Ahimé, non ci sono più le frasche sui colli, non si trovano più le mescite con i cortiletti acciottolati, ingentiliti da un glicine o da una vite all’americana, le panche, i tavolini di pietra, il pergolato. Che tempi!
Diceva bene Umberto Zanetti riguardo le frasche, osterie improvvisate nei casolari dei contadini che coltivavano la vite, che qualche decennio fa, su quei declivi soleggiati sorgevano a dozzine. Se ne stavano lì, discretamente nascoste tra boschetti, coltivi ed ortaglie, racchiuse in muretti che i contadini del posto curavano con perizia e dedizione.
Per l’occasione, i contadini – piccoli proprietari, mezzadri o fattori – solevano allestirle in rustiche cascinette o nel cortile di qualche casa colonica, come nella cinquecentesca Casa Moroni, ai piedi della Bastia, affacciata sulla Val d’Astino.
Le stradette, tracciate con gusto come via Sudorno, i Torni e S. Sebastiano, s’insinuavano fra dozzine di cascinali, fattorie e ville padronali, talvolta quasi aeree come lo Scorlazzino, con i suoi 210 scalini, e lo Scorlazzone, con i 165 gradini ripidi e faticosi. Ma anche sentieri fortunosi come quello dei Vasi.
Fra tanta bellezza, agli inizi degli anni Cinquanta sui colli ne spuntavano ancora una quarantina e nei primi anni Settanta ne sorgevano in Castagneta (frasca dei Rizzi)…
tra San Vigilio e Monte Bastia (le frasche dei Nessi, dei Lazzaroni, dei Bagià, la Marchina)…
ad Astino (la frasca del Martì). Mentre alla Madonna del Bosco era ancora attiva quella della Bagnada, l’ultima dei colli a cessare l’attività.
Se ne stavano lì, beatamente appollaiate sui crinali o nascoste tra le pieghe di qualche ombrosa vallecola, sospese fra i contrafforti montani – così vicini da accarezzarli con la mano – e la pianura, così vasta da non poterla abbracciare tutta con lo sguardo.
Le più famose erano quelle comprese nel classico “Gir dèle Sèt cése”: quelle dei Casati, dei Biondi, dei Carminati, dei Bagià, dei Canali, dei Rizzi, dei Nessi.
Di solito le rustiche “frasche” dei colli restavano aperte da Pasqua a settembre e comunque sino a che il vino non era terminato.
Chi aveva prodotti migliori preferiva non fare “cantina” e vendeva il proprio vino ad acquirenti della città. Benché fosse di bassa gradazione era una proficua fonte di reddito per il contadino, che si barcamenava tra lo smercio del suo prodotto e la scampagnata primaverile dei gitanti, allorché si elevava al rango di “oste” mettendo a disposizione bicchieri, piatti e posate per consumare in loco …Cosa per la quale la legge strizzava l’occhiolino: “fanno canti ossia servono vino e, se proprio hai fame, ti dànno contra legem rapido ma saporito cibo”, scriveva Veronelli negli anni ’70.
Con l’insegna si arrangiava assecondando un’antica usanza, già citata negli Statuti di Brescia nel Quattrocento, esponendo sul cancello a mo’ di richiamo alcuni rami messi alla brava – di ciliegio, gelso o edera -, ai quali veniva appeso il fiaschetto.
Ma prima di appendere frasca e fiasco ed aprire la casa agli avventori, i contadini ricevevano il permesso comunale e facevano daziare le botti di vino previo versamento di una tassa.
La si arrangiava all’aperto con qualche tavolo in graniglia oppure utilizzando, capovolti, i cosiddetti caalér, le vecchie tavole per l’allevamento dei bachi da seta; vi si aggiungeva una dozzina di sedie e qualche panca di legno, che venivano disposte all’ombra di un un porticato o di tigli, noci, ciliegi e deliziosi pergolati di vite americana, se non di glicine dal profumo inebriante.
Táol dé lègn, öna banchèta.. (Umberto Zanetti)
Accanto a qualche rustico vasetto di fiori e a una gabbietta appesa, nient’altro c’era se non attrezzi del mestiere come falci, rastrelli, zappe e gerle di ogni foggia.
Immancabili per chi desiderava uno spuntino erano le acciughe, i sottaceti, le salsicce e i salami veraci, i formaggi e gli stracchini casalinghi, le lattughe ed in primis le uova sode (i ciàpe de öf) accompagnate da radicchi dell’orto, esposto al sole e sempre curato con perizia.
Il tutto, innaffiato dal leggero vinello dei colli che allora come oggi non si prestava a lunghi invecchiamenti, andando gustato nel luogo d’origine; un vino che aumentava di gradazione se mischiato con uve o vini meridionali (Tarantino, Manduria, Trani, Bisceglie), noti nel bergamasco perché prima del 1880 fungevano da toccasana contro la pellagra, che era ai tempi molto diffusa.
Altro non poteva essere offerto se non nella stagione degli asparagi nostrani (i teneri löertis raccolti nel bosco), delle fragoline e delle ciliegie. O meglio, delle amarene e delle marasche.
A volte ci scappavano anche i salamini piccanti fatti in cascina con il maiale ucciso a Natale, il cotechino alla brace o, quando andava di lusso, gli spiedini di uccelletti con polenta: classica, taragna o chissöla; e pure il grappino ottenuto con l’alambicco nascosto in cantina: il tutto ancor più buono se gustato con gli amici davanti a una tavola rustica, all’aria aperta, nella pace di una bella giornata d’inizio primavera.
Capitava che alcune frasche aprissero per qualche giorno anche in inverno dopo l’uccisione del maiale: come quella dei Bagià in San Vigilio, che preparava per gli intimi la tipica torta di sangue e una succulenta trippa.
L’odore acre del vino novello, ancora giovane e asprigno, saliva dalle cantine aleggiando nell’aria e sembrava ancor più buono dopo la bella camminata. Perché sui colli ci si arrivava a piedi, salendo piano piano… e giunti alla frasca quel vino pareva nettare per gli dei.
Sempre pronto in cucina – “bianca di calce fresca e linda da specchiarvisi il rame” -, c’era un ricco assortimento di boccali e boccaletti di maiolica dalle tipiche forme e con i motti spiritosi in bella vista: “Bevi e paga, questo nettare ti resuscita”, oppure, “Chi beve vino campa più del medico che lo proibisce”.
Come d’incanto, a primavera inoltrata, sparsi tra i brevi filari esplodeva un tripudio di colori, con ciliegi in fiore e peschi di un impareggiabile color rosa che s’innalzavano al di sopra dei morbidi prati fioriti.
“Brezze profumate, nella calda estate, di fieni e di quante erbe odoravano strane e distinte”: mai espressione fu più felice.
Durante le gite fuori porta, frotte di giovanotti si appartavano beatamente sui prati e stesa un’enorme coperta traevano dai borsoni le abbondanti vettovaglie: ancor più buone se gustate all’aria aperta e innaffiate dal vinello dei colli, che insieme alle gazzose, alle birre e alla spuma veniva messo a disposizione dall’oste.
Da presso giungeva il suono di un’orchestrina arrangiata alla buona di chitarre, mandolini e fisarmonica, e si udivano i canti e le risate provenire dall’aia. Il repertorio variava dai canti di montagna alle canzoni melodiche del tempo, non disdegnando quelle napoletane. Ma si cantavano a squarciagola anche quelle un po’ “spinte”, piccanti.
Quando poi nella frasca arrivava qualche bella voce, si puntava pure su brani lirici come “La furtiva lacrima”, o a gran richiesta “Di quella pira l’orrendo fuoco”, con l’immancabile, solenne “DO di petto” finale, come quello – celebre – del Cuminetti, idraulico di professione e tenore mancato, che terminava con una clamorosa steccata. Un’atmosfera festosa che non lasciava spazio, malgrado l’ebbrezza, a litigi o a battibecchi: le urla erano riservate al gioco della morra.
Storica è in particolare la frasca dei Rapizza sul colle di San Sebastiano, di cui si ha notizia sin dal 1860!
Una missiva da Marsala del garibaldino Alessandro Airoldi, che non desiderava altro che tornarvi, diceva infatti: “Spero che potremo rivederci presto e andare dai Rapizza a mangiare pane e salame”.
Quando la lunga giornata volgeva al termine e dietro le torri e le cupole di Città Alta un tramonto di fuoco arrossava il cielo, i grilli canterini prendevano ad allietare l’oscurità.
Le varie compagnie allora discendevano in ordine sparso lungo i ripidi viottoli, e spesso capitava che qualcuno rovinasse tra i rovi per le troppe libagioni!
Quando poi arrivava settembre, “sostare alle frasche nei giorni feriali procurava un senso di timida letizia.. si godeva dell’umiltà di un fascino domestico, del tranquillo tramestio della cucina, del battere di un falcetto sulla siepe, del chiacchiericcio del pollaio…E nemmeno stordiva una voce perduta lontano…”: una sensazione decifrabile solo dai moti del cuore.
Ma quando il fiaschetto appeso al ramo spariva, significava che la stagione delle “frasche” era finita.
Il rito “di Sèt cése”
Nelle domeniche di primavera e fino al termine dell’estate per le comitive dei bergamaschi era un’allegra consuetudine ritrovarsi alle nove in Colle Aperto per raggiungere questa o quella frasca.
Si aspettavano l’un l’altro all’ombra dei rigogliosi ippocastani, nell’attesa di incamminarsi verso la meta prescelta.
A frotte arrivavano dai borghi inerpicandosi per il colle e risparmiando il fiato nell’attesa di riunirsi ai compagni, pregustando il premio finale di una gustosa merenda all’aperto consumata in allegria.
Dopo aver spedito una staffetta per prenotare il tavolo, a poco a poco le varie compagnie si disperdevano, fra canti e risate, tra le cascine che esponevano una frasca.
Ed immancabilmente la camminata procurava qualcosa di nuovo, di inaspettato, di stregato.
Chi saliva da Castagneta per raggiungere i Casati, i Birondi o i Carminati…
Chi vi si dirigeva da Colle Aperto…
…e chi s’incamminava per la Ripa di San Vigilio per raggiungere le frasche che si trovavano in quella zona.
I più anziani e le famiglie con bambini troppo piccoli, preferivano servirsi della funicolare, risparmiandosi la fatica della Ripa.
Dopo aver trascorso la giornata in letizia, giocando, cantando, gustando la cucina nostrana e bevendo fiumi di vino, verso le 22 si ritornava a casa; solitamente i vecchi, le donne e i bambini scendevano prima….
…mentre i più giovani – i tiratardi -, rispedite a casa le famiglie cominciavano un rito che consisteva nel cosiddetto “gir di sèt cése” (letteralmente: giro delle sette chiese): una sorta di maratona godereccia durante la quale si beveva e si cantava fino a notte fonda, concludendosi naturalmente con una sonora ciucca.
Un curioso aneddoto è contenuto nel bellissimo fascicolo di Evaristo Pagani e Luca Bresciani, pubblicato dalla Biblioteca Circoscrizionale “Gianandrea Gavazzeni”, dove un certo signor Gaetano racconta che dopo aver completato il “giro delle sette chiese”, prima di rientrare in città passava con gli amici per Borgo Canale, dove raggiunta la casa natale di Donizetti intonava un’appassionata “Furtiva lagrima”, celebre romanza dell’Elisir d’amore.
I lunedì le frasche erano frequentate soprattutto dai barbieri, che nei mercoledì delle Ceneri solevano inaugurare il periodo di “astinenza e digiuno” peregrinando tra le frasche e le osterie di Borgo Canale: quale simbolico richiamo alla Quaresima tenevano infilata un’aringa affumicata nel nastro del cappello, giusto per osservare il prescritto precetto di “magro” previsto il primo giorno quaresimale.
Alle frasche era poi consuetudine festeggiare anniversari, Prime Comunioni ed ogni altra occasione un po’ speciale, persino matrimoni.
Ma era soprattutto a Pasquetta che i bergamaschi raggiungevano la frasca preferita per il tradizionale pranzo a base di salame e insalatina fresca, accompagnando il tutto con il vinello dei colli e riservando ai bambini l’immancabile bottiglietta di gazzosa tappata con la caratteristica biglia di vetro.
Dopo il pranzo c’era tempo per una partita alle bocce sui precari campi improvvisati che confinavano con gli orti, e mentre i bambini giocavano, gli adulti si concedevano una passeggiata lungo i Torni godendosi fino all’ultimo il tepore del sole che baciava i colli e la città murata, al canto degli uccelli, merli, usignoli.
In lontananza, l’Ave Maria delle campane di Fontana era un rintocco quasi malinconico e struggente.
La più antica: la frasca-trattoria dei Rapizza, in via Botta di San Sebastiano
La frasca più antica di cui si ha memoria è quella dei Rapizza sul colle di San Sebastiano: nel 1860 esisteva già.
La tradizione vuole che ancora prima Gaetano Donizetti approdasse talora a questa oasi di pace dove, più di un secolo più tardi, negli anni quaranta del Novecento, in certe sere il tenore Alessandro Dolci sedeva al pianoforte e cantava; con lui spronava esibirsi alcuni provetti dilettanti del bel canto. La frasca allora si riempiva di avventori e il repertorio di arie e romanze durava fino a tarda ora.
Altre frasche sorsero fra i primi del Novecento e gli anni ’20.
La frasca – osteria del Pinì, in via Castagneta, n. 17
La frasca-osteria venne aperta nei primi anni del Novecento da Giuseppe Donizetti, con il supporto della moglie e dei figli che lo sostituivamo quand’egli si recava nelle stalle ad accudire i suoi cinque cavalli, o quando col suo carretto curava, per conto del Monopolio, la distribuzione del sale e dei tabacchi.
Diversamente dalle classiche “frasche”, il locale restava aperto tutto l’anno. Nei momenti di grande afflusso, il proprietario si serviva di qualche “sbandato” della zona, retribuendolo con un buon pasto caldo, un calice di vino e l’alloggio per la notte. Tra questi c’era un tal Rosaspina, una “macchietta”, da cui probabilmente deriva il nome della frasca, che accoglieva tra gli altri anche il Mèrica – famoso cantastorie – e il Mènech, suonatore di fisarmonica.
Il signor Giuseppe lasciò al figlio la conduzione dell’osteria nel 1928 per condurre la gestione del “Pianone”, dagli inizi del ‘900 adibita a “frasca fuori porta” e poi a “taverna con alloggio”.
La frasca del Vecchio Roccolino o“l’ostarèa di précc”, nell’omonima via
La frasca-osteria del “Vecchio Roccolino”, al civico 30, era gestita nel 1930 da Fulvio Cerea.
Era detta “l’ostarèa di précc” perché un gruppetto di giovani preti soleva trascorrervi il giovedì pomeriggio, non disdegnando qualche partitella a carte.
Si godeva di una quiete straordinaria e di una cucina genuina dove degustare il buon vino prodotto dal vigneto del proprietario. Sul bel caminetto posto nel cucinotto la moglie preparava i tipici piatti bergamaschi – polenta, casoncelli, costine.. – mentre i figli servivano ai tavoli.
I clienti durante la bella stagione si disponevano sotto il pergolato posto nel cortile della casa, accolti da un intenso profumo di glicine ed estasiati da una bella veduta panoramica su Città Alta. La frasca era poi provvista di un campo di bocce, dove si giocavano interminabili partite a carte sui tavoli in graniglia.
Anche qui si notavano spesso le “macchiette” dell’epoca, che con le loro storielle e canzoni divertivano gli avventori: il Mèrica, il Pipelét, lo Svìsser, il Bignòca, abile suonatore di fisarmonica.
L’osteria doveva chiudere tassativamente verso le 22, ora in cui gli ultimi clienti, a volte un po’ alticci, venivano prelevati e messi alla porta.
La chiusura della frasca avvenne nel 1936 ma ancora verso gli anni ’90 la cascina non aveva subito cambiamenti esterni, mantenendo intatta la sua rusticità.
La frasca di Burì o del Castèl, in via Castello Presati (Mozzo)
La frasca, immersa in un’area ricca di vigneti e coltivazioni ortofrutticole, venne adibita nel 1910 nel suggestivo cortile interno del Castèl, all’ombra dell’antica torre, un tempo più elevata.
I principali clienti della frasca – gestita dal signor Burini – provenivano da Curno, Mozzo e zone limitrofe, apprezzando il vino ritenuto fra i migliori prodotti sui colli, grazie alla favorevole posizione dei vigneti.
La capienza del cortile e la vicinanza dei prati circostanti assicuravano agli avventori ampi spazi per i loro divertimenti e la domenica la frasca registrava il tutto esaurito: vi si trovava immancabilmente un certo Carminati – che con baracca e burattini intratteneva i clienti raccontando le avventure di Gioppino -, e tra i tavolacci di legno si aggirava un certo Previtali con il suo cestino di vimini ricolmo di òss de mórcc, galète e biligòcc.
A portare allegria con canti, barzellette e strumenti musicali un po’ scordati c’erano anche il Milani, il Nervi e i fratelli Fumagalli , che inscenavano recite degne del miglior teatro dialettale.
Sotto il porticato si svolgevano di sotterfugio interminabili partite a morra – gioco d’azzardo e perciò proibito, ma qualche grattacapo fu arrecato al gestore dalle camicie nere, che più volte banchettarono nella sua frasca senza pagare il conto.
A Pasquetta si mangiava con grande devozione un pezzetto dell’uovo prodotto dalle sue galline il Venerdì Santo. Ogni bambino bolliva e colorava alcune uova e poi si aggirava per la frasca alla ricerca di contendenti per la sfida al pichèt, battendo l’uno contro l’altro la punta del proprio uovo: chi riusciva a mantenerlo integro s’impossessava dell’uovo del contendente (i più furbi sapevano che le più resistenti erano le uova a punta).
La frasca dovette chiudere i battenti nel 1936 a causa del chiasso che infastidiva i proprietari del castello e del terreno circostante, cui il gestore era vincolato da un contratto a mezzadria; i sui figli continuarono tuttavia con passione ad occuparsi del vigneto: “…noi siamo come il vitigno, arriva un momento in cui questo non produce più e lo sostituiamo con un altro, buttando quello vecchio nel camino…”.
La frasca dei Bagià, in via Scalvini (S. Vigilio)
Tante belle compagnie e che bevute!
La “frasca” si trovava in via Scalvini 11, al termine della panoramica per San Vigilio, ed era gestita dal sig. Burlezzaghi, coadiuvato dalla moglie e dai figli.
L’attività ebbe inizio nel 1920, quando i Bagià (appellativo dato ai contadini brianzoli, come lo erano appunto i nonni del gestore) ottennero il permesso dai proprietari della tenuta.
La zona era molto bella, ricca di alberi da frutta con un esteso vigneto di uva Isabella, disposto a terrazze.
Il cuore della frasca era il cortiletto posto all’uscita del rustico cucinotto, allestita con qualche tavolo in legno e in pietra per la sosta dei numerosi avventori (che l’oste preferiva chiamare “amici”), provenienti soprattutto da Città Alta.
Anche se il vino non era dei migliori, l’oste conservava in cantina una botticella di vino speciale da riservare alla sua famiglia o agli amici più intimi, per i quali la frasca veniva aperta, in occasioni speciali, anche nelle lunghe sere invernali dei fine settimana. Allora si gustava una succulenta trippa preparata con maestria dalla moglie del gestore, depositaria delle antiche ricette di cucina locale: quando si uccideva il maiale preparava una torta di sangue immancabilmente accompagnata ad un solido vin brulè.
Tutte le mattine di primavera a San Vele arrivava da via Pignolo un tizio accompagnato da una ventina di capre, che mungeva su richiesta. Vi giungeva anche la polaröla col suo cestino di uova, galline ruspanti e qualche galletto novello, alcuni già pronte per la casseruola, altri ancora vivi, “da tirarci il collo”. Anche il castragài si aggirava per le cascine dei colli, senza volere un compenso: ripassava quando i galletti castrati, erano ormai… capponi.
Dei suoi avventori il gestore ricordò la presenza dei fratelli Pagani – veri e propri intrattenitori ed abili cantanti – ai quali offriva il vino gratuitamente purché non lo “tradissero” con qualche altro concorrente.
Ma un ricordo indimenticabile è legato ad un gruppo di cantanti e di coristi lirici che saliti alla frasca al termine di una serata al Donizetti,“dopo aver mangiato e bevuto nel cucinotto intonarono un malinconico “Va, pensiero”. Beh, ancora adesso quel coro mi risuona nelle orecchie e mi fa venire la pelle d’oca”.
Nel 1971 il gestore dovette suo malgrado cessare l’attività perché la moglie si era ammalata e l’età cominciava a farsi sentire: “Se avessi qualche anno in meno sarei ancora là in mezzo ai miei vigneti e ai miei amici di Città Alta”, affermò commosso. Intorno agli anni ’80 lasciò la sua amata San Vele per stabilirsi a Ponteranica.
Sempre in via Scalvini sorgevano la frasca “del Barba” (di cui non si conosce l’esatta collocazione) e quella “della Matèla”, attualmente abitazione privata.
La frasca dei Montagnér, in via Castagneta
La frasca della famiglia Carminati, proveniente da Gerosa e dunque detta dei Montagnér, si trovava in via Castagneta al n. 35. Oggi la cascina sopravvive come abitazione privata, dopo essere stata adeguatamente ristrutturata nel rispetto delle caratteristiche originarie.
I Carminati avevano avviato l’attività nel 1925 con l’aiuto di tutta la famiglia (quattro maschi e quattro femmine), producendo vino in proprio così come la stragrande maggioranza dei gestori.
Dal momento che ogni botte doveva essere rigorosamente dissigillata dall’impiegato del dazio – previo versamento di una congrua tassa -, il contadino eludeva i controlli spostando abilmente il cerchio e praticando un piccolo foro nella botte, da cui versava il vino mancante: e tra un controllo e l’altro trascorreva parecchio tempo!
La frasca chiuse nel 1953 ma ancora nel maggio dell’87 il signor Carlo continuava a coltivare la vite, selezionando i vitigni.
La frasca dei Bepo Casati, in via Costantino Beltrami
Al civico 42 di via Costantino Beltrami, la frasca dei Casati aveva aperto i battenti nel 1927 nel bel cascinale a due piani con una terrazza in legname, già ristrutturato nell’86 presentando solo in parte la rusticità di un tempo. Nell’ampio cortile i cinque tavolacci in legno erano ricavati da tavole utilizzate per la lavorazione del baco da seta, dette caalér.
Gli avventori provenivano per lo più dall’alta città ma anche dai borghi; negli anni ’50 vi giungevano gruppi di famiglie milanesi con le “1100” e le “Topolino”.
Grazie anche alla felice posizione del vigneto esposto al sole e protetto dai venti freddi, si gustava un ottimo vinello, bianco e rosso, considerato “…uno dei migliori che si potevano bere sui nostri colli”.
La vendita stagionale iniziava nei primi giorni di primavera e solitamente coincideva con il 25 aprile – festa di San Marco -, terminando nel mese di giugno. Ma se avanzava del vino si poteva richiedere alle autorità competenti un proroga della licenza stagionale, prolungando l’attività di mese in mese.
Il signor Bepo ricordava che il più importante fra i suoi clienti fu lo scultore Manzù – ai tempi non ancora affermato -, che amava trascorrere il pomeriggio alla sua frasca, spesso animata da qualche burattinaio che montava la sua baracca improvvisando uno spettacolo.
Esilarante il ricordo di un cliente che preso dai fumi dell’alcool finì a gambe all’aria dentro una botte ancora mezza piena dove – diceva – avrebbe voluto passare il resto dei suoi giorni: dovettero estrarlo con la forza.
Nel 1957, pur con molti rimpianti i Casati decisero di cessare l’attività; gli introiti erano scarsi e il frastuono della frasca avrebbe arrecato troppo disturbo alle nuove abitazioni che stavano per sorgere in zona. Continuarono tuttavia a lavorare la vite ottenendo risultati soddisfacenti.
La frasca di Bíròncc, in via Roccolino
Quella dei Biròncc (Birondi), in via Roccolino 34, era la prima frasca che s’incontrava fuori le mura veneziane negli anni Trenta del Novecento.
Nel cortiletto pavimentato del piccolo ma accogliente cascinale, i tavolacci lignei stavano all’ombra di un pergolato sin dal 1934.
L’apertura della stagione avveniva il 27 aprile in coincidenza con la festa di San Pellegrino, venerato in Borgo Canale nella parrocchiale di Santa Grata Inter Vites, dove per l’occasione affluiva una gran folla che dopo le funzioni prendeva d’assalto le bancarelle per poi rifocillarsi nelle frasche o nelle osterie della zona, alcune delle quali, come vedremo, furono descritte da Luigi Pelandi. Gli avventori si disponevano allora nel campo dei Bíròncc, e, come un esercito in marcia finiva immancabilmente col calpestare o rovinare giovani pianticelle da frutto e i germogli di verdura.
Vi perveniva una compagnia molto affiatata, che dopo essersi rifocillata provava delle scenette di stampo dialettale, “dirette” dai signori Cortinovis e Lusetti.
Il signor Birondi ricorda inoltre che il lunedì, la frasca diventava luogo di ritrovo di non pochi calzolai della città che vi trascorrevano la loro giornata di riposo.
Data la scarsa produzione di vino, il periodo stagionale di apertura era molto breve (un paio di mesi al massimo), cosi come è stata breve la storia di questa frasca, che cessò di esistere dopo soli otto anni di attività in quanto poco redditizia.
Al maggio del 1987, l’ex cascina era adibita ad abitazione privata e vi risiedeva ancora la famiglia Birondi. L’ambiente non aveva subito alcun restauro, mantenendo integre le stesse caratteristiche di allora.
LE FRASCHE-OSTERIE DI BORGO CANALE NEL RICORDO DI LUIGI PELANDI
La frasca-osteria del Nicola, in via Borgo Canale
C’era un’osteria, quasi di fonte alla parrocchiale di Santa Grata inter vites, che gli abitanti del borgo chiamavano “trani”. Una mescita di vino, condotto da un certo signor Rana, un barese di nome Nicola; e per lui l’osteria andò perdendo il nome generico di “trani” per quello di “Nicola”.
Questo pugliese era un buon uomo, sempre indaffarato e pieno di iniziative per il bene della clientela, pittoresco nella sua parlata italiana infarcita di vocaboli e di espressioni dialettali nostre.
Il suo locale, alla sera e durante i giorni festivi, era sempre affollato sia per la modestia dei prezzi e sia per la robustezza del suo vino, apprezzato in particolare dagli ortolani di San Martino e dei Torni.
Le famiglie del borgo e delle vicinie prendevano lì il bottiglione di vino da portare a casa per la domenica; e le donne si facevano riempire la bottiglia di quell’olio denso che Nicola faceva arrivare dal suo paese. Un portento per la cura dei sofferenti e deboli di stomaco, una medicina preventiva contro le gastriti e le ulcere.
La frasca-osteria I bèi tep, in via Borgo Canale n. 52
Il locale era la meta preferita da chi, abitando in città, desiderava passare una mezza giornata in campagna e far merenda all’aria aperta.
Poiché quando sorse era ben fuori dal centro e si raggiungeva con una passeggiata in campagna, non dev’essere errato pensare che incominciasse la sua attività esponendo la frasca per smerciare il prodotto delle vigne nella conca di Fontanabrolo.
“[…] Dalla casa al “Paesetto” dove abitavo da ragazzo, vedevo la folla festosa ai tavoli del locale e ne udivo i canti fino a tarda ora della domenica; anzi, fin da allora, nelle giornate di sole, si udiva una fisarmonica e si travedeva la gente che faceva quattro salti sotto il portico.
Quando incominciai a frequentarlo, con gli amici, era ancora un locale che sapeva di campagna e di rustico; travi ai soffitti, muri grossi, pavimento di cemento.
Fuori un pergolato di uva isabella, con sotto i tavoli di graniglia e il gioco delle bocce.
Ebbe diversi gestori e varia fama. Trattoria, ritrovo per passatempo e giochi innocenti, ma anche teatro di qualche scontro. Vi scoppiarono rise e pestaggi. Ricordo due uomini che si affrontarono brandendo ciascuno un tavolo, un altro che venne legato con le cinghie dei pantaloni di alcuni presenti fin che gli svanì la sbornia e la voglia di picchiare.
Tra i gestori de “I bei tep” ci fu un gran giocatore di morra: un uomo basso, tarchiato, dal faccione di luna piena e dal carattere d’oro.
Altra figura i rilievo fu un pezzo di Marcantonio volontario di tutte le guerre. La sua mole giovanile scoraggiava qualsiasi intemperanza; bastava uno sguardo neanche troppo significativo sull’importuno per smorzare ogni velleità. E ce n’era bisogno in quel periodo immediatamente dopo la guerra che aveva scatenato tutte le passioni!”.
La frasca dei Rizzi, in Castagneta
Famosa in Castagneta è stata a lungo la frasca dei Rizzi, aperta nel 1936 e con vitigni di proprietà. Si trovava a metà di una delle scalette poste in fondo alla via del Pianone, dove un sentierino collega Castagneta con Valverde.
C’erano tavoli in pietra disposti nell’aia della casa, qualche tavolino in legno all’interno del cucinotto, un caminetto per cucinare un piatto di polenta, una stanzetta fresca dove si appendevano a stagionare i salami. C’era spesso gente allegra, con chitarra e mandolino, che cantava e ballava.
Ogni tanto vi capitava una macchietta che intratteneva i clienti con un lungo repertorio di barzellette o con racconti particolarmente comici.
La costruzione è stata infine demolita. Sempre in via Castagneta, al civico 14 sorgeva la frasca “dei Colombì”, poi adibita ad abitazione privata.
La frasca dei Bisù, in via Pianone
I Gotti iniziarono a “fare cantina” nel 1936, in via Pianone n. 9. producendo parecchio vino. Nel cucinotto posto al piano terra, lavoravano la moglie del signor Leone, gestore della frasca, e i figli (tre fratelli e due sorelle).
Numerose le persone provenienti da tutti i quartieri della città, dove potevano assistere, a domeniche alterne, a spettacoli di burattini condotti da Carlo Sarzetti – un personaggio dell’alta città -, ripagato con un buon litro di vino accompagnato da “pà e salam”.
Sui tavolacci di legno si svolgevano interminabili partite di marianna e di scopa, ma soprattutto si giocava al cöc (il cucco), ed era divertentissimo guardare i giocatori che di soppiatto si facevano numerosi “segni”: “al cöc si segnava puntando la carta sul tavolo (l’immagine di un gufo su un ramo), mentre la brèssa (il leone con sole e stemma a colori rosso e giallo, simbolo di Bergamo) “si segnava con un pugno sul tavolo, tenendo la carta che si giocava“. La posta ordinaria era costituita dal “mezzino” o dallo “scodelletto”; pagava ovviamente la coppia perdente.
Nel 1955 la famiglia Gotti cessò l’attività: nella zona nascevano nuove abitazioni che non avrebbero consentito gli schiamazzi provenienti dalla frasca.
Verso la fine degli anni ottanta divenne abitazione privata; il caseggiato ha subito interventi di restauro consistenti che hanno ne hanno modificato le caratteristiche rurali; è invece rimasta intatta la preziosa cantina dove venivano stipati vino e salami da stagionare.
LE ULTIME RESISTENZE
La frasca del Martì, in via Astino
La frasca del Martì (Martino), al civico 9 di via Astino, sorgeva in uno dei paesaggi più genuinamente agresti che i colli possano ancora offrire, la Val de Sti (Valle di Astino), culla dell’ex monastero, circondata da alberi di castagno, carpini e robinie.
Era stata aperta nella primavera del 1944, esponendo nel porticato della cascina il tradizionale “ram de murù”.
Si beveva dell’ottimo vino rosso prodotto con uve miste, ottenendo una produzione consistente. Il primo gestore della frasca – il signor Burini – raccontava che “durante la vendemmia l’uva veniva portata nei tini del monastero, dove veniva pigiata; il vino veniva messo nelle botti e collocato nelle secolari cantine dello stesso. Ogni contadino della zona aveva la sua botte personale, sigillata dagli ufficiali daziari che all’occorrenza venivano chiamati a togliere il sigillo; quindi si tracimava il tino nelle damigiane per portarlo successivamente alla frasca”.
Molte gli avventori provenienti dai borghi della città. Tra questi un certo Belù, un facchino famelico che alla domenica mangiava 12 uova e mezzo salame: “una volta aveva vinto al lotto, celebrò l’avvenimento divorando dodici razioni di trippa con altrettanti pani e tracannando sette litri di vino”.
Poi c’era ol Pöles, un cliente “talmente sporco che la sua puzza si sentiva a venti metri, ma lui diceva che così si conservava!”.
Nel 1960 la famiglia Burini cessò l’attività; i figli abbandonarono la campagna mentre e i genitori, ormai vecchi, non avevano più le forze per continuare.
Qualche anno più tardi la famiglia Carissoli riaprì la cascina – che era ormai in grave stato di degrado – e con grande impegno riuscì a ricostruire un ambiente decoroso ed accogliente: divenne la frasca di sic sorèle: delle cinque sorelle, che la gestivano con i genitori.
Verso la fine degli anni ’70 la zona stava notevolmente cambiando; la gente vi arrivava non più a piedi ma in automobile e i cascinali vicini, radicalmente ristrutturati, divennero ambite abitazioni di facoltosi bergamaschi e milanesi. Così anche la cascina subì lo stesso destino: fu venduta nel 1980 e completamente ristrutturata per essere adibita ad abitazione privata.
In via Astino non potevano mancare altre frasche: quella “del Regì” al civico 27 e la frasca “dei Sana” al civico 1, entrambe attualmente abitazioni private.
La frasca dei Nessi, in via Alle Case Moroni (Monte Bastia)
Unico nel suo genere nel panorama dei colli di Bergamo, l’edificio noto come Cascina Moroni (via Alle Case Moroni, n. 20) si adagia sulle pendici soleggiate poste fra la Bastia e San Vigilio con ai suoi piedi l’incantevole Riserva Naturale di Astino e dell’Allegrezza, dove lo sguardo si allarga sulla pianura occidentale.
L’edificio era stato edificato nel Quattrocento dai monaci di Astino come tubercolosario ad uso privato, il che giustifica la presenza sulle pareti di affreschi di soggetto religioso; dal 1600 divenne proprietà dei conti Moroni e nel 1950 fu adibita a “frasca” dalla famiglia Nessi.
La famiglia Nessi ne ottenne la licenza dopo diverse difficoltà, dovute soprattutto alla collocazione di Ca’ Moroni, raggiungibile attraverso la stretta mulattiera che si snoda fra terrazzamenti distanziati l’uno dall’altro da un salto di ben tre metri: un serio pericolo per i frequentatori che dopo aver “alzato il gomito” rischiavano di ruzzolare con molta facilità (cosa che qualche volta si verificò, anche se fortunatamente senza grossi danni).
Tutt’attorno v’erano terrazze coltivate a vigna – oggi ahinoi incolte -, con bellissimi alberi da frutta ed ortaglie con ogni ben di dio.
Il cucinotto, posto al piano terra, era il regno incontrastato della signora Nessi, che curava personalmente anche la “contabilità” per far quadrare il bilancio familiare.
L’apertura stagionale aveva inizio il 17 marzo, ma anche poco prima se la primavera anticipava i suoi tepori. Quattro mesi più tardi, quando il vino era terminato si toglieva dall’ingresso il ramo appeso col caratteristico fiaschetto e la famiglia Nessi tornava alle normali attività agricole.
Il vino aveva un sapore gradevole e, come spesso accadeva fra i contadini dei colli, venivano “mischiate” diverse qualità di uve; i Nessi producevano anche un ottimo moscato, un vero e proprio rosolio dalla preparazione lunga e laboriosa, “nervoso e sostenuto, certo meglio del taglialingua”, a detta di Luigi Veronelli.
Il giorno di Pasquetta era una gran festa, gli avventori giungevano a frotte e chitarre e fisarmoniche davano luogo a canti, balli e giochi sino a tarda sera. Scorreva vino in grande quantità ad innaffiare uova sode, “radici” e salame nostrano in abbondanza. Poi il ritorno in città, tutti gratificati da una giornata trascorsa all’aria buona e in allegria.
Giorni di festa, ma anche giorni tristi, come raccontava il signor Nessi: “Quando la tempesta ci rovinava il raccolto, ed allora il duro lavoro dei campi non ti veniva ripagato, restare senza vino era un grosso problema. Fortunatamente qualche produttore di altre zone, ne vendeva del proprio, così riuscivamo a tirare avanti”.
Cessata l’attività nel 1985, la frasca di Ca’ Moroni fu fra le ultime a chiudere i battenti, seguita da quella gestita dalla famiglia Pezzotta alla Bagnada.
“I tempi erano cambiati, avevamo avuto qualche problema con i proprietari della cascina, con i residenti delle ville vicine, anche gli avventori erano cambiati, purtroppo taluni non si accontentavano più del vino, ma raggiungevano i nostri colli per appartarsi in qualche sentiero nascosto dove si iniettavano la droga: non poche volte io e mia moglie abbiamo trovato giovani in condizioni disperate e prontamente li abbiamo soccorsi”.
A lungo la famiglia Nessí continuò con grande passione e sacrificio l’attività agricola, prevalentemente ortiva, che trovava nel mercato di Bergamo un immediato canale di raccolta. Il vigneto fu parzialmente ridotto ma qualitativamente migliorato. Cascina Moroni è ormai destinata a trasformarsi in un complesso agrituristico. Di una delle più belle frasche dei colli è rimasto ormai solo un nostalgico ricordo.
La frasca della Bagnada, in via Rabaiona (Madonna del Bosco): la fine di un’epoca
Nella magnifica tranquillità di Madonna del Bosco, imboccata una stradina che conduce all’ottocentesca Villa Bagnada, fra distese prative e ricchi vigneti sorgeva una perla di cascinetta dove, sino agli anni ’80 si potevano ancora trovare “uova e radici” e salame nostrano.
Gestita dalla famiglia Pezzotta, fu l’ultima frasca dei colli a cessare l’attività dopo quella dei Nessi.
La famiglia Pezzotta svolgeva l’attività dalla metà degli anni ’50 (dapprima a S. Paolo d’Argon), passando dalla mezzadria a un contratto d’affitto. I coniugi erano aiutati dai cinque figli, ma solo Leonida, la maggiore, mostrava la passione che animava i suoi genitori.
Ancora verso la fine degli anni ’80 il tempo pareva essersi fermato. Sembrava incredibile ritrovare sui colli le stesse cose di allora: i tavoli in pietra, le tazze in terracotta, le caratteristiche bottiglie del litro, del mezzo e del quartino; galline e pulcini pigolanti lasciati in libertà, lo starnazzare delle oche e il caratteristico goglottìo del tacchino.
La “frasca” apriva i battenti coi primi tepori di primavera proseguendo l’attività sino al termine del vino, prodotto in loco ed ottenuto con un misto d’uve la cui gradazione ottimale si aggirava sugli 11 gradi.
Gli avventori erano soprattutto interi nuclei familiari che trascorrevano i pomeriggi a giocare a carte e cantare al suono di chitarre e fisarmoniche; ma verso la fine degli anni ’80 le compagnie erano meno numerose, solitamente ragazzotti che disturbavano la quiete con rumorosissime radio ed enormi altoparlanti, spaventando le bestie.
E così anche i gusti erano ormai cambiati, si chiedeva meno vino, preferendo birra, aranciata, o peggio, Coca Cola. La cascina che un tempo allietava i pomeriggi degli amanti dei colli è fu poi adibita ad abitazione privata.
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Tutto perduto. Nel giro di due generazioni, agli inizi degli anni ottanta le poche frasche rimaste iniziarono a sparire ad una ad una. Chiusero per ultime quelle dei Rizzi in Castagneta, dei Carissoli ad Astino, dei Nessi a San Vigilio ed infine dei Pezzotta alla Madonna del Bosco, stanchi delle continue lamentele provenienti dagli abitanti delle ville circostanti e stretti nella morsa di una legislazione troppo rigida e impossibile da rispettare senza dover stravolgere i vecchi edifici; a ciò si aggiunse la scomparsa dei vecchi gestori e la mancanza di motivazione per i figli nel continuare la tradizione.
I tempi erano ormai cambiati e con essi gli avventori, che non si contentavano più di quel vinello un tempo tanto amato. Le cascine di allora si sono trasformate in residenze private, dislocate lungo i più ameni itinerari collinari oggi tanto ambiti quanto frequentati.
Con la chiusura dell’ultima frasca si è conclusa un’epoca e nessun complesso agrituristico potrà mai rimpiazzare la poesia, la rusticità e la bellezza delle vecchie “frasche”, perché così come i colli di Bergamo, con tutto ciò che racchiudevano e significavano, erano di tutti e per tutti: un mondo che non tornerà mai più e che possiamo solo ricordare con infinita nostalgia.
Riferimenti
Evaristo Pagani, Luca Bresciani: Le “frasche” sui colli di Bergamo. Circoscrizione n. 3 – Città alta e colli, 1999.
Da Geo Renato Crippa, “Le frasche sui colli”, in: Bergamo così (1900-193??). Banco di Bergamo – Editore. Bergamo, 1980.
Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa – Borgo Canale”, vol. VI, Bolis, 1967.