La vicenda costruttiva delle Mura veneziane di Bergamo

Ove non altrimenti indicato, le fotografie attuali sono di Claudia Roffeni

Alla metà del Cinquecento, la nuova condizione di città di confine, impone per Bergamo la necessità di un apparato difensivo rispondente alla ragion di Stato, più che a quelle dei beni, degli interessi, delle vite di chi vi risiede. A tale scopo la Città alta – porzione collinare dell’abitato di Bergamo – viene circondata da un grande anello difensivo e ridotta in “fortezza” – la Fortezza veneziana a Bergamo -, venendo così chiamata fino alla fine del Settecento, quando, con la caduta della Repubblica di Venezia e la dismissione militare della struttura, verrà a prevalere, nel linguaggio corrente, il termine più “urbano” di Mura: la fortificazione più nota d’Italia, per l’intrinseca importanza del suo impianto, per il sostanziale stato di conservazione e per l’elevata qualità urbano-paesaggistica del contesto, che ne fa la fortezza più godibile e significativa di tutta la Lombardia.

Dopo la rinuncia all’espansione della politica veneziana Cinquecentesca, la contrapposizione tra la Serenissima Repubblica e gli stati che le contendevano i possedimenti di Terraferma – di cui la Bergamasca era ormai sentita come la punta più avanzata ad occidente -, impose a Venezia la necessità di “ridurre la città in fortezza reale, atta a sostener….qualunque assalto”.

Bergamo apparteneva a Venezia ormai da un secolo e mezzo, da quella pace di Ferrara conclusa tra Filippo Maria Visconti e Francesco Foscari, che nel 1428 l’aveva sottratta definitivamente al possesso milanese: dopo la pace di Chateau Cambrésis (1559) la Bergamasca offriva a Venezia l’unica porta aperta verso i Grigioni, da cui avrebbero potuto arrivare senza impedimento soccorsi in caso di assalti degli Spagnoli padroni dei Mlilanese.

Oltre ai nuovi scenari geopolitici e ai  presupposti politico-militari, anche motivazioni di ordine economico e sociale  (analizzate qui) concorrevano a motivare l’opportunità di rafforzarne le difese; difese che dovevano fungere da deterrente a scala territoriale e a mantenere la pace nei territori della Serenissima: il grande antemurale che avvolge la Città alta fu infatti concepito non solo e non tanto per la sicurezza di Bergamo e dei suoi abitanti, quanto soprattutto per rispondere alla necessità di una più generale sicurezza di tutto lo Stato della Repubblica di Venezia, rientrando a pieno titolo in quel  grande piano di fortificazione imperniato sulle città-capoluogo, punti nevralgici della difesa così come del commercio marittimo e terrestre.

Ma la scelta del sito da fortificare giunse dopo un lungo e complesso dibattito (1) apertosi fra rettori, capi di guerra, tecnici e rappresentati politici, durante il quale, sul finire del 1526 – ben trentacinque anni prima dell’avvio della costruzione delle Mura – si era già data attuazione ad un piano organico per fortificare Bergamo “alla moderna”, redatto da un altro importante uomo d’arme al soldo della Serenissima: il capitano generale della Repubblica  Francesco Maria I Della Rovere, duca di Urbino, il quale, secondo una logica opposta rispetto a quanto realizzerà più tardi il capitano generale delle milizia di terraferma, Sforza Pallavicino,  aveva avviato un progetto di fortificazione su larga scala, volto a salvaguardare l’unità tra la città sul colle e i borghi, privilegiati  nella difesa in quanto costituivano la parte più vitale e produttiva della città: un’idea che incontrava il favore dei bergamaschi e i pareri degli stessi rettori e di altri tecnici della Serenissima, che a lungo sosterranno senza successo l’opportunità di estendere le nuove Mura al piano, dove i terrapieni posti in opera dal Della Rovere erano ancora in essere a distanza di decenni (2).

Solo più tardi si giungerà alla soluzione “picciola” (piccola), e dunque meno costosa dello Sforza Pallavicino, limitata cioè al solo nucleo antico della città,  trasformando così Bergamo da “città murata” in fortezza di monte: un’operazione strategica di grande impegno, fortemente voluta da Venezia e perseguita con ferma determinazione pur tra fasi alterne, per almeno un trentennio.

1526: LA COMPARSA DELLA CINTA BASTIONATA

Con Della Rovere compariva per la prima volta a Bergamo l’idea della cinta bastionata, un nuovo sistema fortificato elaborato nel Cinquecento in seguito al mutamento delle tecnologie belliche e delle strategie d’assedio e di difesa: strategie che ora non erano più affidate a bombarde e a mortai bensì a schioppi, archibugi e artiglierie (mobili e non mobili), dotate di proiettili metallici che producevano effetti devastanti sulle fortificazioni medioevali. La cinta bastionata era quindi grado non solo di assorbire i colpi da fuoco, ma anche di permettere il movimento sugli spalti delle batterie di cannoni, che, montate su affusti a ruote, permettevano manovre assai più efficaci e dinamiche.

L’introduzione dell’artiglieria, nuovo e potente sistema offensivo, e il mutamento delle strategie d’assedio, porta nel Cinquecento ad elaborare un nuovo sistema fortificato in cui il baluardo (o bastione) costituisce l’elemento difensivo fondamentale, perché garantisce quel “vuoto” indispensabile a non intralciare l’efficacia dell’azione di tiro. Posto generalmente negli angoli più esposti della fortificazione, per consentire il tiro fiancheggiato, il baluardo ha un’altezza pari a quella delle mura (diversamente quindi dalle torri medioevali) ed ha una forma generalmente poligonale. Il suo scopo è proteggere le cortine (tratti di mura rettilinei), che costituiscono le parti della fortificazione più esposte all’attacco dell’assediante, grazie al tiro radente ed incrociato delle artiglierie che sono ospitate al suo interno. Le nuove strutture difensive, che non seguono più il limite del centro urbano, come nel caso delle mura medioevali, ma passano sul corpo della città  richiedendo enormi demolizioni, danno un nuovo volto alle città cinquecentesche, racchiuse ed isolate entro gli arcigni e massicci profili dei bastioni (Ph Claudia Roffeni)

IL PRIMO PROGETTO DI SFORZA PALLAVICINO

Lo Sforza era riuscito ad imporre il suo progetto (approvato dal Senato Veneziano il 17 luglio 1561) prevedendo una spesa estremamente contenuta ma che presto si rivelò fasulla. Secondo le sue valutazioni, Bergamo si poteva fortificare facilmente e in due-tre mesi con poca spesa (40.000 ducati, un terzo cioè di quanto avrebbe richiesto l‘inclusione dei borghi), con una cinta di circa due miglia ottenuta con limitate demolizioni (poco più di venti case, senza sacrificare chiese importanti) e con il parziale sfruttamento delle Mura antiche. Il sito, per sua natura forte, cinto da ripe alte che si fiancheggiano da se stesse, avrebbe avuto bisogno di fosso in pochissimi punti, ma doveva solo essere scarpato e provvisto di parapetto.

Esclusa l’ipotesi di abbracciare le alture verso la Cappella (Castello di S. Vigilio) con il recinto delle mura, nelle intenzioni dello Sforza la cinta doveva dilatarsi a settentrione al solo scopo di includere alcune vallette che potevano consentire di trovare nuove sorgenti: un punto, questo, dove occorreva “la maggior fattura”,  e che si poteva attuare con “l’arte” ricavando lungo il pendio che scendeva dal colle di S. Vigilio solo due o tre baluardi di terra, incamiciati di muro con pietra cavata in loco per un’altezza di soli 70 cm circa; questi baluardi, concepiti secondo le nuove tecniche belliche basate sull’artiglieria, e puntati verso la Cappella, fortificazione esterna a nord del Forte di S. Marco, avrebbero al contempo fatto da cavaliere al resto della cinta.

Era già quindi in embrione l’idea del Forte di S. Marco, l‘unica parte dei primo progetto dello Sforza Pallavicino che troverà riscontro nella fortezza realizzata, la prima opera che verrà intrapresa e tra le prime a configurarsi, ma non per questo esente da ripensamenti, rifacimenti, imperfezioni.

Il Forte di S. Marco, la vasta area soggetta a servitù militare, compresa tra le porte di S. Alessandro e S. Lorenzo, funse da centro dell’organizzazione difensiva di tutto l’apparato logistico-militare. Nella sua realizzazione finale, comprese ben 6 baluardi dei 14 complessivi. All’eminenza della Cappella, il Forte superiore (tra la porta di S. Alessandro e quella “del soccorso”), superando arditamente lo scosceso pendio di S. Vigilio con muri di contenimento e di sostegno che reggono il degradare del terreno, oppone la compatta sequenza di una piattaforma (di S. Gottardo) e di due baluardi (di S. Vigilio e Pallavicino) proiettati verso l’alto senza cortine di collegamento e con i fianchi rientranti ridotti alle minime dimensioni. Con sviluppo più che doppio e con cambi di direzione tra i più decisi dell’intera cinta si snodano invece i tre elementi del Forte inferiore, tra la porta “del soccorso” e quella di S. Lorenzo (baluardi di Castagneta, S. Pietro e Valverde)

Le titubanze legate all’altalenante atteggiamento degli esperti verso la Cappella condizioneranno per decenni forma, apprestamenti e armamento di questa parte della fortificazione, così come ogni intervento sulla Cappella determinerà modificazioni al Forte.

Inizialmente, il Castello di S. Vigilio venne ritenuto ininfluente per la difesa della città perché “parte ruinata” (relazione Priuli, 1553). Nel corso delle demolizioni, il 13 agosto 1561 lo Sforza fece comunque abbassare il maschio medioevale (la torre centrale) per renderla meno esposta ai tiri di artiglieria (solo in seguito, per ottenere un maggior spazio di manovra sulla piazza superiore, ne verrà eliminato anche il moncone)

LA NUOVA E DEFINITIVA DECISIONE

Ma in quello stesso luglio del 1561, nella riunione collegiale tenutasi a Bergamo fra i massimi capi di guerra della Serenissima (Girolamo da Martinengo, Agostino da Clusone, Giulio Savorgnano) e ingegneri (i bergamaschi Malacreda e Francesco Orologi – relatore – e il bresciano Genesio Mazza detto lo “Zenese”), di fronte a un sito che “non lo vedendo non si può capire” matura invece un nuovo progetto di una cinta allargata, tutta a bastioni e  totalmente rivestita di pietra, che il Senato immediatamente approva a larga maggioranza e rende esecutivo (sedute del 6 e 11 agosto), nonostante lo consideri “della medesima sigurtà che era la prima [cinta] et con molto minore interesse di quelli fidelissimi nostri”.

Proposta di ricostruzione della morfologia preromana del complesso collinare di Bergamo, con sovrapposti i perimetri delle mura romane, medioevali e cinquecentesche (E. Fornoni – 1889). I tre sistemi murari di Bergamo hanno mantenuto nel tempo il loro orientamento assiale, inglobandosi l’uno nell’altro: il primo assetto murario romano dell’antica Bergomum, adattatosi alla morfologia del rilievo, venne quasi completamente riutilizzato in età altomedioevale e ampliato nel Basso Medioevo per l’inclusione dei borghi mercantili, ampliandosi ulteriormente e definendosi nel Cinquecento con l’erezione delle Mura veneziane

Il progetto iniziale sostenuto da Sforza Pallavicino subisce quindi numerose e sostanziali modifiche (3) e alla fine dei lavori l’impianto bastionato raddoppierà in ordine al suo sviluppo planimetrico, comportando la vertiginosa spesa di un milione e mezzo di ducati – 15 volte quanto inizialmente preventivato, corrispondenti a 155 milioni di euro d’oggi (4) – e richiedendo tempi molto lunghi, che, anche dopo la chiusura della cinta, avvenuta con il completamento del baluardo della Fara nel 1588 (ben ventisette anni dopo l’inizio dei lavori), si protrarranno fino al terzo decennio del Seicento per le correzioni di alcune porte e i completamenti interni ed esterni delle opere riguardanti la Cappella, chiamando quindi in causa vecchi e nuovi tecnici.

Ne risulterà un’opera corale e di grande respiro, che coinvolgerà progettisti,  consulenti, esperti, grandi personalità militari e politiche, misurandosi spesso con le Magistrature centrali e talvolta tenendo conto di istanze locali, valutando una miriade di eventi contingenti: e se tutto ciò diede luogo a frequenti ripensamenti e mutamenti di rotta, l’opera “trovò nel suo stesso farsi le linee guida per un progressivo affinamento” (5).

Il  Baluardo Pallavicino, nel Forte di S. Marco superiore, ha preso il nome dal comandante generale di Terraferma che ha rivestito un ruolo decisivo nell’impostazione, nella regia della progettazione e nella costruzione delle Mura, che egli ha seguito dall’inizio alla morte (1585). Sarà Giulio Savorgnano a concludere il circuito con il Baluardo della Fara, a ventisette anni esatti dall’inizio del lavori

 

La fortezza di Bergamo è tutta in pietra: il paramento (l’incamiciatura) si presenta in modo molto vario secondo la provenienza dei conci. Non di rado il muro è modellato nella roccia viva, la cui presenza ha talvolta agevolato la fabbrica delle Mura, come nel baluardo di S. Lorenzo, che ingloba per un buon tratto il bancone di conglomerato affiorante presso la “montagnetta”. Quest’ultima forniva tra l’altro un naturale cavaliere e al contempo riparava da eventuali tiri che potevano provenire dalla Cappella (Ph Claudia Roffeni)

Per l’estrema complessità dell’opera, la trasformazione di Bergamo in fortezza di monte si rivelerà alquanto travagliata, non solo per l’entità dell’operazione e per la delicata congiuntura storica, ma anche per le insidie e le difficoltà tecniche – a partire dai lavori di scavo -, dovute alle caratteristiche morfologiche di un sito che poggia sulla dura corna ed è caratterizzato da profondi avvallamenti, come sotto S. Andrea o presso il Vallone di S. Agostino e il Foppone della Fara.

Nel baluardo di S. Agostino furono necessarie imponenti opere di scavo per poggiare il muro delle fondazioni sull’emergenza rocciosa che caratterizza il versante settentrionale, e che vediamo affiorare anche nel parco, sulla muraglia che delimita a oriente il chiostro del monastero (Ph Claudia Roffeni)

 

Il grande muro veneziano che recinge Bergamo alta è frutto delle teorie urbane cinquecentesche, volte a realizzare una forma di città fortificata ideale, dalla forma stellare. Tuttavia la presenza di un terreno collinare irregolare impedì la realizzazione di un disegno geometrico perfetto, dando luogo a una sequenza sempre variata e piena di trasgressioni di baluardi, piattaforme e cortine. L’unico elemento che a quello più si avvicina è il lato del perimetro compreso tra il baluardo di S. Giacomo e di S. Giovanni. Dalla forma piatta, gelidamente lunare, delle enormi muraglie veneziane risalta con evidenza lo schema astratto e geometrico che guida la mano dei costruttori di fortezze del Cinquecento. Il contrasto con la morbida e mossa forma del colle e col frammentato e vario disporsi degli edifici medioevali dell’alta città, conferisce aspetti allucinanti e crudeli a questo disegno, duramente imposto tra il terreno e le case
I dislivelli della cinta tra la tenaglia di S. Agostino (m. 297) e il baluardo Pallavicino (m. 438)

Perciò la fabbrica delle Mura costituì per gli ingegneri del tempo un impegnativo banco di prova, che richiese capacità inventiva e coraggio di sperimentazione affinché gli ormai collaudati schemi della fortificazione bastionata venissero opportunamente adeguati a un sito orograficamente complesso: per i trattatisti militari la nostra Fortezza rappresentò quindi uno stimolante campo di meditazione sulle “fortezze di monte”.

Tali risultati furono ottenuti naturalmente anche grazie alla grande quantità di addetti ai lavori: oltre 6 mila manovali, dalla posa della prima pietra, cui Venezia diede a lungo occupazione,  generando anche numerose opportunità economiche. L‘immane cantiere vide giornalmente al lavoro 3.760 guastatori per lavori di sterro e di demolizione; 263 spezzamonti per scavi e preparazione delle pietre; 147 murari (muratori); 46 marangoni (falegnami), controllati da 35 soprastanti (responsabili della gestione dei cantieri); 8 proti,  incaricati di progettare e dirigere i lavori (tra questi il nostro Paolo Berlendis), distribuiti in nove punti diversi della città, oltre che donne, assunte giornalmente per svolgere lavori di trasporto di materiale con carriole e gerle.

Paolo Berlendis e Figli. Bergamo, Palazzo Frizzoni. L’architetto bergamasco (1520-1572), padre di Giacomo (generale di artiglieria nelle guerre ai turchi e soprintendente alle fortezze di Candia) e “proto generale” che sovrintese ai lavori per la realizzazione della fortificazione veneziana, è ritratto anche in un dipinto di Giovan Paolo Lolmo (Bergamo 1550ca.-1595), considerato uno dei capi d’opera del pittore, donato nel 1824 dal Conte Carlo Marenzi alla Biblioteca Civica A. Mai di Bergamo

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Ai fini dell’avanzamento delle opere, rivestono un’importanza cruciale i primi cinque mesi seguiti al fatidico agosto del 1561: ciò che più conta per tutti i diretti responsabili (a partire Sforza Pallavicino, governo centrale e rettori) è costruire una situazione di non ritorno agendo coi tempi e i modi del colpo di mano e facendo intendere che l’operazione sarà sì dolorosa ma breve, e quindi poco costosa anche per la città; città che nel frattempo, oltre al danno subito verrà obbligata a garantire l’ospitalità ai 100 soldati della guarnigione e ai 50 archibugieri posti a difesa dei demolitori.

Entro la fine di quello che a buon ragione è considerato l’anno più terribile della storia urbana di Bergamo, quello in cui la patria è stata “ruinata” , gli uomini al servizio dello Sforza hanno infatti già tracciato gli elementi fondamentali del circuito, dopo aver demolito centinaia di edifici e tenuto a bada le proteste degli abitanti con una folta guarnigione, che per sedare eventuali sollevazioni popolari il 23 agosto salirà fino a comprendere 100 cavalieri e 1000 fanti, venendo portata a 1700 nel mese di novembre.

Alla fine, sarà evidente a tutti che la vicenda sarà lunga, complessa e dolorosa e che chi ha perso i propri averi non sarà indennizzato dallo Stato e sarà rovinato per sempre. La rassegnazione seguita allo spegnersi graduale delle proteste, garantisce allo Sforza il suo primo successo strategico, oltre il quale tutto gli sarà più facile. Dopo questo primo anno i lavori proseguiranno più lentamente.

L’AVVIO DELLE DEMOLIZIONI: BERGAMO NON SARA’ PIU’ LA STESSA

I costi che Bergamo dovrà sopportare per la realizzazione della munizione veneziana non saranno solo una questione di denari.

A partire dal 31 luglio il generale Sforza Pallavicino entra in città con 550 unità tra soldati e archibugieri, a protezione dalle eventuali proteste, dando avvio alle demolizioni e radendo al suolo centinaia di abitazioni, non prima di aver spazzato via gran parte dei coltivi, giardini e siepi ed estirpati gli ormai prossimi raccolti dei fruttiferi vigneti dei colli, la risorsa più importante per la città, in quanto esportata anche ben oltre il contado: dapprima attorno alla Cappella e poi intorno alle vecchie mura della città, da Sant’Agostino al colle di S. Stefano, dove distrugge gli orti e le vigne ormai vicine alla maturità, gettandoli “nel cemeterio de morti” (6) e non risparmiando neppure la vigna di S. Alessandro, presso la basilica intitolata al santo martire.

Sul colle di S. Stefano, oggi occupato dall’emergenza di villa Bizioli, oltre ai vigneti erano presenti ulivi, castagni, marroni, ciliegi, fichi, noccioli e in minor misura meli, peri, mandorli, susini, peschi e melograni

Il primo agosto del 1561 iniziano le demolizioni in nove punti del tracciato e il 7 agosto, all’insaputa anche del Senato, si dà avvio alla demolizione della basilica paleocristiana di Sant’Alessandro, che custodisce le reliquie del martire. Nel volgere di poco il Senato approva le decisioni prese e che prenderà lo Sforza, invitando la città a prenderne atto.

L’erezione delle Mura comportò anche la distruzione di chiese e conventi su cui era imperniata la religiosità cittadina: per tracciare e fondare il baluardo di S. Alessandro, nel Forte di S. Marco, la prima chiesa ad essere sacrificata fu la basilica paleocristiana di Sant’Alessandro, dopo che il veneziano Vescovo Federico Cornaro, in fretta ma con gran processione, aveva trasferito le spoglie del Santo Patrono nella chiesa di S. Vincenzo posta dentro le mura. A ricordo della distrutta basilica, nel 1621 il Vescovo Emo fece erigere una colonna, ancor oggi presente all’imbocco di Borgo Canale

L’idea di difendere solo il nucleo sul colle e di far correre la struttura difensiva non intorno, ma sul corpo della città, ha conseguenze devastati sia sull’economia della stessa che sul tessuto secolare, sconvolto dall’impressionante entità dei movimenti di terra che darà vita a un’opera “spaventevole e imponente, con quelle taglienti superfici e i puntuti speroni protesi minacciosi verso il molle declivio collinare.

“Per sicurtà non solamente di quella città, ma ancora di tutto il stato nostro”, la struttura palmare e digitata della città viene violentemente disarticolata e smembrata, mutando per sempre l’intero sistema delle relazioni che organizzava la città medioevale.

Bergamo contava allora circa 17 mila abitanti, di cui 4 mila nella sola Città alta, che avrebbero preferito per la propria sicurezza la “salda risistemazione” delle esistenti Muraine includenti i borghi e non la trasformazione in fortezza della città sul colle, attorno alla quale verrà a crearsi una desolante corona di vuoto di oltre cinquanta metri.

Assoldati quasi tremila demolitori protetti da folte schiere di soldati, l’avanzata della ciclopica opera difensiva stravolge e cancella interi tessuti urbani, abitati e coltivati da secoli; scompaiono parti intere di borghi, e in toto Borgo S. Lorenzo, e recisi gli antichi tracciati medioevali che li raccordano alla città.

La distruzione di centinaia di abitazioni e dimore (per un valore che supera i 200.000 ducati) che si trovavano sul tracciato delle nuove mura, causa alla popolazione ingenti danni economici, che non verranno mai risarciti, fomentando rabbia, malcontento, disperazione.

Sopra la Bergamo medioevale e sotto la Bergamo amputata dalla costruzione della fortezza veneziana. Le cronache citano fra le 213 case distrutte nei primi cinque mesi del 1561 arrivando a stimarne anche 257, e cioè 80 in Borgo Canale, 40 tra Borgo Santo Stefano, Paesetto e S. Domenico, 57 in Pelabrocco/Pignolo e 80 in Borgo San Lorenzo. Ed altre ancora ne verranno distrutte: nel 1571, a dieci anni dall’inizio dei lavori Ie case rimaste erano 549 e a vent’anni, nel 1581, solo 445 (distrutte 317), tra dimore gentilizie e case popolane: ovvero poco più della metà di quelle esistenti alla posa della prima pietra

Vengono interrotti gli acquedotti che alimentano la città; sacrificati numerosi luoghi nevralgici della storia e del culto cittadino, molti dei quali densi di valore di memoria quali, oltre alla basilica alessandrina e la canonica,  il duecentesco convento domenicano dei SS. Stefano e S. Domenico (importante centro di cultura contenente le spoglie di Pinamonte da Brembate) e la chiesa di S. Giacomo a sud nonché quella di S. Lorenzo a nord. Altrettante scomuniche vennero lanciate dal clero locale allo Sforza Pallavicino, che dovette faticare negli anni successivi per farle revocare.

La veduta a volo d’uccello detta di Alvise Cima (1643-1710), attinge da una pianta prospettica di fine Cinquecento che raffigura la Bergamo medioevale prima della fortificazione, tratta secondo le fonti da un antico affresco oggi perduto. Alla città medioevale si sovrappone un tratto nero rappresentante il tracciato delle nuove Mura, che denuncia con grande effetto le perdite infitte alla città in termini di patrimonio edilizio. Risulta chiaro come la fortificazione escludesse i borghi, racchiusi entro il circuito delle Muraine (il cui inserimento avrebbe comportato lavori troppo lunghi e spese più ingenti), operando una cesura fra le due città, quella produttiva posta al piano, e quella ove risiedeva il potere politico e amministrativo

Ben tre delle quattro nuove porte prenderanno il nome delle chiese distrutte: S. Alessandro, S. Giacomo, S. Lorenzo.

Soltanto il Convento (con due ampli chiostri) e la chiesa di S. Agostino si salvano, grazie all’offerta di un’ingente somma di denaro versata a Venezia dal potente ordine agostiniano per far chiudere “dentro la Fortezza, in anima ed in corpo, Chiesa, Convento e Frati” con “evidente sproposito di militare architettura” (7). E’ anche vero che il convento sorge su uno sperone roccioso, per spianare il quale servirebbero troppo tempo e denaro.

L’INIZIO DEI LAVORI: IN SOLI TRE MESI SONO TRACCIATI GLI ELEMENTI FONDAMENTALI DEL CIRCUITO

1561 – 1 settembre: posa della prima pietra del Forte di S. Marco. •2 settembre: baluardo di San Giacomo. •3 settembre: baluardo di Sant’Agostino.  •ottobre: E’ tracciato quasi tutto il circuito. •novembre: Continuano i lavori “in nove parti della città” con l’impiego di 4259 persone.

L’avvio ufficiale dei lavori, con la posa della prima pietra, avviene il 1° settembre 1561 proprio nel sito inteso da subito come fulcro di tutta la nuova opera difensiva: le pendici collinari disposte tra Colle Aperto e il Castello di S. Vigilio, che prende l’appellativo di “forte”, e poi, ancor più esplicitamente, di “Forte di S. Marco”, il tracciato compreso tra le attuali porte di S. Alessandro e S. Lorenzo, dove si configurerà il centro operativo-militare dell’intera fortezza. Durante la solenne cerimonia, i rappresentanti della Repubblica gettano nello scavo di fondazione una manciata di medaglie appositamente coniate e recanti loro nomi e stemmi.

La porzione occidentale del Forte di S. Marco da via Sudorno (Ph Claudia Roffeni)

Già da questa fase preliminare di impostazione della struttura, si definiscono i margini estremi che il Forte assumerà dopo diversi anni, così come si intuisce la forma trilaterale del circuito complessivo delle Mura, che sarà pienamente evidente nel 1588.

Il tracciamento del circuito del Forte di S. Marco, cuore ed emblema dell’intera fortificazione, è concepito in un ottica esclusivamente funzionale e difensiva. La sua vasta area, sempre distinta dal resto della cinta per il carattere e l’uso esclusivamente bellico (con l’esclusione cioè di ogni presenza civile), si doterà della cosiddetta “Porta del Soccorso” (nell’immagine), ossia un’autonoma porta riservata all’uscita di armati per eventuali azioni oltre la fossa e a soccorso della Cappella, nonché di due “quartieri” per l’alloggiamento delle truppe e di due polveriere. In seguito alla morte dello Sforza Pallavicino verrà allargata e potenziata la fossa e costruita la strada coperta che lo collegherà alla Cappella rafforzata (Ph Claudia Roffeni)

In questo primo anno i lavori si concentrano prima di tutto nel realizzare i baluardi in Colle Aperto, opera di necessità primaria che vede completamente assorbito lo Sforza, dedicato personalmente alla progettazione e direzione dell’opera.

Ma non solo al forte si lavora in quell’autunno del 1561 e ben nove sono i cantieri aperti attorno alla città antica, distribuiti con logica di accerchiamento: entro la fine dell’anno gli uomini agli ordini dello Sforza Pallavicino hanno già  tracciato e fondato gli estremi “cardinali” della fortezza: a Nord il bastione di S. Lorenzo, a Est la tenaglia di S. Agostino (fortificazione che circonda l’omonimo convento), a Sud il bastione di San Giacomo, a Ovest la fortificazione di S. Alessandro (con i baluardi di S. Alessandro e S. Giovanni).

Se i nove cantieri sono diretti da otto “proti” e vi lavorano più di 6.300 persone, le scarse operazioni di effettiva costruzione vedono in questo momento 147 “murari” occupati quasi certamente a rifinire il materiale lapideo da “incamiciatura” (le pietre di rivestimento delle mura) e nel gettare le fondazioni, nonché 46 “marangoni” occupati a puntellare le fondazioni, i casseri, le passerelle e i ponti.

Ma quando le spie milanesi riferiranno dei lavori, gli ambasciatori veneziani faticheranno non poco a convincere gli Spagnoli che si tratta solo di opere di difesa che non prevedono ammassamenti di truppa per attacchi.

NON LATIUS!

Con l’avvio del 1562 mentre chi ha perso casa e i propri averi fa i conti con l’impossibilità di recuperare quanto perduto, ci si inizia a chiedere fino a che limite lo Sforza intenda dilatare la spianata (la pertinenza esterna della fortezza) per poter ricostruire in sicurezza.

Nella sua risposta al Senato lo Sforza afferma che non si possono permettere fabbriche a meno di 50 metri dall’antico muro della città o dalla salita al monte, laddove erano iniziate le nuove fortificazioni, e il 13 giugno vengono posti i termini confinari attorno alle Mura, costituiti da cippi in pietra con inciso le parole “NON LATIUS” (“non oltre”), ad indicare il limite dello spazio riservato al presidio della guarnigione.

Disegno della fortezza di Bergamo (Parigi, Biblioteca Nazionale). Il disegno mette in evidenza, tra la città e il nuovo muro, il profondo spazio reso libero da ogni costruzione, vigneto o vegetazione. A questa prima fascia interna, all’esterno delle Mura, ne corrispondeva una seconda ancora più vasta, dove il terreno era stato spogliato da ogni presenza di arbusti e di edifici

L’ampiezza di questa “fascia di rispetto” è ancora oggi testimoniata dall’unico cippo in pietra superstite visibile all’attacco della Scaletta della Noca, la via gradinata che dall’Accademia Carrara conduce verso la Porta di S. Agostino, posto a indicare il punto a partire dal quale il terreno doveva essere lasciato sgombro da costruzioni e in cui era interdetto qualsiasi tipo di coltura onde evitare l’annidamento di truppe nemiche e il conseguente assalto a sorpresa a ridosso delle cortine, oltre che, naturalmente, rendere libero il tiro delle artiglierie.

L’ampiezza dell’antica spianata è ancor oggi testimoniata dall’unico cippo in pietra arenaria superstite presente all’imbocco della Scaletta della Noca, nei pressi dell’Accademia Carrara, dove l’iscrizione ormai abrasa riporta la scritta NON LATIUS  (‘non oltre’). La stele indicava il limite oltre il quale, per la servitù militare generata dalla presenza delle Mura, non era possibile costruire alcun edificio

Si evince che a questa data le vecchie mura sono ancora esistenti mentre le nuove (escluso il Forte, forse) sono semplicemente iniziate. Ma nonostante ciò, verso la mezzanotte del 27 settembre, anche se le mura non hanno ancora raggiunto l’altezza di un metro e mezzo si fa una sorta di prova generale: all’ordine convenuto, alcune compagnie di soldati si avvicinano alla città. Dato l’allarme, tutti i cittadini (compresi i danneggiati) accorrono prontamente, apprestando la difesa della fortezza e cioè di “colei che da alleata era divenuta la loro peggiore nemica” (8).

Negli anni successivi, a causa del minor esborso finanziario di Venezia i lavori proseguiranno a ritmi più lenti concentrandosi di più sul Forte, mentre altrove, ancora nel 1565 l’azione di assestamento e dilavamento del terreno disfa i terrapieni realizzati (poco più che dei rialzi), creando un danno valutato in mille ducati all’anno. Intanto però, nonostante la fortezza sia ancora incompleta ed imperfetta nelle sue strutture fisiche (muri ancora da fondare, terrapieni da incamiciare, parti accessorie da definire, etc.), comincia ad assumere una fisionomia propriamente militare.

Verranno realizzate, in corrispondenza delle principali direttrici stradali, le porte di San Lorenzo (la prima ad essere costruita, nel 1563, murata per motivi di sicurezza nel 1605 e poi ricostruita al di sopra nel 1627 su progetto di Francesco Tensini), Sant’Alessandro (“voltata, coperta e del tutto fornita” per la fine del 1565), San Giacomo (realizzata negli anni Settanta del Cinquecento molto vicina al fianco dell’omonimo baluardo, trovando la sua definitiva, attuale, posizione nel 1593), e Sant’Agostino (che, inizialmente in legno, venne riedificata in muratura nel 1572-74). Porte che erano già state progettate nei primi anni del cantiere (1562-1563), molto probabilmente da un’unica mano.

Le Porte della cinta cinquecentesca si riducono a 4, riprendendo quelle medievali che erano poste nei pressi

LO STATO DELLA FORTEZZA NEL 1565 

Per la fine del 1565 le “muraglie” di circa la metà del circuito (ossia circa 2550 metri dei previsti 5122) sono incamiciate in pietra e tutte portate a un’altezza di sicurezza (ed in primis quelle del Forte di S. Marco), ma ancora ben lungi dalla quota definitiva.

Ovunque, le vecchie mura medioevali vengono raggirate e laddove sono parzialmente mantenute fungono da contenimento provvisorio della città affinché, com’è nella logica di una città-fortezza, l’operante guarnigione militare (che ora conta 770 soldati), resti nettamente distinta dalle aree della comunità civile.

Stato della Fortezza nel 1565. Nel Forte di S. Marco, dalla porta di S. Alessandro al baluardo di S. Lorenzo e relativa cortina la muraglia è rivestita in muratura fino al redondone, tranne il baluardo di S. Lorenzo che è tutto incamiciato. Da qui al baluardo di S. Agostino suppliscono le vecchie mura medievali (che per ora lasciano fuori il monte della Fara). Tutta la porzione orientale della fortezza è ancora in terrapieno (ossia dalla tenaglia di S. Agostino al baluardo di S. Michele, compresa la cortina di S. Andrea). Dalla piattaforma di S. Andrea fino alla cortina di S. Grata ci si affida ancora alle mura vecchie, ma il baluardo di S. Giacomo è già in pietra fino al cordone e si realizza il pezzo di cortina necessario per impostarvi sopra la nuova Porta di S. Giacomo, mentre a Sud-Ovest si è già fondata la piattaforma di S. Grata e buona parte delle relative cortine. I due baluardi di San Giovanni e Sant’Alessandro sono  ancora in terrapieno

Tutta la muraglia che dal Forte (a partire quindi da Porta S. Alessandro) arriva alla cortina di S. Lorenzo è rivestita in pietra fino al redondone (il cordone lapideo orizzontale che rende difficile la “scalata”), eccetto il baluardo di S. Lorenzo, che è tutto incamiciato.

Il baluardo di Valverde, l’ultimo del Forte Inferiore, e la porta di S. Lorenzo, sul lato settentrionale della cinta veneziana (Ph Claudia Roffeni)

 

La costruzione del baluardo di S. Lorenzo fu favorita dalla presenza di un durissimo banco di conglomerato, inglobato per un buon tratto nella muraglia ed affiorante sulla piazza superiore nella “montagnetta”, che fornì un naturale cavaliere riparando anche contro i colpi che potevano provenire dalla Cappella

Dalla zona di S. Lorenzo fino al baluardo di S. Agostino non s’è fatta nessuna opera: qui suppliscono le vecchie mura medievali (difese dal potente cavaliere del Belfante dei Rivola  e dalla Rocca rinforzata), che chiudono materialmente il recinto lasciando fuori il monte della Fara (il piccolo rilievo visibile nelle piante del Cima, che divide la Valle S. Agostino da quella degli Avogadri), che dovrà invece essere incluso nella fortezza quando verrà realizzato il previsto baluardo.

Il baluardo della Fara, l’ultimo ad essere realizzato (1585-1589), sancendo la reale “chiusura” del circuito murario veneziano (Ph Claudia Roffeni)

Le  perplessità di chiudere questa parte della cinta erano iniziate sin dall’avvio dei lavori, tanto che nella sua relazione dell’8 novembre 1561 l’Orologi raccomandava allo Sforza di non sopprimere quel baluardo della Fara – di cui egli stesso aveva piantato le stagge -, che avrebbe fiancheggiato la tenaglia di S. Agostino, certo troppo bassa ed avanzata.

La Tenaglia di S. Agostino, formata dai baluardi di S. Agostino e del Pallone. In alcuni punti le porte di accesso alle mura erano racchiuse, a breve distanza, da due bastioni formanti una sorta di tenaglia, sporgenti a punta acuta e allacciati con raccordi curvi arretrati alla cortina della Porta, così da avere gli accessi alle Porte difesi dai tiri diretti contro le azioni nemiche (Ph Claudia Roffeni)

Le difficoltà frapposte dal sito, caratterizzato dalla presenza dei profondi Valloni di S. Agostino e degli Avogadri, e la convinzione che la zona sarebbe stata ugualmente sicura con le vecchie Mura, difese dal potente cavaliere del Belfante dei Rivola e dalla Rocca rinforzata, avevano infatti fatto accantonare fin da allora la fabbrica di quel baluardo che sarebbe stato costruito per ultimo (dopo aver colmato parzialmente i due valloni), solo dopo la morte dello Sforza, e con un nuovo disegno di Giulio Savorgnano (1585-88) (9).

Dalle fortificazioni di S. Agostino al baluardo di S. Lorenzo, nel disegno tratto dalla veduta detta di Alvise Cima

Tutta la porzione orientale della fortezza ossia le fortificazioni di S. Agostino (costituite dalla tenaglia di S. Agostino e dal baluardo di S. Michele), sono ancora in terra (ossia terrapienati), anche se ben fiancheggiati. Forse la generale arretratezza di questa parte è dovuta alla perdurante incertezza riguardante il tracciato e la ventilata possibilità della revisione del circuito, tema ancora vivo in questa zona. Anche la cortina di S. Andrea è ancora in terra.

Dalla cortina di Porta S. Giacomo alla piattaforma di S. Andrea, detta “Spalto delle Cento Piante” (Ph Claudia Roffeni)

Dalla piattaforma di S. Andrea fino alla cortina di S. Grata ci si affida ancora alle mura vecchie, ma il baluardo di S. Giacomo è in pietra fino al cordone e si realizza il pezzo di cortina necessario per impostarvi sopra la nuova Porta di S. Giacomo (le cui pietre si trovano fuori opera e pertanto in pericolo di guasto), mentre a Sud-Ovest si è già fondata la piattaforma di S. Grata e buona parte delle relative cortine.

In primo piano, cortina e piattaforma di S. Grata e in lontananza il baluardo di S. Giacomo (Ph Claudia Roffeni)

 

Baluardo di S. Giacomo (Ph Claudia Roffeni)

Del resto, l’area tra S. Andrea e S. Giacomo è interna ai borghi e al loro muro di difesa, dunque non costituisce una priorità. Chi, infatti, si volesse da qui avvicinare non potrebbe certo aiutarsi con la sorpresa e l’avvicinamento non gli sarebbe facile.

Tra S. Giacomo e S. Andrea (Ph Claudia Roffeni)

Riguardo il tratto che corre fra Porta S. Giacomo e la chiesa di S. Andrea, che prospetta verso il centro della Città bassa, parve opportuno allo Sforza che si potesse evitare l’abbattimento di case e conservare parte della cinta medioevale (quella che comprendeva via degli Anditi e che conserva solo alcune arcate), ma che essa, troppo vicina al nucleo cittadino avrebbe impedito, formata com’era dalla sola cortina, di creare quel tipo a bastionate che era imposto dalla nuova tecnica militare.

Nel tondo, le cinque arcate dell’antico vicolo degli Anditi nella veduta “di Alvise Cima”, con sovrimpresso in nero il tracciato delle mura veneziane. Si tratta di un percorso di ronda (ora quasi totalmente chiuso) facente parte della muraglia difensiva medioevale, tagliato dal percorso della funicolare alla fine dell’800 e di cui restano solo alcuni avanzi di muratura ad arco, appena visibili dietro le recinzioni di giardini privati

Portata così avanti la nuova muraglia di circa 70-80 metri dall’antica, fu anche possibile creare il dosso di terra detto Cavaliere di S. Andrea che doveva risultare analogo a quello di ponente denominato Cavaliere di S. Grata (10).

Tra S. Grata e S. Andrea. Nella realizzazione della fortezza veneziana, le alture retrostanti il circuito murario fornirono sovente un naturale cavaliere, un elemento tattico di rinforzo alla funzione difensiva delle Mura

I due baluardi di San Giovanni e Sant’Alessandro (detti “fortificazioni di S. Alessandro”) sono  ancora in terrapieno.

In primo piano la piattaforma di S. Grata e sullo sfondo il baluardo di S. Giovanni, ai piedi del colle omonimo, a cui fa seguito non visibile nell’immagine, il baluardo di S. Alessandro nell’area di Borgo Canale (Ph Claudia Roffeni)

Sino ad ora si sono spesi circa 216.000 ducati; spendendone altrettanti in quattro o cinque anni si potranno concludere le opere: ma le disponibilità annue di 13.400 ducati non possono garantire il progredire spedito dei lavori ed anzi si spenderà di più, sia perché si dovranno restaurare le opere non ancora incamiciate (l’azione di assestamento e dilavamento del terreno disfa quanto si realizza, creando un notevole danno economico) e sia per mantenere in essere una guardia più numerosa (circa 200 fanti) che comporta un esborso all’erario di 5.000 ducati all’anno. I rapporti tra rettori, conduttori delle opere e governo centrale cominciano a farsi tesi.

LO STATO DELLA FORTEZZA NELLA SECONDA META’ DEGLI ANNI SESSANTA

La seconda metà degli anni sessanta del Cinquecento si apre perciò con la struttura fortemente incompleta, del tutto inattiva e quindi debole. Ma nel 1566, al fine di contenere le spese, il procuratore generale di terraferma, Alvise Mocenigo decide finalmente di accelerare e ultimare le opere appaltando i restanti lavori (11).

A danno della sezione orientale delle mura, fra il 1567 e il ‘68 si lavora in quattro luoghi: al Forte, dove si rialzano muri e si fanno casematte; nella “Fortificazione di S. Alessandro” (baluardi di S. Alessandro e S. Giovanni), dove si porta l’incamiciatura fino al cordone; attorno a S. Grata, dove mancano solo 147 metri per aver fondato quindi definito tutto il fronte.

Il sistema difensivo formato dalla cinta veneziana e dalle preesistenze medievali – 1566-1568

E nonostante alla presenza dello Sforza venga solennemente posta la prima pietra del baluardo di S. Agostino (24 giugno 1567, giorno di San Giovanni), ben presto i lavori si arenano (12): la tenaglia di S. Agostino richiederà circa sette anni per passare dall’opera di terra a quella in muratura (1567-1574), tra continue perplessità e contestazioni.

Tenaglia di S. Agostino, realizzata entro il 1574 (disegno datato 1825)

L’arretratezza dei lavori in quest’area così come l’insistenza di alcuni tratti (monte Pelizzolo, monte della Fara), oltre a costituire un evidente pericolo per la sicurezza della fortezza, contribuisce a rimettere in discussione quanto non è stato ancora materialmente compiuto, tanto che sul finire del 1567 si riapre  la sopita questione della difesa dei borghi, di cui molti capi richiedono l’inclusione, fatto che comporterebbe un enorme allargamento del circuito. Infatti, se il progetto originario (voluto da uomini del calibro dello Sforza, del Martinengo, del Savorgnano) prevedeva di tenersi in alto, richiedendo solo circa 1217 metri per chiudere le Mura da S. Giacomo a S. Agostino, comprendendo i borghi si dovrebbero fondare 4868 metri di muri con dieci baluardi e impegnare (in tempo di pace) non meno di 1500 fanti per la difesa ordinaria: una prospettiva di spesa per il Senato Veneto che chiude ogni altro ragionamento nel merito.

Nonostante le tante incertezze, gli anni sessanta terminano perlomeno con la decisione (3 maggio 1569) di appaltare i lavori del lato sud-orientale della fortezza, quello tra i baluardi di S. Giacomo e di S. Michele, ordinando che delle due piattaforme previste nella tratta dal progetto iniziale (e documentate da un disegno del Museo Correr) ne venga realizzata una sola ma “grande e reale” e si ingrandisca anche il baluardo di S. Michele (a quei tempi detto anche Zanco): opere che verranno realizzate cinque anni più tardi (1574-78).

LA PRIMA META’ DEGLI ANNI SETTANTA

In avvio degli anni ‘70 del XVI secolo, tra coloro che indirizzano gli interventi operativi si avverte già il significato simbolico (non solo “storico” ma anche di prestigio personale) del chiudere il circuito della fortezza, fatto che di per sé  infonderebbe forza all’accelerazione dei lavori; ma d’altro canto è forte la consapevolezza di dover dare la priorità assoluta alle necessità funzionali, che richiedono interventi puntuali. La situazione politica interna e internazionale, che tiene impegnata la Dominante nello Stato da Mar con la sfortunata guerra di Cipro (1570-1573), non favorisce in tal senso una presa di posizione. Dopo un decennio dall’avvio dei lavori e vista la contenuta possibilità di spesa, ci si barcamena tra una cosa e l’altra per qualche anno, scontentando tutti: Bergamo e Venezia.

La dichiarazione giurata del proto Paolo Berlendis (16 maggio 1571) chiarisce la situazione: sono ancora da fondare, tra porta S. Giacomo e l’orecchione del baluardo di S. Agostino (oggi detto del Pallone), “solo” 721 metri, mentre  devono essere ancora innalzati i muri già fondati fino a portarli al cordone (10 metri) per scongiurarne la scalata e, sempre lungo questo tratto, bisogna fare i muri delle cannoniere.

Il baluardo del Pallone (all’altezza del Parco di S. Agostino)

Ma ciò che scoraggia ulteriormente è che ancora nel 1571 la fortezza sia ancor del tutto insicura, avendo solo tre cannoniere finite nel Forte e fior di ducati andranno spesi per finire tutte le altre (le già iniziate ai baluardi di S. Giacomo, S. Lorenzo e di S. Alessandro-S. Giovanni nonché alla piattaforma di S. Grata), oltre alle piazze e ai parapetti.

Ciliegina sulla torta: per la tanto sospirata chiusura della Fara manca ancora il progetto.

Paolo Berlendis, Disegno a schizzo della città con il rilievo dello stato di avanzamento dei lavori delle mura, 1571. Il disegno è accompagnato da una lettera autografa del proto P. Berlendis, datata 16 maggio 1571. Il disegno “presenta Bergamo nel suo stato di organica unitarietà precedente la costruzione delle mura, indicandone l’andamento sia delle antiche mura, sia dei principali tracciati viari e che, con l’esplicita indicazione della piazza del Borgo S. Leonardo contrapposta, nella piana, alle piazze Vecchia e Nuova della Città alta, costituisce un’importante testimonianza del grado di coscienza, che, al tempo, si aveva del bipolarismo della città” (W. Barbero, Per Una storia urbana di Bergamo, in: Hinterland n. 25, marzo 1983, pp. 20-21)

LA SECONDA META’ DEGLI ANNI SETTANTA

Finalmente, a metà del decennio la situazione della fabbrica appare decisamente migliorata: si completa tutta la zona di S. Agostino (tenaglia, porta, fontana monumentale e quartiere militare) e si vede almeno prossima la chiusura del fronte di Sud-Est, che tanti problemi aveva dato in ordine alla sua stabilità, per i continui smottamenti in prossimità della Cortina di S. Andrea, che rendevano lento e pericoloso il lavoro.

L’area di S. Agostino

Nel 1575, a ridosso del chiostro maggiore del convento fa costruire il quartiere di S. Agostino (le cosiddette “casermette”). I quartieri militari della fortezza sorgono vicino alle porte e nei punti in cui si necessita di immediati interventi della guarnigione: quello di di S. Agostino, capace di 100 soldati, suscita satisfation infinita di tutta la città” poiché è finalmente sgravata dall’onere dell’alloggio (una vera e propria beffa considerate le privazioni materiali e morali cui è costretta la popolazione).

Il quartiere militare di S. Agostino (1575), l’unico conservato integro, almeno esternamente, tra tutti quelli che sorgevano nei pressi delle porte, preposti a difenderle e ad ospitare i soldati. E’ costituito da un lungo corridoio su due piani, coperti da falde. Oggi ospita gli uffici dei docenti dell’Università di Bergamo

Sempre nell’area il capitano Giustiniani fa realizzare in muratura la porta (1572-74) e poco dopo (1575-76) la “bellissima fontana di pietra viva grande e onorata in faccia della porta di Sant’Agostino”, mentre il ponte levatoio in legno, che in origine garantiva l’ingresso alla Città Alta, verrà sostituito nel 1780 da un ponte in muratura sostenuto da arcate.

Nella pianta del Macheri, il ponte levatoio in legno, sostituito nel 1780 da un ponte in muratura sostenuto da arcate e nel 1838, in occasione della visita a Bergamo dell’Imperatore austriaco, dalla strada Ferdinandea, oggi viale Vittorio Emanuele, che sale dal centro di Bergamo Bassa per ricongiungersi con Via Pignolo proprio davanti alla porta Sant’Agostino (Complesso di Sant’Agostino: veduta a volo d’uccello, 1660 ca., stampa a bulino disegnata dal bergamasco Giovanni Macheri e incisa a Venezia da Pietro Micheli)

 

La Porta S. Agostino, tuttora accesso principale a Città Alta, rappresentava l’ingresso monumentale per chi giungeva da Venezia. Allo scenografico aulico fondale interno del prospetto di fontana (1575-76), unitariamente e contemporaneamente concepito, si contrappone il semplice volume del “quartiere” addossato al chiostro grande del convento, primo ad essere stato costruito per gli alloggiamenti delle truppe. Autore del dipinto (“Antica Rocca e caserma di S. Agostino a Bergamo”), conservato presso la Galleria del Belvedere di Vienna, è  Marco Gozzi (1759 – 1839)

La tenaglia di S. Agostino, formata dai baluardi del Pallone e di S. Agostino, viene invece completata in muratura nel 1574, e anche se la lunga faccia nord del baluardo del Pallone è sconvenientemente esposta al nemico, ciò non rappresenta un serio problema in quanto questi può colpirla solo dal piano, quindi da lontano.

Baluardo del Pallone (Ph Claudia Roffeni)

L’area di S. Andrea  

Negli anni immediatamente successivi, con la costruzione della piattaforma di S. Andrea, realizzata tra il 1574 e il 78, si procede alla chiusura di questo tratto della cinta. L’estesissima piattaforma, dal perimetro complessivo di cresta di 291,50 metri, più che doppio rispetto a quello delle altre piattaforme, è certamente concepita secondo un’ottica “rappresentativa”, tanto da sostituire le due piattaforme previste inizialmente nella tratta e portare appunto alla decisione (3 maggio 1569) di realizzarne una sola “grande et reale”: la sua alta muraglia, di 22.88 metri dopo il rialzo ottocentesco, viene eretta più per far “spettacolo di pompa”- con i suoi pezzi d’artiglieria sempre scoperti, ma anche sempre inattivi, verso sud in direzione di Milano – che per una reale esigenza e volontà di difesa (13).

Del resto il versante, ben protetto tra le mura dei borghi, è ritenuto particolarmente sicuro, sia per la pendenza del colle che per il naturale cavaliere alle sue spalle (la parte superiore del “monte Pellizzolo”).

L’altissima ed estesissima piattaforma di S. Andrea. La muraglia raggiunge con il rialzo ottocentesco 22,88 metri, risultando la più alta dell’intera cinta (Ph Claudia Roffeni)

La lunga piattaforma, che dal 1795 diviene Spalto delle Cento Piante, viene collegata da una cortina di dimensioni altrettanto inusitate (139 metri) al baluardo di S. Michele: quattro anni di lavori particolarmente ardui per i continui dissesti dovuti all’entità di profondissimi scavi, che comportano il crollo di numerosi edifici.

Piattaforma e cortina di S. Andrea, ancora prive del traforo per la funicolare

Ad ulteriore sostegno della cortina, che poggia sulle fondamenta più profonde dell’intera fortificazione, vengono realizzati sei archi di scarico, tuttora visibili nel viale sottostante, anche se diversi per tamponature e nuove erezioni. L’instabilità del terrapieno doveva essere aggravata dall’avere al suo interno un “pozzo di acqua viva sortiva profondissimo” e dal fatto che tutte le sue pertinenze fossero bagnate dalle acque di scolo provenienti dalla fontana di porta Penta (Porta Dipinta).

Già nel corso della dominazione Veneziana, su questo spalto verrà spianato il cavaliere per agevolare il transito delle carrozze tra Porta S. Agostino e Porta S. Giacomo, prefigurando la costruzione del Viale delle Mura, che, iniziato nel 1829, raggiungerà Colle Aperto solo nel 1841.

Lo “Spalto delle Cento Piante”: nel 1795 un decreto comunale ufficializza l‘uso civile della piattaforma di S. Andrea, programmandone i “deliziosi passeggi e giardini pubblici”, che ne faranno la prima passeggiata pubblica di Bergamo. Dalla fine dell’Ottocento, la cortina dello Spalto delle Cento Piante verrà attraversata dalla funicolare per Città Alta

Infine, il pianoro sottostante il baluardo di S. Michele (preposto anche alla difesa della piattaforma di S. Andrea) viene dirupato per scongiurare un attacco da parte dell’assediante, che avrebbe potuto battere la porta di S. Agostino e i due baluardi che gli fanno tenaglia (S. Michele e S. Agostino).

Baluardo di S. Michele (Ph Claudia Roffeni)

Con la chiusura di questo tratto della cinta il presidio viene ridotto a 50 fanti e il proto, ora non più necessario, licenziato: a 17 anni dall’avvio dell’opera, con la tanto sospirata chiusura della fortezza sul fronte di Sud-Est il capitano Tommaso Morosini può relazionare orgogliosamente al Senato (25 settembre 1578) che “Hora la fortezza è finita da serar….per gratia de Dio la fortezza è cinta tutta de muraglia nuova, eccetto però  sotto la Rocca al Monte della Fara” : si tratta cioè del compimento del circuito come previsto sino ad allora, e dunque ancora privo della chiusura della Fara (per ora considerata opera molto secondaria e costosa) ed entro il quale ogni baluardo è provvisto di un retrostante naturale cavaliere.

Bergamo e il suo contesto territoriale, nella carta topografica della fortezza della città e dintorni, disegnata da G. Sorte intorno al 1575 (Biblioteca Marciana-VE)

Finalmente, anche le difese esterne possono entrare nelle preoccupazioni dello Sforza: dalla Cappella, il cui problema si fa sempre più urgente, a quello del dosso di S. Domenico (“il Fortino”), che essendo assai prossimo al circuito  dovrà essere adattato a rivellino, anteposto com’è al baluardo e alla Porta di S. Giacomo – i talloni d’Achille delle Mura – e anche per il fatto di dominare a cavaliere Borgo S. Leonardo.

Sul promontorio dall’Ottocento occupato da villa Bizioli, noto come “Fortino”, per ovviare all’intrinseca debolezza del prospiciente Baluardo di S. Giacomo, troppo esposto ai tiri di artiglieria, viene realizzata una piattaforma fortificata, eguagliando il muro tutt’intorno e livellando la piazza. Si tratta di una difesa avanzata, indipendente dal circuito murario principale, che ricorda per certi versi la tipologia di un rivellino (una fortificazione indipendente generalmente posta a protezione della porta di una fortificazione maggiore), senza averne però l’autonomia difensiva. La fortificazione, oggi irriconoscibile, è terminata nel 1585, come attesta una lapide sul lato nord (le sue possenti mura si possono vedere solo percorrendo il vicolo San Carlo). Per la sua realizzazione viene demolito il complesso conventuale dei SS. Stefano e Domenico (nel tondo)

 

Il Fortino nell’Ottocento (nel tondo), con accanto Villa Bizioli

 

Tra il 1580 e il 1582 sono costruite le due polveriere del Forte di S. Marco, tra Colle Aperto e Porta S. Lorenzo, poste al di fuori del tiro dei cannoni e lontane dall’abitato. Nell’immagine, la polveriera nella valletta di Colle Aperto, oggi di proprietà privata (Ph Claudia Roffeni)

L’ULTIMA FASE DELLA REALIZZAZIONE DELLE MURA: “NETTAR I FIANCHI, ET CAVAR LE FOSSE” 

Anche se per lungo tempo ancora sussisterà la preoccupazione del chiudere il perimetro della fortezza e ultimare la dotazione degli apprestamenti interni, con l’ultimazione della cinta è giunto il momento dell’ultima fase della realizzazione.

La situazione nel complesso si presenta molto caotica, con parti fatte e altre da completare, tanto che ancora nel 1578 è ancora in corso il processo di finitura della fortezza, per portare al cordone muri e finire piazze. E certamente le problematiche murarie legate alla funzionalità operativa della macchina bellica sussisteranno ancora a lungo.

Ma la priorità è ora quella di configurare le difese esterne ai baluardi, a partire dalla predisposizione della fossa per la quale il Senato, riconoscendo come sufficientemente avanzati i lavori murari ha ordinato l’avvio sistematico dello scavo (26 settembre 1575), che consiste in 15.000 pertiche di terreno, per una larghezza media 6 piedi.

Perlomeno nei luoghi più sensibili come il Forte, questa dev’essere stata da tempo già rudimentalmente tracciata di pari passo con l’innalzamento dei baluardi, ma esternamente alle “muraglie”, e quasi a ridosso, persistono grossi accumuli di terreno (tali da costituire una minaccia in quanto tolgono visibilità ed efficacia al tiro), per la cui asportazione i territori soggetti, onde evitare costi accampano scuse, avviando contenziosi che ritardano di molto gli interventi.

Lungo la faccia est del baluardo di Valverde, l’accentuata pendenza ha fatto di questo lato l’unico esempio conservato di fossa terrazzata: una serie di muri disposti ortogonalmente a scarpa e controscarpa suddivide lo spazio in piazzuole successive per impedire i guasti delle acque alle opere murarie (Ph Claudia Roffeni)

 “Nettar i fianchi, et cavar le fosse” tutt’attorno alla fortezza è dunque d’ora in avanti una delle esigenze più importanti: un’operazione costosa, che si protrarrà molto nel tempo, non solo a causa del complesso meccanismo burocratico di affidamento e ripartizione dei lavori, ma anche per la particolarità del sito, dove spesso si incontrano banchi rocciosi (“durissime corne”), o dove la difficoltà di realizzare vere e proprie fosse richiede soluzioni alternative.

L’opera parte speditissima, benché i territori , ai quali per antica consuetudine spetta il costo del guasto e dello scavo, si rifiutino di pagare l’asportazione di quanto non sia strettamente terra (e cioè roccia e materiali come trovanti e conglomerato, che ritengono di pertinenza governativa). In ogni caso, se con il Memmo sono già 6.100 pertiche di terreno quelle rimosse durante i lavori, con il Morosini se ne aggiungono altre 4.652, rimanendone un totale stimato di 6.348.

LA QUESTIONE DELLA MILIZIA, DEL MUNIZIONAMENTO, DEL VETTOVAGLIAMENTO E IL PROBLEMA DELL’ACQUA

In questo scorcio degli anni settanta, mentre la fortezza inizia a caricarsi di funzionalità operativa, si evidenzia la sempre maggiore importanza che sta assumendo la questione degli armati e dell’armamento: questione annosa per la gestione della fortezza, se ancora nel 1585 (relazione di fine mandato del capitano Michele Foscarini) precede lo stato della “importantissima fortezza”.

Si notano alla custodia della fortezza numerosi avvicendamenti e indiscipline, con la rimozione di non pochi capitani; l’impressionante numero delle diserzioni dall’avvio del cantiere (6100 uomini), la dice lunga sulla povertà delle paghe e la durezza del vivere, e ciò nonostante in caso di arresto il rischio sia quello di andare “a vogar il remo per cinque anni” (numerosi sono i libelli diffamatori appesi in varie parti della città a ridicolizzare Venezia) (14).

Le necessità dei pochi bombardieri (“scolari”), reclutati in città e non pagati, sono tenute particolarmente in considerazione (“accarezzati”) dato l’importantissimo ruolo cui devono assolvere in caso di bisogno. Per loro si allunga il bersaglio, si sistemano la polverista in Rocca e la casa del salnitraio, si realizzano due “tezze” (tettoie) a Osio Sotto e a Spirano per la conservazione delle terre necessarie alla formazione del salnitro.

Annota il capitano Foscarini nel 1585 che la guarnigione deputata alla difesa della fortezza è formata da 310 soldati – agli ordini di un governatore e di sei capitani -, dislocati quasi a livello simbolico in due punti nevralgici della fortezza, la Cappella e la Rocca, “anche perché lo stato dei lavori è ormai tale che più di un attacco diretto e in forza è da temere un’occupazione per colpo di mano o per tradimento. Tante fortificazioni si sono in questo modo banalmente perse. Preoccupazione ancora più grande è la relativa affidabilità della guarnigione. Infatti, la maggioranza dei soldati è di forestieri, in sostanza mercenari attratti solo dalla paga” (15).

In realtà, ogni momento della vita militare della Fortezza fu caratterizzato dalla cronica scarsità della milizia e dall’inefficienza dell’armamento, a dimostrazione del fatto che il grande antemurale voluto da Venezia doveva sostanzialmente fungere da deterrente (anche e, forse soprattutto, psicologico) a scala territoriale, ai fini del mantenimento della pace.

Il vettovagliamento, parte integrante dei disposti e degli impegni relativi alla munizione, nel 1585 consiste in grani (miglio e segale), conservati in Cittadella in quantità tale da garantire la sopravvivenza degli abitanti e dei soldati della fortezza (6000 persone), per quasi un anno.

Relativamente al problema dell’acqua, sempre in questo periodo si è consci che un serio assedio toglierebbe del tutto l’apporto esterno attraverso gli acquedotti, che sarebbero facilmente intercettati e tagliati. Messe a secco le fontane della città, si sarebbe potuto contare sulle sole tre significative sorgenti presenti entro la fortezza: il Vàgine, la Boccola, il Lantro, allora provviste di acque abbondanti e quindi ritenute sufficienti al bisogno, tranne che in periodo di siccità.

Sempre in ragione di una maggiore protezione delle porte viene fatta spostare in posizione più visibile la strada fuori Porta S. Lorenzo, che è realizzata con il concorso della Valle Brembana.

Porta S. Lorenzo e la valletta di Valverde, ancora nell’Ottocento occupata da un’incredibile distesa di gelsi (Racc. Gaffuri)

UNA DEROGA PER IL BENE DELLA CITTA’

Nel 1581, nel consiglio comunale venne avanzata la proposta di utilizzare gli spalti delle mura per piantarvi dei gelsi,  al fine di compensare le perdite che erano state spazzate via dall’imponente fabbrica delle Mura e assicurare alla città una fonte di reddito. Approvata la richiesta, nel  1583, ancor prima del completamento dell’opera di difesa, il terreno attorno alla muraglia, lungo la fossa e sulla spianata, cominciò ad essere sfruttato ad uso agricolo, come attestato da una relazione podestarile di fine mandato.

Attorno alla città murata si venne quindi a creare una fitta muraglia verde scandita da filari di gelsi, inframmezzata da ortaglie e qualche vigneto, posta a debita distanza dalla fortezza nel rispetto del non latius. Parte del ricavato andava a foraggiare quelle scorte di grani (miglio e segale) conservate in Cittadella, che era talmente colma da essere a rischio di crollo.

L’episodio anticipava di gran lunga l’uso civile degli spalti una volta smilitarizzate le Mura con l’avvento dei Francesi.

Pietro Ronzoni, Complesso di Sant’Agostino: veduta meridionale dal Baluardo di San Michele, 1837 (Milano, Quadreria dell’800).

LO STATO DELLA FORTEZZA NEL 1585 

Alla partenza del capitano Foscarini (1585) il cantiere della fortezza si trova in una situazione abbastanza ben definita. Bisogna spendere ancora 110.000 ducati per finire completamente la fortezza, compresi il baluardo della Fara, il rafforzo della Cappella e l’ultimazione di tutto quanto ancora manca.

P. Berlendis, Disegno acquarellato del sistema fortificato di Bergamo alta, 1585

Complessivamente la murata del tutto finita viene misurata in oltre 4000 metri, ed è composta da nove elementi tra baluardi, piattaforme e tenaglie.

Lo stato della fortezza nel 1585, circa quattro anni prima del completamento del baluardo della Fara. Mancano alcune rifiniture e alcuni tratti di fossa, soprattutto dove la roccia durissima crea qualche problema (tra il baluardo di S. Giovanni e la piattaforma di S. Grata e tra il bastione e la Porta di S. Agostino). C’è ancora molto da fare nei baluardi di S. Pietro, Valverde, S. Lorenzo, dove vi sono alcune piazze da finire, tutta la muraglia da fare sopra il cordone e terrapienare dove necessario. Si stanno completando le piazze dei baluardi di S. Giacomo e Sant’Agostino ma mancano ancora tutte le traverse e quasi tutti i parapetti. A Porta S. Giacomo va fatto il ponte della porta nuova, che essendo stata realizzata molto in basso, troverà la sua definitiva, attuale, posizione nel 1593; restringere le strade di accesso per non rendere troppo agevole la salita alla fortezza ed infine dirupare tutti i terreni tra la fossa e il limite di edificabilità (la spianata), eliminando ogni pianoro che consenta l’installazione di pezzi di artiglieria o l’accamparsi

LA CHIUSURA DEFINITIVA DEL CIRCUITO

Venuto a morte il 5 febbraio 1585 il governatore generale conte Sforza Pallavicino, Venezia nomina alla guida della fabbrica Giulio Savorgnano, uomo di altrettanta concreta esperienza, con il quale si accelera la soluzione per quanto ancora da realizzare, a partire dalla definitiva chiusura del circuito murato.

La priorità è ora chiudere per intero con bastionatura la fortezza, dando così disegno compiuto all’opera e rispondendo non solo in termini di saggezza ai problemi di sicurezza e di costo che il mantenere attivi i vecchi muri medioevali rappresentava. Ciò era nella logica delle cose: “improvvisamente” tutti scoprivano quanto inconsistenti fossero o muri e facile la presa della Rocca, che pure aveva onorevolmente servito da presidio nel tempo in cui ben altre e altrove erano le preoccupazioni.

Baluardo della Fara (Ph Claudia Roffeni)

Giulio Savorgnano, nella sua qualità di progettista e di direttore dei lavori, provvede con abilità a chiudere il circuito bastionato, realizzando tra il 1585 e il 1589 quel baluardo della Fara che, collegato alla Tenaglia di S. Agostino tramite la Cortina della Fara sancisce la reale “chiusura” del circuito murario veneziano.

Il disegno acquarellato eseguito da Giulio Savorgnano, databile tra il 1586 e il 1587, rappresenta lo stato di avanzamento dei lavori al Baluardo della Fara. Oltre al progetto, Savorgnano ne curò anche l’esecuzione

 

Giulio Savorgnano – Il tracciato delle mura veneziane, 1587 circa

L’inaugurazione del baluardo avviene nel 1588, quando viene scoperta la lapide a ricordo del momento e del luogo in cui si poneva l’”ultima” pietra. Illuminata dal sole del mattino, la lapide è apposta sulla faccia orientale del baluardo stesso, che porta le armi dei rettori Andrea Gussoni e Paolo Loredano.

Baluardo della Fara, stemmi e lapidi di fine lavori

Il 17 luglio 1590 il capitano Alvise Grimani nella sua relazione finale può dichiarare che la città è tutta serrata con baluardi e i suoi membri tutti terrapienati, compite le piazze, i parapetti e le traverse….la fortezza col circuito di tre miglia è bellissima”: e si poté considerare allora come l’opera difensiva più imponente che Venezia avesse costruito nel suo territorio di terraferma.

Mura di Bergamo - Claudia Roffeni
La fortezza di Bergamo da meridione (Ph Claudia Roffeni)

 

Entro il 1590 erano ultimati gli 11 baluardi e le 5 piattaforme, 5 porte, 32 garitte, 100 bocche di cannone e 2 polveriere: la fortezza rimaneva preventivamente isolata grazie alla creazione di una “fascia di rispetto”, non edificabile, affinché la guarnigione potesse vigilare l’eventuale annidamento di truppe nemiche e il conseguente assalto. Si noti anche l’indicazione dei cavalieri e della strada-coperta (“Nomenclatura dei singoli settori che costituiscono il perimetro delle Mura erette dalla Repubblica Veneta  negli anni 1561-1590”, dallo studio di E. Fornoni, “S. Agostino e le nuove fortificazioni in Bergamo”. Gaffuri e Gatti, 1883)

Restava ora da perfezionare e da rifinire tutte le opere dal punto di vista strettamente militare e della logistica, il che comportò il protrarsi delle operazioni per altri trent’anni anni, causando ulteriori disagi alla popolazione.

Le difese esterne della fortezza veneziana di Bergamo

“RIFINIRE” LE MURA

Ci vollero in totale sessantasei anni per rifinire e completare la vastissima opera muraria e per poter finalmente dire di aver messo la fortezza di Bergamo “a perfetta sicurezza”: molto più di mezzo secolo di estenuante lavoro per un’opera costata un milione e mezzo di ducati e che mai subirà un sol colpo di cannone.

Dopo la chiusura della cinta nel 1588 infatti, le correzioni (lo spostamento di Porta S. Giacomo negli anni 1592-93, la chiusura di Porta S. Lorenzo nel 1605 e la riapertura in sito di un “portello” sovrapposto progettato dal Tensini nel 1627; inoltre, la costruzione, nel 1640, del ponte in muratura di Porta S. Agostino), i completamenti interni e soprattutto esterni relativi in particolare alla Cappella, si protrarranno fino al terzo decennio del Seicento, chiamando in causa vecchi e nuovi tecnici.

Costruita negli anni Settanta del Cinquecento, essendo posta troppo in basso , Porta S. Giacomo fu smontata per poi essere rimontata nell’attuale posizione solo nel 1593 (data ufficiale d’inizio cantiere: 27 gennaio 1592): “…edificata di bianchi marmi, indi riuscirà più bella et maestosa di tutte le altre che si mirano nella fortezza”. Il viadotto in pietra fu costruito solo più tardi, nel 1780 (Alvise Contarini Podestà). (Ph Claudia Roffeni)

 

Costruita nel 1563, Porta S. Lorenzo fu murata per motivi di sicurezza nel 1605 e poi ricostruita al di sopra nel 1627 con la realizzazione del portello di S. Lorenzo su progetto di Francesco Tensini (Ph Claudia Roffeni)

La sua progettazione è guidata dalla stessa logica di “parata” della piattaforma di S. Andrea. Lo smagliante emblema in marmo di Zandobbio della Terraferma veneta differenziato fin dall’inizio nell’aulicità del disegno e del materiale (non nelle dimensioni e nello spirito di plastica sodezza) dagli altri tre ingressi monumentali disposti in corrispondenza delle principali direttrici del traffico urbano e territoriale. La collocazione definitiva attuata con la consulenza del Lorini accentua il risalto urbanistico e simbolico di questa Porta meridionale, rivolta in direzione di Milano, alta e scoperta sul colle contro il parere di trattatisti come il Lanteri che le porte non dovessero essere viste dal nemico accampato. In questo caso, per il fondamentale significato di fondale rappresentativo, anche la perdita nell’Ottocento del locale destinato al corpo di guardia e degli adiacenti quartieri trova un’anticipazione addirittura cinquecentesca: fin da allora lo spazio teoricamente riservato a servitù militare fu eroso per ridurre le demolizioni degli edifici a monte.

Negli anni 1594-95 si realizzano i due quartieri di Porta S. Giacomo, costituiti da due casermette che si fronteggiavano all’imbocco dell’omonima via e poste a presidio della Porta, anch’essa in parte destinata al corpo di guardia. I vani interni furono abbattuti nell’Ottocento (Ph Claudia Roffeni)

Il quartiere della Fara Alta. fu invece realizzato negli anni 1619-25.

Dettaglio della fortezza, tratto da Disegno della città et borghi di Bergamo (1626), conservato a Venezia nell’Archivio di Stato (Ter 109). Oltre al sistema difensivo appaiono anche gli edifici cittadini di maggiore importanza

I LAVORI TRA LA CAPPELLA E IL FORTE

All’interno della fortezza, l’area tra il Forte e la Cappella è uno di quei luoghi  soggetti ad essere “battuti” dall’assediante, poiché qui è facile piantare artiglierie, senza contare che la valle di Castagneta consente di accampare comodamente e al riparo un numeroso contingente. Ciò rende necessario fortificare convenientemente la Cappella (delibera del Senato del 29 agosto 1588), che in mano al nemico farebbe da cavaliere a tutta la fortezza richiedendo per un solo assediante ben quattro difensori. La Cappella verrà dunque destinata ad ospitare fino a 500 soldati e 10 pezzi di artiglieria.

Nel 1607 Si decide di rafforzare ulteriormente la Cappella e il Forte di S. MarcoNonostante le contestazioni, i molti consulti e progetti correttivi elaborati a più riprese dopo la morte dello Sforza, il Forte rimane sostanzialmente quale il Pallavicino l’aveva fin dall’inizio concepito; ai successori tocca ora l’allargamento e il potenziamento della fossa (costruendo cioè una nuova controscarpa e alzando i parapetti) e la costruzione della strada coperta che lo collegherà alla Cappella rafforzata e dove anche i terrapieni sono stati potenziati.

Negli anni 1613-16 si completano perciò i lavori alla Cappella, incamiciando la strada coperta e realizzando due piazze (piattaforma verso il Corno e piattaforma verso S. Gottardo).

La freccia rossa indica la strada coperta tra la Cappella e il Forte di S. Marco, con il quale si doveva collegare tramite una sortita nel Baluardo Pallavicino

Negli anni 1621-26, sempre alla Cappella si realizza un ulteriore rafforzamento per mano degli ingegneri Francesco Tensini e Marcello Alessandri: si costruisce in pietra la tenaglia verso il monte Corno e il baluardo Mocenigo verso S. Vigilio, dando forma poligonale al fortilizio.

Disegno del forte di S. Vigilio, Malacreda, 1664

 

La cinta bastionata veneziana raffigurata nel 1664 da Cesare Malacreda. Sono evidenziati il solo tracciato murario e le strutture difensive al suo interno (ad esempio, il Forte di S. Marco a nord-ovest, posto in relazione alla “Cappella”, e la piazza o “Fortino” di S. Domenico a sud-ovest): l’annullamento del tessuto edilizio ha il compito di far risaltare l’aspetto marziale della città (disegno conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia)

Se la grande planimetria dipinta da Alvise Cima restituisce ai contemporanei una città armoniosa in ogni sua parte, la veduta dell’incisore Stefano Scolari, realizzata nel 1680, si presenta molto differente: una differenza anche di atmosfere, determinata proprio dalla presenza della poderosa cerchia murata. Il disegno è molto particolareggiato: alle mura della fortezza sul colle si agganciano quelle che circondano i borghi, le Muraine con bocche da fuoco di circa cento cannoni in dotazione lungo tutto il perimetro della fortezza, garitte, quartieri militari, polveriere, le quattro porte ben custodite e con i ponti levatoi che potevano essere alzati alla minima minaccia. L’immagine era dunque di una Bergamo dove i baluardi erano il segno della forza e del dominio da parte di Venezia, un volto militaresco e arcigno. I dettagli sono accurati e consentono di orientarsi nella lettura della città che trova al piano lo spazio necessario per le sue attività e la sua economia. Ma l’accuratezza del disegno non uguaglia il fascino della raffigurazione del secolo precedente.

Veduta di Bergamo, Stefano Scolari – Venezia, 1680 circa. Si legge con estrema chiarezza la dotazione militare: i forti, i baluardi, i cannoni, le garitte, sono resi con toni così realistici da costituire un chiaro ed esplicito avvertimento

Il 25 dicembre 1796 i Francesi entrano in Bergamo e nella sua fortezza, non trovando alcuna resistenza e il 12 maggio 1797 la Serenissima Repubblica di Venezia ha fine.

Le mura veneziane di Bergamo non ebbero mai l’opportunità di un collaudo bellico, nemmeno nel 1797 quando giunsero i napoleonici a seguito del disfacimento della Repubblica di Venezia dopo il Trattato di Campoformio.

Passeggiata sulle Mura (Ph Claudia Roffeni)

Oggi, per la bellezza panoramica che la rende universalmente nota, dopo l’impianto nel periodo napoleonico della folta alberatura che recinge, come un verde anello, la secolare città, l’antica fortezza veneziana a Bergamo è divenuta la romantica passeggiata di quanti, seguendo l’ampio anello delle mura, vedono aprirsi la varietà delle vedute sull’armonioso e sfumato paesaggio della pianura lombarda.

 Note

(1) Francesco Maria della Rovere, capitano generale della Repubblica, nel 1525 ritiene “impossibile […] fortificar” la città; l’anno successivo, dopo un accurato sopralluogo, raccomanda un adeguato rafforzamento delle Muraine; opinione condivisa dal podestà Costantino Priuli, che nel 1532 propone di riparare le mura esistenti (e cioè “che le mura […] le quali in più lochi sono ruinate […] siano reffate et redutte a tal termine che non si possa entrar se non per le porte”). Il podestà Vincenzo Diedi, ancora nel 1541, definisce Bergamo “città indifesa” per la debolezza delle mura e suggerisce che “senza enorme spesa e molte difficoltà si potrebbe rendere in sicurezza”. Di diverso parere il capitano Francesco Bernardo che, nel 1553, consiglia di fortificare i luoghi di pianura: “Martinengo et Roman […] sono in sito molto forte, et atte ad esser fatte con non molta spesa inespugnabili”. Nel 1554 i Rettori della città richiamano sulla scarsa sicurezza delle Muraine. Il dibattito giunge a conclusione quando, nel 1559, il capitano generale Sforza Pallavicino, favorevole al rafforzamento delle difese in città, propone la costruzione di una nuova cinta muraria sul colle. A nulla valgono le osservazioni critiche del capitano uscente Pietro Pizzamano (1560): “qualche fortezza sul piano del territorio, overo agli confini […] alcune fortezze per frontiera […] frenariano il corso degli inimici”; stima inoltre “che l’illustrissimo Signor Sforza non habbia visto queste frontiere”; e che la costruzione di una nuova cinta comporterebbe dannose conseguenze per i cittadini: “dovendosi fortificare saria necessario a ruinare de molte loro case”. Nel gennaio 1561 il podestà Diedi definisce Bergamo “città indifesa”. Il 13 luglio del 1561 Sforza Pallavicino ribadisce nella sua relazione al Senato che “Bergamo è facile a essere fortificata et con poca spesa rispetto alla grandezza sua”, scartando così l’ipotesi di rafforzare le Muraine o le fortezze della pianura e quattro giorni dopo il Senato approva il progetto dello Sforza di fortificare Bergamo “nella forma picciola” (fortificare solo la parte alta della città senza comprendere i borghi), scartando così l’ipotesi di rafforzare le Muraine. Il 29 luglio il Senato comunica ai Rettori di Bergamo la decisione – già presa – di fortificare la città.

(2) Graziella Colmuto Zanella, Le Mura. In: “Progetto il Colle di Bergamo”, Bergamo, 1988, Pierluigi Lubrina Editore. Osserva a tal proposito G.M. Labaa che “la prima opzione sarebbe andata ad includere non solo i borghi (eccetto il borgo di Canale), ma anche i sottoborghi (S. Caterina e Palazzo). Nella seconda versione si escludono i sottoborghi oltre il torrente Morla” (GianMaria Labaa, Bergamo città fortezza. Fatti e antefatti. In: Renato Ferlinghetti, GianMaria Labaa, Monica Resmini, “Le Mura, da antica fortezza a icona urbana”, Bolis Edizioni, Azzano S. Paolo, Bg. Anno 2016).

(3) La consapevolezza dei punti deboli del progetto e delle insidie del sito è chiara sin dall’inizio all’Orologi, che “nella sua circostanziata relazione dell’8 novembre 1561 prende decisamente le distanze dalle scelte fondamentali dello Sforza Pallavicino, quali l’esclusione della Cappella o della zona di S. Domenico, mentre raccomanda di non aggiungere errore ad errore, sopprimendo quel baluardo della Fara, di cui egli stesso aveva piantato le stagge, che avrebbe fiancheggiato la tenaglia di S. Agostino, certo troppo bassa ed avanzata” (Graziella Colmuto Zanella, Le Mura, Op. Cit.).

(4) Relazione dei cap. Grimani e Venier del 1590. La cifra è equivalente a 155 milioni di euro odierni, stima effettuata sulla base del valore del ducato veneziano, una moneta d’oro del peso di 3,44 grammi a 24 carati (per un totale quindi di 5.160 kg d’oro), moltiplicata per la quotazione attuale dell’oro di 30€/g.

(5) GianMaria Labaa, Bergamo città fortezza. Fatti e antefatti. Op. Cit.

(6) Donato Calvi, 1676.

(7) A. Salvioni, 1829.

(8) Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso. In: “Bergamo verso l’Unesco – Terra di San Marco. Da frontiera di pietra a ‘paesaggi vivi’ di pace”. Grafica & Arte, 2016.

(9) Graziella Colmuto Zanella, Le Mura, Op. Cit.

(10) L. Angelini, “Le mura veneziane di Bergamo”, La Martinella, Milano, 1954.

(11) Dal 1566 Astorre Baglioni è il nuovo governatore della piazza e in questo stesso anno fa visita al cantiere il procuratore generale di terraferma, Alvise Mocenigo.

(12) A questa data si sono spesi 250.000 ducati. La guarnigione è ridotta a 520 soldati.

(13) Le due piattaforme previste inizialmente ma non realizzate, sono documentate da un disegno del Museo Correr reso noto da Concina (Graziella Colmuto Zanella, Le Mura, Op. Cit.).

(14) Agli operai indigenti, impegnati nei lavori di fortificazione della città (i guastatori e gli spezzamonti), la MIA versava un’elemosina prestabilita tramite dei bollettini, sorta di buoni in natura da riscattare nelle sue sedi (Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso. Op. Cit.).

Riferimenti  

Devo l’ossatura del post a: GianMaria Labaa, Bergamo città fortezza. Fatti e antefatti. In: Renato Ferlinghetti, GianMaria Labaa, Monica Resmini, “Le Mura, da antica fortezza a icona urbana”, Bolis Edizioni, Azzano S. Paolo, Bg. Anno 2016.

Graziella Colmuto Zanella, Le Mura. In: “Progetto il Colle di Bergamo”, Bergamo, 1988, Pierluigi Lubrina Editore.

Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso. In: “Bergamo verso l’Unesco – Terra di San Marco. Da frontiera di pietra a ‘paesaggi vivi’ di pace”. Grafica & Arte, 2016.

Walter Barbero, Bergamo, Electa Editrice, 1985, Milano.

La Fontana del Delfino nell’antico bosco di Pignolo

All’incontro di quattro strade, due in salita – Pignolo e Pelabrocco – e due in discesa – San Tomaso e Masone-, il cuore di borgo Pignolo accoglie il visitatore con la varietà e la bellezza della sua forma irregolare, in un luogo ricco di straordinarie stratificazioni architettoniche.

Via Pignolo e Fontana del Delfino in una fotografia degli anni Trenta (Bergamo – Curia Vescovile – Raccolta Fornoni)

Accanto alle case borghesi ottocentesche ed ai negozi, la nobile fronte cinquecentesca di Palazzo Lupi fa da contrappunto alla pittoresca, inconsueta casetta con il piano superiore aggettante, posta all’angolo delle vie Pignolo e S. Tomaso. Come si evince dalle vecchie immagini, in passato la casa non era a graticcio, ma presentava le pareti lisce e nude.

Il microcosmo marino della Fontana del Delfino sembra quasi richiamare il curioso edificio nordico con il piano superiore a sbalzo (quattro/cinquecentesco?), dalla forma evocante la poppa di una nave

Luigi Angelini ricorda che la forma particolare e le suggestioni sprigionate da questo luogo ispirarono numerosi artisti, compreso quel “geniale pittore russo Leon Bakst” che realizzò una scenografia per uno dei balletti di Diaghilew che dominarono in quel tempo i teatri d’Europa.

L’edificio – scriveva Luigi Angelini – richiama le piccole case nordiche quali la Glöcklein di Norimberga prossima alla casa natale di Dürer o le casette antiche di Rouen o di Malines, o alcune modeste costruzioni della vecchia Bologna o del quartiere veneziano di S. Lio

Ma ritroviamo la stessa ambientazione nella baracca burattinesca di Bigio Milesi, il celebre burattinaio/pasticcere di San Pellegrino Terme, nato a Bergamo nel 1905, famoso anche per i suoi biscotti.

La scena, che rappresenta la piazzetta del Delfino, veniva usata anche per farvi comparire il padre di Gioppino e di Pantalone prima della partenza di Gioppino (dalla commedia “Per Milano in cerca di moglie”). Raccolta Bigio Milesi, S. Pellegrino Terme

Nel centro della piazzetta è la fontana, che il popolo definisce da sempre “fontana del delfino”; è scolpita nel marmo di Zandobbio, con una stele centrale che regge un delfino a lunga coda, “cavalcato” da un tritone a due code di pesce e dal sorriso ambiguo.

La fontana era alimentata, in un primo tempo, dall’acquedotto di Prato Baglioni e, dopo la sua scoperta, anche da quello della Pioda. Come la fontana di Sant’Agostino, anche quella del Delfino restava spesso in “secca” per lunghi periodi, e numerose furono le suppliche degli abitanti di Pignolo perché fosse definitivamente sistemata (l’ultima e forse più significativa richiesta è quella del 18 maggio 1735): nel 1895 la fontana venne collegata alla nuova rete idrica, fatta costruire dalla municipalità in sostituzione della vecchia ormai obsoleta; e da ciò dipese probabilmente anche la sua salvezza.

La fontana del Delfino è stata costruita contemporaneamente all’intenso urbanizzarsi della via Pignolo, sull’incrocio che collegava le vecchie plaghe Pelabrocco e del Cornasello, che conducevano attraverso via Osmano, all’altura di sant’Agostino

Ma ancor prima della sua realizzazione, funzionava in loco una sorgente-fontana pubblica, fatta costruire dal podestà Gualtiero Rufino d’Asti nel 1208 e chiamata Fonx Lux Morum.

È citata negli statuti del 1248, dove veniva ordinato che le singole vicinie provvedessero alla cura e alla regolamentazione delle acque nel loro territorio. Oggi rimane solo la lapide e un debole ricordo perché, cessata la sua utilità, fu abbandonata ed inglobata negli edifici che le sorsero accanto.

Il venir meno di questa sorgente spinse alla costruzione in loco della fontana del Delfino. Si trova esattamente sulla prima casa di via Masone scendendo dalla piazzetta di Pignolo.

Fonx Lux Morum, antica sorgente-fontana in via Pignolo. Fu abbellita nel 1500 con un arco fiancheggiato da due colonne e pare che la sua cisterna avesse una capacità di 500 brente di acqua (circa 28.000 litri). Padre Donato Calvi menziona questa fonte nelle sue “Effemeridi” e dice che nel 1600 era già in secca

Il gruppo scultoreo della Fontana del Delfino è contornato da un bacino d’acqua chiuso da un parapetto a pianta ovale appoggiato su un gradino, recinto perifericamente da paracarri, pure marmorei.

Giovanni Da Lezze, nel 1596, la descrive così:“…una fontana nel mezzo fatta a vaso di prede roane che spande et rende mirabile vista…”.

Sui fianchi del basamento, due maschere di divinità marine emettono due alti getti d’acqua nel bacino.

Ma un dettaglio importante ci riporta ad un antico significato: sul frontone è scolpita in rilievo una grossa pigna, simbolo dell’antica contrada di Pignolo: infatti, ancor prima dell’erezione delle mura veneziane, il versante che conduceva al dosso di S. Agostino abbracciando le vie Pelabrocco e Cornasello, doveva essere boschivo ed ammantato di conifere, che, a ben guardare, conferivano a questa zona un aspetto più montano che “marino”.

Ricordando l’antico paesaggio di questa zona, il dettaglio della pigna ricorda perciò l’origine del nome di questo borgo.

L’opera è di considerevole eleganza di proporzioni e di nobile fattura plastica: la movenza del tritone sul delfino, nella difficile commistione di tre code, è resa dai vari punti di veduta con la sicura abilità di ottimo artista cinquecentesco, il cui nome però è a noi totalmente ignoto, come indicato da una lapide posta sul basamento.

Si conosce la data dell’opera: 1526, sorta perciò in quel quarto di secolo di fioritura d’arte architettonica e decorativa in cui nel borgo si innalzano i bei palazzi Martinengo ora Bonomi, Grataroli ora De Beni, Casotti-Mazzoleni ora Bassi-Rathgeb, Tasso ora Lanfranchi, Morandi Lupi poi Comando militare (1).

E forse la fontana fu il dono di una di quelle insigni famiglie patrizie.

 

Nota

(1) Alcuni fanno risalire la sua costruzione attorno all’anno 1530. Calvi, nelle sue “Effemeridi”, afferma che la fontana fu inaugurata il 9 agosto 1572.

Riferimento principale

Luigi Angelini, “La fontana del delfino”, Antiche fontane e portali di Bergamo, Stamperia Conti, Bergamo, 1964, pagg. da 20 a 22.

Casa Bottani in via Gombito: la “Casa Veneta” di Bergamo

Rilievo acquerellato di Casa Bottani (1899) in via Gombito (Bergamo Alta) eseguito dal vero dal pittore Angiolo D’Andrea

Affacciata su via Gombito al civico 26, Casa Bottani-Passetti è uno dei pochi esempi rimasti a Bergamo di case affrescate nel Cinquecento. Ma non solo: il coronamento ogivale e trilobato delle finestre superiori, di gusto tipicamente veneto tardo gotico, e l’apparato decorativo dell’intera facciata, ne fanno l’unico esempio sopravvissuto in città di edificio alla “veneziana”.

Facciata di Casa Bottani. Particolare delle finestre

L’origine del fabbricato è certamente duecentesca ma esso ha subito nel tempo diversi interventi, come si evince dall’architettura delle finestre, secondo Luigi Angelini nettamente quattrocentesca e veneziana e probabilmente precedente la decorazione pittorica della facciata.

Facciata di Casa Bottani. Le modanature delle coppie di finestre trilobate profilate in arenaria e l’apparato decorativo della facciata, ricordano Ie architetture di transizione fra il gotico e il Rinascimento che adornano in gran numero “le calli e i canali della città lagunare e delle città della terraferma veneziana, Treviso, Padova, Vicenza e Verona” (L. Angelini, Un esempio cittadino di casa veneziana, cit.)

Nel corso dell’Ottocento, dalle finestre del terzo piano fu asportato il coronamento trilobato, allorchè  l’edificio venne rialzato di un altro piano.

La facciata di casa Bottani prima del restauro del 1948, L’insignificante quarto piano (così lo definì Angelini) fu aggiunto nell’Ottocento, rovinando il coronamento trilobato delle due finestre del terzo piano, che fu reintegrato con il restauro del 1948

Tale coronamento venne reintegrato con il restauro dell’edificio nel 1948, in occasione del quale Mauro Pelliccioli provvide a consolidare le decorazioni della facciata (1)

(1) Un secondo intervento di restauro fu eseguito nella primavera del 1987 da Andrea Mandelli, con la collaborazione di Silvia Baldis e Marco Virotta.

Facciata di Casa Bottani. Particolare delle finestre

 

Facciata di Casa Bottani. Particolare delle finestre

Quest’ultima, alla fine dell’Ottocento costituiva ancora uno dei migliori esempi di pittura parietale cittadina ma nonostante i restauri eseguiti, oggi i profili dei particolari compositivi sono notevolmente deperiti.

La facciata di Casa Bottani a fine XIX secolo (BCBg, Raccolta Gaffuri, album 6, appendice n. 34)

 

La facciata di Casa Bottani qualche decennio dopo il restauro eseguito nel 1948 da Luigi Angelini per conto dell’Associazione Amici di Città Alta

Anticamente l’edificio era volgarmente chiamato “casa del Petrarca” poiché una tradizione vuole che l’orefice Enrico Capra vi abbia ospitato il poeta (2), che visitò Bergamo il 13 ottobre 1359. Ma a chi appartenne in realtà? Delle vicende patrimoniali dell’immobile sappiamo solo che nel XV secolo fu proprietà della famiglia Bottani e, tra il XIX e il XX secolo, della famiglia Passetti (3).

(2) Muzio 1900, Op. Cit.

(3) Stando a quanto si ricava dalla documentazione conservata presso la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio, sino al 1882 era nelle facoltà di Rodolfo Rodolfi, alla morte del quale passò alla moglie Giuseppina Passetti e ai suoi eredi, per poi finire intorno agli anni Quaranta ai Maffeis.

Casa Bottani

I Bottani (4), importante famiglia originaria della Valsassina dedita al commercio, grazie ai frequenti rapporti con Venezia avevano ottenuto dalla Serenissima l’ambito titolo nobiliare.

Nel palazzo, la famiglia Bottani ha lasciato il proprio stemma sia scolpito (nelle mensole sotto i davanzali delle finestre) che dipinto, e da ciò si può ritenere che essa sia stata committente, se non dell’intero edificio quattrocentesco, perlomeno della decorazione rinascimentale.

(4) Della famiglia Bottani si trovano memorie fin dalla prima metà del secolo XV. Chiamati nelle antiche carte “cittadini providi e discreti”, ebbero giudici di collegio, oratori e nel 1433 Ambrogio Bottani fu Vicario di Zogno (A. Gualandris, La città Dipinta, Op. cit.).

Lo stemma dipinto nella grande inquadratura fra le due finestre del secondo piano, raffigurante due leoni rampanti sostenenti una botte, rivela chiaramente il nome della famiglia che ha eretto l’edificio

Secondo Luigi Angelini, che ha curato il restauro dell’edificio, “la composizione decorativa affrescata è sicuramente del primo quarto del Cinquecento e pertanto del periodo in cui Bergamo, attraverso l’influsso veneziano, aveva abbondanza di artefici del pennello, ornatisti, riquadratori, affreschisti esimi di figura. Non è pertanto azzardato il pensare che a questa opera abbiano messo mano pittori di fama per il richiamo che da alcuni tratti viene al nome di Giovanni Cariani, chiamato in quegli anni ad eseguire in città opere considerevoli di pittura murale ormai perdute in edifici pubblici e privati” (5).

Sebbene la decorazione rinascimentale riveli “la mano di un artista di elegante garbo e di sicuro gusto nella nobile e fresca fattura dell’esecuzione” (6), l’ipotesi dell’attribuzione a Giovanni de’ Busi detto il Cariani (di cui si è proposta anche una data di esecuzione tra il 1517 e il 1523, che corrisponderebbe a quella di un soggiorno bergamasco dell’artista) non è stata accolta negli studi sul pittore e non viene nemmeno discussa nelle recenti monografie ad esso dedicate. D’altronde, le condizioni attuali della facciata non permettono un giudizio sereno ed equilibrato e gli elementi linguistici e stilistici che ancora si possono individuare non sono riferibili solamente al Cariani.
La presenza del fregio monocromo con teste imperiali sembra peraltro consigliare di retrodatare leggermente la decorazione, che sembra ancora esemplata su modelli della seconda metà del Quattrocento e che potrebbe quindi essere stata eseguita all’inizio del Cinquecento (7).

Della spettacolarità dell’apparato decorativo, resta una perfetta riproduzione ad acquerello realizzata nel 1899 dal pittore Angiolo D’Andrea, pubblicata nel 1900.

La decorazione era divisa in tre grandi registri separati da un fregio marcapiano a sfondo rosso con oculi, anfore e stemmi.

(5) Luigi Angelini, “Un esempio cittadino di casa veneziana”, Op. cit.

(6) Ibidem.

(7) Scheda Piano del Colore di Bergamo Alta, Op. Cit.

Il pregevole rilievo acquerellato di Casa Bottani (1899) eseguito dal vero dal pittore Angiolo D’Andrea, pubblicato dal locale Istituto di Arti Grafiche nella “Rivista Arte Decorativa e Industriale” e riprodotto a colori nella puntata del giugno 1900 (anche in BCBg, Bergamo illustrata, falcl. 74, n. 1)

Il primo registro a partire dal basso, delimitato da lesene decorate con anfore e girali monocromi, presenta negli spazi tra le finestre due scene.

Le due vedute dipinte al primo piano, completato da lesene rinascimentali con ornamenti vari; superiormente, tra il primo ed il secondo piano, corre un fregio rosso decorato con centauri, anfore e tre medaglioni

La scena di sinistra è ambientata in Piazza San Marco, come testimoniano lo scorcio di Palazzo Ducale e le colonne con il leone di San Marco e san Teodoro, la laguna e figure in primo piano.

La scena di sinistra riproduce, con due persone in primo piano, la piazzetta veneziana di S. Marco con le due tipiche colonne e lo sfondo della laguna

La scena di destra, con in primo piano figure maschili (letterati o poeti) fra cui Dante Alighieri, è una veduta della vecchia Venezia nel sestiere di Dorsoduro.

Nella scena di destra, la veduta della vecchia Venezia nel sestiere di Dorsoduro

Il secondo registro accoglie una decorazione di tipo architettonico geometrico.
Delimitato da due colonne corinzie, è dominato da due finestre trilobate sormontate da medaglioni sorretti da una coppia di sirene. Ai lati due finte finestre decorate.

Il secondo registro  della decorazione della facciata. Alle estremità laterali si notano, circoscritti in tondi, visi maschili e femminili

In questo registro (secondo piano), in un tondo sotto le balaustre troviamo anche due volti, uno femminile ed uno maschile,

Testa inscritta in uno degli spazi sotto le finestre

 

Testa inscritta in uno degli spazi sotto le finestre

e al centro, come osservato in precedenza, una complessa composizione con due leoni rampanti che sostengono una botte al di sopra della quale vi è seduto un uomo dalla testa leonina.

La figurazione araldica al centro del secondo registro, rappresentante un leone con bastone seduto sopra un elmo e sotto uno stemma con due leone rampanti reggenti una botte

Una fascia decorativa a fondo rosso con cavalli marini cavalcati da ragazze, intercalati da medaglioni di personaggi laureati e coronati, separa il secondo dal terzo piano.

Nel terzo ed ultimo registro l’impostazione decorativa è  molto simile a quella precedente: al centro tre figure intere al primo piano sotto la volta di un arco e alle estremità due lesene; a sinistra vasi con motivi floreali, a destra una composizione con putti (8).

(8) A. Gualandris, La città Dipinta, Op. cit.

L’insieme del terzo registro della decorazione della facciata

 

La scena centrale del terzo – ed ultimo – registro

 

Testa inscritta in uno degli spazi sotto le finestre, con a lato lesenette rappresentanti piccoli putti

 

Testa inscritta in uno degli spazi sotto le finestre, con a lato lesenette rappresentanti piccoli putti

 

Riferimenti

– Luigi Angelini: Un esempio cittadino di casa veneziana, in: “Cose belle di casa nostra: Testimonianze d’arte e di storia in Bergamo”, Stamperia Conti, Bergamo, 1955, pp. da 125 a 126.
– Casa Bottani, Scheda Piano del Colore di Bergamo Città Alta.
–  Academiaedu, Università degli studi di Bergamo, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea Triennale in Lettere, A.A 2012-2013, Marco Bombardieri, I cicli pittorici profani nella Bergamo del Cinquecento.

– Arnaldo Gualandris, La città Dipinta – Affreschi, Dipinti murali, Insegne di Bergamo Alta.  U.C.A.I., 2008.

Bibliografia

– Angelini L., 1951, Il volto di Bergamo nei secoli, Bergamo, tav. XLI.

– Angelini L., 1955, Cose belle di casa nostra. Testimonianze d ‘arte e di storia in Bergamo, Bergamo, pp. 125-126.
– Capellini P., 1987, Si tenta di salvare gli affreschi della casa veneziana in via Gombito, in ”L’Eco di Bergamo”, 9 agosto, p. 6.
– Gualandris A., 2008, La citta dipinta. Affreschi, dipinti murali, insegne di Bergamo alta, Bergamo, p. 55.
– Mazzoleni A., 1909, Guida di Bergamo storico artistica, Bergamo, p. 57.
– Muzio V., 1900, Vecchie case con facciate dipinte a Bergamo, in “Arte italiana decorativa e industriale”, n. 9, settembre, pp. 69-.70, tavv.. 49-50.
– Torri T., 1983, Policromie di affreschi nella Bergamo rinascimentale, in “Atti dell’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti, vol. XLII, a.a. 1980-1981/1981-1982, pp. 919-938.
– Rossi T., 2009, Bergamo. Urbs Picta. Le facciate dipinte di Bergamo tra XV e XVII secolo. Censimento e schedatura di tutti i dipinti murali degli edifici di Bergamo Alta, bassa e dei colli esistenti o citati dalle fonti, Bergamo, pp. 118-123 n. 26.
– Zanella V., 1971, Bergamo Città, Bergamo, p. 65.