Nella rigogliosa macchia verde che dalle spalle di Città Alta si allunga fino a toccare il colle di Sombreno, trionfa una minuta orditura vegetale, per lo più addomesticata, che nei secoli ha cesellato i pendii ridisegnandone le forme, in un mirabile equilibrio sospeso tra natura ed artificio.
Se verso nord il versante è più boscoso, selvaggio e in prevalenza ombroso, in quello esposto a mezzogiorno, più luminoso e soleggiato, l’uomo ha coltivato per secoli variegate ortaglie, alberi da frutto, olivi, vigneti ed anche gelsi, mentre più in basso biondeggiavano piccoli o grandi appezzamenti di frumento e di granoturco, curati dai mezzadri o da piccoli proprietari che nella bella stagione improvvisavano una “frasca”.
Qui gli avventori consumavano quel tanto che la natura elargiva sul posto, accompagnando le saporite pietanze con l’aspro vinello dei colli.
Se questi ambienti agresti di lontana memoria sono completamente scomparsi, o nel migliore dei casi rimpiazzati dagli “agriturismi”, fra Città Alta e Colli dominano ancora gli spazi aperti dei giardini, delle ortaglie e dei coltivi, in un meraviglioso intreccio di balze, terrazze e salite innervate da scalette, che si inerpicano in alto, lungo i versanti immersi in un bucolico scenario.
Così è nell’ampia conca che si apre grandiosa sotto le mura, fra la città alta e la Conca d’Oro, e così è nella conca di Astino e ovunque la dolcezza del clima lascia prosperare esemplari tipici dell’ambiente mediterraneo come il fico, il corbezzolo, l’olivo e la vite, coltivata da secoli non solo a mezzogiorno ma anche lungo i terrazzamenti più felicemente esposti del versante settentrionale, come in Valmarina, Valverde e Castagneta.
Anche i muri e i muretti dei Colli protetti dai venti freddi invernali riservano gradite sorprese, ospitando fra gli anfratti numerose specie spontanee o naturalizzate che dischiudono un mondo meraviglioso: talvolta sconosciuto ma meritevole di cure e di attenzioni.
E non stupisce che sui muri di via degli Orti in Borgo Canale – la conca “contadina” per eccellenza – oppure nella vicina via Sudorno, si trovino grandi esemplari di Cappero, riconoscibilissimo dagli splendidi festoni che si dischiudono nella maturità dell’estate.
Proprio sui muretti che sostengono i terrazzamenti sparsi qua e là lungo il reticolo dei colli, trovano ospitalità molte specie di tipo mediterraneo, come le borraccine e la cedracca, una felce dalle fronde carnose coperte sulla pagina inferiore da squame argentee.
Nella parte bassa dei muretti possiamo facilmente incontrare il finocchio selvatico, dalle foglie aromatiche e capillari, la rucola, la campanula siberiana, la pervinca maggiore ed anche numerosi tipi di aglio, che si accompagnano alle vistose fioriture del geranio sanguineo, alla salvia dei prati e al verde dorato di numerose graminacee, indicatrici di habitat macrotermici.
Se percorrete il sentiero della Madonna del Bosco nella tarda primavera, ai piedi del muro di cinta del giardino di Villa Bagnada potrete notare ciuffi di profumata melissa e generose macchie di erba cipollina, mentre fra i rovi del lato opposto fanno capolino grovigli di teneri loertis, germogli di luppolo creduti “asparagi selvatici”: quelli veri, da guardare e non toccare, se ne stanno nei paraggi, ben nascosti al centro di cespugli di pungitopo, il sempreverde dalle bacche rosse la cui raccolta è vietatissima.
L’olivo prospera soprattutto verso ovest, ben esposto anche sulle larghe terrazze secolari di Astino, dove rappresenta un vero e proprio ritorno dal momento che qui esisteva il podere Monte Oliveto, in linea con la lunga tradizione sui colli di Bergamo.
Con tutte le varietà coltivate – in prevalenza Leccino, Sbresa e Frantoio, cui si aggiungono esemplari di Pendula del Sebino, Pendulino, Maurino e Muraiolo – si produce l’olio D.O.P. Laghi Lombardi, un olio naturalmente biologico, fruttato e leggero, che profuma di erba fresca lasciando un retrogusto sia di mandorla verde che degli aromi che vi crescono intorno.
LA CONCA D’ORO
Passeggiare nel tripudio degli orti distesi lungo le terrazze della Conca d’Oro è un’esperienza unica. L’ampio anfiteatro che si apre a occidente della città, tra il crinale di Sant’Alessandro e la selvosa punta di San Matteo – che s’intravede da lontano coi suoi cipressi francescani -, regala all’avventore emozioni uniche.
Le sue verzicanti pendici sono coltivate da tempo immemore riportando alla mente le ceste ricolme di ortaggi portate dai contadini lungo le scalette che innervano la conca: Santa Lucia Vecchia, Paradiso, Fontanabrolo e scaletta delle More, sovrastate lungo il versante che sale a Sudorno e a San Vigilio rispettivamente dallo Scorlazzino e dallo Scorlazzone: ben sei – non c’è che dire -, cui andrebbero aggiunte la Ripa Pasqualina – che raccorda Astino a Sudorno – e la brevissima scaletta Bellavista!
Lungo queste splendide architetture gradinate dal tipico selciato dei colli, andavano su e giù i contadini trasportando il raccolto gelosamente coltivato fra i muriccioli a secco, a volte con l’aiuto di animali da soma; il rudimentale ma efficace sistema di raccolta delle acque garantiva l’apporto necessario per le coltivazioni.
Sono davvero poche le zone della Lombardia che oggi possono reggere il confronto con tali bellezze e con il numero pressoché infinito delle mete tanto sospirate da bergamaschi e da turisti, che nella loro quiete e frescura trovano il meritato riposo e refrigerio alla canicola dei periodi estivi, godendo ad ogni piè sospinto di scorci mozzafiato.
Volendo salire sul cocuzzolo di San Vigilio in un tardo pomeriggio spazzato dal vento, si può godere di quei tramonti rosseggianti e lasciarci il cuore. Da lì, sembra quasi di toccare con la mano la punta del Monviso e il profilo del Monte Rosa, che si staglia maestoso sulla linea dell’orizzonte: quegli stessi tramonti che ammaliarono Hermann Hesse quando, agli inizi del Novecento, venne in visita a Bergamo. E, naturalmente, con le cupole e le torri di Città Alta.
E fu proprio qui, nella conca protetta dal “tramontano” – il più vivo, rigido e molesto dei venti a Bergamo – che fu scelto di costruire negli anni Trenta il grande Nosocomio affacciato sulla splendida teoria dei palazzi severi, dalle chiese maestose e dai campanili solenni che profilano il paesaggio collinare.
Prima d’allora, la Conca d’Oro era una distesa agricola ricca di cascine ed orti, con biondi campi di grano, gialli spazi di ravizzone, giallo oro di gelsi in autunno, rogge correnti d’acqua e fonti: una valle caratterizzata dalla mitezza del clima per la fortunata esposizione; uno dei territori più ameni e fecondi che alla fine dell’Ottocento circondavano la città.
Soprattutto a ponente, grazie al particolare microclima di questo versante baciato dal sole, permangono numerosi appezzamenti che ammiriamo dai Torni e dalle stesse Mura, con le splendide geometrie di colture radenti il suolo, con le pezzature cromatiche di grande effetto e gli olivi ormai decennali, dediti alla produzione di olio EVO di ottima qualità.
Sono, questi, i pendii che verdeggiano anche a dicembre, colpiti dal sole basso sull’orizzonte che aiuta le colture nelle ampie ortaglie storiche lungo via San Martino della Pigrizia e Borgo Canale e che danno ancora reddito alle ultime famiglie depositarie di uno dei pochi prodotti tipici locali: la Scarola dei Colli, una particolare insalata che si raccoglie d’inverno sui pendii soleggiati di San Martino alla Pigrizia.
Ad esse si alternano coltivazioni floreali che trovano immediato smercio presso i fioristi in città o al mercato ortofrutticolo presso la Celadina, anche se è incessante l’approvvigionamento dalla riviera ligure delle plantule più comuni da crescere: geranei, violette, begonie o roselline perfette per un bouquet da sposa.
LA SCAROLA GIGANTE DEI COLLI DI BERGAMO: CHIARA, DOLCE E CROCCANTE
Appena fuori le mura veneziane si produce ancora la Scarola Gigante bergamasca, che ha trovato fortuna nella Conca d’Oro, dove in inverno riluce sui larghi fazzoletti di terra.
Per vederli, si oltrepassa la cinquecentesca porta Sant’Alessandro percorrendo via Borgo Canale fino a via San Martino della Pigrizia al civico 2, dove si prende una stradetta acciottolata da Giuseppe Bonacina in persona, da tutti conosciuto come Bepi: uno dei pochi produttori rimasti, insieme al figlio Michele, che da 75 anni porta avanti l’attività con i cugini Martino, Franco e Angelo Viscardi.
E’ grazie a loro se possiamo ancora ammirare lo spettacolo dei verdi campi di indivia scarola, un ortaggio a rischio di estinzione, oggi tutelato da un disciplinare nel quale l’aggiuntiva “dei Colli” è permessa solo per il prodotto coltivato all’aperto sui colli della città.
A rendere unica questa prelibatezza che trova le sue origini intorno a Bordeaux, in Francia, il sapere antico dei contadini locali e un mix di fattori ambientali, e cioè l’esposizione ottimale che la protegge dai freddi venti invernali tenendola al sole dalle otto alle cinque della sera; il terreno non argilloso ma ricco di sassolini che le permettono di stare per quattro lunghi mesi in campo aperto, senza ghiacciare.
Per poter crescere e prosperare infatti, la Scarola Gigante dei Colli di Bergamo ha bisogno di tanto freddo, per questo la si pianta, a seconda del clima, tra fine agosto ed inizi ottobre e la si lascia nel terreno per almeno quattro mesi. Il suo segreto è quindi restare al freddo il più possibile, tanto che la scarola di gennaio o di febbraio è sempre la più buona.
E’ proprio questa lunga permanenza all’aperto, insolita per un’insatata, a permetterle di iniziare ad acquisire il tipico sapore profondo.
Ma ciò che la rende speciale è la messa al buio per 7-12 giorni dopo la raccolta: o disponendola sotto terra coperta da teli oppure, come fa Giuseppe, riposta sotto “materassi” di fieno all’interno di una serra o di una cantina, dove subirà quel singolare processo di imbianchimento che renderà il suo cuore candido più fragrante e croccante e il sapore delicato: una scoperta avvenuta casualmente nel Dopoguerra e di cui oggi ringraziamo Giuseppe Bonacina (coadiuvato dalla paziente moglie Maria) nonché gli zii, pionieri di questa antica tecnica di produzione a mano, imitata da tutti gli ortolani che in gran numero lavoravano ed abitavano qui, in collina.
Dopo la raccolta, viene lavata e venduta all’ingrosso fin quasi a primavera, a circa 3 euro al kg.
Ma grazie al favorevole microclima, su questi terrazzamenti prosperano anche zucchine, fagiolini, cetrioli bianchi e teneri cornetti gialli: una delizia per il palato.
L’OLIO DELLE MURA VENEZIANE A VALVERDE: POCO MA PREZIOSO
Anche se l’olivo trova maggior fortuna a sud, agli esemplari citati sotto le mura o ad Astino vanno aggiunti quelli piantati più recentemente dall’azienda agricola della famiglia Cerea a Valverde, che si affiancano alla tradizionale coltivazione della vite.
A Valverde la tradizione resiste a dispetto dei cambiamenti che hanno portato al graduale abbandono delle famiglie contadine dal dopoguerra in avanti: qui, in questo paradiso verdeggiante che ha per sfondo la Città Alta dominata dall’altissima Torre del Gombito, sono ormai cinque generazioni che la famiglia Cerea, titolare dell’omonima azienda, continua a lavorare la fertile terra che si estende all’ombra delle mura veneziane, dove i fratelli Giuseppe (65 anni), Arcangelo (69), Giancarlo e Lucia ricavano del buon vino rosso, olio extravergine d’oliva di qualità ed anche un po’ di frutta.
Un tempo, era il padre degli attuali titolari ad occuparsi di tutto: della terra, delle mucche e dei maiali. Oltre alla vigna, sulle balze che arrivano sin quasi a toccare Porta San Lorenzo prosperavano il grano, il granoturco e tantissimi gelsi per i bachi da seta; gelsi con frutti bianchi leggermente aciduli e frutti neri, di cui non è rimasta nemmeno l’ombra.
Oggi, sono soprattutto i fratelli Arcangelo e Giuseppe ad occuparsi dell’azienda, coadiuvati da parenti e amici nei periodi di maggior lavoro.
L’ettaro scarso dello storico vigneto terrazzato all’ombra di San Lorenzo è coltivato dai Cerea dal lontano 1871, da quando la famiglia è proprietaria della “Cà de Sass”, la vecchia cascina costruita per lo più con sassi e pietre ed oggi abitata da uno dei quattro fratelli.
Nel 1998 l’azienda ha reimpiantato solo filari di uve rosse, ricavando annualmente circa 25 quintali di uva, pari a 3 mila bottiglie.
Tre le tipologie di vino prodotte: Merlot in purezza, Cabernet Sauvignon in purezza e l’etichetta derivante dalla vecchia cascina: il Cà de Sass, un taglio bordolese dei due vini, la cui formula è quella del Valcalepio Rosso.
Parte della produzione viene consumata in famiglia o da amici mentre il resto, etichettato a mano, è venduto a conoscenti.
Dal 2000, a far compagnia al vigneto e agli alberi da frutto posti ai piedi della “Montagnetta” vi sono 150 piante di olivo, poste amorevolmente in una zona che, a detta degli esperti, si presta a tale coltivazione. Le piante messe a dimora sono di diverso tipo: Leccino, Pendolino, Frantoio, Leccio del corno, Grignano e la Sbresa, una varietà autoctona bergamasca messa a dimora in epoca più recente.
Per poter cogliere le olive da frangere occorrono 6-7 anni da quando l’olivo viene piantato: il tempo necessario per provare a produrre un olio tutto targato Bergamo, com’è nelle intenzioni dell’azienda oggi tutelata dal Consorzio del Parco dei Colli.
Per ora, dalle preziose olive, tutte raccolte a mano e frante a poche ore dalla raccolta, si ottiene poco olio di alta qualità, che viene imbottigliato con l’etichetta “Mura Venete”.
A un anno esatto dalla rimozione dal soffitto del Santuario della Natività della Beata Vergine, l’ormai celebre osso di Sombreno ha potuto far finalmente ritorno alla sede che a lungo lo ha ospitato sul panoramico avamposto affacciato sulla piana del Brembo.
L’evento ha riguardato la serata dello scorso 7 settembre, durante la quale Marco Valle – direttore in carica del nostro Museo di Scienze Naturali – ha reso noti i risultati delle analisi svolte sul misterioso reperto, al fine di accertarne la reale natura.
Un’indagine totalmente documentata, svolta a partire dalla fatidica data del 13 settembre del 2018, quando, approfittando dell’impalcatura montata per il restauro del santuario, il personale del Museo, dietro incoraggiamento del parroco don Sergio Paganelli e con il benestare della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, prelevava dalla storica sede il reperto paleontologico, insieme alla catena di fattura settecentesca che lo assicurava saldamente al soffitto.
Nel corso della storica serata che ha svelato i misteri legati al prezioso cimelio, il pubblico presente ha colto l’occasione per ammirare il santuario nella sua nuova veste, abbellito da una sapiente opera di conservazione e consolidamento che ha valorizzato la luminosità degli stucchi secenteschi e portato alla luce gli ormai noti affreschi, rinvenuti per larga parte nel corso dei lavori e legati per lo più – come del resto gran parte dell’apparato iconografico dell’edificio – al sacro tema ispiratore del sito: quello della Natività di Maria.
Per oltre cinquant’anni, confidando nell’ipotesi del prof. Enrico Caffi (1866-1950), ci siamo cullati nella convinzione che l’osso appartenesse a un mammuth (elephas primigenius ossia progenitore degli odierni elefanti), vissuto nei pressi in età preistorica.
Durante alcuni scavi effettuati tra il 1905 e il 1914, dai depositi argillosi della piana di Petosino di Sorisole (un’antica palude lacustre), poco distante dal Santuario, erano emersi denti, zanne e numerose ossa di mammuth, ed altre testimonianze fossili di vertebrati (poi donati dalla Società del Gres al Museo di Scienze Naturali), oggetto di un successivo articolo vergato dal Caffi (1).
Incuriosito dall’osso di Sombreno, e tenendo conto dei ritrovamenti d’inizio Novecento, l’esimio professore – primo direttore del Museo -, forte del suo indiscusso prestigio di scienziato aveva identificato l’osso nella costola sinistra del primigenio elefante, che doveva provenire dalla piana di Petosino, sebbene risalente ad un periodo anteriore rispetto ai resti di mammuth citati poc’anzi.
Elucubrando sull’osso del santuario Caffi si spinse un po’ troppo in là con la fantasia, asserendo che questi era stato ritrovato al di sotto degli strati argillosi della piana, sfruttati da tempi immemori per la produzione di ottime stoviglie. Egli immaginava che quando in qualche punto gli scavi dovettero raggiungere la zona fossilifera – non adatta per stoviglie – l’area fosse stata abbandonata e risepolta sino al’arrivo degli escavatori, che rinvenuto il fossile e ritenendolo “un avanzo del diluvio, lo considerarono come sacro e degno di essere conservato nella Chiesa”.
La perentorietà della sua affermazione suonava come una sentenza inappellabile, scagliata contro le leggende locali e contro l’interpretazione avanzata dall’ “enclave” del santuario sulla collina, dove, per diversi motivi, l’osso in questione veniva attribuito ad un cetaceo anziché a un mammuth.
Ma la sentenza del Caffi, se poteva aver rassicurato gli uomini di scienza, non convinceva né gli animi semplici dei popolani né i voli pindarici di coloro che sicuramente egli considerava dei visionari.
Vi era una leggenda infatti – riferiva il Caffi nel 1942 – che attribuiva la costola di Sombreno “a un mostruoso animale che insidiava la vita degli uomini saggi”: leggenda che insieme ad altre pare essere archiviata nel Santuario e che in quanto tale non deve stupire, dal momento che in Italia sono molti gli edifici sacri a conservare ossa od altri resti animali, trovando riscontro o dando vita ad antiche leggende popolari che li attribuiscono a draghi o a mostruosi serpenti.
“Le nostre chiese, monumenti di fede, furono anche i primi musei d’arte e di storia naturale”, scriveva a tal proposito il curato del santuario di Sombreno, Don Angelo Rota, nel 1963.
I reperti zoologici potevano giungere da lontano attraverso chissà quali peripezie, od essere rinvenuti nei territori circostanti, come la grande costola di Balena appesa nella chiesa di San Giorgio in Lemine, ad Almenno San Salvatore e a un tiro di schioppo da Sombreno: osso che gli antichi abitanti almennesi ritenevano appartenere al drago ucciso da San Giorgio e che secondo Caffi fu ritrovato in loco durante gli scavi per la fabbrica della Chiesa e dello scomparso Castello: trovata cioè nelle argille marine depositate dall’antico mare pliocenico, insinuatosi sin verso il territorio di Almenno, Villa d’Almè e Clanezzo in Val Brembana.
Reliquie che, di volta in volta, oggi attribuiamo – facendo non poca confusione – alla vicinanza del fiume Brembo piuttosto che allo scomparso e mefitico lago Gerundo (il grande acquitrino che fino al medioevo si allargava tra l’Adda e il Serio e secondo alcuni fino al Brembo e all’Oglio), dai cui fumi emergeva il drago Tarantasio (le misteriose esalazioni erano dovute in realtà alla presenza nel sottosuolo di metano e acido solfidrico). Oppure, appunto, all’antico mare Adriatico del Pliocene, che ad Almenno era un golfo nel quale la Balena di San Giorgio avrebbe lasciato i suoi resti.
E se nel nostro pliocene la costola di San Giorgio in Lemine era il primo resto di balena – scriveva il Caffi – “altrove nelle stesse argille furono raccolti numerosi avanzi”.
D’altro canto però, i religiosi arroccati sulla collina di Sombreno attribuivano il singolare osso a “un’enorme costa da cetaceo”, aggiungendo che secondo il parere di un “distinto professore di storia naturale” il reperto doveva corrispondere in lunghezza alla sesta parte dell’animale: una notizia, questa, racchiusa in un opuscolo riguardante il santuario, pubblicato nel 1923 dal sacerdote Daniele Secondi (2).
Nel chiedersi il perché della presenza dell’osso di Sombreno, come e quando fosse arrivato nel santuario e per mano di chi, il sacerdote riteneva che, come ipotizzato dal parroco locale, il reperto fosse giunto in loco mediante la“distinta famiglia Moroni”, famiglia sombrenese che si era elevata al rango patrizio grazie al commercio marittimo in quel di Venezia, e che aveva concorso all’arricchimento del santuario attraverso la donazione di numerosi arredi.
Non era quindi strampalato supporre – scriveva il sacerdote – che imbattutosi in mare in un terribile scontro col cetaceo, dopo aver scampato una sciagura qualcuno di tale famiglia avesse “trasportato nella amata chiesa tale avanzo” – l’osso famoso – “a trofeo di vittoria, ed a monumento di gratitudine”.
A suffragio di tale interpretazione, il Secondi poneva l’accento sulla scritta AIM che appariva sull’osso, e che non poteva che significare A Imperitura Memoria.
In merito a tale questione, dopo quasi cinque lustri e precisamente nel 1947, in un articolo de L’Eco il Caffi parlava espressamente della costola con la scritta AIM ed esternava la sua contrarietà, scrivendo che per essere la costola di una balena era tutt’altro che enorme se confrontata con quella della Basilica di San Giorgio, che aveva una lunghezza doppia.
Non v’erano dubbi: la costola (che aveva asserito essere quella di sinistra, “piatta e curva”) apparteneva a un grosso elefante, aggiungendo che “non abbiamo bisogno di ricorrere alla storiella che essa sia stata portata da uno della famiglia Moroni, che aveva casa anche a Venezia, quando ne troviamo un deposito ai piedi del Colle di Sombreno”.
E in quanto alle leggende locali, come abbiamo capito le rigettava sdegnosamente e in toto.
Oggi, considerati i dubbi che da tempo gravano attorno all’osso del santuario, si è voluto riconsiderare la questione alla luce dell’esattezza offerta dai nuovi ritrovati tecnologici, che hanno permesso di datare lo scheletrico esemplare ed esaminare molto da vicino i particolari della sua superficie.
I risultati delle ricerche e delle analisi svolte sull’osso di Sombreno sono stati resi noti in occasione dei festeggiamenti per la Natività di Maria, alla presenza di un attento pubblico composto per lo più dagli abitanti del luogo – da sempre partecipi alle vicende del “loro” santuario – e da alcuni giornalisti.
Con l’ausilio di alcuni pannelli esplicativi, Marco Valle ha illustrato passo dopo passo le procedure preliminari di pulizia e consolidamento dell’osso, da cui sono emerse le prime, interessanti notizie.
IL PRELIEVO E IL RESTAURO DELLA COSTOLA
Il 13 settembre 2018, nel corso dei lavori di restauro del santuario il personale del museo preleva il reperto e la catena che lo sospende al soffitto. Nonostante la costola presenti, soprattutto superiormente, una superficie molto scura costituita da grasso ed alcune macchie di ruggine, la sua struttura è solida e con la dovuta cautela viene trasportata nei laboratori del museo, dove vengono valutate le modalità di intervento, a partire dalla pulizia effettuata mediante prodotti non aggressivi (che non alterano la superficie del reperto) o reversibili.
Le zone annerite e la ruggine dovuta al prolungato contatto con la catena di ferro, vengono delicatamente asportate mediante sostanze specifiche, mentre la superficie dell’osso viene consolidata grazie ad un’apposita soluzione.
Per riportare l’osso alla condizione originale, vengono asportate le scritte dei nomi che appaiono sulla superficie liscia della costola, e che erano state eseguite nella prima metà del Novecento dalle maestranze allora impegnate in lavori di tinteggiatura del santuario.
Dall’osservazione del reperto emerge che l’osso non è un fossile (in ciò contraddicendo Caffi), in quanto i tubercoli che ne caratterizzano la superficie si presentano puliti e non ingombri di materiale come argilla, terriccio o simili, come avviene solitamente nei fossili.
Alla domanda di una signora che chiede lumi riguardo il peso dell’osso, il relatore si accorge di non aver rilevato il dato. In ogni caso la lunghezza della costola è di 169 centimetri, ossia 11 cm in meno rispetto a quelli calcolati da Enrico Caffi.
La ripulitura dell’osso ha messo in evidenza anche il vistoso rigonfiamento nella parte distale, dovuto a una fattura malamente ricomposta.
AIM: QUALE IL SIGNIFICATO?
Ma il momento topico della serata inizia con l’osservazione delle scritte storiche che erano state segnalate dal sac. Secondi e citate dal Caffi, e che sottoposte a illuminazione ultravioletta da Franco Valoti hanno rivelato un esito del tutto inaspettato.
E qui occorre fare un passo indietro: il sacerdote Secondi nella “guida” del 1923 asseriva che la scrittapresente sulla superficie dell’osso, che interpretava come AIM, poteva essere stata eseguita da un membro della famiglia Moroni a significare “A Imperitura Memoria”, in riferimento allo scampato pericolo occorso in mare dopo l’incontro con una balena.
La luce ultravioletta ha invece evidenziato che le lettere A e M non sono inframmezzate da una “I” maiuscola – come si credeva – bensì da una croce: pertanto, alla luce della nuova scoperta l’interpretazione di quello che si credeva essere l’acronimo di “A Imperitura Memoria” non è corretta.
Quale significato cela dunque la croce interposta tra le lettere A e M? Riusciremo a dare una risposta?
LA DATAZIONE DELL’OSSO TRAMITE L’ANALISI AL RADIOCARBONIO
Passiamo ora alla datazione dell’osso, per la quale si è estratto un frammento di tessuto dal peso di circa 5 grammi inviato all’Università del Salento, dove è stato sottoposto all’esame del Carbonio 14.
Per inciso, il campione è stato rimosso una porzione già micrifratturata del callo osseo presente nella parte distale della costola.
Gli esiti dell’analisi al radiocarbonio fanno risalire con tutta probabilità la costola ad un periodo compreso tra il 1432 ed il 1591: ciò significa che essa non può essere quella di un Mammouth, smentendo decisamente la sentenza del Caffi.
ELEFANTE E CETACEO A CONFRONTO
Una successiva immagine mette a confronto le costole di un elefante con quelle di un capodoglio, ossia un grosso cetaceo: le prime appaiono come delle “strisce” sottili ed uniformi, mentre le costole di capodoglio sono a sezione rotondeggiante proprio come la costola del santuario, che è da ricondurre con sicurezza ad un cetaceo – forse una piccola balena -, vissuto all’incirca 500 anni fa, in pieno Rinascimento.
LA SORPRESA…
A questo punto la testolina del reporter Maurizio Scalvini comincia a macinare: “quali dati abbiamo a disposizione?”.
Le lettere A e M disegnate sull’osso sono inframezzate da una croce;
la costola appartiene ad un cetaceo vissuto tra il 1432 ed il 1591.
L’intuito lo porta a dare un’occhiata all’affresco Moroni, che si trova verso l’ingresso del santuario.
Lo sguardo cade ai piedi delle figure, dove un cartiglio indica che l’affresco è un ex voto, recando anche il nome di Antonio Moroni da Breno, con la data di esecuzione: il 15 Maggio 1580.
Intorno a quella data dev’essere dunque accaduto un un fatto talmente importante, da indurre Antonio Moroni a compiere un voto.
Riassumendo i dati disponibili:
Le lettere A e M disegnate sull’osso sono inframezzate da una croce;
l’affresco è un ex voto commissionato da Antoni Moroni da Breno nell’anno 1580 (o al massimo poco prima);
il cetaceo è vissuto tra il 1432 e il 1591, quindi nel 1580 era vivo e vegeto.
Le lettere A e M potrebbero corrispondere ad Antoni Moroni da Breno, la cui famiglia intratteneva affari commerciali marittimi in quel di Venezia. Accade dunque che nell’anno 1580 (o intorno ad esso), mentre è per mare Antonio s’imbatte in un mostro marino, e invocati i suoi santi scampa alla sciagura per grazia ricevuta; grazia alla quale ottempera commissionando l’affresco per il santuario, al quale dona un osso di balena su cui fa incidere la sue iniziali.
Queste le congetture di Maurizio.
Tutte coincidenze? I pezzi del puzzle sembrano incastrarsi, tanto più che si sa con certezza che per le genti di mare era consuetudine regalare alle chiese una costola di balena in segno di grazia ricevuta per scampato pericolo corso in mare.
Un’ulteriore verifica attesta che a Sombreno nel Cinquecento esistevano ben due Antoni Moroni, fratelli di quel Beltrami citato nel cartiglio: tutti membri della famiglia più antica di Sombreno oltre che la più misteriosa fra tutte le famiglie Moroni sparse in Lombardia (3).
Resterebbe da verificare quantomeno un effettivo legame tra costoro e i viaggi in mare, per completare il cerchio di quella che don Angelo Rota, curato di Sombreno, definì “una storia avvolta nel mistero”: un mistero che, in fondo, non fa che accrescere il fascino che da secoli avvolge il piccolo santuario arroccato sulla collina.
Note
(1) ENRICO CAFFI, Sul deposito di argille del Petosino (Sorisole, provincia di Bergamo), Rivista di Bergamo, vol. 6 (1934).
(2) Sac. Daniele Secondi, da: Il “santuario e l’antica parrocchiale – Umile guida – 1923 tipografia G. Carrara, Bergamo.
(3) A Sombreno i loro successori edificarono la prestigiosa villa che ora è Maccari (meglio nota come villa Moroni-Maccari) e possedevano altre case e una filanda che era annessa ad una villa sei-settecentesca: edifici che vennero acquistati dal conte Pietro Pesenti che ne fece la fattoria.
Ringraziamenti
A Maurizio Scalvini per le notizie, le fotografie e, ultima ma non ultima, la geniale intuizione.
A soli cinque anni di distanza dall’ingresso di Napoleone in città, il 2 maggio del 1801 il giovanissimo ufficiale Henry Beyle, più noto come Stendhal, parte da Milano verso Bergamo al seguito del generale Claude-Ignace-François Michaud – che segue di guarnigione in guarnigione e di cui diverrà aiutante di campo -, per trattenersi sino al 7 luglio dello stesso anno.
Reduce dalla frequentazione della società milanese e delle sue belle dame, il diciottenne Stendhal annota le sue impressioni nelle pagine di un diario, che egli chiama journal, dove sono contenute le memorie di viaggio sul paese che diverrà la sua patria di adozione.
Ma diversamente da quanto avviene altrove, a Bergamo i suoi stati di trasporto emotivo non sono correlati tanto alle opere d’arte del territorio, quanto verso il paesaggio, probabilmente perché l’obbligo del servizio prestato nelle fila dell’esercito napoleonico lo tengono lontano da impegni di natura più leggera; ma forse anche perché in quel periodo, verso l’arte dominava l’approccio illuminista.
In effetti, il riconoscimento delle qualità artistiche delle opere disseminate nel territorio era ancora limitato: Bergamo veniva considerata un territorio di frontiera culturale e il suo patrimonio artistico rivestiva scarsa rilevanza agli occhi del giudizio critico dell’epoca.
Bisognerà attendere la fine dell’Ottocento perché la critica riconosca Bergamo come un “centro” artistico a tutti gli effetti, specialmente per le sue opere d’arte di fine Quattrocento e primo Cinquecento, incluse naturalmente quelle di influenza veneta.
Stendhal racconta dunque l’emozione provata davanti agli scenari offerti dal paesaggio:
“La strada da Milano a Bergamo è magnifica e attraversa la più bella contrada del mondo. Da Canonica, villaggio sull’Adda, a venti miglia da Milano e a dieci da Bergamo, si gode una vista fra le più belle che si possano immaginare. Quella dalla città alta di Bergamo è meno dolce e assai più distesa…”.
Da casa Terzi, dove ha preso alloggio il generale Michaud, si distinguono chiaramente gli Appennini, a venticinque leghe di distanza.
Se ne scorgono distintamente i particolari con un cannocchiale di sei pollici di Ramsden che il generale possiede.
La vista è limitata a nord-est e a sud-ovest dalle montagne alle quali è addossata Bergamo.
Segue lezioni di italiano, scherma, clarinetto, passeggia a cavallo ed è assiduo frequentatore delle rassegne teatrali, tanto da risolversi a tradurre in francese la commedia di Carlo Goldoni, Gli amori di Zelinda e Lindoro, che vede rappresentata per la prima volta in un teatro bergamasco.
“Ci sono due teatri, uno molto bello nel Borgo, cioè nella zona in piano della città, l’altro di legno sulla piazza della città vecchia.Tutte le sere andiamo a quest’ultimo, vicinissimo alla nostra abitazione. L’altro è a mezz’ora di strada”.
Qualche volta Stendhal esce a cavallo per recarsi sulle colline che coronano la città e rientra estasiato per l’armonia del paesaggio, le fitte coltivazioni che coprono i pendii, le splendide vedute.
E’ a lui che dobbiamo una delle prime testimonianze sulla bellezza dei colli che si distendono alle spalle di Bergamo :
“Ho fatto col generale Michaud grandi passeggiate a cavallo. Il paesaggio di Bergamo è davvero il più bello che io abbia mai visto.
Amenissimi boschi coprono le colline dietro la città, quanto di più incantevole si possa immaginare. Sono quasi tutti riservati alla caccia, con le capanne per i cacciatori”.
Nel 1806, a distanza di diversi anni dal soggiorno a Bergamo, la città riemerge nelle sue annotazioni come un luogo della memoria e nella forma del ricordo romanzato. Lo scrittore francese rievoca la vista panoramica che si ha dalla città paragonandola al paesaggio di Montmorency , nell’Île-de-France: una “vista immensa che mi ricorda quella di Bergamo”.
L’anno successivo, in Roma, Napoli e Firenze – il testo della “Sindrome” – è presente un riferimento analogo: “Vado a passare qualche ora a Bergamo per amore della bella vista che si gode di lassù. Potete fare il giro del mondo, che non trovereste nulla di più bello”.
Della bellezza decantata da Stendhal possiamo ancora ammirarne le peculiarità, perché Bergamo ha sempre avuto cura della fascia collinare, estesa alle sue spalle per una lunghezza di circa sei chilometri.
Se Stendhal percorse a cavallo il suo itinerario alla scoperta dei colli, oggi, in alternativa a qualsiasi altro mezzo di trasporto si può partire a piedi, dalla funicolare che, al di là delle mura veneziane, conduce direttamente sul colle di San Vigilio.
Man mano si sale il paesaggio si allarga e si fa splendido…
e, una una volta arrivati, si apre una deliziosa piazzetta con un bar.
Qui, un segnale sulla destra invita a salire al castello, dal quale si godono ampi panorami.
Ma non sono da meno quelli che si aprono lungo l’itinerario che vi invito a seguire proseguendo per la strada che si apre davanti a voi.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso sui due lati sorsero ville che venivano occupate soprattutto d’estate da famiglie in cerca di quiete e di frescura.
Ora sono dimore invidiate per la bellezza del luogo e dei giardini.
Più avanti la strada si biforca. Mantenendovi a destra proseguite fino ad arrivare ad uno slargo con panchine. È il belvedere di San Vigilio, così chiamato per le vedute sul caratteristico ambiente dei colli e sulla pianura.
Di fianco, sulla destra, una grandiosa villa il cui progettista ha ben sfruttato i dislivelli per realizzare uno scenografico giardino.
Se volete proseguire oltre vi suggerisco un percorso che Stendhal può avere seguito in una delle sue passeggiate a cavallo.
Quindi andate avanti in direzione della grande villa, passatele a fianco e proseguite a sinistra per la strada (via Monte Bastia) che sale verso l’alto.
Il primo tratto è un po’ in salita, ma quando si addolcisce in piano vi consentirà di ammirare nuovi angoli dei colli, al culmine dello splendore quando l’autunno incalza colorando il paesaggio di calde tonalità.
Ed è proprio questa la stagione ideale per godere al meglio i grandiosi panorami che si aprono da lassù.
Più avanti la strada ridiscende, proseguite sino a che, dopo alcune case, si apre la gradinata che cala ripida verso il basso: imboccatela senza esitazione.
Nel luminoso ambiente di vecchie coltivazioni che scendono degradando dal colle, vi accoglierà una veduta di alberi di pesco, di mandorlo e di cachi ricchi di frutti maturi, pronti per la raccolta.
Una volta arrivati alla fine della scalinata, prendete a sinistra per un viottolo in piano. Percorrerete uno stretto sentiero che si snoda lungo una lussureggiante valletta, dove potrete contemplare da vicino l’amenità di Monte Bastia e, là in basso, la valle di Astino, una veduta che vi allargherà il cuore!
Giunti al termine troverete, suggestiva nel suo isolamento, una dimora quattrocentesca con un loggiato dalle snelle colonne: Cà Moroni, un tempo nota “frasca” immersa in quello che a tutt’oggi rappresenta il più meraviglioso scenario dei colli di Bergamo.
Superata Cascina Moroni, salite lungo la stradina sterrata, seguitela sino a che non svolta a sinistra e proseguite lungo il sentiero di via del Rione, fra i terrazzamenti immersi nella quiete di un mondo dove il tempo pare essersi fermato.
Il viottolo, un’autentica strada di campagna che segue il tracciato di un’antica strada medievale, termina nell’asfalto di via San Sebastiano.
Seguitela a sinistra e vi troverete a passare sotto il giardino della villa che avete ammirato dal Belvedere.
Ed eccovi di nuovo su via San Vigilio in direzione funicolare, a una manciata di minuti dalla città antica.
Ahimé, non ci sono più le frasche sui colli, non si trovano più le mescite con i cortiletti acciottolati, ingentiliti da un glicine o da una vite all’americana, le panche, i tavolini di pietra, il pergolato. Che tempi!
Diceva bene Umberto Zanetti riguardo le frasche, osterie improvvisate nei casolari dei contadini che coltivavano la vite, che qualche decennio fa, su quei declivi soleggiati sorgevano a dozzine. Se ne stavano lì, discretamente nascoste tra boschetti, coltivi ed ortaglie, racchiuse in muretti che i contadini del posto curavano con perizia e dedizione.
Per l’occasione, i contadini – piccoli proprietari, mezzadri o fattori – solevano allestirle in rustiche cascinette o nel cortile di qualche casa colonica, come nella cinquecentesca Casa Moroni, ai piedi della Bastia, affacciata sulla Val d’Astino.
Le stradette, tracciate con gusto come via Sudorno, i Torni e S. Sebastiano, s’insinuavano fra dozzine di cascinali, fattorie e ville padronali, talvolta quasi aeree come lo Scorlazzino, con i suoi 210 scalini, e lo Scorlazzone, con i 165 gradini ripidi e faticosi. Ma anche sentieri fortunosi come quello dei Vasi.
Fra tanta bellezza, agli inizi degli anni Cinquanta sui colli ne spuntavano ancora una quarantina e nei primi anni Settanta ne sorgevano in Castagneta (frasca dei Rizzi)…
tra San Vigilio e Monte Bastia (le frasche dei Nessi, dei Lazzaroni, dei Bagià, la Marchina)…
ad Astino (la frasca del Martì). Mentre alla Madonna del Bosco era ancora attiva quella della Bagnada, l’ultima dei colli a cessare l’attività.
Se ne stavano lì, beatamente appollaiate sui crinali o nascoste tra le pieghe di qualche ombrosa vallecola, sospese fra i contrafforti montani – così vicini da accarezzarli con la mano – e la pianura, così vasta da non poterla abbracciare tutta con lo sguardo.
Le più famose erano quelle comprese nel classico “Gir dèle Sèt cése”: quelle dei Casati, dei Biondi, dei Carminati, dei Bagià, dei Canali, dei Rizzi, dei Nessi.
Di solito le rustiche “frasche” dei colli restavano aperte da Pasqua a settembre e comunque sino a che il vino non era terminato.
Chi aveva prodotti migliori preferiva non fare “cantina” e vendeva il proprio vino ad acquirenti della città. Benché fosse di bassa gradazione era una proficua fonte di reddito per il contadino, che si barcamenava tra lo smercio del suo prodotto e la scampagnata primaverile dei gitanti, allorché si elevava al rango di “oste” mettendo a disposizione bicchieri, piatti e posate per consumare in loco …Cosa per la quale la legge strizzava l’occhiolino: “fanno canti ossia servono vino e, se proprio hai fame, ti dànno contra legem rapido ma saporito cibo”, scriveva Veronelli negli anni ’70.
Con l’insegna si arrangiava assecondando un’antica usanza, già citata negli Statuti di Brescia nel Quattrocento, esponendo sul cancello a mo’ di richiamo alcuni rami messi alla brava – di ciliegio, gelso o edera -, ai quali veniva appeso il fiaschetto.
Ma prima di appendere frasca e fiasco ed aprire la casa agli avventori, i contadini ricevevano il permesso comunale e facevano daziare le botti di vino previo versamento di una tassa.
La si arrangiava all’aperto con qualche tavolo in graniglia oppure utilizzando, capovolti, i cosiddetti caalér, le vecchie tavole per l’allevamento dei bachi da seta; vi si aggiungeva una dozzina di sedie e qualche panca di legno, che venivano disposte all’ombra di un un porticato o di tigli, noci, ciliegi e deliziosi pergolati di vite americana, se non di glicine dal profumo inebriante.
Táol dé lègn, öna banchèta.. (Umberto Zanetti)
Accanto a qualche rustico vasetto di fiori e a una gabbietta appesa, nient’altro c’era se non attrezzi del mestiere come falci, rastrelli, zappe e gerle di ogni foggia.
Immancabili per chi desiderava uno spuntino erano le acciughe, i sottaceti, le salsicce e i salami veraci, i formaggi e gli stracchini casalinghi, le lattughe ed in primis le uova sode (i ciàpe de öf) accompagnate da radicchi dell’orto, esposto al sole e sempre curato con perizia.
Il tutto, innaffiato dal leggero vinello dei colli che allora come oggi non si prestava a lunghi invecchiamenti, andando gustato nel luogo d’origine; un vino che aumentava di gradazione se mischiato con uve o vini meridionali (Tarantino, Manduria, Trani, Bisceglie), noti nel bergamasco perché prima del 1880 fungevano da toccasana contro la pellagra, che era ai tempi molto diffusa.
Altro non poteva essere offerto se non nella stagione degli asparagi nostrani (i teneri löertis raccolti nel bosco), delle fragoline e delle ciliegie. O meglio, delle amarene e delle marasche.
A volte ci scappavano anche i salamini piccanti fatti in cascina con il maiale ucciso a Natale, il cotechino alla brace o, quando andava di lusso, gli spiedini di uccelletti con polenta: classica, taragna o chissöla; e pure il grappino ottenuto con l’alambicco nascosto in cantina: il tutto ancor più buono se gustato con gli amici davanti a una tavola rustica, all’aria aperta, nella pace di una bella giornata d’inizio primavera.
Capitava che alcune frasche aprissero per qualche giorno anche in inverno dopo l’uccisione del maiale: come quella dei Bagià in San Vigilio, che preparava per gli intimi la tipica torta di sangue e una succulenta trippa.
L’odore acre del vino novello, ancora giovane e asprigno, saliva dalle cantine aleggiando nell’aria e sembrava ancor più buono dopo la bella camminata. Perché sui colli ci si arrivava a piedi, salendo piano piano… e giunti alla frasca quel vino pareva nettare per gli dei.
Sempre pronto in cucina – “bianca di calce fresca e linda da specchiarvisi il rame” -, c’era un ricco assortimento di boccali e boccaletti di maiolica dalle tipiche forme e con i motti spiritosi in bella vista: “Bevi e paga, questo nettare ti resuscita”, oppure, “Chi beve vino campa più del medico che lo proibisce”.
Come d’incanto, a primavera inoltrata, sparsi tra i brevi filari esplodeva un tripudio di colori, con ciliegi in fiore e peschi di un impareggiabile color rosa che s’innalzavano al di sopra dei morbidi prati fioriti.
“Brezze profumate, nella calda estate, di fieni e di quante erbe odoravano strane e distinte”: mai espressione fu più felice.
Durante le gite fuori porta, frotte di giovanotti si appartavano beatamente sui prati e stesa un’enorme coperta traevano dai borsoni le abbondanti vettovaglie: ancor più buone se gustate all’aria aperta e innaffiate dal vinello dei colli, che insieme alle gazzose, alle birre e alla spuma veniva messo a disposizione dall’oste.
Da presso giungeva il suono di un’orchestrina arrangiata alla buona di chitarre, mandolini e fisarmonica, e si udivano i canti e le risate provenire dall’aia. Il repertorio variava dai canti di montagna alle canzoni melodiche del tempo, non disdegnando quelle napoletane. Ma si cantavano a squarciagola anche quelle un po’ “spinte”, piccanti.
Quando poi nella frasca arrivava qualche bella voce, si puntava pure su brani lirici come “La furtiva lacrima”, o a gran richiesta “Di quella pira l’orrendo fuoco”, con l’immancabile, solenne “DO di petto” finale, come quello – celebre – del Cuminetti, idraulico di professione e tenore mancato, che terminava con una clamorosa steccata. Un’atmosfera festosa che non lasciava spazio, malgrado l’ebbrezza, a litigi o a battibecchi: le urla erano riservate al gioco della morra.
Storica è in particolare la frasca dei Rapizza sul colle di San Sebastiano, di cui si ha notizia sin dal 1860!
Una missiva da Marsala del garibaldino Alessandro Airoldi, che non desiderava altro che tornarvi, diceva infatti: “Spero che potremo rivederci presto e andare dai Rapizza a mangiare pane e salame”.
Quando la lunga giornata volgeva al termine e dietro le torri e le cupole di Città Alta un tramonto di fuoco arrossava il cielo, i grilli canterini prendevano ad allietare l’oscurità.
Le varie compagnie allora discendevano in ordine sparso lungo i ripidi viottoli, e spesso capitava che qualcuno rovinasse tra i rovi per le troppe libagioni!
Quando poi arrivava settembre, “sostare alle frasche nei giorni feriali procurava un senso di timida letizia.. si godeva dell’umiltà di un fascino domestico, del tranquillo tramestio della cucina, del battere di un falcetto sulla siepe, del chiacchiericcio del pollaio…E nemmeno stordiva una voce perduta lontano…”: una sensazione decifrabile solo dai moti del cuore.
Ma quando il fiaschetto appeso al ramo spariva, significava che la stagione delle “frasche” era finita.
Il rito “di Sèt cése”
Nelle domeniche di primavera e fino al termine dell’estate per le comitive dei bergamaschi era un’allegra consuetudine ritrovarsi alle nove in Colle Aperto per raggiungere questa o quella frasca.
Si aspettavano l’un l’altro all’ombra dei rigogliosi ippocastani, nell’attesa di incamminarsi verso la meta prescelta.
A frotte arrivavano dai borghi inerpicandosi per il colle e risparmiando il fiato nell’attesa di riunirsi ai compagni, pregustando il premio finale di una gustosa merenda all’aperto consumata in allegria.
Dopo aver spedito una staffetta per prenotare il tavolo, a poco a poco le varie compagnie si disperdevano, fra canti e risate, tra le cascine che esponevano una frasca.
Ed immancabilmente la camminata procurava qualcosa di nuovo, di inaspettato, di stregato.
Chi saliva da Castagneta per raggiungere i Casati, i Birondi o i Carminati…
Chi vi si dirigeva da Colle Aperto…
…e chi s’incamminava per la Ripa di San Vigilio per raggiungere le frasche che si trovavano in quella zona.
I più anziani e le famiglie con bambini troppo piccoli, preferivano servirsi della funicolare, risparmiandosi la fatica della Ripa.
Dopo aver trascorso la giornata in letizia, giocando, cantando, gustando la cucina nostrana e bevendo fiumi di vino, verso le 22 si ritornava a casa; solitamente i vecchi, le donne e i bambini scendevano prima….
…mentre i più giovani – i tiratardi -, rispedite a casa le famiglie cominciavano un rito che consisteva nel cosiddetto “gir di sèt cése” (letteralmente: giro delle sette chiese): una sorta di maratona godereccia durante la quale si beveva e si cantava fino a notte fonda, concludendosi naturalmente con una sonora ciucca.
Un curioso aneddoto è contenuto nel bellissimo fascicolo di Evaristo Pagani e Luca Bresciani, pubblicato dalla Biblioteca Circoscrizionale “Gianandrea Gavazzeni”, dove un certo signor Gaetano racconta che dopo aver completato il “giro delle sette chiese”, prima di rientrare in città passava con gli amici per Borgo Canale, dove raggiunta la casa natale di Donizetti intonava un’appassionata “Furtiva lagrima”, celebre romanza dell’Elisir d’amore.
I lunedì le frasche erano frequentate soprattutto dai barbieri, che nei mercoledì delle Ceneri solevano inaugurare il periodo di “astinenza e digiuno” peregrinando tra le frasche e le osterie di Borgo Canale: quale simbolico richiamo alla Quaresima tenevano infilata un’aringa affumicata nel nastro del cappello, giusto per osservare il prescritto precetto di “magro” previsto il primo giorno quaresimale.
Alle frasche era poi consuetudine festeggiare anniversari, Prime Comunioni ed ogni altra occasione un po’ speciale, persino matrimoni.
Ma era soprattutto a Pasquetta che i bergamaschi raggiungevano la frasca preferita per il tradizionale pranzo a base di salame e insalatina fresca, accompagnando il tutto con il vinello dei colli e riservando ai bambini l’immancabile bottiglietta di gazzosa tappata con la caratteristica biglia di vetro.
Dopo il pranzo c’era tempo per una partita alle bocce sui precari campi improvvisati che confinavano con gli orti, e mentre i bambini giocavano, gli adulti si concedevano una passeggiata lungo i Torni godendosi fino all’ultimo il tepore del sole che baciava i colli e la città murata, al canto degli uccelli, merli, usignoli.
In lontananza, l’Ave Maria delle campane di Fontana era un rintocco quasi malinconico e struggente.
La più antica: la frasca-trattoria dei Rapizza, in via Botta di San Sebastiano
La frasca più antica di cui si ha memoria è quella dei Rapizza sul colle di San Sebastiano: nel 1860 esisteva già.
La tradizione vuole che ancora prima Gaetano Donizetti approdasse talora a questa oasi di pace dove, più di un secolo più tardi, negli anni quaranta del Novecento, in certe sere il tenore Alessandro Dolci sedeva al pianoforte e cantava; con lui spronava esibirsi alcuni provetti dilettanti del bel canto. La frasca allora si riempiva di avventori e il repertorio di arie e romanze durava fino a tarda ora.
Altre frasche sorsero fra i primi del Novecento e gli anni ’20.
La frasca – osteria del Pinì, in via Castagneta, n. 17
La frasca-osteria venne aperta nei primi anni del Novecento da Giuseppe Donizetti, con il supporto della moglie e dei figli che lo sostituivamo quand’egli si recava nelle stalle ad accudire i suoi cinque cavalli, o quando col suo carretto curava, per conto del Monopolio, la distribuzione del sale e dei tabacchi.
Diversamente dalle classiche “frasche”, il locale restava aperto tutto l’anno. Nei momenti di grande afflusso, il proprietario si serviva di qualche “sbandato” della zona, retribuendolo con un buon pasto caldo, un calice di vino e l’alloggio per la notte. Tra questi c’era un tal Rosaspina, una “macchietta”, da cui probabilmente deriva il nome della frasca, che accoglieva tra gli altri anche il Mèrica – famoso cantastorie – e il Mènech, suonatore di fisarmonica.
Il signor Giuseppe lasciò al figlio la conduzione dell’osteria nel 1928 per condurre la gestione del “Pianone”, dagli inizi del ‘900 adibita a “frasca fuori porta” e poi a “taverna con alloggio”.
La frasca del Vecchio Roccolino o“l’ostarèa di précc”, nell’omonima via
La frasca-osteria del “Vecchio Roccolino”, al civico 30, era gestita nel 1930 da Fulvio Cerea.
Era detta “l’ostarèa di précc” perché un gruppetto di giovani preti soleva trascorrervi il giovedì pomeriggio, non disdegnando qualche partitella a carte.
Si godeva di una quiete straordinaria e di una cucina genuina dove degustare il buon vino prodotto dal vigneto del proprietario. Sul bel caminetto posto nel cucinotto la moglie preparava i tipici piatti bergamaschi – polenta, casoncelli, costine.. – mentre i figli servivano ai tavoli.
I clienti durante la bella stagione si disponevano sotto il pergolato posto nel cortile della casa, accolti da un intenso profumo di glicine ed estasiati da una bella veduta panoramica su Città Alta. La frasca era poi provvista di un campo di bocce, dove si giocavano interminabili partite a carte sui tavoli in graniglia.
Anche qui si notavano spesso le “macchiette” dell’epoca, che con le loro storielle e canzoni divertivano gli avventori: il Mèrica, il Pipelét, lo Svìsser, il Bignòca, abile suonatore di fisarmonica.
L’osteria doveva chiudere tassativamente verso le 22, ora in cui gli ultimi clienti, a volte un po’ alticci, venivano prelevati e messi alla porta.
La chiusura della frasca avvenne nel 1936 ma ancora verso gli anni ’90 la cascina non aveva subito cambiamenti esterni, mantenendo intatta la sua rusticità.
La frasca di Burì o del Castèl, in via Castello Presati (Mozzo)
La frasca, immersa in un’area ricca di vigneti e coltivazioni ortofrutticole, venne adibita nel 1910 nel suggestivo cortile interno del Castèl, all’ombra dell’antica torre, un tempo più elevata.
I principali clienti della frasca – gestita dal signor Burini – provenivano da Curno, Mozzo e zone limitrofe, apprezzando il vino ritenuto fra i migliori prodotti sui colli, grazie alla favorevole posizione dei vigneti.
La capienza del cortile e la vicinanza dei prati circostanti assicuravano agli avventori ampi spazi per i loro divertimenti e la domenica la frasca registrava il tutto esaurito: vi si trovava immancabilmente un certo Carminati – che con baracca e burattini intratteneva i clienti raccontando le avventure di Gioppino -, e tra i tavolacci di legno si aggirava un certo Previtali con il suo cestino di vimini ricolmo di òss de mórcc, galète e biligòcc.
A portare allegria con canti, barzellette e strumenti musicali un po’ scordati c’erano anche il Milani, il Nervi e i fratelli Fumagalli , che inscenavano recite degne del miglior teatro dialettale.
Sotto il porticato si svolgevano di sotterfugio interminabili partite a morra – gioco d’azzardo e perciò proibito, ma qualche grattacapo fu arrecato al gestore dalle camicie nere, che più volte banchettarono nella sua frasca senza pagare il conto.
A Pasquetta si mangiava con grande devozione un pezzetto dell’uovo prodotto dalle sue galline il Venerdì Santo. Ogni bambino bolliva e colorava alcune uova e poi si aggirava per la frasca alla ricerca di contendenti per la sfida al pichèt, battendo l’uno contro l’altro la punta del proprio uovo: chi riusciva a mantenerlo integro s’impossessava dell’uovo del contendente (i più furbi sapevano che le più resistenti erano le uova a punta).
La frasca dovette chiudere i battenti nel 1936 a causa del chiasso che infastidiva i proprietari del castello e del terreno circostante, cui il gestore era vincolato da un contratto a mezzadria; i sui figli continuarono tuttavia con passione ad occuparsi del vigneto: “…noi siamo come il vitigno, arriva un momento in cui questo non produce più e lo sostituiamo con un altro, buttando quello vecchio nel camino…”.
La frasca dei Bagià, in via Scalvini (S. Vigilio)
Tante belle compagnie e che bevute!
La “frasca” si trovava in via Scalvini 11, al termine della panoramica per San Vigilio, ed era gestita dal sig. Burlezzaghi, coadiuvato dalla moglie e dai figli.
L’attività ebbe inizio nel 1920, quando i Bagià (appellativo dato ai contadini brianzoli, come lo erano appunto i nonni del gestore) ottennero il permesso dai proprietari della tenuta.
La zona era molto bella, ricca di alberi da frutta con un esteso vigneto di uva Isabella, disposto a terrazze.
Il cuore della frasca era il cortiletto posto all’uscita del rustico cucinotto, allestita con qualche tavolo in legno e in pietra per la sosta dei numerosi avventori (che l’oste preferiva chiamare “amici”), provenienti soprattutto da Città Alta.
Anche se il vino non era dei migliori, l’oste conservava in cantina una botticella di vino speciale da riservare alla sua famiglia o agli amici più intimi, per i quali la frasca veniva aperta, in occasioni speciali, anche nelle lunghe sere invernali dei fine settimana. Allora si gustava una succulenta trippa preparata con maestria dalla moglie del gestore, depositaria delle antiche ricette di cucina locale: quando si uccideva il maiale preparava una torta di sangue immancabilmente accompagnata ad un solido vin brulè.
Tutte le mattine di primavera a San Vele arrivava da via Pignolo un tizio accompagnato da una ventina di capre, che mungeva su richiesta. Vi giungeva anche la polaröla col suo cestino di uova, galline ruspanti e qualche galletto novello, alcuni già pronte per la casseruola, altri ancora vivi, “da tirarci il collo”. Anche il castragài si aggirava per le cascine dei colli, senza volere un compenso: ripassava quando i galletti castrati, erano ormai… capponi.
Dei suoi avventori il gestore ricordò la presenza dei fratelli Pagani – veri e propri intrattenitori ed abili cantanti – ai quali offriva il vino gratuitamente purché non lo “tradissero” con qualche altro concorrente.
Ma un ricordo indimenticabile è legato ad un gruppo di cantanti e di coristi lirici che saliti alla frasca al termine di una serata al Donizetti,“dopo aver mangiato e bevuto nel cucinotto intonarono un malinconico “Va, pensiero”. Beh, ancora adesso quel coro mi risuona nelle orecchie e mi fa venire la pelle d’oca”.
Nel 1971 il gestore dovette suo malgrado cessare l’attività perché la moglie si era ammalata e l’età cominciava a farsi sentire: “Se avessi qualche anno in meno sarei ancora là in mezzo ai miei vigneti e ai miei amici di Città Alta”, affermò commosso. Intorno agli anni ’80 lasciò la sua amata San Vele per stabilirsi a Ponteranica.
Sempre in via Scalvini sorgevano la frasca “del Barba” (di cui non si conosce l’esatta collocazione) e quella “della Matèla”, attualmente abitazione privata.
La frasca dei Montagnér, in via Castagneta
La frasca della famiglia Carminati, proveniente da Gerosa e dunque detta dei Montagnér, si trovava in via Castagneta al n. 35. Oggi la cascina sopravvive come abitazione privata, dopo essere stata adeguatamente ristrutturata nel rispetto delle caratteristiche originarie.
I Carminati avevano avviato l’attività nel 1925 con l’aiuto di tutta la famiglia (quattro maschi e quattro femmine), producendo vino in proprio così come la stragrande maggioranza dei gestori.
Dal momento che ogni botte doveva essere rigorosamente dissigillata dall’impiegato del dazio – previo versamento di una congrua tassa -, il contadino eludeva i controlli spostando abilmente il cerchio e praticando un piccolo foro nella botte, da cui versava il vino mancante: e tra un controllo e l’altro trascorreva parecchio tempo!
La frasca chiuse nel 1953 ma ancora nel maggio dell’87 il signor Carlo continuava a coltivare la vite, selezionando i vitigni.
La frasca dei Bepo Casati, in via Costantino Beltrami
Al civico 42 di via Costantino Beltrami, la frasca dei Casati aveva aperto i battenti nel 1927 nel bel cascinale a due piani con una terrazza in legname, già ristrutturato nell’86 presentando solo in parte la rusticità di un tempo. Nell’ampio cortile i cinque tavolacci in legno erano ricavati da tavole utilizzate per la lavorazione del baco da seta, dette caalér.
Gli avventori provenivano per lo più dall’alta città ma anche dai borghi; negli anni ’50 vi giungevano gruppi di famiglie milanesi con le “1100” e le “Topolino”.
Grazie anche alla felice posizione del vigneto esposto al sole e protetto dai venti freddi, si gustava un ottimo vinello, bianco e rosso, considerato “…uno dei migliori che si potevano bere sui nostri colli”.
La vendita stagionale iniziava nei primi giorni di primavera e solitamente coincideva con il 25 aprile – festa di San Marco -, terminando nel mese di giugno. Ma se avanzava del vino si poteva richiedere alle autorità competenti un proroga della licenza stagionale, prolungando l’attività di mese in mese.
Il signor Bepo ricordava che il più importante fra i suoi clienti fu lo scultore Manzù – ai tempi non ancora affermato -, che amava trascorrere il pomeriggio alla sua frasca, spesso animata da qualche burattinaio che montava la sua baracca improvvisando uno spettacolo.
Esilarante il ricordo di un cliente che preso dai fumi dell’alcool finì a gambe all’aria dentro una botte ancora mezza piena dove – diceva – avrebbe voluto passare il resto dei suoi giorni: dovettero estrarlo con la forza.
Nel 1957, pur con molti rimpianti i Casati decisero di cessare l’attività; gli introiti erano scarsi e il frastuono della frasca avrebbe arrecato troppo disturbo alle nuove abitazioni che stavano per sorgere in zona. Continuarono tuttavia a lavorare la vite ottenendo risultati soddisfacenti.
La frasca di Bíròncc, in via Roccolino
Quella dei Biròncc (Birondi), in via Roccolino 34, era la prima frasca che s’incontrava fuori le mura veneziane negli anni Trenta del Novecento.
Nel cortiletto pavimentato del piccolo ma accogliente cascinale, i tavolacci lignei stavano all’ombra di un pergolato sin dal 1934.
L’apertura della stagione avveniva il 27 aprile in coincidenza con la festa di San Pellegrino, venerato in Borgo Canale nella parrocchiale di Santa Grata Inter Vites, dove per l’occasione affluiva una gran folla che dopo le funzioni prendeva d’assalto le bancarelle per poi rifocillarsi nelle frasche o nelle osterie della zona, alcune delle quali, come vedremo, furono descritte da Luigi Pelandi. Gli avventori si disponevano allora nel campo dei Bíròncc, e, come un esercito in marcia finiva immancabilmente col calpestare o rovinare giovani pianticelle da frutto e i germogli di verdura.
Vi perveniva una compagnia molto affiatata, che dopo essersi rifocillata provava delle scenette di stampo dialettale, “dirette” dai signori Cortinovis e Lusetti.
Il signor Birondi ricorda inoltre che il lunedì, la frasca diventava luogo di ritrovo di non pochi calzolai della città che vi trascorrevano la loro giornata di riposo.
Data la scarsa produzione di vino, il periodo stagionale di apertura era molto breve (un paio di mesi al massimo), cosi come è stata breve la storia di questa frasca, che cessò di esistere dopo soli otto anni di attività in quanto poco redditizia.
Al maggio del 1987, l’ex cascina era adibita ad abitazione privata e vi risiedeva ancora la famiglia Birondi. L’ambiente non aveva subito alcun restauro, mantenendo integre le stesse caratteristiche di allora.
LE FRASCHE-OSTERIE DI BORGO CANALE NEL RICORDO DI LUIGI PELANDI
La frasca-osteria del Nicola, in via Borgo Canale
C’era un’osteria, quasi di fonte alla parrocchiale di Santa Grata inter vites, che gli abitanti del borgo chiamavano “trani”. Una mescita di vino, condotto da un certo signor Rana, un barese di nome Nicola; e per lui l’osteria andò perdendo il nome generico di “trani” per quello di “Nicola”.
Questo pugliese era un buon uomo, sempre indaffarato e pieno di iniziative per il bene della clientela, pittoresco nella sua parlata italiana infarcita di vocaboli e di espressioni dialettali nostre.
Il suo locale, alla sera e durante i giorni festivi, era sempre affollato sia per la modestia dei prezzi e sia per la robustezza del suo vino, apprezzato in particolare dagli ortolani di San Martino e dei Torni.
Le famiglie del borgo e delle vicinie prendevano lì il bottiglione di vino da portare a casa per la domenica; e le donne si facevano riempire la bottiglia di quell’olio denso che Nicola faceva arrivare dal suo paese. Un portento per la cura dei sofferenti e deboli di stomaco, una medicina preventiva contro le gastriti e le ulcere.
La frasca-osteria I bèi tep, in via Borgo Canale n. 52
Il locale era la meta preferita da chi, abitando in città, desiderava passare una mezza giornata in campagna e far merenda all’aria aperta.
Poiché quando sorse era ben fuori dal centro e si raggiungeva con una passeggiata in campagna, non dev’essere errato pensare che incominciasse la sua attività esponendo la frasca per smerciare il prodotto delle vigne nella conca di Fontanabrolo.
“[…] Dalla casa al “Paesetto” dove abitavo da ragazzo, vedevo la folla festosa ai tavoli del locale e ne udivo i canti fino a tarda ora della domenica; anzi, fin da allora, nelle giornate di sole, si udiva una fisarmonica e si travedeva la gente che faceva quattro salti sotto il portico.
Quando incominciai a frequentarlo, con gli amici, era ancora un locale che sapeva di campagna e di rustico; travi ai soffitti, muri grossi, pavimento di cemento.
Fuori un pergolato di uva isabella, con sotto i tavoli di graniglia e il gioco delle bocce.
Ebbe diversi gestori e varia fama. Trattoria, ritrovo per passatempo e giochi innocenti, ma anche teatro di qualche scontro. Vi scoppiarono rise e pestaggi. Ricordo due uomini che si affrontarono brandendo ciascuno un tavolo, un altro che venne legato con le cinghie dei pantaloni di alcuni presenti fin che gli svanì la sbornia e la voglia di picchiare.
Tra i gestori de “I bei tep” ci fu un gran giocatore di morra: un uomo basso, tarchiato, dal faccione di luna piena e dal carattere d’oro.
Altra figura i rilievo fu un pezzo di Marcantonio volontario di tutte le guerre. La sua mole giovanile scoraggiava qualsiasi intemperanza; bastava uno sguardo neanche troppo significativo sull’importuno per smorzare ogni velleità. E ce n’era bisogno in quel periodo immediatamente dopo la guerra che aveva scatenato tutte le passioni!”.
La frasca dei Rizzi, in Castagneta
Famosa in Castagneta è stata a lungo la frasca dei Rizzi, aperta nel 1936 e con vitigni di proprietà. Si trovava a metà di una delle scalette poste in fondo alla via del Pianone, dove un sentierino collega Castagneta con Valverde.
C’erano tavoli in pietra disposti nell’aia della casa, qualche tavolino in legno all’interno del cucinotto, un caminetto per cucinare un piatto di polenta, una stanzetta fresca dove si appendevano a stagionare i salami. C’era spesso gente allegra, con chitarra e mandolino, che cantava e ballava.
Ogni tanto vi capitava una macchietta che intratteneva i clienti con un lungo repertorio di barzellette o con racconti particolarmente comici.
La costruzione è stata infine demolita. Sempre in via Castagneta, al civico 14 sorgeva la frasca “dei Colombì”, poi adibita ad abitazione privata.
La frasca dei Bisù, in via Pianone
I Gotti iniziarono a “fare cantina” nel 1936, in via Pianone n. 9. producendo parecchio vino. Nel cucinotto posto al piano terra, lavoravano la moglie del signor Leone, gestore della frasca, e i figli (tre fratelli e due sorelle).
Numerose le persone provenienti da tutti i quartieri della città, dove potevano assistere, a domeniche alterne, a spettacoli di burattini condotti da Carlo Sarzetti – un personaggio dell’alta città -, ripagato con un buon litro di vino accompagnato da “pà e salam”.
Sui tavolacci di legno si svolgevano interminabili partite di marianna e di scopa, ma soprattutto si giocava al cöc (il cucco), ed era divertentissimo guardare i giocatori che di soppiatto si facevano numerosi “segni”: “al cöc si segnava puntando la carta sul tavolo (l’immagine di un gufo su un ramo), mentre la brèssa (il leone con sole e stemma a colori rosso e giallo, simbolo di Bergamo) “si segnava con un pugno sul tavolo, tenendo la carta che si giocava“. La posta ordinaria era costituita dal “mezzino” o dallo “scodelletto”; pagava ovviamente la coppia perdente.
Nel 1955 la famiglia Gotti cessò l’attività: nella zona nascevano nuove abitazioni che non avrebbero consentito gli schiamazzi provenienti dalla frasca.
Verso la fine degli anni ottanta divenne abitazione privata; il caseggiato ha subito interventi di restauro consistenti che hanno ne hanno modificato le caratteristiche rurali; è invece rimasta intatta la preziosa cantina dove venivano stipati vino e salami da stagionare.
LE ULTIME RESISTENZE
La frasca del Martì, in via Astino
La frasca del Martì (Martino), al civico 9 di via Astino, sorgeva in uno dei paesaggi più genuinamente agresti che i colli possano ancora offrire, la Val de Sti (Valle di Astino), culla dell’ex monastero, circondata da alberi di castagno, carpini e robinie.
Era stata aperta nella primavera del 1944, esponendo nel porticato della cascina il tradizionale “ram de murù”.
Si beveva dell’ottimo vino rosso prodotto con uve miste, ottenendo una produzione consistente. Il primo gestore della frasca – il signor Burini – raccontava che “durante la vendemmia l’uva veniva portata nei tini del monastero, dove veniva pigiata; il vino veniva messo nelle botti e collocato nelle secolari cantine dello stesso. Ogni contadino della zona aveva la sua botte personale, sigillata dagli ufficiali daziari che all’occorrenza venivano chiamati a togliere il sigillo; quindi si tracimava il tino nelle damigiane per portarlo successivamente alla frasca”.
Molte gli avventori provenienti dai borghi della città. Tra questi un certo Belù, un facchino famelico che alla domenica mangiava 12 uova e mezzo salame: “una volta aveva vinto al lotto, celebrò l’avvenimento divorando dodici razioni di trippa con altrettanti pani e tracannando sette litri di vino”.
Poi c’era ol Pöles, un cliente “talmente sporco che la sua puzza si sentiva a venti metri, ma lui diceva che così si conservava!”.
Nel 1960 la famiglia Burini cessò l’attività; i figli abbandonarono la campagna mentre e i genitori, ormai vecchi, non avevano più le forze per continuare.
Qualche anno più tardi la famiglia Carissoli riaprì la cascina – che era ormai in grave stato di degrado – e con grande impegno riuscì a ricostruire un ambiente decoroso ed accogliente: divenne la frasca di sic sorèle: delle cinque sorelle, che la gestivano con i genitori.
Verso la fine degli anni ’70 la zona stava notevolmente cambiando; la gente vi arrivava non più a piedi ma in automobile e i cascinali vicini, radicalmente ristrutturati, divennero ambite abitazioni di facoltosi bergamaschi e milanesi. Così anche la cascina subì lo stesso destino: fu venduta nel 1980 e completamente ristrutturata per essere adibita ad abitazione privata.
In via Astino non potevano mancare altre frasche: quella “del Regì” al civico 27 e la frasca “dei Sana” al civico 1, entrambe attualmente abitazioni private.
La frasca dei Nessi, in via Alle Case Moroni (Monte Bastia)
Unico nel suo genere nel panorama dei colli di Bergamo, l’edificio noto come Cascina Moroni (via Alle Case Moroni, n. 20) si adagia sulle pendici soleggiate poste fra la Bastia e San Vigilio con ai suoi piedi l’incantevole Riserva Naturale di Astino e dell’Allegrezza, dove lo sguardo si allarga sulla pianura occidentale.
L’edificio era stato edificato nel Quattrocento dai monaci di Astino come tubercolosario ad uso privato, il che giustifica la presenza sulle pareti di affreschi di soggetto religioso; dal 1600 divenne proprietà dei conti Moroni e nel 1950 fu adibita a “frasca” dalla famiglia Nessi.
La famiglia Nessi ne ottenne la licenza dopo diverse difficoltà, dovute soprattutto alla collocazione di Ca’ Moroni, raggiungibile attraverso la stretta mulattiera che si snoda fra terrazzamenti distanziati l’uno dall’altro da un salto di ben tre metri: un serio pericolo per i frequentatori che dopo aver “alzato il gomito” rischiavano di ruzzolare con molta facilità (cosa che qualche volta si verificò, anche se fortunatamente senza grossi danni).
Tutt’attorno v’erano terrazze coltivate a vigna – oggi ahinoi incolte -, con bellissimi alberi da frutta ed ortaglie con ogni ben di dio.
Il cucinotto, posto al piano terra, era il regno incontrastato della signora Nessi, che curava personalmente anche la “contabilità” per far quadrare il bilancio familiare.
L’apertura stagionale aveva inizio il 17 marzo, ma anche poco prima se la primavera anticipava i suoi tepori. Quattro mesi più tardi, quando il vino era terminato si toglieva dall’ingresso il ramo appeso col caratteristico fiaschetto e la famiglia Nessi tornava alle normali attività agricole.
Il vino aveva un sapore gradevole e, come spesso accadeva fra i contadini dei colli, venivano “mischiate” diverse qualità di uve; i Nessi producevano anche un ottimo moscato, un vero e proprio rosolio dalla preparazione lunga e laboriosa, “nervoso e sostenuto, certo meglio del taglialingua”, a detta di Luigi Veronelli.
Il giorno di Pasquetta era una gran festa, gli avventori giungevano a frotte e chitarre e fisarmoniche davano luogo a canti, balli e giochi sino a tarda sera. Scorreva vino in grande quantità ad innaffiare uova sode, “radici” e salame nostrano in abbondanza. Poi il ritorno in città, tutti gratificati da una giornata trascorsa all’aria buona e in allegria.
Giorni di festa, ma anche giorni tristi, come raccontava il signor Nessi: “Quando la tempesta ci rovinava il raccolto, ed allora il duro lavoro dei campi non ti veniva ripagato, restare senza vino era un grosso problema. Fortunatamente qualche produttore di altre zone, ne vendeva del proprio, così riuscivamo a tirare avanti”.
Cessata l’attività nel 1985, la frasca di Ca’ Moroni fu fra le ultime a chiudere i battenti, seguita da quella gestita dalla famiglia Pezzotta alla Bagnada.
“I tempi erano cambiati, avevamo avuto qualche problema con i proprietari della cascina, con i residenti delle ville vicine, anche gli avventori erano cambiati, purtroppo taluni non si accontentavano più del vino, ma raggiungevano i nostri colli per appartarsi in qualche sentiero nascosto dove si iniettavano la droga: non poche volte io e mia moglie abbiamo trovato giovani in condizioni disperate e prontamente li abbiamo soccorsi”.
A lungo la famiglia Nessí continuò con grande passione e sacrificio l’attività agricola, prevalentemente ortiva, che trovava nel mercato di Bergamo un immediato canale di raccolta. Il vigneto fu parzialmente ridotto ma qualitativamente migliorato. Cascina Moroni è ormai destinata a trasformarsi in un complesso agrituristico. Di una delle più belle frasche dei colli è rimasto ormai solo un nostalgico ricordo.
La frasca della Bagnada, in via Rabaiona (Madonna del Bosco): la fine di un’epoca
Nella magnifica tranquillità di Madonna del Bosco, imboccata una stradina che conduce all’ottocentesca Villa Bagnada, fra distese prative e ricchi vigneti sorgeva una perla di cascinetta dove, sino agli anni ’80 si potevano ancora trovare “uova e radici” e salame nostrano.
Gestita dalla famiglia Pezzotta, fu l’ultima frasca dei colli a cessare l’attività dopo quella dei Nessi.
La famiglia Pezzotta svolgeva l’attività dalla metà degli anni ’50 (dapprima a S. Paolo d’Argon), passando dalla mezzadria a un contratto d’affitto. I coniugi erano aiutati dai cinque figli, ma solo Leonida, la maggiore, mostrava la passione che animava i suoi genitori.
Ancora verso la fine degli anni ’80 il tempo pareva essersi fermato. Sembrava incredibile ritrovare sui colli le stesse cose di allora: i tavoli in pietra, le tazze in terracotta, le caratteristiche bottiglie del litro, del mezzo e del quartino; galline e pulcini pigolanti lasciati in libertà, lo starnazzare delle oche e il caratteristico goglottìo del tacchino.
La “frasca” apriva i battenti coi primi tepori di primavera proseguendo l’attività sino al termine del vino, prodotto in loco ed ottenuto con un misto d’uve la cui gradazione ottimale si aggirava sugli 11 gradi.
Gli avventori erano soprattutto interi nuclei familiari che trascorrevano i pomeriggi a giocare a carte e cantare al suono di chitarre e fisarmoniche; ma verso la fine degli anni ’80 le compagnie erano meno numerose, solitamente ragazzotti che disturbavano la quiete con rumorosissime radio ed enormi altoparlanti, spaventando le bestie.
E così anche i gusti erano ormai cambiati, si chiedeva meno vino, preferendo birra, aranciata, o peggio, Coca Cola. La cascina che un tempo allietava i pomeriggi degli amanti dei colli è fu poi adibita ad abitazione privata.
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Tutto perduto. Nel giro di due generazioni, agli inizi degli anni ottanta le poche frasche rimaste iniziarono a sparire ad una ad una. Chiusero per ultime quelle dei Rizzi in Castagneta, dei Carissoli ad Astino, dei Nessi a San Vigilio ed infine dei Pezzotta alla Madonna del Bosco, stanchi delle continue lamentele provenienti dagli abitanti delle ville circostanti e stretti nella morsa di una legislazione troppo rigida e impossibile da rispettare senza dover stravolgere i vecchi edifici; a ciò si aggiunse la scomparsa dei vecchi gestori e la mancanza di motivazione per i figli nel continuare la tradizione.
I tempi erano ormai cambiati e con essi gli avventori, che non si contentavano più di quel vinello un tempo tanto amato. Le cascine di allora si sono trasformate in residenze private, dislocate lungo i più ameni itinerari collinari oggi tanto ambiti quanto frequentati.
Con la chiusura dell’ultima frasca si è conclusa un’epoca e nessun complesso agrituristico potrà mai rimpiazzare la poesia, la rusticità e la bellezza delle vecchie “frasche”, perché così come i colli di Bergamo, con tutto ciò che racchiudevano e significavano, erano di tutti e per tutti: un mondo che non tornerà mai più e che possiamo solo ricordare con infinita nostalgia.
Riferimenti
Evaristo Pagani, Luca Bresciani: Le “frasche” sui colli di Bergamo. Circoscrizione n. 3 – Città alta e colli, 1999.
Da Geo Renato Crippa, “Le frasche sui colli”, in: Bergamo così (1900-193??). Banco di Bergamo – Editore. Bergamo, 1980.
Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa – Borgo Canale”, vol. VI, Bolis, 1967.
A coronamento del centro storico di Bergamo, esiste un vasto territorio collinare fatto di campi, prati e boschi, costellato di antiche vestigia e innervato da una fitta rete di bucolici percorsi, sentieri, viottoli e scalette. Il percorso qui proposto, compreso fra le località di Valmarina e Castagneta lungo il versante orientale della collina, conduce alla riscoperta di una delle porzioni più suggestive di questo meraviglioso patrimonio paesaggistico di natura e cultura. Si tratta di un itinerario che oltre a costituire una variante al classico tour ciclopedonale Green Way del Morla – Sentiero di Ilaria (ciclovia dei torrenti Morla e Quisa), consente di muoversi in un ambiente che conserva, all’interno di un considerevole patrimonio faunistico e floristico, la presenza di edifici rurali e manufatti storici di pregio quali l’ex monastero benedettino in Valmarina e i manufatti dell’acquedotto dei Vasi, l’impianto che per secoli ha costituito parte integrante della primitiva rete di distribuzione delle acque della città di Bergamo. L’acquedotto, di cui le prese d’acqua sono già documentate e rilevate in alcuni manoscritti del Settecento, raccoglie lungo il suo tragitto le acque sorgive dislocate tra gli avvallamenti boscosi posti dalle pendici del Monte Bastia ai fianchi del crinale, spingendosi sin verso Valmarina, da cui risale per Gallina e Castagneta. Il nostro itinerario, attraversando pressoché interamente un’area boschiva consente di praticare agevolmente attività sportive anche nella stagione più torrida.
Il percorso ideale qui proposto si diparte dal tratto della Green Way del Morla che si innesta da via Maironi da Ponte nella località di Valverde, giungendo a Valmarina all’ombra delle pendici boscose di Castagneta ed assecondando le pieghe del torrente tra ponti e divertenti passerelle lignee.
La vista si apre all’improvviso sul grandioso anfiteatro di Valmarina, accarezzando le morbide pendenze su cui poggia l’antico monastero, magicamente sospeso fra prati, boschi rigogliosi e terrazze tenute a vite.
Non troppo distante dalla viabilità principale, ma lontano quanto basta da costituire un’oasi a parte, l’antico monastero campeggia placido nella radura, splendidamente fuso con il tessuto che lo circonda in verde abbraccio.
Fra scorci di rara bellezza, il suo caldo color nocciola – ancor più vivo quando il sole lo accarezza – è come un bagno tiepido e benefico per gli occhi, invitandoci alla sosta.
Fondato nel XII secolo da una piccola comunità di monache benedettine è oggi sede del centro direzionale del Parco dei Colli, al centro di un ambiente ideale dove natura, cultura e attività sportive si coniugano in perfetta armonia.
In questa splendida conca suburbana – irrinunciabile polmone verde cittadino – l’antico monastero esibisce i due momenti salienti della sua storia secolare, mostrando i locali “canonici” della vita benedettina e cioè la chiesa, il refettorio e la sala del capitolo – il lato interamente affacciato sulla strada per la Val Brembana -, con le aggiunte realizzate dalla fine del Settecento per adattare il complesso ad aia rustica.
Dalla fine del Quattrocento, da quando le monache si trasferirono dentro le muraine, il monastero ormai abbandonato fu riadattato a cascina, subendo interventi che ne snaturarono soprattutto la parte interna.
Dalla fine del Settecento dunque, l’aggiunta progressiva di nuove volumetrie ha finito col raddoppiare le dimensioni dell’antico recinto fino a formare la grande corte chiusa che vediamo oggi: una tipologia inconsueta in una zona collinare – qual è quella di Valmarina -, dove le cascine hanno generalmente i corpi di fabbrica giustapposti, disposti a L, oppure contrapposti.
Comunque sia, specialmente nel lato est il complesso conserva ancora un notevole fascino, con ciò che resta della primitiva chiesetta romanica incorporata nello spigolo settentrionale del complesso.
La parete piena e compatta della chiesa è alleggerita da due elegantissime monofore, dallo slancio quasi gotico, separate da una lesena sottile entro la quale alcune porzioni di calda arenaria richiamano la parte superiore delle monofore.
Al di sopra di queste, due piccoli oculi catturano la luce dall’esterno e allo stesso tempo ammiccano verso valle, quasi a richiamare l’attenzione verso il bel monastero, intriso di storia secolare.
Il porticato, addossato al nucleo originario, trova precisa corrispondenza in complessi rustici che ritroviamo in diversi punti del territorio, dalle pendici della Maresana al castello della Moretta, in quel di Sorisole.
All’interno, fra un anfratto e l’altro sono conservati gli antichi arnesi impiegati nelle attività rurali e la loro semplicità riporta piacevolmente alla memoria quei frangenti di vita contadina vissuti in questo luogo sino a pochi decenni or sono.
Dall’osservazione dei particolari, emerge con chiarezza la filosofia che ha accompagnato ogni fase del magistrale restauro, che ha saputo calibrare perfettamente la conservazione di ogni singola parte con i nuovi adattamenti, mantenendo intatto il fascino e le suggestioni del manufatto antico.
Lasciata alle spalle questa piccola valle della Biodiversità – consorella della valletta di Astino – dove è preservato anche il più minuscolo gambero di fiume, imbocchiamo in salita la vera via dei Vasi, un viottolo a tornanti da non confondere con l’omonimo sentiero che frequentiamo abitualmente nei fine settimana, e che raccorda Valmarina alla località Cascina Costa, situata nella parte mediana di via Ramera.
“Questa” via dei Vasi, è così nominata perché il suo tracciato cela un condotto dell’antico acquedotto che da Valmarina, proprio al di sopra dell’antico monastero, si dirige sino all’uschiolo della valle dei Romanelli (di cui oggi si sono perse le tracce), concludendosi in località Gallina.
Dopo aver percorso la piccola serie di tornanti che si snodano fra la boscaglia, si raggiunge località Cascina Costa con il breve slargo posto a crocevia fra la ciclopedonale della Quisa e la via Ramera.
Pieghiamo decisamente verso la parte alta di via Ramera, che si impenna impietosamente lasciando brevi attimi di respiro ma ripagandoci, almeno inizialmente, con una vista impagabile su Valmarina.
Percorriamo l’ertissima salita sino alle pendici del Monte Bastia, e cioè sino a che non incontriamo la “cisterna del fontanino”: una fonte oggi ridotta a un rivolo, alimentata dalle sorgenti della Noce e dallo Scudo. Qui un pannello illustrativo indica l’inizio del sentiero 912, che procedendo in leggera pendenza lungo la valle della Costa ricalca il percorso dell’acquedotto lungo il Sentiero dei Vasi, percorso interamente boschivo che si raccorda alla località Gallina, in quel di Castagneta.
Il tracciato del sentiero 912, un percorso ombreggiato e pianeggiante, ideale per attività sportive svolte en plein air, coincide con l’antica “via del Canale”, secondo la denominazione riportata nelle mappe catastali del 1853.
VASO è un termine antico per indicare un canale adibito al trasporto dell’acqua: entrambe le denominazioni indicano appunto con evidenza la presenza in loco di un acquedotto, il cui tracciato, benché testimoniato già in epoca medievale, ricalca probabilmente il percorso di un precedente manufatto di epoca romana.
Lungo il sentiero è possibile osservare alcune parti dell’antico manufatto, che nonostante la condizione di attuale abbandono ancora denota la cura che nei secoli passati si riservava ad opere decisive come quelle idriche: il vaso maestro (la condotta principale), cisterne di raccolta e decantazione, uschioli d’ispezione, tombini, lastricati nonché un interessante sistema di condutture minori, in parte sopravvissute, che raccoglievano le acque delle sorgenti convogliandole dalle vallette nel “Vaso” principale.
I canali (realizzati in blocchi squadrati di pietra legati con malta di calce e cocciopesto) presentano mediamente di 25 x 40 cm; ogni canale era inserito in un cunicolo ispezionabile di 90 cm d’altezza e 70 cm di larghezza controllato periodicamente dai “fontanari”, gli addetti alla manutenzione di acquedotti e fontane, che ancora sul finire dell’800 ivi svolgevano lavori di manutenzione e restauro.
Lo apprendiamo grazie ad alcune date incise nei cunicoli che tuttora si snodano, in eccezionale stato di conservazione, negli orti delle case “Colombà” lungo la via Castagneta.
Una lapide inserita nel muro medioevale, in prossimità della località Gallina, ricorda che nel 1329 il podestà Beccaro Beccaris provvide a far effettuare la pulitura dell’acquedotto di Castagneta.
Presso una casa, sempre in località Gallina è stata rinvenuta una traccia della scritta AQ che dal 1728 costituiva, talvolta accompagnata da una croce, la sigla identificativa di tutti gli acquedotti facenti capo alla città di Bergamo.
Lungo il sentiero, il bosco, ricchissimo di Castagni e funghi, attira sovente nella mite e variopinta stagione autunnale, intere comitive intente alla raccolta.
Raggiunta l’estremità meridionale del sentiero dei Vasi in località Gallina all’altezza del segnavia 912, il condotto, ricongiungendosi con il canale proveniente dalla sezione inferiore di via Castagneta, si dirige verso la cisterna del baluardo di S. Alessandro percorrendo il nucleo di Castagneta.
Entrambi gli insediamenti, allungati lungo la strada percorsa attraverso i secoli dall’acquedotto dei Vasi, presentano i caratteri tipici della zona collinare di Bergamo.
Dalla località Gallina, l’acquedotto inizia, tra tratti incerti e non, a seguire il percorso di via Castagneta sino a via Beltrami, che percorre per un breve tratto, prima di infilarsi nelle Mura, attraversandole nello spalto di S. Pietro.
Fuoriesce poi nella seguente via Sforza Pallavicino, dov’è rimasta un’antica fontana.
Da qui riattraversa la via Beltrami, passa davanti alla polveriera superiore, attraversa il vicolo Colle, e attraversando il baluardo di S. Gottardo raggiunge la porta di S. Alessandro; la percorre lungo la parte superiore prima d’entrare nell’omonimo baluardo e raggiungere la cisterna in cui avviene il congiungimento delle sue acque con quelle portatevi dall’altro acquedotto, quello di Sudorno.
Anticamente, proprio qui, in prossimità dell’antica porta di S. Alessandro queste acque si univano nella fontana-serbatoio del “Saliente”, andata distrutta in occasione della costruzione delle Mura veneziane. Nonostante la sua distruzione, il nome di “Saliente” rimase per un certo periodo ad indicare l’intero acquedotto.
Dopo la costruzione delle Mura, il punto di confluenza venne spostato all’altezza del baluardo di Sant’Alessandro ma nel 1892 si procedette ad una nuova canalizzazione, resasi necessaria per ridurre l’inquinamento delle acque dovuto al passaggio della condotta all’interno delle case e sotto la sede stradale.