre campanaria e difensiva della Cittadella alessandrina. Fu la prima ad essere abbattuta dai veneziani

Al centro della cittadella alessandrina, “a dieci passi dalla chiesa” si elevava l’imponente torre campanaria a pianta quadrangolare, descritta come molto larga alla base e con una struttura muraria a grandi massi di pietra che la rendeva inespugnabile; essa garantiva le possibilità difensive estreme e costituiva ultimo rifugio in caso di assalto nemico e poteva agevolmente ospitare per molti giorni la corte ecclesiastica al completo con gli arredi più preziosi (4).

La torre, che raggiungeva gli oltre 35 metri in altezza, spiccava su tutta la città rivaleggiando col Campanone affinché il suono delle sue campane (in numero di sei nel XI secolo) potesse chiamare a raccolta il popolo nelle grandi cerimonie che avevano luogo nell’insigne basilica.

Anche la chiesa di San Vincenzo era dotata di un’analoga torre campanaria difensiva (attestata dal 1135 e demolita nel 1688 per far posto all’attuale abside), che fu più volte “ruinata” e riparata nel corso delle lotte intestine fra opposte fazioni.

L’ASPETTO DELLA BASILICA ALESSANDRINA

La fronte della Basilica alessandrina in un’interpretazione di fantasia, disegnata nel 1675 per le Effemeridi di Padre Donato Calvi. L’interno doveva essere splendido. Lorenzo Dentella lo descrive decorato di colonne di marmo antichissime (qualcuno scrisse “variopinte”), ornato di altari, statue e pitture, alcune delle quali rappresentavano, probabilmente in affresco, scene della vita e della Passione di S. Alessandro

L’immagine pittorica più antica della chiesa è giunta sino a noi grazie a un dipinto del 1529 di Jacopino Scipioni, che doveva trovarsi all’interno della basilica alessandrina, per poi essere esposto nella chiesa di San Pancrazio dietro l’altare maggiore.

Dietro l’altare della chiesa di S. Pancrazio, nella pala di Jacopino Scipioni (1529), Madonna col bambino, i santi Proiettizio, Giovanni Vescovo, Esteria e Giacomo con angeli musicanti, è raffigurata l’immagine pittorica più antica della basilica alessandrina (prima pala a destra)

 

La pala di Jacopino Scipioni (Madonna col bambino, i santi Proiettizio, Giovanni Vescovo, Esteria e Giacomo con angeli musicanti) ripresa dal transetto. La figura maschile a destra regge il modello della Basilica alessandrina. Vi è raffigurato un portico slanciato a tripla arcata sovrastato da un loggiato e il fastigio con una piccola apertura che illumina la parte interna e, sul lato a nord, la torre campanaria

Un’altra immagine della basilica alessandrina fu riprodotta da Fabio Ronzelli nella Traslazione del corpo di Sant’Alessandro (1623), dipinto collocato presso la sacrestia del Duomo di Bergamo.

Particolare della Traslazione del corpo di Sant’Alessandro di Fabio Ronzelli. Oltre l’arcata, al di sotto del castello spicca luminosa la Basilica alessandrina

In un altro dipinto, la Tumulazione di Sant’Alessandro (1623) di Fabio Ronzelli, è raffigurato un uomo che tiene fra le mani il modello dell’insigne Basilica: un dipinto è conservato presso la chiesa di S. Alessandro della Croce o presso le sacrestie del Duomo di Bergamo.

Sezione e pianta della basilica primitiva, risalente al IV secolo d.C. (da E. Fornoni, L’antica Basilica alessandrina, Bergamo, 1885)

L’insigne basilica, pur non presentando le vaste dimensioni delle grandi costruzioni romane da cui trae il modello, doveva essere maestosa e lo si può desumere dai disegni del rilievo eseguiti (ad perpetuam rei memoriam) su ordine del vescovo Federico Cornaro dal canonico Giovanni Antonio Guarneri, che dovette redigere una relazione sulla demolizione dell’antica chiesa (le cui dimensioni furono riportate in cubiti) e sul trasporto delle reliquie di S. Alessandro nella chiesa di S. Vincenzo.

Il sacro edificio, a pianta longitudinale diviso in tre navate, aveva una lunghezza di quaranta metri e quindici di larghezza e rispettivamente ventisette metri per sei e mezzo misura la sua navata principale. Conteneva quindi comodamente cinquecento fedeli nello spazio centrale; più di mille, sommando a quello le navi minori.
Un muro, verosimilmente somigliante all’iconostasi della cattedrale di San Vincenzo,  separava le navate laterali dalla zona presbiteriale, alla quale si accedeva dalla navata centrale tramite quattro gradini. La cattedra del vescovo era invece posta dietro l’altare maggiore, circondata dai seggi dei canonici.

Attraverso due scale di quindici gradini si accedeva ad una cripta che conteneva, come riporta la tradizione, i tre altari di Sant’Alessandro, San Narno e San Viatore (i primi due vescovi di Bergamo), presumibilmente posti sopra le rispettive arche e, sempre secondo la tradizione, i resti di alcuni altri santi bergamaschi.

Iscrizione dell’epoca paleocristiana con inciso il nome di quello che secondo la tradizione fu il primo vescovo bergamasco, San Narno (Bergamo, Museo Archeologico di Cittadella)

 

Il più antico e venerato edificio sacro di Bergamo, innalzato nel IV secolo d.C. sul luogo in cui fu sepolto Sant’Alessandro, è stato sin dalle origini oggetto di grande devozione popolare e simbolo stesso della città, tanto da venir impresso su una faccia del “pergaminus”, la moneta coniata dalla zecca di Bergamo nel XIII secolo

L’ASSEDIO DEL 894 E LE MODIFICHE DI ADALBERTO

Nell’anno 894 le truppe tedesche per mano di Arnolfo di Carinzia (figlio di Carlo Magno e futuro re d’Italia), assalirono la città, saldamente fortificata, distruggendone una parte: penetrate dal colle di San Vigilio, distrussero il Castellum e la Cittadella Alessandrina con la sua basilica, “diruta et combusta remansit”, scrive Mario Lupo nel suo Codex diplomaticus.

Solo dopo molti anni, quando il borgo e la vita tornarono a rifiorire, il vescovo Adalberto provvide alla sua ricostruzione.

Sezione e pianta della basilica, con l’addizione del presbiterio sotto il vescovato di Adalberto (894-929). Da E. Fornoni, L’antica Basilica alessandrina, Bergamo, 1885

LA FINE DELL’AUGUSTO TEMPIO

L’abbattimento della basilica alessandrina fu un episodio molto doloroso per la città, raccontato da numerose cronache, “..tristissimo avvenimento da addossarsi a totale carico di chi nel 1561 guiderà la costruzione delle nuove mura: atto di inciviltà e di soldatesca prepotenza favorito dalla disanimata e mercantile piaggeria dei reggitori veneti di quel tempo, posti di fronte ai vocianti e sgangherati aut aut di personaggi dal mercenario mestiere; impietosi e quindi sordi ad ogni voce dei sentimenti di una gente pacifica e proprio per questa ragione spregiata e tenuta in nessuna considerazione” (5)

Nonostante il 7 luglio del 1560 il capitano Pietro Pizzamano avesse fatto presente che l’erezione delle mura avrebbe arrecato gravi danni al patrimonio di Bergamo, l’anno successivo, il Governatore Generale al servizio di Venezia Sforza Pallavicino, giunto a Bergamo con il compito di dirigere i lavori di fortificazione della città, non mise neppure in conto di modificare il tracciato della fortificazione e si limitò a comunicare la sua decisione al vescovo, il veneziano Federico Cornaro, dando disposizioni perché fosse minata la grande torre che fungeva da campanile.

Il vescovo,  entrato nella sua diocesi solo l’11 luglio, fu impotente di fronte all’imminente distruzione di case, chiese e conventi, muri, orti e vigne, e di quella basilica che per più di mille e duecento anni era stata il decoro e la gloria della città. Neppure i cittadini ebbero il tempo di opporsi, né di tentare accordi di modifica alle opere proposte: a nulla valsero le tre precessioni cittadine (30/ 31 luglio e 1 agosto 1561), programmate per chiedere a Dio che illuminasse le autorità venete: la prima annoverava una folla straripante, che convinse i Rettori a vietarne altre di simili per motivi di ordine pubblico.

Il vescovo fece appena in tempo a far  redigere l’inventario di tutti i beni (paramenti sacri, arredi,  suppellettili), tra il 4 e il 7 agosto, giorno in cui all’insaputa anche del Senato, si sarebbero avviate le demolizioni.

Commovente la scena dell’ultima messa solenne nell’agonizzante basilica, gremita di una folla lacrimevole composta da tutto il popolo bergamasco, mischiato ai soldati in armi. Era la domenica nona dopo la Pentecoste, il Pallavicino aveva provveduto 1800 fanti e cinquanta soldati a cavallo per mantenere l’ordine. Quando il diacono al Vangelo cantò et ut appropinquavit Iesus videns civitatem flevit super illiam, quasi fossero parole espressamente ispirate per la indeprecabile fatalità dell’ora, la folla compresa da terrore si abbandonò al pianto.

Il Cornaro, mentre i soldati si erano accampati nella chiesa, fece aprire l’arca che conteneva i resti del Santo, alla presenza di sacerdoti e canonici, mentre i guastatori, eseguendo gli ordini dello Sforza, abbattevano la casa del Prevosto.

Nel corso della funzione sorsero problemi tra i canonici del Capitolo di S. Alessandro e quelli di S. Vincenzo, riguardo la destinazione finale delle reliquie del santo martire; il Vescovo intervenne con decisione e dopo aver esposto alla devozione dei fedeli i resti santi (secondo la tradizione dall’alba alle quindici per gli uomini, dalle quindici fino al tramonto per le donne), dopo aver constatato che le reliquie non erano mai state profanate, un corteo di religiosi, sacerdoti, nobili cavalieri, confusi tra una folla piangente e devota, si avviò in processione notturna nel Duomo cittadino, dove furono portate anche le reliquie dei Santi Narno e Viatore: la tradizione riporta che si fece ricorso a due casse, divise con tanti tramezzi in ciascuno dei quali furono deposte anche le reliquie dei Santi Giacomo, Proiettizio, Giovanni ed Esteria.

S. Alessandro a cavallo e i santi Narno e Viatore, in un affresco dipinto nella Curia vescovile di Bergamo

Dopo la traslazione, il 14 agosto fu distrutta la torre campanaria, imbragata di assi in legno impregnate di pece alla base e private delle pietre portanti, per favorirne la caduta. L’alto Campanile rovinò sulla basilica trascinando con sé tutto quello che ancora restava dell’antica costruzione e distruggendo la canonica e gli edifici adiacenti.

“In questo giorno scoppiò la mina, precipitò la torre, e cadendo al basso sopra la cattedrale… ogni cosa distrusse.. L’insigne Canonica, Santa Basilica e antica Cattedrale di sant’Alessandro, che per 1200 e più anni era stata il decoro e la gloria della nostra patria, in quel funesto giorno cominciò, fra le rovine a deplorare la caduta dei propri privilegi, datosi principio a mandarla per terra con doglie e pianto per tutta la città” (6).

In quei giorni infausti, mentre la diplomazia veneziana fingeva di trattare e nonostante la premessa di poterli risparmiare, venivano distrutti altri edifici sacri: la chiesa di San Lorenzo nell’omonimo borgo, assieme alla chiesa parrocchiale di S. Giacomo, che sorgeva in prossimità della porta nella cerchia delle mura medievali. Vennero poi demoliti la chiesa e il convento domenicano dei Santi Stefano e Domenico  sul colle di Santo Stefano, che sorgeva isolato dalla città: ed anche in questo caso lo Sforza fece ricorso alle mine, scavando delle gallerie sotto il monastero, dove vennero collocati barili pieni di polvere, che esplosero nella notte dell’11 novembre di quello stesso terribile anno.

COSA RIMANE DELLA BASILICA ALESSANDRINA

Con il crollo della torre, poco si salvò della basilica, anche se si dice che alcuni dei suoi altari furono reimpiegati; per lo più i materiali vennero abbandonati o riutilizzati per costruzione di fabbricati; sicuramente molti di essi furono reimpiegati per la costruzione delle mura ed è singolare la vicenda che riguarda le due grandi statue raffiguranti Adamo ed Eva, situate ai lati dell’ingresso della basilica Alessandrina.
Secondo l’abate Calvi, nel crollo dell’edificio andarono a pezzi ma ne vennero recuperate le teste e parte del busto per essere poi utilizzate nella costruzione delle mura e collocate di fronte al luogo dove si trovava la basilica e “ove pur sono di presente”, aggiunge sotto la data del 16 agosto.

Una fonte indica che i pulpiti attuali del Duomo furono ricavati dai marmi giacenti presso i depositi della M.I.A. – Pia Opera di Misericordia – e aggiunge che forse siano quasi tutti derivati dalla demolizione della Basilica.

E’ accertato invece che uno dei due pulpiti del Duomo di Bergamo (il cui rivestimento fu disegnato da Filippo Alessandri), sia completato da una colonna di marmo verde antico, dono della Misericordia Maggiore nel 1746

Le dodici colonne che ornavano la basilica alessandrina presero diverse direzioni: due vennero donate al Santuario di Caravaggio nel 1584, quattro furono adoperate per il portale del Duomo e da qui levate quando l’architetto Bonicello realizzò l’attuale facciata; altre vennero utilizzate per l’altare della basilica di Santa Maria Maggiore.

Una di queste, si dice sia quella fatta innalzare nel 1621 dal Capitolo della Cattedrale sul luogo dove sorgeva l’antica basilica: la colonna cui accennato in precedenza, che ancora si vede in prossimità delI’imbocco di Borgo Canale, alla quale fu data “più degna sistemazione” nel 1961, in occasione del quarto centenario della demolizione della basilica.

La colonna risulta essere di granito di Numidia, lo stesso granito usato nella costruzione delle basiliche costantiniane di Roma. Una coincidenza che fa pensare ad un contributo imperiale per l’antico tempio paleocristiano.

La colonna ubicata all’imbocco di via Borgo Canale, eretta nel 1621 dal Vescovo Emo a ricordo della distrutta chiesa primitiva cittadina demolita nel 1561

Nel presbiterio della chiesa di Sant’Alessandro della Croce in Borgo Pignolo, a sostegno della mensa liturgica trova collocazione un’antichissima arca di pietra utilizzata, secondo l’iscrizione secentesca leggibile sulla parete esterna, come sepolcro per il corpo di Sant’Alessandro (e successivamente per quello di Santa Grata).

L’arca, monolitica e sobriamente decorata di semplicissime figure di pilastri, archi e colonne, collocata in origine nella basilica alessandrina, trovò dapprima una sistemazione nel monastero di Santa Grata, per pervenire alla Parrocchia nei primi anni dell’Ottocento, in seguito agli spostamenti causati dalle soppressioni napoleoniche. La sua attuale funzione rievoca in modo suggestivo consuetudini della Chiesa delle origini, che usava celebrare i riti liturgici sulle tombe dei martiri.

Marina Vavassori, archeologa epigrafista, afferma che il sarcofago di Sant’Alessandro fu in origine destinato a un bergamasco ignoto, abbastanza in vista, nella seconda metà del terzo secolo (250-300): il riutilizzo di antichi sarcofagi era una pratica diffusa ovunque, spesso utilizzata per accogliere i corpi dei martiri; e dal momento che la basilica di Sant’Alessandro sorgeva nell’area dell’antica necropoli romana, non fu difficile trovare un sarcofago da reimpiegare. Erasa l’iscrizione antica, perché sparisse ogni traccia di paganità, l’arca era pronta per accogliere l’eroe della cristianità.

L’altare liturgico nel presbiterio della chiesa di S. Alessandro della Croce sarebbe, secondo la tradizione, l’arca di pietra proveniente dalla distrutta basilica di S. Alessandro, utilizzata come SEPOLCRO per il corpo di S. Alessandro e, successivamente, di Santa Grata. Molto sorprendente il confronto con l’arca sepolcrale raffigurata da Fabio Ronzelli (Bergamo, documentato dal 1621 al 1630) nella già citata Traslazione del corpo di Sant’Alessandro

L’arca sepolcrale dipinta da Fabio Ronzelli nella Traslazione del corpo di Sant’Alessandro (dipinto custodito presso la cattedrale di Bergamo), presenta una somiglianza impressionante con quella posta a sostegno della mensa liturgica nella chiesa di S. Alessandro della Croce.

Si noti la somiglianza tra l’arca sepolcrale raffigurata nel dipinto di Fabio Ronzelli – Traslazione del corpo di Sant’Alessandro – e l’arca sepolcrale posta a sostegno della mensa liturgica nella chiesa di S. Alessandro della Croce (il dipinto è parte integrante del ciclo delle Storie di Sant’Alessandro dipinte da Enea Salmeggia)

E’ nuovamente Marina Vavassori ad informarci che in una Memoria conservata all’Archivio Diocesano di Bergamo, relativa alle spese fatte fra il 1688 e il 1714, si legge che nello scurolo del Duomo (chiesa ipogea) si trovavano “li marmi” dell’antica Cattedrale di Sant’Alessandro distrutta nel 1561, probabilmente lì trasferiti quando lo scurolo non era più attivo.
Ma già prima della demolizione della basilica alessandrina, “molte lapidi si erano disperse e spesso venivano riutilizzate” e se alcuni marmi erano epigrafati, spesso venivano utilizzati dall’altra parte.

Ricordiamo infine che alla basilica alessandrina fu dedicato il nome della porta medioevale che dal versante occidentale dei colli dà accesso al centro storico: denominazione riconfermata con la nuova porta cinquecentesca edificata dai Veneziani.

Nel medioevo, tutte le quattro porte portavano il nome dei santi patroni delle chiese che sorgevano nelle vicinanze: S. Stefano, S. Andrea, S. Lorenzo, e S. Alessandro (nell’immagine). Di queste chiese, tre furono demolite insieme a centinaia di case, per l’ampliamento della cerchia, mentre la quarta, la chiesa di S. Agostino, fu risparmiata dalla demolizione ed è ancora, come sappiamo, esistente (Porta S. Alessandro poco prima del 1912, anno di costruzione della funicolare di S. Vigilio: da D. Lucchetti, “Bergamo nelle vecchie fotografie)

LA CROCE DI UGHETTO: IL SIMBOLO DELL’UNIFICAZIONE DEI DUE CAPITOLI

La croce di Ughetto, la grande croce processionale proveniente dalla distrutta basilica alessandrina, si cela nei sotterranei del Duomo di Bergamo, dove una lunga e importante campagna di scavi ha recentemente portato alla luce la basilica paleocristiana di S. Vincenzo.

Si tratta dell’opera forse più rappresentativa del Tesoro della cattedrale, in origine arricchita da 34 reliquie miracolose, sigillate sotto la sua preziosa oreficeria.

La croce prende il nome dal suo principale esecutore, Ughetto Lorenzoni da Vertova, il quale l’ha realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro.

E’ questo il motivo per cui il Santo appare vistosamente abbigliato come un cavaliere medievale in sella al suo destriero, mentre sullo sfondo si staglia il profilo ideale della città di Bergamo, conquistata alla fede cristiana.

Particolare di S. Alessandro nella croce di Ughetto, realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro, motivo che giustifica la presenza molto evidenziata della figura del Santo

Nell’imminenza dell’abbattimento della basilica, oltre ai paramenti sacri, organi, campane e corredo liturgico, la croce di Ughetto venne portata in solenne processione nella chiesa di S. Vincenzo, insieme alle sacre reliquie: il Capitolo di S. Alessandro perdeva definitivamente la propria sede e da quel momento i due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro si trovarono a convivere fino alla definitiva fusione sotto le insegne di S. Alessandro, avvenuta nel 1689, anno della posa della prima pietra della nuova cattedrale.

La croce fu rinnovata nel 1614, anno in cui fu sancita la provvisoria riunificazione dei due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro: il restauro della croce è quindi la concreta manifestazione di questo tentativo di unità, tanto che la fisionomia originale della croce è stata stravolta e piegata a questo scopo.

In origine il recto esibiva il Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni, in alto un Angelo e ai piedi S. Alessandro a cavallo. Il verso esibiva il Cristo glorioso tra i quattro evangelisti e ai piedi Santa Grata.

Nell’operazione di restauro (oltre alle vere e proprie aggiunte seicentesche) il Cristo crocifisso medievale è stato sostituito con un altro più recente, recuperato da una croce del Capitolo di San Vincenzo.

Croce di Ughetto (1386). Sul recto, domina al centro Cristo Crocifisso con aureola e corona di spine, titulus e angeli tra nubi alle estremità. Nel braccio sinistro un angelo; in quello di destra la Vergine Addolorata; in alto Santa Grata; San Giovanni Evangelista in basso. Nel verso: al centro Sant’Alessandro a cavallo con la città di Bergamo sullo sfondo; alle estremità 4 teste di angeli. Sui bracci Santi Rustico, Procolo e Carlo. Sulla canna in prossimità del nodo è incisa la data 1616, riferita molto probabilmente al rinnovo per mano di Carlo de Giuli di Milano. Egli nel variare la sistemazione delle medaglie e la loro connotazione, inserisce sulla lamina i Santi Rustico, Procolo e Carlo. Il Cristo medievale viene sostituito da una croce appartenente al capitolo di San Vincenzo

Inoltre, i materiali del paliotto d’altare fisso (la cui realizzazione risale al 1908) conservato presso il Duomo di Bergamo, provengono con tutta probabilità dall’antica basilica alessandrina. Si tratta di una ferriatina e di piccole sculture ornamentali, a lungo utilizzati per decorare l’altare di sinistra della Cattedrale di San Vincenzo. Così come oggi si presenta la composizione prevede: nella parte centrale in basso Sant’Alessandro vessillifero; ai lati della ferriatina San Narno e San Viatore; alle estremità del lato a sinistra San Propettizio e San Giovanni Vescovo; a destra San Giacomo e S. Esteria. Tra i racemi emergono gli stemmi di San Pio X e del Vescovo Tedeschi.

Note

(1) Alberto Fumagalli, Le dieci Bergamo. Ed. Lorenzelli.

(2) Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012, cm 21×28, pp. 244.

(3) Tosca Rossi, Op. Cit.

(4) Bruno Cassinelli, Il contesto urbano della corte ecclesiastica alessandrina, in “Bergamo e S. Alessandro”, p. 131-138. Anno 1997.

(5) A. Fumagalli, Op. cit.

(6) Padre Donato Calvi, Effemeridi, 14 agosto 1561.

Riferimenti principali
– Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012, cm 21×28, pp. 244.
– Academia.edu – Fabio Scirea Il complesso cattedrale di Bergamo.
– Bergamosera – La Basilica alessandrina – Andreina Franco Loiri Locatelli.
– Alberto Fumagalli, Le dieci Bergamo. Ed. Lorenzelli.
– Bruno Cassinelli, “Il contesto urbano della corte ecclesiastica alessandrina”, in Bergamo e S. Alessandro, p. 131-138. Anno 1997.

Il chiostro di Santa Marta: dall’antico splendore alle suggestioni di oggi

Il cuore pulsante della città si articola in una miriade di strade, viuzze, edifici, piccoli e grandi monumenti, così familiari da consentirci di elencarne mentalmente il susseguirsi.

Ma nel suo trambusto vi è ancora uno scrigno, così raccolto e silenzioso, da sfuggire ai nostri frettolosi sguardi: è il chiostro di S. Marta, uno degli angoli più belli e suggestivi, celato nella galleria incastonata tra le mura del Centro piacentiniano e che sopravvissuto a secoli di turbolente vicende, è ancor’oggi capace di evocare un’atmosfera quasi sacrale.

Piazza Vittorio Emanuele II. A sinistra  della Torre dei Caduti e del Palazzo della ex-Banca Popolare di Bergamo si diparte la galleria aperta tra l’imbocco di via Crispi e la torre, celando al suo interno il chiostro di S. Marta

Dalla dolce armonia delle logge e delle arcate spira ancora un’aria di assorto raccoglimento, acuito dalla posizione appartata che ne fa un luogo insolito e  senza tempo, un’oasi di quiete al centro di un via vai che non conosce sosta.

Il chiostro è quanto sopravvive di un complesso trecentesco di inusitata bellezza, che un tempo era parte integrante di un’articolata struttura sacra comprendente la chiesa e il convento.

Lo sguardo si perde gradevolmente fra colonnati, arcate, capitelli, affreschi e graffiti

Come fu destino di altri monasteri, nel corso del tempo il complesso ha cambiato più volte destinazione d’uso, segnato da un destino multiforme. Basti pensare anche solo al vicino monastero di SS. Lucia e Agata, demolito nel 1825 per edificare il palazzo della famiglia Frizzoni, casata di imprenditori e manifatturieri svizzeri che tra il 1836 e il 1840 vi avevano costruito il palazzo di famiglia (attuale sede del Municipio di Bergamo).

Veduta del tratto nord della Contrada di Prato, verso S. Leonardo, con a sinistra il convento e la chiesa medioevali di S. Lucia e S. Agata e a destra il convento delle suore domenicane di S. Marta, in gran parte demolito nel 1915 per l’edificazione dell’allora Banca Mutua Popolare (incisione realizzata intorno al 1815 – Proprietà Conte G. Piccinelli, Milano)

Il suo splendore fu grande, attraversando secoli intensi e convulsi di storia, fino al Settecento, quando le truppe napoleoniche, nel quadro di una serie di soppressioni dei diritti civili e religiosi compiuti nel nome del “progresso e della libertà”, lo spogliarono della sua funzione iniziale tramutandolo in Caserma e ospedale militare.

Le piante antiche ci restituiscono l’aspetto originario del complesso monastico, che nella Pianta della città e borghi esterni di Bergamo dell‘architetto Giuseppe Manzini del 1816 è indicato come Caserma. Sono ben visibili, a sinistra del grande quadrilatero della vecchia Fiera, i due chiostri di S. Marta

Di lì, in un serrato processo di decadenza, durante il governo austriaco il convento si tramutò in deposito militare e verso la fine dell’Ottocento fu ridotto in parte nuovamente a Caserma e in parte ad albergo.

Luigi Bettinelli – L’assalto alla caserma di S. Marta nel 1848

 

Il complesso di S. Marta. Dietro il coro della chiesa, dopo la soppressione del convento era stato aperto l’albergo Cavour, che fu dismesso tra il 1886 e il  1890 per ampliare la caserma stanziata nei locali del complesso monastico (Racc. Gaffuri

 

Via Roma: l’albergo Cavour, ricavato nel coro della chiesa di S. Marta, poi occupato dal Palazzo della ex Banca Popolare di Bergamo, posto dietro la Torre dei Caduti

Negli anni della prima guerra mondiale, in cui la tanto deprecata tessera razionava il consumo dei viveri, il chiostro e gli edifici annessi ospitarono gli spacci municipali: l’Annona:

“Era grande il via vai faccendiero di chi si recava all’annona a fare provviste: si saliva un paio di bassi gradini prima di entrare sotto il porticato ad archi tondi che ne sosteneva un secondo. La superficie del cortile era a selciato e torno torno girava un basso parapetto. La calce che imbiancava le pareti lasciava scoperti punti dove l’antichità era meglio manifestata attraverso laceri affreschi, scoloriti e indecisi; e l’erba serpeggiava”.
(Domenico Magni)

Mercatino addossato all’esterno del convento di Santa Marta, ora Ubi Banca (Foto Cesare Villa)

Infine, il complesso venne sacrificato alla riqualificazione dell’area con la costruzione del Centro piacentiniano, e ciò a partire dal 1915, quando fu pietosamente abbattuta la chiesa e parzialmente demolito il monastero, ormai trasandato e deperito.

La demolizione della chiesa di S. Marta

Il chiostro, risparmiato alla furia del piccone venne  acquisito dalla  Banca Bergamasca di Depositi e Conti Correnti (poi intitolata alla Milano Assicurazioni ed infine alla Banca Popolare di Bergamo), che ne impedì il degrado attraverso il restauro compiuto nel 1926 dall’ing. Luigi Angelini, uno dei più autorevoli e fecondi professionisti bergamaschi della prima metà del XX secolo.

La Banca Bergamasca, oggi sede dell’Ubi Banca

Questi, dopo l’abbattimento di casa Caffi per l’apertura della radiale S. Marta-Rotonda dei Mille, con una trovata urbanistica geniale propose la sistemazione di un nuovo passaggio, creando la galleria che collega l’imbocco di via Crispi (lato Sentierone) con piazza Vittorio Veneto.

Casa Caffi, abbattuta nel 1922 per l’apertura della radiale S. Marta-Rotonda dei Mille, attuale via Crispi

Fu così risparmiato l’isolamento del luogo, schiudendo alla città il chiostro con la sequenza armoniosa delle arcate che si susseguono fra le logge quattrocentesche, ponendo fine alle molte polemiche legate a quella di facciata che era stata proposta da Piacentini.

Il chiostro di S. Marta e  la sede della Ubi Banca sullo sfondo. La disposizione di porticati a loggia sovrapposti, ricalca la semplicità delle sue prime proprietarie, che preferirono uno stile sobrio, semplice e lineare. L’inevitabile usura del tempo e degli agenti atmosferici ha richiesto un secondo intervento di restauro, terminato nel 1991, affidato all’architetto Sandro Angelini, figlio dell’ideatore del progetto della galleria

Con la sua bellezza e la raccolta intimità, il chiostro si fonde armoniosamente agli effetti di luce, ai chiaroscuri, alle simmetrie equilibrate create dalle piazze, dai porticati e dai passaggi circostanti, accrescendo il valore estetico e lo spessore storico nello spazio del centro progettato da Piacentini.

 

UN TUFFO NEL PASSATO

“Nel silenzio S. Marta è nata, nel silenzio, senza clamori,

sembrava essersi appassita per lunghi secoli,

nel silenzio, ancora, esprime oggi la sua dolce elegia,

con una delicatezza che potremmo definire congenita,

quasi a non voler turbare i nostri passi:

l’importante è sapere che c’è,

che le sue pietre respirano ancora,

come un magico cuore nel cuore della città…”.

(F. Carpinteri, Il chiostro oltre la grata)

Il complesso domenicano di S. Marta aveva visto la luce dopo l’avvento della Signoria viscontea, in un periodo in bilico tra le lotte intestine delle grandi casate dei ghibellini e dei guelfi che avevano cristallizzato lo sviluppo del centro direzionale (città alta, dove nei quartieri nobili si moltiplicavano torri e case fortificate) e il diffondersi della ricchezza in Italia, con lo sviluppo dei commerci, che a Bergamo vedeva fiorire l’attività mercantile e  prevalere il ceto borghese.

Nonostante i gravi conflitti che opprimevano la vita cittadina, la città bassa esprimeva una forte vitalità ed un progresso costante e la Fiera diveniva sempre più vivace e redditizia.

Su di una parete del chiostro di S. Marta compare affrescato Il Disegno dell’Insigne Fabrica della Fiera di Bergamo (1732- 1739), ricavato da un’incisione all’acquaforte di Gaetano Le Poer conservato presso la Biblioteca A. Mai di Bergamo, nella Raccolta Gaffuri

In questo clima, angustiato dalle lotte di fazione e segnato da una cruda e serrata competizione economica, molte persone trovavano nella quiete del chiostro una risposta all’angoscia della loro esistenza.

“Facciata della Chiesa e quartiere di S.ta Marta – dopo la riduzione del presente anno. Colta dal vero da N. Mangili il 24 novembre 1886 per….” (disegno a matita)

Lungo il corso del Trecento la città si costellava così di nuove sedi conventuali, che si affiancavano al discreto numero dei preesistenti conventi benedettini: gli Umiliati, già stanziati alla Magione (Masone) e a S. Bartolomeo, si insediarono a S. Tommaso; i Francescani, già stanziati al monastero di S. Francesco presso la Rocca, si insediarono alle Grazie, alla Rocchetta e a Rosate; i Domenicani, da tempo stanziati a S. Stefano al Fortino, si insediarono anche al Matris Domini, a Santa Marta e a Santa Lucia; gli Eremitani a Sant’Agostino; iDisciplini Bianchi alla Maddalena; i Celestini a Santo Spirito e in borgo Santa Caterina (1).

Fu in questo clima che nacquero la chiesa e il convento che le Suore Domenicane vollero dedicare a S. Marta, da sempre, con il fratello Lazzaro, la santa “ospedaliera” per eccellenza, per aver sperimentato la malattia suprema (la morte) e la guarigione (la resurrezione di Lazzaro), per via della loro opera di assistenza ai malati. E benchè non vi siano notizie certe, sembra che in epoca protocristiana la zona scelta fosse adibita ad ospedale (2).

Il monastero di S. Marta è dunque il terzo dell’Ordine domenicano a Bergamo, dopo quello maschile di S. Stefano del 1226 e quello femminile di S. Maria Matris Domini del 1273.

Possiamo osservarlo nella veduta prospettica di Alvise Cima, che fedelmente ci restituisce l’immagine della Bergamo medioevale, dove il convento sembra essere il perno attorno a cui ruotano tutte le vie che si diramano per raggiungere il cuore del borgo S. Leonardo.

Porzione della veduta prospettica di Alvise Cima, da Borgo S. Leonardo a S. Marta, compresi nella cerchia medioevale delle Muraine

Il monastero, fondato attorno al 1340, fu ampliato nel Quattrocento per poter ospitare fino a cinquanta consacrate domenicane, mentre la chiesa fu consacrata nel 1357.

Particolare della Contrada di Prato (attuale Piazza Matteotti) intorno al 1815 (Racc, Conte G, Piccinelli), con il Convento delle Suore Domenicane di S. Marta

Secondo le fonti, era composto da due grandi chiostri dai lunghi colonnati, di cui quello quadrato grande corrisponde a quello che vediamo oggi, reso rettangolare  dai restauri e dalle integrazioni compiute da Luigi Angelini negli anni Venti del Novecento.

Le trasformazioni subite dal complesso monastico sono illustrate in un affresco presente sulle pareti del chiostro.

“Come era il Convento di S. Marta in Bergamo”. Pianta e prospetto del complesso di S. Marta, con le trasformazioni avvenute nel tempo. L’affresco compare su una parete del chiostro

Vi era inoltre una vastissima ortaglia estesa dalle mura fino a all’ospedale di S. Antonio nel prato di Sant’Alessandro, con viti, alberi da frutto e varie altre coltivazioni, solcata da una seriola “che permetteva la presenza nei pressi di filatoi, tintorie e mulini” (3).

Particolare nella veduta di Alvise Cima, conservata presso il Museo Storico di Bergamo sito in Piazza Vecchia. Il complesso monastico di S. Marta è orientato ad est come qualsiasi sito di culto in Medioevo. Sono raffigurati i due chiostri, mentre la chiesa risulta priva del portichetto antistante l’ingresso, documentato nel 1720. La vasta ortaglia di pertinenza è attraversata da una seriola

La chiesa, che assunse la sua forma definitiva nel 1637, raccoglieva diverse reliquie provenienti anche dal complesso domenicano maschile di S. Stefano, (demolito per la costruzione delle mura veneziane), ed era ricca di paramenti e decori anche grazie alle facoltose famiglie delle religiose che provvedevano a sostenerne le spese o a fare ingenti donazioni (4).

L’interno della bella chiesa di S. Marta nell’Ottocento, nel periodo in cui era stata trasformata in caserma (per l’immagine: M. Mencaroni Zoppetti, cit. in bibliografia)

 

L’interno della chiesa di S. Marta nell’Ottocento, nel periodo in cui era stata trasformata in caserma (per l’immagine: M. Mencaroni Zoppetti, cit. in bibliografia)

Il porticato in fronte la facciata della chiesa le venne aggiunto nel 1672. Lo ritroviamo ancora in alcune fotografie risalente ai primi del Novecento, accanto al Boschetto di Santa Marta.

Primi del Novecento. Parte del complesso di S. Marta visto da piazza Cavour, con il portichetto antistante la chiesa. A destra, il boschetto di S. Marta (Bergamo nelle vecchie cartoline, D. Lucchetti)

Nel 1915, al momento della demolizione dell’ex monastero la Banca Bergamasca  provvide a recuperare e catalogare gli antichi affreschi della chiesa. Oggi, tre strappi sono esposti lungo le pareti dal Salone delle Capriate, nel Palazzo della Ragione in Piazza Vecchia, mentre i rimanenti sono conservati negli uffici e nel chiostro dell’Ubi Banca in Viale Roma.

Uno strappo di decorazione muraria di fine ‘300 presente sulle pareti del chiostro di S. Marta

 

PASSEGGIANDO FINO AL CHIOSTRO

La breve passeggiata che separa i portici di Piazza Vittorio Emanuele II dalla galleria è un’esperienza sensoriale che val la pena di essere vissuta. La piazza,  un’estensione naturale del Sentierone, riecheggia con la lunga sequenza dei suoi porticati le archeggiature settecentesche della demolita Fiera, affacciata su quello che un tempo era chiamato Prato di Sant’Alessandro.

Accanto all’imbocco della galleria noterete l’ingresso della Banca Popolare, ora Ubi Banca, che invita ad ammirare i vasti interni illuminati da ampie vetrate decorate. Ad oggi resta una tra le più rappresentative, ospitando pregevoli opere di artisti bergamaschi dell’800 e del ‘900, oltre a significativi lavori di artisti moderni contemporanei.

Il nuovo salone della ex Banca Popolare di Bergamo, ampliato ad opera dell’ingegnere ed architetto Luigi Angelini, fu aperto nel dicembre del 1923. All’interno della Sede si può ammirare un particolare spazio dedicato, una sorta di museo itinerante dove vengono sapientemente collocati a rotazione alcuni fra i più importanti capolavori artistici di proprietà della Banca

Le emozioni che vi attendono, sono anticipate da un caleidoscopio di impressioni suscitate dall’ariosa ed elegante galleria, impreziosita da marmi lucenti e da ampi lucernari, che sprigionano una luce calda gradevole e avvolgente.

La galleria di Santa Marta

 

Un lucernario nella galleria

A poco a poco vi si svelerà l’ingresso appartato del chiostro, che vi trasmetterà la sensazione di trovarvi in un luogo dove il tempo si è fermato; la Banca Popolare lo rende accessibile gratuitamente ogni prima domenica del mese, mettendo a disposizione anche una guida per una visita della durata di 15 minuti.

Uno dei tanti allestimenti artistici temporanei ospitati nel chiostro di S. Marta

E’ un’occasione per ammirare le antiche testimonianze storiche, artistiche e culturali custodite sulle pareti, così come le installazioni permanenti che dall’incontro con questo luogo risultano pienamente valorizzate: il “Grande Cardinale seduto” (1984) di Giacomo Manzù  (tema sviluppato dallo scultore in oltre 300 rappresentazioni), “Le Suore che comunicano” (1971) di Elia Ajolfi (gia’ docente di scultura alla Carrara), e il curioso monolite di granito nero “Untitled” o “Parabola” (2004) dell’artista anglo-indiano Anish Kapoor, dove il contemporaneo rispecchia e fa rilucere l’antico.

Le installazioni permanenti realizzate per il chiostro da Giacomo Manzù, Elia Ajolfi e Anish Kapoor. Con l’essenzialità della sua forma, il monolite (“Parabola”), grande conca specchiante, si inserisce armoniosamente nel sobrio spazio quattrocentesco riflettendo i colonnati e restituendone al visitatore, affascinato dai bagliori che produce, l’immagine capovolta

 

Il gruppo de “Le suore che comunicano”, rievoca un momento della antica vita quotidiana delle monache nel Convento. Sullo sfondo, l’opera di Manzù

Qualsiasi momento della giornata val bene una sosta, in questo piccolo angolo segreto che sembra voler invitare a non dimenticare il proprio passato: anche la sera, quando è totalmente immerso nel silenzio e nell’atmosfera irreale delle sue luci soffuse.

Note

(1) A. Fumagalli, Op. Cit.

(2) F. Carpinteri, Op. Cit.

(3) T. Rossi, Op. Cit.

(4) T. Rossi, Op. Cit.

Fonti

Alberto Fumagalli, “Bergamo. Origini e vicende storiche del centro antico”. Rusconi, 1981, Milano.

Tosca Rossi, “A volo d’uccello – Bergamo nelle vedute di Alvise Cima – Analisi della rappresentazione della città trà XVI e XVIII secolo”, Litostampa, Bergamo, 2012.

Francesco Carpinteri, “Il chiostro oltre la grata”. Qui a Bergamo: mensile della città, Anno 1, n. 6.

Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

Il Santuario di Sombreno e i nuovi affreschi tornati alla luce

Collocato in posizione dominante sull’estremo sperone occidentale dei colli di Bergamo, il Santuario di Sombreno (m. 329 s.l.m.) costituisce una presenza emblematica non solo dal punto di vista religioso, storico e culturale ma anche paesaggistico, con l’altissimo campanile che funge da essenziale perno visivo nel Parco dei Colli e rende il profilo del Santuario facilmente riconoscibile da lontano.

Il Santuario di Sombreno nel 1922. Il campanile e il Santuario sono stati evidenziati nel rilievo del territorio di Bergamo eseguito nel 1569 dal cartografo veronese Cristoforo Sorte per incarico della Magnifica Comunità di Bergamo

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini 

COME RAGGIUNGERE IL SANTUARIO

Il collegamento veicolare verso il Santuario avviene mediante una carrozzabile (via Castellina, realizzata grazie all’intervento del Genio Zappatori nel 1936), che dal paese si avvia con stretti tornanti verso un ampio piazzale in terra battuta, posto all’ombra di maestose querce.

Ma vi è un percorso ideale e dal sapore agreste, immerso nella quiete della gradinata alle spalle di Villa Agliardi, che conduce dolcemente alla vetta.

La pendice meridionale del colle di Sombreno, con vista sulla torretta seicentesca. Il versante è completamente ripulito dalle sterpaglie che lo soffocavano

La bellezza di questo antico e soleggiato percorso rappresenta la miglior prospettiva per gustare i più mirabili scorci sulla Val Breno e su Villa Pesenti-Agliardi, che con l’annesso parco costituisce una delle mete privilegiate di questi luoghi.

Dalle pendici del colle, Villa Agliardi immersa nelle prime coloriture autunnali

L’ascesa invita alla contemplazione e alla meditazione, scandita dalle sette cappellette devozionali dei misteri dolorosi di Maria presenti dal 1920 e più recentemente affrescate da artisti locali.

La sinuosa e comoda via gradinata acciottolata, un invito alla contemplazione e al raccoglimento

 

La torre seicentesca del Lazzaretto, parte del sistema difensivo del castello

 

Alle spalle della cappelletta devozionale, il paesaggio sulla Val Breno sino alle propaggini collinari di Mozzo ed oltre

Al termine della salita, solo un ultimo breve tratto separa il visitatore dal portale d’accesso, sormontato da una lunetta in stucco raffigurante il Padre Eterno benedicente.

Il portale  d’accesso al Santuario, sormontato da una lunetta con il Padre Eterno benedicente (Ph Maurizio Scalvini)

Dal Santuario, eretto su un terrapieno in pietra squadrata adagiato sul poggio dominante la Val Breno, la vista gode di un vasto panorama che spazia dal Canto Alto e dall’Ubione alle cime della Roncola, del Linzone e dell’Albenza e della Val San Martino.

La veduta verso oriente, dal porticato antistante la cappella dell’Addolorata

Non appena varcato l’accesso, si incontra dapprima il piccolo Santuario dedicato alla Madonna Addolorata – la struttura da cui ha avuto origine il complesso sacro -, che sul quattro e Cinquecento venne affiancato ad una chiesa più grande, quella della Natività di Maria Santissima, in grado di contenere un maggior numero di fedeli.

Ad ovest del complesso sorge la chiesa dedicata alla Natività di Maria Santissima, accostata dal 1493 alla cappella dell’Addolorata. Le due costruzioni sono legate armonicamente tra loro da un portico ad archi ribassati sostenuto da colonne binate in arenaria, realizzato agli inizi del Settecento, mentre il portico antistante la chiesetta, più recente, risale al 1832 (Ph Maurizio Scalvini)

La chiesetta dell’Addolorata era in origine l’antica cappella del castello di Breno (una fortificazione che, come accennato qui, fungeva da avamposto del sistema difensivo organizzato sul crinale del colle fino a San Vigilio (1)) e, secondo il Fornoni, fu  la prima ad ottenere il battistero divenendo parrocchia anche per le vicinie di Paladina e Ossanesga, fino alla metà del XVI secolo (2).

La troviamo nominata per la prima volta in un atto del 1093 come antica cappella battesimale di Santa Maria di Breno, benchè si pensi che le sue origini siano assai più antiche.

La cappella dell’Addolorata (Ph Maurizio Scalvini)

La chiesa – passata dal 1267 alla Chiesa di Bergamo – si può considerare ancora abbastanza primitiva, anche se è piuttosto difficile stabilire quanto conservi, o ricalchi nei suoi andamenti, della preesistente fortificazione.

Cronologia costruttiva della cappella dell’Addolorata e della chiesa della Natività di Maria Santissima. In corrispondenza della cappella si nota la presenza di murature risalenti al XII secolo, un residuo dell’antica struttura (P. GRITTI, 1989)

L’impianto attuale è trecentesco, con massicci interventi effettuati in stile barocco agli inizi del Settecento. Gli intonaci mostrano tracce di primitivi affreschi.

A destra, uno dei primitivi affreschi (Ph Maurizio Scalvini)

 

Particolare di un affresco (Ph Maurizio Scalvini)

LA CHIESA MAGGIORE

La chiesa maggiore, nota anche per l’osso di cetaceo appeso al soffitto e recentemente analizzato, è stata edificata negli anni tra il 1493 e il 1570 ma l’interno è stato profondamente rinnovato a partire dal 1613 in seguito alla visita pastorale del vescovo Emo.

L’edificio è sorto in seguito ad una supplica inviata dagli uomini e dai vicini di Breno ai Rettori della città di Bergamo, considerata ormai inadeguata l’antica cappella del castello per accogliere il popolo che vi confluiva.

Gettate le fondazioni e i pilastri della “tribuna” con materiale ottenuto dalle demolizioni di quanto rimaneva del vecchio e ormai inservibile castello (3), si attese il benestare dei Rettori (il Podestà di Bergamo Francesco Mocenigo e il Capitano Matteo Lauredano), che il 14 agosto del 1493 concessero l’autorizzazione a procedere, secondo dettagliate indicazioni ed invitando  ad osservare la massima economia possibile (la chiesa fu infatti costruita con l’oblazione e le elemosine di tutta la diocesi bergamasca).

Paliotto in cuoio dell’altare maggiore raffigurante la Natività di Maria

La costruzione della chiesa prende avvio nel 1494 sotto la guida del Presbitero Gasparino de Nervis (che resse la parrocchia negli anni 1494-1533) (4), con il quale si procede ad affrescare le pareti con immagini di tipo votivo (che vedremo in un secondo momento). Ma a causa della grande povertà che affligge la maggioranza della popolazione, la chiesa (e con essa il campanile) verrà terminata soltanto verso il 1570 sotto la guida del parroco Jo. Battista de Solario, che la governa dal 1534 al 1586 ossia per ben 53 anni. Altre opere di completamento e di sistemazione del Santuario inizieranno nel 1710, protraendosi sino ai primi decenni del Novecento.

La chiesa dedicata alla Natività di Maria Santissima, edificata dal 1493 al 1570 (Ph Maurizio Scalvini)

 

Il campanile fu innalzato fra il 1561 e il 1569, quando vi venne posta la campana acquistata con l’offerta dei devoti di Sombreno. Esso fu posto fra le due chiese per economia e comodità. Infatti unita alla chiesetta vi era la casa del Parroco, divenuta dal Quattrocento abitazione dei Romiti, che potevano facilmente raggiungere il campanile e controllare simultaneamente le due chiese. Al 1878- 1879 risale il rifacimento della cuspide  nonché l’installazione della statua in rame dell’Immacolata. L’orologio vi fu collocato nel 1925 (Ph Maurizio Scalvini)

La forma, le dimensioni, la struttura portante e il tipo di copertura dell’attuale “chiesa grande”, rispecchiano le indicazioni allegate all’autorizzazione del 1493: una sola navata con due archi ogivali trasversali che la dividono in tre campate, sulle quali sono posti travetti in legno e piastrelle in cotto.

Inoltre, l’altare maggiore, posto in asse centrale e a base quadrata, e due altari posti sui fronti laterali del presbiterio: l’Altare di S. Rocco e quello di S. Caterina.

Ai tempi della visita pastorale del vescovo S. Carlo Borromeo (1575), la chiesa risulta ampia (lunga passi 32 e larga 13) e con quattro altari: il maggiore, S. Rocco, S. Caterina e quello, costruito recentemente dal parroco Solario, della Madonna di Loreto.

Dagli atti della visita di S. Carlo emerge la sensazione di un certo abbandono delle due chiese sul monte, forse dovuto al fatto che, con l’avvento del Solario, nonostante la chiesa di S. Maria non avesse cessato di essere la parrocchiale, la cura d’anime cominciava a esercitarsi nella chiesa dei SS. Fermo e Rustico, dove si conservava il SS. Sacramento, si trovavano gli olii Santi e le solite funzioni parrocchiali, e dove fu trasferito anche il fonte battesimale (Rota).

Borromeo ordina quindi la modifica dell’altare maggiore nella forma richiesta dalle nuove disposizioni, l’eliminazione dell’altare di S. Maria di Loreto, e la modifica degli altari e delle cappelle.

Veduta del presbiterio e degli altari laterali della Chiesa Nuova, con gli stucchi e i quadri seicenteschi. Il presbiterio è stato alzato agli inizi del Seicento, quando la volta a botte ha sostituito l’originaria volta a crociera e si è aperta la finestra ad arco di tipo palladiano

La vecchia chiesetta di S. Maria,  piccola e con un unico altare, necessitava invece della riparazione delle volte e della modifica dell’altare secondo le nuove disposizioni.

Dopo il 1575 l’altare della chiesa dell’Addolorata viene modificato secondo le disposizioni di S. Carlo Borromeo, con ai lati pilastri in pietra arenaria di finissima fattura. La copertura era lignea. La volta attuale così come l’altare in marmo nero risalgono al 1710, quando vi vennero collocati i quadri dei dolori di Maria. Le decorazioni interne sono ottocentesche e l’affresco della Madonna dei Servi di Maria è del 1853, anno cui si fa risalire l’acquisizione dei due quadri di Francesco Vigna esposti alle pareti

Nel frattempo, intorno al 1563, Solario aveva fatto realizzare il gruppo ligneo della Madonna con Cristo morto, l’opera più importante conservata all’interno della chiesetta.

Il gruppo scultoreo dell’Addolorata (Anonimo, sec. XVI), la più importante opera artistica conservata nella chiesetta (Ph Maurizio Scalvini)

La statua veniva coperta con un drappo sul quale è raffigurata la Madonna con il Cristo Morto, pregevole opera di pittore anonimo del XVI secolo, purtroppo, e per mancanza di spazio, conservata nella sagrestia vecchia.

Velario dell’altare della Madonna dell’Addolorata (Anonimo, XVI secolo). il drappo veniva sollevato in occasione delle cosiddette “Scoperte”

 

Dettaglio del velario dell’altare della Madonna dell’Addolorata (Anonimo, XVI secolo)

Nel suo testamento (1591) il Solario lascia alla Chiesa di S. Maria posta sopra il monte di Breno, beni immobili e denari per l’ampliamento della sagrestia e concorda di essere sepolto in detta chiesa. Il sepolcro, in lastre di marmo di Zandobbio, è posto nel pavimento, in centro, subito dopo i gradini del presbiterio.

La statua della Madonna Addolorata, spostata momentaneamente all’interno della chiesa dedicata alla Natività di Maria Santissima

Le opere di ampliamento della sagrestia si realizzano alla fine del Cinquecento, periodo in cui si posa anche il pregevole lavabo in marmo (1599), tuttora esistente.

Lavabo in marmo della sagrestia (1599)

 

Dettaglio del lavabo in marmo della sagrestia (1599); lo stemma, con strumento musicale, potrebbe riferirsi alla famiglia Violini, bresciana

La Confraternita del SS. Nome di Gesù ottiene, il 4 aprile 1604, dal Papa Clemente VIII e su richiesta del “diletto Maffeo Pesenti”, la concessione di indulgenze alla chiesa della Madonna e alla sua Confraternita.

Come detto, in seguito alla visita pastorale compiuta il 27 aprile 1613 dal vescovo di Bergamo Giovanni Emo, il Santuario della Natività verrà sottoposto ad un profondo rinnovamento strutturale (tra cui figura l’erezione della cappella intitolata alla Madonna del Rosario).

Il 22 Aprile  del 2019, giorno di Pasquetta, il Santuario della Natività della Santa Vergine accoglieva la prima Santa Messa dopo gli otto mesi di chiusura richiesti dai lavori di restauro: un momento commovente che ha scritto un frammento di storia di questo luogo. L’atmosfera è resa ancor più solenne e suggestiva dalla celebrazione della Messa in latino con Rito Romano: i riti vengono officiati sull’altare volgendo le spalle ai fedeli

GLI AFFRESCHI DELLA CHIESA NUOVA 

Costruita la nuova chiesa, per intercedere grazie e protezioni o per ringraziamento i devoti fanno affrescare le pareti con immagini di tipo votivo che ripetono la figura della Madonna cui la chiesa è dedicata. Nel  corso del Seicento tali affreschi verranno ricoperti  dagli stucchi e dai quadri visibili attualmente.

La piana di Sombreno e il suo Santuario

Sono noti quelli collocati sopra gli altari posti a lato del fronte del presbiterio (altare di S. Rocco e altare di S. Caterina), poi ricoperti dalle pale del Genovesino. Mentre è solo dal 1962 che in occasione dei recenti restauri si è venuti a conoscenza di alcuni affreschi di fine Quattrocento nell’area del presbiterio, proprio laddove oggi sono emerse nuove scoperte che stanno riscrivendo importanti capitoli della storia artistica e comunitaria del Santuario sul monte.

Al centro dell’altare maggiore (d) vi era inoltre un polittico cinquecentesco suddiviso in nove comparti, poi disperso e sostituito pala dello Zanchi.

Disegno del presbiterio della Chiesa Nuova nel XVI secolo. Sulla parete dell’altare di S. Rocco (a) vi è un affresco del  XV secolo, sovrapposto da un altro della metà del XVI secolo. La parete dell’altare di S. Caterina (b) presenta invece l’affresco della “Madonna allattante” di Andrea Previtali. Ai lati e al centro del presbiterio, sulle pareti, tracce di affreschi della fine del XV sec. e XVI sec. Al centro, il polittico, poi disperso e sostituito dalla pala dello Zanchi (GRITTI, 1990)

 

L’altare maggiore e i due altari laterali dopo i recenti lavori di restauro. L’Altare di S. Rocco (a sinistra) e l’Altare di S. Caterina (a destra). Al centro dell’altare maggiore, la pala dello Zanchi

L’affresco della “Madonna allattante” (1524 ca.) presente sul lato destro del fronte del presbiterio, in corrispondenza dell’altare di S. Caterina, è stato attribuito ad Andrea Previtali, che l’ha eseguito nel periodo in cui risentì maggiormente l’influenza di Lorenzo Lotto (5).

L’affresco della “Madonna allattante“attribuito ad Andrea Previtali, mutilo delle teste della Madonna e di S. Lucia (asportati con uno strappo). La posizione del Bambino con le gambe accavallate è simile al quadro della “Madonna del latte” dell’Accademia Carrara; il ritratto del frate offerente è, per semplicità umana e rappresentazione realistica, paragonabile ai migliori ritratti presenti nelle opere del Previtali; l’occhio che si apre nel palmo della mano di S. Lucia è un elemento surrealistico, il cui esempio si ritrova nel simbolo della “Creazione” nelle tarsie del Lotto in Santa Maria Maggiore. Gli altri elementi tipici del Previtali sono la compostezza della composizione, l’eleganza e il fine accostamento dei colori dei vestiti (GRITTI, 1990)

Sulla parete che sovrasta l’Altare di S. Rocco, la tela del Genovesino nasconde  l’affresco della Madonna in trono con Angeli (sovrapposto ad affreschi più antichi), attribuibile ad un anonimo seguace del Lotto. L’esecuzione si può far risalire a poco prima della metà del XVI secolo. Nella rappresentazione vi sono elementi (l’atteggiamento della Madonna con la mano tesa in avanti – forse verso S. Rocco – il Bambino con la mano benedicente alzata e il panneggio verde con fondo di cielo sorretto dagli angeli) ripresi nelle opere del Lotto, dalle Madonne in trono della Chiesa di S. Bernardino e S. Spirito in Bergamo.

Altare di S. Rocco, sovrapposto a due antichi affreschi (anonimi, fine XV e metà XVI sec.), ve n’è un altro eseguito poco prima della metà del ‘500. Si intravede il volto della Madonna in trono, la mano del Bambino, che è stato asportato, e il panneggio verde del fondo sorretto da due angeli

La realizzazione di un nuovo affresco sopra quelli eseguiti pochi decenni prima si giustifica con la necessità di creare un maggiore equilibrio degli altari sul fronte del presbiterio e di rivaleggiare con un’opera di influenza lottesca con quello “che oggi ci giunge come il più godibile affresco del Previtali”.

IL (DISPERSO) POLITTICO AL CENTRO DELL’ALTARE MAGGIORE, IN VIA DI PARZIALE RICOMPOSIZIONE?

Al centro dell’altare maggiore, al posto della attuale pala della Natività di Antonio Zanchi (eseguita nel 1671) vi era un polittico formato da nove comparti e di cui tre (Madonna con Bambino e i Santi Fermo e Rustico) firmati Giovanni De Vecchi detto Galizzi nel 1543, mentre la cimasa con il Padre Eterno benedicente, non firmata, è attribuita al medesimo pittore.

Dagli atti della visita pastorale del Vescovo Ruzzini dell’8 luglio 1701, risulta che  tre quadri del Galizzi si trovavano nel coro della chiesa dei SS. Fermo e Rustico (GRITTI, 1990): oggi, il pannello con il Padre Eterno benedicente è conservato nella Parrocchiale, quello della Madonna con Bambino dai conti Agliardi, mentre quelli di Fermo e Rustico sono in Accademia Carrara, già dei coniugi Asperti di Boccaleone.

Tavole del polittico esistente sull’altare maggiore nella chiesa di S. Maria prima della pala dello Zanchi; le tre tavole centrali sono firmate “ID.XXXXIII/IOANES DE GALIZIS BGMESIS” (1543). Sono raffigurati, al centro, la Madonna col Bambino e ai lati i Santi Fermo e Rustico. La cimasa con il Padre Eterno benedicente è stata comunque attribuita allo stesso pittore (GRITTI, 1990)

Secondo notizie emerse, si è ventilata l’intenzione di recuperare almeno quattro delle tavole originali del polittico, per poterlo parzialmente ricomporre e posizionare sulla parete di sinistra.

I NUOVI AFFRESCHI VENUTI ALLA LUCE

In occasione dell’apertura straordinaria del Santuario, tenutasi il 10 novembre 2019, il reporter Maurizio Scalvini ci ha offerto un’anteprima assoluta degli affreschi e delle strutture emerse grazie ai recenti lavori di ricognizione e restauro conservativo che ha interessato tutta la struttura interna della chiesa, compresi i pregevoli stucchi che decorano le pareti.

Mentre si era a conoscenza dell’esistenza degli affreschi della Madonna del Cardellino e della Madonna della Pera, si ignorava totalmente l’esistenza dell’affresco Moroni, posto sulla parete destra accanto all’ingresso, e di quello della vasta Crocifissione, collocato al centro dell’altare maggiore sotto la pala dello Zanchi:  una sorpresa assoluta, che ci consente oggi di fruire della loro bellezza e raffinatezza.

Pannello illustrativo degli interventi di restauro, disegnato dell’Architetto Guido Roche (direttore dei lavori) ed elaborato da Maurizio Scalvini. Lo schema è riferito al lato destro del Santuario e al presbiterio (posto a sinistra del disegno). Da destra a sinistra: appena superato l’ingresso, nell’area del confessionale è posto l’affresco Moroni. Gli ovali indicano rispettivamente la posizione della Madonna del Cardellino, della Madonna Della Pera ed infine della colonna sulla quale è affrescata un’altra Madonna

 

Schema del presbiterio della Chiesa Nuova. L’affresco della Crocefissione emerso al centro dell’altare maggiore, sotto la pala dello Zanchi (Elaborazione di Maurizio Scalvini da GRITTI, 1990) 

All’ingresso del Santuario, sulla parete destra è emerso l’affresco Moroni, datato 1580, il meglio conservato rispetto a tutti quelli scoperti durante i lavori e che ora possiamo ammirare grazie al sapiente restauro.

Affresco Moroni nel corso del restauro

 

Affresco Moroni dopo il restauro

A destra della Madonna si individua con certezza San Rocco, mentre le vesti della figura sinistra riprendono quelle di un santo del citato polittico, quindi San Fermo o San Rustico, ritratti solitamente accoppiati e senza tratti distinguibili.

Affresco Moroni

Un cartiglio reca il nome del committente e la data d’esecuzione (15 Maggio 1580), riportati in calce a piè dell’affresco.

Affresco Moroni (Particolare). Il bellissimo volto sorridente della Madonna

Proseguendo sulla parete di destra, accanto alla porta che immette nella sagrestia è stato portato alla luce l’affresco della “Madonna col Cardellino“,  tenuto in mano dal Bambinello.

Madonna del Cardellino, da poco rinvenuta e compromessa a causa dello stipite di una porta e di un altoparlante

 

Madonna del Cardellino dopo i restauri

Immediatamente a lato, nell’angolo con l’altare di Santa Caterina è stata riportata in luce la cosiddetta “Madonna della Pera“; ora completamente svelata, tiene nella mano destra il frutto.

Madonna della Pera, scoperta grazie al rinvenimento di tracce di colore

 

Madonna della pera dopo i restauri: raffigurazione curiosa e molto rara

Nel presbiterio, di fianco all’Adorazione dei Magi è venuta alla luce una colonna decorata, dove sono presenti una Madonna con Bambino molto rovinati. Si è così scoperto che in corrispondenza dell’Adorazione dei Magi, sotto un muro posticcio vi è una nicchia entro la quale proseguono le decorazioni presenti sulla colonna.

Grazie ad un sondaggio eseguito sulla parete di destra del presbiterio, è emersa una colonna con affrescata una Madonna con Bambino

 

In altro nell’immagine, il ritrovamento di una porzione del capitello quattrocentesco che sovrasta la colonna affrescata

 

Dettaglio della Madonna con Bambino affrescati sulla colonna del presbiterio, dopo i restauri

E, sorpresa, al centro dell’altare maggiore, dietro la pala dello Zanchi è venuta alla luce una Crocefissione di straordinaria bellezza e dalle dimensioni considerevoli!

Affresco della Crocefissione, riaffiorata da dietro la pala posta al centro dell’altare maggiore

Nonostante l’antichità dell’affresco, sorprendentemente i colori hanno mantenuto la loro vivacità.

Affresco della Crocefissione, al centro dell’altare maggiore, durante i restauri

 

Affresco della Crocefissione, durante i restauri – Dettaglio

 

Particolare dell’Angelo, nell’affresco della Crocefissione – Dettaglio

 

La stupenda Crocefissione dopo i restauri

 

La Crocefissione dopo i restauri – Dettaglio

Infine, fra la serie delle Madonne emerse dall’area presbiteriale – tutte databili intorno alla fine del ‘400 – è emersa, ai piedi della Crocefissione e a sinistra, una delicatissima ed inaspettata Madonna del Latte, che sorregge il Bimbo con una fascia ricamata.

Madonna del Latte

Gli affreschi sono oggi visibili grazie alle cerniere mobili che permettono agli addetti di scostare agevolmente gli antistanti supporti dei dipinti su tela.

IL PROFONDO RINNOVAMENTO STRUTTURALE DEL SEICENTO: DAGLI AFFRESCHI ALLE GRANDI TELE  

In seguito alla visita pastorale compiuta il 27 aprile 1613 dal vescovo di Bergamo Giovanni Emo, il Santuario della Natività viene sottoposto ad un profondo rinnovamento strutturale, dettato da una serie di decreti improntati al rispetto del rigore della riforma tridentina.

Tra questi, per evitare scandalo al popolo o sconvenienza per luogo sacro, veniva ripresa la prescrizione di chiedere licenza scritta al Vescovo per collocare immagini sacre nelle chiese.

Nell’ultimo scorcio del Cinquecento infatti, aveva avuto inizio quel fervore di attività per arricchire di stucchi e decorazioni gli spazi nudi o affrescati delle nostre chiese. L’esempio più importante partiva dalla Basilica di Santa Maria Maggiore dove la MIA incaricava l’ing. milanese Martino Bassi di redigere un progetto di rinnovamento dello spazio interno con inizio dalla Cappella votiva della città.
Altre chiese si adeguano a questo nuovo modo di trattare le superfici interne, come la Matris Domini e la chiesa della Madonna dei Campi a Stezzano e lo stesso gusto viene seguito nella sistemazione dei palazzi privati.

 La visita del vescovo di Bergamo ci tramanda interessanti notizie sull’aspetto del luogo di culto al principio del Seicento:

«Alla Madonna di Sombreno vedendo noi lì tante pitture vi si sono fatte et fanno della Gloriosa Vergine, rappresentando però il medesimo Misterio, che non servono a devozione né a ornamento, intendendo noi di volerle levare a suo tempo ed occasione di qualche più durevole ornamento à mag. divvozione di nostra Signora della chiesa dedicata a Lei, fratanto commando che all’avenire non si faccia pittura alcuna senza noi si esprima licenzia ottenuta in scritto».

Veduta del presbiterio e dei tre altari originari, coperti dagli stucchi e dai quadri nel Seicento, rispecchianti il nuovo modo di trattare le superfici interne improntato al rispetto e al rigore della Riforma tridentina. Sul fronte del presbiterio le tele del Genovesino hanno sostituito gli affreschi votivi, mentre la volta è affrescata da Pietro Baschenis nel 1623

Anche la chiesa nuova di Sombreno nella sua opera di rinnovamento si conforma ai modelli citati affidando gli stucchi barocchi ai fratelli Gerolamo e Gio B. Porta (già esecutori con il padre delle decorazioni di S. Maria Maggiore),  e il ciclo di affreschi delle Storie della Vergine (1623) nella volta del presbiterio, a Pietro Baschenis.
Essi si firmano nel primo gradino della presentazione al tempio “PETR. BASCHENES PINXIT IERONIMO BATTISTA PORTA STUAVIT”.

In questo periodo si presume sia stato alzato il presbiterio con la formazione della volta a botte, in sostituzione della crociera, e aperta la finestra ad arco di tipo palladiano.

Volta del presbiterio con le decorazioni a stucco e gli affreschi seicenteschi di Pietro Baschenis. A destra Affresco dell’Annunciazione, a sinistra quello della Visitazione. Francesca Cortesi Bosco mette in evidenza le ripetizioni di modelli espressi nella pittura di Enea Salmeggia e gli spunti presi dal Cavagna

Sono da attribuire ai fratelli Porta anche la figura del Padre Eterno con le decorazioni a stucco sopra il portale d’ingresso al Santuario.

Il Padre Eterno benedicente sul portale d’accesso al Santuario (G. Porta)

Come anticipato, nelle cornici a stucco degli altari sul fronte del presbiterio furono collocati nel 1626 i quadri di Bartolomeo Roverio detto il Genovesino: a destra la tela di S. Lucia e S. Caterina a conferma della titolare dell’altare; all’altare di sinistra invece in luogo di S. Rocco, compaiono S. Francesco e S. Bonaventura con il Salvatore.

Il Salvatore tra S. Bonaventura e S. Francesco nell’altare di N.S. Gesù (ex S. Rocco), S. Lucia e S. Caterina nell’altare dedicato a S. Caterina (Genovesino) (GRITTI, 1990)

La famiglia Pesenti dona i quadri posti sopra il cornicione a nord rappresentanti la circoncisione di Gesù e la presentazione al tempio con in basso lo stemma Pesenti e la scritta ex-voto Petro Mariae, aequitis de Pesentibus anno MDCXXXIV e si fa promotrice, a partire dal 1620, della costruzione del nuovo altare del Rosario, aperto nella parete sud, nel corpo centrale.

Stemma della famiglia Pesenti. Con il lascito di 600 scudi da parte di Santino Pesenti dopo la morte della figlia Caterina, il finanziamento per la costruzione dell’altare del Rosario proseguì con Ippolita Corna Pesenti, nel 1630 (che, ammalata di peste lasciò la sua dote alla chiesa) e si concretizzò con il fratello e fabbricere della chiesa Pietro Corna che affidò l’incarico a Carlo Ceresa di eseguire le pitture (GRITTI, 1990)

Nelle chiese di culto mariano nel Seicento si espresse e si diffuse in molte parrocchie sotto l’episcopato del Barbarigo la devozione della Madonna del Rosario e dei Santi domenicani che l’avevano promossa. La formazione della Confraternita della Madonna del Rosario di Sombreno avvenne nel 1631 e secondo il parroco Quarenghi è da considerarsi la più antica della zona.

L’Altare della Madonna del Rosario, con i dipinti eseguiti da Carlo Ceresa e commissionati dalla famiglia Pesenti tra il 1620 e il 1649. I piccoli dipinti rappresentano i quindici Misteri del Rosario. Il Santuario di Sombreno è l’edificio sacro contenente il maggio numero di opere del Ceresa (venti in totale)

Nel 1645, appena eseguiti gli stucchi, si collocano i quindici Misteri del Rosario eseguiti da Carlo Ceresa  (su incarico del fabbricere Pietro Corna) e nel 1646 i due quadri laterali rappresentanti l’uno i Santi Nicola da Tolentino e Antonio da Padova, l’altro i Santi Rocco e Sebastiano (che ripropongono i Santi rappresentati negli antichi affreschi dell’altare omonimo).

Solo nel 1649 viene collocata la pala dell’altare della Madonna del Rosario raffigurante la Madonna con il Bambino in gloria con S. Pietro e S. Caterina d’Alessandria (a ricordo di Pietro Corna mentre la figura della Santa è forse il ritratto di Caterina Pesenti) e S. Domenico.

Dettaglio della pala della Madonna del Rosario con S. Caterina, S. Pietro e S. Domenico, e dei quindici Misteri del Rosario dipinti da Carlo Ceresa.  Scrive Luisa Vertova “che nella tela di Sombreno la Vergine ha la fiorente robustezza delle Madonne delle pale di Bergamo e di Nese e il Ceresa tenta di Conciliarvi la monumentalità della pala di altare con la intimità della Sacra Conversazione, anzi del gruppo di famiglia”

La famiglia Pesenti, offerente, fa apporre lo stemma dell’aquila con sormontata la stadera, alle tele dell’Annunciazione eseguite da Carlo Ceresa nel 1660, poste ai lati dell’arcone del presbiterio (tele già menzionate e descritte da Angelo Pinetti nel 1931).

La “Vergine annunciata“, una delle due grandi tele della “Annunciazione” eseguite da Carlo Ceresa, collocate sopra l’altare entro riquadrature di stucco poste ai lati dell’arco di accesso al presbiterio. Secondo lo storico Gabriele Medolago, Pietro Maria Pesenti  avrebbe commissionato l’Annunciazione forse a seguito di una grazie ricevuta. La somiglianza della “Vergine annunciata” con l'”Angelo annunciante” appare piuttosto marcata: potrebbe trattarsi della moglie Caterina – le cui fattezze ricorsero talvolta nelle Vergini del Ceresa – e, nel caso dell’Angelo, di uno dei figlioli morti in tenera età, il cui ricordo si trasferì sovente nei suoi angioletti (Ph Maurizio Scalvini)

 

L’ “Angelo annunciante” e la “Vergine annunciata” esposti al pubblico (giugno 2010) in occasione del restauro, nella navata del Santuario della Natività di S. Maria a Sombreno.  L’Angelo, dai caratteristici tratti ceresiani, è ricoperto da un candido abito bianco che dà vita a quella che Giovanni Testori definiva una «poesia concreta, familiare, alpigiana, polentesca, cascinesca, catechistica, rosariante, castagnosa, lattea, formaggesca» (Ph Maurizio Scalvini)

 

Particolare dello stemma araldico della famiglia Pesenti sulla tela dell’Angelo annunciante, con l’iscrizione indicante la commissione dei dipinti

Nel 1672, Francesco Carminati (6) versa una cospicua somma per l’acquisto della nuova pala dell’altare maggiore eseguita dal pittore veneziano Antonio Zanchi e per la realizzazione della nuova ancona a stucco affidata allo scultore luganese Giovanni Angelo Sala, artisti che già avevano lavorato per la MIA in S. Maria Maggiore.

Pala dell’altare maggiore rappresentante la Natività di Antonio Zanchi eseguita nel 1671. La tela cela l’affresco quattrocentesco della Crocifissione, visibile scostando il grande dipinto

Pietro Zampetti a proposito della pala di Sombreno scrive: …”E’ opera dello Zanchi tutta giustapposizioni e bilanciamenti, ricchi piegamenti di panni e solidi colori a rilievo. Alla base della sapiente piramide costruttiva, le splendide figure delle due giovani fantesche…sono un richiamo alle importazioni caravaggesche raccolte dal gruppo dei riformati…”.

Lo stemma della famiglia Carminati (carro), offerente dell’altare dei Morti e della pala dello Zanchi. Lo stemma dei Carminati compare anche sopra il portone d’ingresso

Sulla parete di fronte all’altare del Rosario la famiglia Carminati nel 1682 fa costruire la Cappella dei Morti, un altare in forma simmetrica con la dedica alla passione di Cristo in suffragio delle anime del purgatorio, culto che aveva preso impulso dopo la peste del 1630 e che nelle chiese della bergamasca tendeva ad occupare gli altari laterali più importanti.

Altare dei Morti

I figli di Francesco, Pietro e Don Carlo Carminati, acquistano la pala con Gesù crocefisso e Santi (1675) di Johann Carl Loth, pittore nato a Monaco di Baviera e vissuto a Venezia dalla metà del secolo e la collocano, nel 1683, nel centro dell’altare, insieme ai due quadri laterali attribuiti da Mariolina Olivari a Gregorio Lazzarini, raffiguranti la Resurrezione di Lazzaro e la Resurrezione del figlio della vedova di Naim.

Alla base delle colonne laterali della cappella sono posti gli stemmi in marmo di Carrara della famiglia Carminati con aquila bicipite sopra un carro e lo stesso stemma lo troviamo sulla parete ell’ingresso in alto con la dicitura: FRATRES FILII Q. FRANCISCI / DE CARMINATIS PATRITII VENETI EX DEVOTIONE / ANNO MDCLXXXVIII”. Il titolo nobiliare era stato conferito a Venezia nell’anno 1687 per l’attività di banchieri.

Altare dei Morti (famiglia Carminati offerente), con la pala di J.C. Loth e i dipinti laterali del Lazzarini. Gli intagli del pulpito e dei confessionali ottocenteschi in noce sono di Carlo Mariani; si ammirano inoltre gli stucchi, dalla forte simbologia, valorizzati dal recente restauro

 

Dettaglio della Pala con Gesù crocefisso e Santi (1675) di Johann Carl Loth, sull’altare dei Morti. Il restauro ha restituito le tele a una bellezza che il tempo aveva offuscato, mentre tra gli stucchi è stata recuperata una tinta grigio scuro

 

Nel corso dei restauri, tra gli stucchi dell’altare dei Morti e della volta è emersa una bellissima colorazione grigia

 

Dettaglio dei dipinti del Lazzarini, a lato dell’altare dei Morti, con uno dei due confessionali in noce intagliati da Carlo Mariani

Nel 1708 il rettore don Francesco Gavazzeni, su ordine della Curia episcopale di Bergamo redige l’inventario dei Beni della Chiesa di S. Maria che consistevano in case e terreni posti in Breno, in Paladina, in Almè e ad Ossanesga.

Le opere di completamento e sistemazione del Santuario iniziarono nel 1710,  protraendosi sino ai primi decenni del Novecento.

Nel 1710 venne innalzata la volta della chiesetta dell’Addolorata sostituendo la copertura lignea e vennero aperte due nuove finestre in alto.

Volta del presbiterio della cappella dedll’Addolorata, innalzata nel 1710 (Ph Maurizio Scalvini)

Nel presbiterio venne collocato un nuovo altare in marmo nero con al centro il paliotto in marmo bianco dell’Addolorata, ai lati furono posti i quadri dei dolori di Maria.

Il nuovo altare in marmo nero con al centro il paliotto in marmo bianco dell’Addolorata e ai lati i quadri dei dolori di Maria (Ph Maurizio Scalvini)

 

Paliotto centrale dell’altare dell’Addolorata in marmo bianco di Carrara

Sotto la direzione del capomastro Gianni Moroni di Ponte S. Pietro si ampliò la casa del romito e si formò il portico con le colonne binate in pietra arenaria.

Il porticato antistante il Santuario,  con le colonne binate in pietra arenaria (inizio settecento) (Ph Maurizio Scalvini)

 

Il Santuario della Natività di Maria Santissima e il porticato con le colonne binate in arenaria

Per la chiesa nuova si procedette all’ampliamento della sacrestia e ad adornare la stessa con mobili eseguiti dal romito intagliatore fra Giacomo Micheletti (tre poltrone e due sgabelli finemente intagliati). Nel 1736 si eseguì la cantoria in legno con decorazioni ad intaglio e dipinte e si installò l’organo fornito dalla ditta Serassi.

Sopra la porta della sagrestia, l’organo Serassi, ultimato il 24 Febbraio 1737 ed oggetto di numerosi interventi di restauro, di cui l’ultimo eseguito ad opera della ditta Piccinelli di Ponteranica tra il 3 Aprile 2013 e il 31 Agosto 2015. Si nota anche il prezioso color malachite che adorna gli stucchi, mentre sotto l’organo sono visibili due degli affreschi emersi recentemente

 

Schizzo a penna allegato alla nota del 1725 sull’ampliamento della Sagrestia (GRITTI, 1990)

Il sagrato del Santuario che presentava cedimenti è stato sistemato nel 1832. L’opera di ampliamento dello spalto del piazzale con la formazione dei fornici in muratura si può far risalire alla fine del XVII secolo. Originariamente il muro di sostegno del terrapieno era più arretrato ed è ancora visibile nelle murature di pietra squadrata che si scorgono nei fondali delle volte.

Santuario di Sombreno e muro di sostegno del terrapieno (Ph Maurizio Scalvini)

Nell’Ottocento si rifanno le decorazioni interne della chiesa piccola, l’affresco della Madonna dei Servi di Maria del 1853 è opera di Luigi e Carlo Rota.
Il 12 febbraio dello stesso anno era stata eretta la Congregazione dei Servi di Maria dal Priore Generale di Roma. A questa occasione si può far risalire l’acquisizione dei due quadri di Francesco Vigna esposti alle pareti.

L’affresco della Madonna dei Servi di Maria (1853), di Luigi e Carlo Rota, nella chiesa dell’Addolorata  (Ph Maurizio Scalvini)

La cuspide del campanile e la statua dell’Immacolata sono opere di Antonio Preda e dei F.lli Rusconi che le eseguono nel 1879.

Veduta complessiva del Santuario mariano di Sombreno

Al 1902 risale la ricostruzione con solaio in cemento del terrazzo e del porticato di fronte alla chiesa dell’Addolorata; al 1905 la formazione di quattro stanze sopra la sagrestia nuova; al 1925 la collocazione dell’orologio sul campanile.

 

NOTE

(1) Il sistema difensivo di Breno comprendeva anche due torri, una inglobata nell’ala occidentale di villa Pesenti-Agliardi ed una seconda torre collocata in quella che è oggi la piazza, inglobata in un edificio di più vaste dimensioni. Le due torri furono probabilmente acquistate dai Pesenti, allorquando nel 1473 si insediarono a Breno, ampliandole e trasformandole in abitazioni.

(2) La cappella del castello fu, secondo il Fornoni, la prima chiesa ad ottenere il battistero divenendo parrocchia anche per le vicinie di Paladina e Ossanesga (Gritti 1997). Ossanesga si staccherà nel 1538 e Paladina nel 1568.

(3) Nel 1621 viene cioè concesso a un abitante di Breno di costruire un muro di cinta tra i beni della chiesa situati in cima al monte e il ronco di sua proprietà, servendosi dei sassi ricavati dall’abbattimento “di quella mura vecchia chiamata il Torrazzo esistente nel detto pezzo di terra di ragione del beneficio” (Pietro e Luigia Gritti, “Il Santuario della Madonna di Sombreno”, cit.)

(4) Il Presbitero Gasparino de Nervis fu il principale artefice delle opere eseguite alla chiesa di S. Maria al monte. Egli si occupò anche della chiesa dei SS. Fermo e Rustico, che per comodità del popolo fu sistemata nei primi decenni del ‘500. Durante la visita pastorale del 1520 il Vescovo Pietro Lippomano raccoglie buone informazioni sul comportamento del Presbitero Gasparino de Nervis dai testi Joannino de Pesenti e da Antonio Moroni. Per il completamento della costruzione della chiesa di S. MariaSerzanus f.q. Ioanini dicti Cappelle de Moronibus habitator de Brene nella sua cucina, alla presenza di Gasparino de Nervis, fa redigere nel 1506 il testamento in cui lascia “10 lire imperiali da spendersi per la stessa fabbrica e due ducati da spendersi per una pianeta per la stessa chiesa”. Al Presbitero, oltre ai benefici e alla proprietà dei beni della chiesa di S. Maria, era stato assegnato nel 1527, in un arbitrato fatto nel palazzo vescovile: al “rettore e beneficiato Gasparino de Nervis” il godimento delle piante del bosco di Sombreno: “tenga, goda e fruisca degli alberi di moroni e castagne esistenti al presente e in futuro sul monte si S. Maria di Sombreno, fino al monte di Breno…”.
Nel suo testamento del 1536 Gasparino de Nervis lascia i suoi beni alle Suore di S. Grata in Colunnellis di Bergamo, di cui era cappellano e confessore compresa la casa di via S. Lorenzino acquistata dalla MIA, che l’aveva avuta in eredità da Battista Cucchi cerusico (Pietro e Luigia Gritti, “Il Santuario della Madonna di Sombreno”, cit.).

(5) Francesca Cortesi Bosco concordando sull’attribuzione ad Andrea Previtali, indica nel 1524 la data presumibile di esecuzione. I motivi della datazione riguardano l’influsso avuto sul Previtali dal ciclo degli affreschi nell’oratorio Suardi di Lotto, chiaramente riscontrabili nella maggiore attenzione al vero, nella freschezza e luminosità del colore nella realizzazione del Bambino rispetto al quadro dell’Accademia Carrara; nell’abito di Santa Lucia con il laccio della manica appena sotto la spalla, presente anche nella Sibilla Chimicha del Lotto, tanto più che dello stesso anno è il cartone che il Lotto presenta al Consorzio della Misericordia per il coperto della tarsia detta “la Creazione” nel quale il simbolico occhio divino si modella congiuntamente alla carne delle braccia. “Il ritratto del committente in abito monastico è di grande vigore ed efficacia; sotto questo aspetto accostabile al ritratto di Paolo Cassotti nella tavola della Carrara. Per l’identificazione del committente, probabile appartenente ad una famiglia della zona, può essere utile il fatto che lo stesso doveva soffrire di disturbi alla vista, in quanto S. Lucia è in atto di proteggerlo e raccomandarlo alla Vergine.

(6) Il nobile Alessandro Morone f.q. Fermo, abitante in Porta Romana della parrocchia S. Tecla di Milano, originario di Breno, lascia nel suo testamento del 1650 trenta scudi di moneta di Bergamo sia per la chiesa di S. Maria di Breno e sia per la chiesa di S. Fermo e Rustico, e deposita nel Banco di S. Ambrosio lire otto mille cinquecento imperiali, i cui utili dovranno servire “per far celebrare una messa quotidiana nel detto loco di Brenno territorio di Bergamo e nelle chiese di detto loco…e siano d’aiuto ai suoi eredi che intendono seguire la carriera ecclesiastica” (…) A quindici figliole di Breno e dieci dei luoghi vicini (…) si diano 100 lire di moneta di Bergamo per ciascuna al tempo che si mariteranno o spiritualmente o temporalmente”…con preferenza ai parenti delle famiglie Moroni e Carminati. Nomina il cognato Francesco Carminati, abitante in Bergamo, tutore dei figli avuti dalla moglie Caterina Carminati e lascia erede universale il figlio Carlo Fermo Morone. Francesco Carminati, trasferitosi a Venezia dove svolge l’attività di mercante, non dimentica il suo luogo di origine e si prodiga per l’abbellimento della sua parrocchia sul Monte di Breno (Pietro e Luigia Gritti, “Il Santuario della Madonna di Sombreno”, cit.).

Bibliografia essenziale

– Pietro e Luigia Gritti, “Il Santuario della Madonna di Sombreno” – Consorzio per il Parco dei Colli di Bergamo. Grafica e Arte Bergamo, 1990.
– Il Parco dei Colli di Bergamo – Introduzione alla conoscenza del territorio, capitolo “Caratteri urbanistici e presenze architettoniche”, Graziella Colmuto Zanella.