Un viaggio di scoperta tra Valverde e Piazza Mascheroni, lungo l’antico borgo di San Lorenzo

Forografie di Maurizio Scalvini

Il bucolico scenario della valletta di Valverde, la conca adagiata sotto Colle Aperto, tra i baluardi di San Lorenzo e di Valverde

Avete la mattinata tutta per voi e volete spenderla passeggiando tra natura, monumenti e chiese, soli o con la vostra dolce metà, proprio come nella canzone di Battisti?

La giornata non è un granché ma non rinunciate all’idea di respirare l’aria di primavera, sgranchirvi e smaltire quel chiletto accumulato, ritemprando la mente, spesso affaticata da mille incombenze quotidiane.

Inerpichiamoci allora, lasciandoci stupire dalle bellezze racchiuse nella bucolica valletta di Valverde, volgendo lo sguardo alla ricerca dei particolari anche più nascosti che arricchiscono un paesaggio così bello da sembrar dipinto dalla mano di un pittore

In primavera, quando gli alberi da frutto sono in fiore e il canto degli uccellini regna sovrano, Valverde si veste di magia, presentandosi in tutta la sua unicità (dipinto di Claudio Facheris)

A Valverde si arriva da oriente attraverso la valle del Morla, il torrente  ammesso per centinaia d’anni nella nomenclatura dei fiumi, un tempo così limpido da sembrare acqua sorgiva: le massaie la utilizzavano per lavare la biancheria, che stendevano sulle rive in attesa che la luce e il calore del sole la rendessero candida come la neve. Con l’argilla estratta dal suo alveo venivano  fabbricate eccellenti  stoviglie, fra le migliori della Bergamasca.

Ai piedi del versante settentrionale, ricco di acque, scorrono alcuni rioli, come il riolo Valtesse, tra via Pietro Ruggeri da Stabello e il Torrente Morla, e il riolo Lazzaretto, che scorre ad ovest del complesso omonimo. Il nome stesso di Valverde deriva dallo storico torrente

Lo incontriamo nuovamente lungo via Maironi da Ponte, dove svolta fiancheggiando pigramente la pista ciclopedonale della Green Way, che in Valmarina si raccorda a via Ramera (da dove si impenna verso il Sentiero dei Vasi o S. Vigilio), oppure passa il testimone al Sentiero d’Ilaria, la pista che attraversa il versante settentrionale fino a Sombreno in compagnia del torrente Quisa: un percorso totalmente immerso nel bosco, dove il tamburellare del picchio la fa da padrone. L’avete mai provato? Da fare, magari alla prossima occasione.

L’ex monastero di Valmarina nell’omonima valletta, punto di raccordo tra la Green Way proveniente da Valverde, il sentiero d’Ilaria, via Ramera e Valtesse. L’edificio, di origini altomedioevali, con la chiesetta di Santa Maria fu fondato nel XII secolo dalle monache benedettine, per essere poi abbandonato, e trasformato nel XIV secolo in edificio rurale e integrato con strutture nel ‘700. Ora accoglie la sede del Parco dei Colli

Ma noi proseguiamo, diretti alla conquista della minore tra le aperture delle Mura, inerpicandoci decisi verso l’anfiteatro di Valverde, con le sue “ville di delizia” e alcune cascine ancora intatte, circondate da prati in declivio, alberi secolari e terrazze coltivate a vite e ulivo.

La vendemmia a Valverde, nel terreno appartenente alla famiglia Cerea, proprietaria dell’antica “Ca’ del sòi”

Superato l’imbocco della Green Way incontriamo l’ottocentesca chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta – edificata  su una chiesetta di cui si ha notizia dal 1494 -, preceduta dalla serie dei teschi esposti nella piccola sagrestia, a  ricordo della pestilenza del Seicento (la via si chiamava infatti “strada comunale dei morti di Val Verde”). Nella chiesa vi sono alcuni stendardi, dipinti da Giuseppe Carnelli (1838-1909) ed esposti in particolari ricorrenze, che hanno per soggetto il prete, il re, il soldato, l’artista e il contadino, raffigurati sotto le sembianze di scheletri, sulla scia di una tradizione pittorica conforme a quelle tendenze macabre che si trovano di frequente nella Bergamasca.

Dopo aver sorpassato il lavatoio pubblico, del 1933, un affioramento di arenaria sulla destra ricorda le attività delle antiche cave di arenaria presenti nelle vicinanze e ci indica la via Roccolino, strada che prende il nome dal roccolo di proprietà dei conti Roncalli (il cui palazzo sorge in Colle Aperto), di cui non conosciamo l’ubicazione, ma che è ricordato nel biglietto da visita dell’omonimo ristorante. La via è chiamata anche “dei Cavalieri”, forse a ricordo delle ronde che pattugliavano l’esterno delle Mura.

Lasciamo quindi alla nostra destra la suggestiva stradetta ciottolata di via Roccolino, dove si sviluppa il baluardo di Valverde, “il lato oscuro delle mura”, sommerso dalla vegetazione.

Via del Roccolino si innesta da Valverde sbucando in breve tempo in via Beltrami all’altezza della polveriera superiore. La via si sviluppa lungo la parte nord delle Mura, tra le porte di San Lorenzo e Sant’Alessandro, celando al suo interno un giardino segreto

Superata la strettoia, abbracciamo finalmente con lo sguardo tutta la conca adagiata ai piedi degli edifici, il cui profilo si fa ora nitido, grande e incombente, lasciandoci pregustare i suoi innumerevoli tesori.

Da sopra fa capolino il Castello di Valverde, un raffinato relais adagiato sul cucuzzolo del colle di Fabriciano, originatosi da un fortilizio medioevale che comunicava con le torri di avvistamento di Sorisole e della Maresana.  Divenuto nel Cinquecento residenza di campagna del capitano veneziano, è chiamato Casa Quarenghi dal nome dell’architetto bergamasco ritenuto il progettista dell’attuale edificio: da lì si gode di una vista strepitosa, alla quale la prossima volta non potremo rinunciare.

La vista su Città Alta dal Castello di Valverde (o di Medolago)

Quel brividino che di tanto in tanto avvertiamo non è casuale: siamo nel versante più fresco dei colli punteggiato qua e là da limpide acque sorgive, la cui presenza disegna sul fondo della valletta un reticolo di seriole che in passato hanno fatto della conca di Valverde – il cui nome deriva dallo storico torrente – il regno delle lavandaie: un regno ancora testimoniato dalla presenza della “Ca’ del sòi”, la cascina appartenente da cinque generazioni alla famiglia Cerea.

In tempi a noi lontani, la ricchezza di queste meravigliose sorgenti assicurava,  ancor prima della realizzazione di acquedotti in quota, una riserva sicura anche in caso di periodi particolarmente siccitosi, consentendo uno svolgimento redditizio delle attività agricole.

La cinquecentesca Cascina di proprietà della famiglia Cerea da cinque generazioni. Grazie alla presenza di un rio che attraversa il prato, la cascina è nota nell’area come “Ca’ del sòi” o “rio delle lavandaie”. L’esistenza di buone sorgenti nella fascia pedecollinare era ed è garantita dalla presenza, lungo il versante settentrionale dei Colli, dell’Arenaria di Sarnico, che consente la formazione di modeste riserve idriche sotterranee dal regime assai variabile, dipendente dall’afflusso delle piogge. Inoltre, la giacitura molto inclinata degli strati che sorreggono questo lato del Colle, determina la scomparsa delle sorgenti in quota e una loro ricomparsa a quote più basse

Sul crinale il rifornimento d’acqua era poi assicurato, probabilmente sin dall’epoca romana, dalle sorgenti che conosciamo per l’essere state raccolte nella fontana del Vagine (descritta in versi da Mosè del Brolo), nella Boccola, nel Lantro e nel Corno, anche se ciò è documentato solo a partire dall’età comunale.

La sorgente della Boccola, la cui presa è ancora visibile nell’arco incassato nel paramento murario, sgorgava da sotto la cinquecentesca chiesa di S. Matteo (sorta su preesistenze del XII secolo e unita nel Settecento al Seminarino, attivo dalla seconda metà del Cinquecento), proprio sotto le mura medioevali; doveva ricevere acqua anche dalle sorgenti che nel Cinquecento vennero incanalate nell’acquedotto di Prato Baglioni, così come dal sopravanzo della Fontana del Vàgine, che si trova appena sopra. Venne probabilmente sfruttata già dall’epoca romana (Ph Mario Colombo)

A queste sorgenti possiamo aggiungere quella delle Noche, nella valletta di  Colle Aperto (che alimentava dal Cinquecento l’acquedotto di Prato Baglioni), nonché la fontana delle Pirole in via Solata. E se pensiamo che ben cinque fra quelle citate – e purtroppo in buona parte esaurite – sgorgavano da sopra le nostre teste, il gioco è fatto!

L’acquedotto di Prato Baglioni (dal nome dei proprietari dell’area) iniziava appena sotto Colle Aperto e scendendo lungo la Boccola scorreva tra la Fara e il colle della Rocca, alimentando le fontane del Corno, di via Osmano, di S. Agostino e quella di Pignolo (Racc. Gaffuri)

La porta della Boccola, oltre a consentire al borgo di aprirsi verso Valverde, permetteva anche l’accesso all’omonima fonte, che sgorgava proprio sotto le mura medioevali. La sua protezione era garantita dalla tonda “turrisella”, ancora in gran parte esistente, che controllava l’accesso da Valverde.

Acqua come fonte di vita quindi ma anche acqua come elemento capace di forgiare il territorio, se immaginiamo che nel corso di milioni di anni la sua azione incessante ha modellato i profili di questa valle, dove, in corrispondenza delle attuali Mura, si elevava una rupe massiccia che conferiva al luogo un aspetto arcigno, molto diverso rispetto all’attuale.

Scorcio sul declivio di Valverde

Possiamo osservare ciò che ne rimane nel paramento del baluardo di San Lorenzo, costruito inglobando la roccia, che è stata scalpellata ad arte per evitare onerosissimi costi di sbancamento. Dov’è stato possibile, su questa roccia i costruttori hanno “appoggiato” le Mura settentrionali, da S. Agostino fino a S. Vigilio!

La parete di Conglomerato di Sirone inclusa per oltre una decina di metri nel paramento murario del baluardo di S. Lorenzo (completato nel 1584). Affiora anche nelle vicinanze del Roccolino e ad ovest di Porta Garibaldi

Sotto questa roccia, così resistente da essere impiegata per realizzare grosse macine, corre un potente banco di Arenaria di Sarnico che ha formato lo zoccolo del ripido pendio settentrionale e che, ricercata per la sua compattezza e resistenza, ha fornito per secoli materiale da costruzione soprattutto per grandi monumenti come Porta S. Agostino e S. Maria Maggiore.

Si tratta di una pietra grigio-azzurra chiamata anche Arenaria di Castagneta dalla località in cui veniva estratta, tanto che nei pressi delle sorgenti (ben sei) che alimentano il primo tratto dell’acquedotto dei Vasi, esiste tuttora una località chiamata “Cavato”, con evidente riferimento all’attività di estrazione. La si estraeva anche all’esterno del baluardo di Valverde, dove si rintracciano i segni di ben due cave, e la vediamo affiorare percorrendo i boschi del versante settentrionale, fino a Sombreno.

Tornando invece al nostro baluardo e alla sua vecchia rupe (la “rupe di S. Lorenzo”), basterà aggiungere che questa durissima formazione prosegue sullo spalto con la piccola elevazione della “Montagnetta”, un vero e proprio sito geologico che rimanda a tempi lontanissimi.

All’epoca della costruzione delle Mura, nonostante le intenzioni iniziali e pur causando difficoltà nella manovra dei pezzi, la Montagnetta non fu demolita perché costituiva una buona difesa nel caso di tiro nemico da S. Vigilio.

Il baluardo di S. Lorenzo è anche detto “della Montagnetta” per la presenza, decentrata sul lato nord, di un corno di Conglomerato di Sirone (Ph Gianni Gelmini)

Su quella stessa roccia, alla quale siamo ormai affezionati, sorgeva la primitiva chiesa di S. Lorenzo, risalente all’VIII secolo e atterrata bruscamente nel 1561 – insieme a 59 case del borgo – a causa della costruzione della cinta fortificata veneziana (1561-1595).

Questa comportò lungo tutto il circuito la demolizione di numerose case, cascinali, scalette, viottoli, chiese e conventi, fra i quali ricordiamo con rimpianto l’antica Basilica di S. Alessandro e l’attigua chiesa di S. Pietro, il Convento di S. Stefano dei Domenicani, la chiesa di S. Giacomo e quella dei santi Barnaba e Lorenzino nelle vicinanze della porta di S. Giacomo nonché la fognatura d’epoca romana. Si salvò invece la chiesa di Sant’Agostino, grazie al versamento di un congruo contributo che modificò i piani iniziali di costruzione.

Fortunatamente, possiamo ancora ammirarla, benché sfregiata dal segno nerastro che ne decreta la fine, nella veduta di Alvise Cima realizzata perché rimanesse memoria visiva della forma urbis di Bergamo, prima che la Città venisse profondamente sconvolta con la costruzione delle nuove mura.

Descritta dalle fonti come ragguardevole, la chiesa (secondo il Mazzi la più antica della città) si trovava entro la muraglia medioevale all’imbocco del borgo, dove segnava il confine tra le vicinie di Canale e S. Lorenzo. Era affiancata da un ospedaletto (non indicato nella veduta), che nel 1458 confluì nell’Ospedale Grande di S. Marco.

Non molto distante dalla porta medioevale, la primitiva chiesa di S. Lorenzo, distrutta nel 1561 per l’erezione del cavaliere del contrafforte di S. Lorenzo (che sovrasta il baluardo omonimo)

La veduta ci restituisce la città medioevale con i suoi cinque borghi che allungati dolcemente verso il piano (“come le dita di una mano aperta”) lungo le antiche strade di accesso alle porte medievali, presero il nome delle rispettive chiese. Nel dipinto, il distrutto borgo di San Lorenzo, sviluppatosi fuori dalle mura medioevali, è cinto da una propria muraglia (un ampliamento), allungandosi verso il declivio fin verso la porta di Valverde; un borgo, ormai perduto, che le cronache descrivono “copioso d’honorate, e vaghe abitationi”,  quasi “da sembrare un’altra città”.

Alvise Cima (1693), Veduta prospettica della città di Bergamo e dei suoi borghi, prima della costruzione delle fortificazioni veneziane, particolare. Ben separato dagli altri, Borgo S. Lorenzo si sviluppa fuori il perimetro delle mura medioevali, cinto da una propria muraglia, caratterizzata da un andamento assai irregolare (oggi difficilmente intuibile dopo i sommovimenti realizzati per la costruzione della cinta bastionata), dovuto sia alla valletta del Lantro e sia al corrugamento roccioso che costituiva la dorsale sulla quale era sito il grosso del borgo e che in prossimità del muro accoglieva l’antica chiesa di San Lorenzo e i cui resti si possono ancora notare sul baluardo di San Lorenzo nella cosiddetta “Montagnetta”

Tramite l’imponente opera di “svuotamento” di ingenti quantità di terreno, operata per ragioni di sicurezza ai piedi del circuito bastionato, si è spezzata bruscamente la linea naturale dei declivi lungo i quali erano radicati secolari e rigogliosi giardini, alberature,  vigneti, frutteti, ortaglie e broli, che foraggiavano la città al piano.

Veduta su Valverde e Valtesse dalla Fara

Tra un baluardo e l’altro si sono così formate una serie di vallette, che hanno acquisito la loro denominazione in base agli elementi salienti che vi si sono trovati inclusi, e che hanno con il tempo riacquistato una nuova e straordinaria bellezza paesaggistica. Per comprendere il loro susseguirsi conviene ricorrere al disegno datato 1693 e firmato Alvise Cima, dove compaiono nell’ordine la Valle Verde, la Valle delle Noche, la Valle Avogadri e la Valle S. Agostino.

Gli scavi effettuati alla base del circuito murario veneziano (sovrimpresso in nero) hanno creato una serie di avvallamenti originando tra un baluardo e l’altro una serie di vallette che solcano il versante settentrionale del Colle: la Valle Verde (sotto Colle Aperto, tra il baluardo di S. Lorenzo e l’omonima porta, che con la relativa cortina taglia la parte alta della valletta, che entrerà a far parte del Forte di S. Marco); la Valle delle Noche (sotto il baluardo di San Lorenzo, tra la Valverde e la Valle Avogadri, separata da Valtesse dal torrente Morla); la Valle Avogadri (sotto il baluardo della Fara, tra la Valle delle Noche e la Valle di S. Agostino);  la Valle Sant’Agostino (particolare della tela firmata Alvise cima, 1693)

Nelle pareti delle Mura si nascondono tante storie, molte delle quali “narrate” dal materiale di risulta proveniente dalle demolizioni degli edifici: perché tutto serviva, purché si potesse portare avanti l’imponente monumento che oggi cinge gelosamente i nostri tesori.

Nella scarpa della faccia est del baluardo di Valverde, mimetizzati nella muraglia e soffocati dalla vegetazione, sono incastonati alcuni frammenti marmorei – del più candido  Zandobbio ma anche di un tenue color rosa -, attribuiti alla classicità romana e – forse – facenti parte di un grandioso portale. Generalmente i pezzi di risulta venivano inseriti “voltati” così da esporre le superfici levigate e prive di appigli alle palle di cannone del nemico; ma forse anche il “proto” – l’architetto di allora – fu colpito dalla bellezza delle decorazioni raccomandando ai manovali di metterle in bella vista, anche se in  quel settore delle mura pochi avrebbero potuto ammirarle: forse pensava a noi, cittadini di oltre quattro secoli dopo?

Frammenti marmorei di epoca romana, lavorati e scolpiti ad arte, inseriti nel paramento della scarpa della faccia est del baluardo di Valverde

 

Frammenti marmorei di epoca romana inseriti nel paramento della scarpa della faccia est del baluardo di Valverde

Il baluardo di Valverde si staglia all’estremità opposta della valle sottostante Colle Aperto e rappresenta una porzione inferiore del Forte di S. Marco, una “fortezza nella fortezza” realizzata per reggere un potenziale assalto nemico alla Città dalla parte del colle di San Vigilio, permettendo una sicura via di fuga  tramite il varco aperto nella Porta del Soccorso: la quinta e più sconosciuta del circuito murario veneziano, camuffata da comune portone!

Il Forte di S. Marco costituisce un’alta recinzione, estesa dalla porta di S. Lorenzo a quella di Sant’Alessandro. In questo settore, la Porta e la cortina di S. Lorenzo tagliano la parte alta della Valverde, entrata così a far parte del Forte di S. Marco Inferiore

E’ possibile visitarla attraversando le vie Roccolino e Beltrami, da dove si diparte la via Sotto le Mura di S. Alessandro: una suggestiva stradetta che si inerpica a fianco di via Cavagnis (strada panoramica per S. Vigilio), dove la Porta compare “nascosta” in un cortile privato. Proseguendo lungo il tratto movimentato da morbide contropendenze, si ricalca il perimetro esterno del forte di S. Marco superiore.

La Porta del Soccorso è “nascosta” tra la vegetazione lungo l’attuale via Sotto le Mura di S. Alessandro (laterale di via Beltrami), parallela alla strada panoramica che conduce a S. Vigilio. Il varco, ad uso esclusivo dei soldati, racchiudeva un passaggio sotterraneo segreto che collegava il versante nord dei colli al Castello di San Vigilio, da utilizzarsi in caso di caduta o di assedio

Ciliegina sulla torta è la Porta di S. Lorenzo, la più “campestre” di tutte, eretta in sostituzione della porta originaria ch’era collocata sotto il viadotto in corrispondenza dell’attuale.

Porta Garibaldi, già San Lorenzo. L’accesso nemico dalle valli poteva essere controllato dalle fortezze di Ca’ San Marco e da quella sul monte Ubione, in Valle Brembana

La vecchia porta (la prima ad essere costruita) era stata chiusa dai veneziani già nel 1605 perché ritenuta troppo isolata e di difficile sorveglianza, ma soprattutto perché spesso allagata dalle abbondanti acque che vi affluivano dalle sorgenti poste più a monte: un problema che richiese la realizzazione di un sistema di canalizzazione per lo scarico delle acque, visibile alla base della cortina, sul lato ovest.

Dopo la sua chiusura, i cittadini della Val Tegeta (Valtesse) e dei paesi limitrofi, costretti a lunghi giri per entrare in città, raccolsero e versarono alla Serenissima la cifra di 4.000 ducati d’oro allo scopo di far costruire il viadotto rialzato e la nuova porta (risalente al 1627), che, più modesta delle altre, venne collocata proprio “sopra” la vecchia consentendo nuovamente il transito. Alle sue spalle, la casermetta per il presidio (su cui apparivano lacerti di antichi affreschi) e, all’esterno, una fontana dove venivano convogliate le acque.

Porta Garibaldi (già S. Lorenzo), nel 1899 (Racc. Gaffuri)

Il passaggio fu dunque riaperto ma, rispetto alle altre, la nuova porta era di dimensioni più ridotte, cosicché tutte le operazioni di dazio dovevano avvenire all’aperto con gran lagnanza delle guardie esposte alla pioggia e al gelo.

Da qui fecero il loro ingresso l’8 giugno del 1859 Giuseppe Garibaldi e i Cacciatori delle Alpi. Sereno Locatelli Milesi racconta che il generale vi arrivò verso le sette del mattino; l’impiegato del dazio aprì la porta e lo accolse come glorioso liberatore, mentre le guardie presentavano le armi. Una lapide sotto il fornice ricorda la fine della pestilenza nel 1630, periodo in cui il capitano Giovanni Antonio Zen rappresentò l’autorità pubblica.  La porta mostra ancora sulla trabeazione le fenditure per le catene del ponte levatoio

La porte venne intitolata a S. Lorenzo nel 1627 (anno in cui venne eretta l’omonima colonna più a monte) e dal 1907 è detta“Porta Garibaldi”

Sotto il viadotto è ancora visibile l’imbocco della vecchia porta, il cui nome, poi trasmesso a quella attuale, ricorda la demolita chiesa di S. Lorenzo, che è stata riedificata poco più a monte inglobando la fonte del Lantro.

L’imbocco della vecchia porta è sotto del viadotto. la nuova porta di San Lorenzo costruita alla fine del Cinquecento in sostituzione della porta originaria, il tutto immerso in un suggestivo paesaggio agreste

Da sempre la più bistrattata e dimenticata delle Porte delle nostre Mura, quella di San Lorenzo non si fregia da alcuna scultura ed è ormai completamente cancellato è il leone un tempo affrescato sopra l’arco d’ingresso.

Porta Garibaldi, già S. Lorenzo, nel 1935, con il leone alato  dipinto nel riquadro centrale. L’affresco era ancora visibile negli anni Cinquanta. Sotto il leone di S. Marco i Bergamaschi godettero di oltre 350 di pace, di crescita e di prosperità: un periodo così lungo senza invasioni e spargimenti di sangue non era mai avvenuto nella sua millenaria Storia

Eppure la Porta di San Lorenzo, imbocco diretto per le valli bergamasche, era il punto di partenza della Strada Priula tracciata dai Veneziani nel 1593 per ottimizzare i traffici verso la Valtellina e il Nord Europa attraverso il passo di S. Marco. La nuova strada consentiva di evitare l’attraversamento dei territori appartenenti allo Stato di Milano, in mano agli Spagnoli.

Nel frattempo l’asfalto ha lasciato spazio all’acciottolato. Prima di varcare la porta è difficile resistere alla tentazione di volgersi all’indietro e gustare la luminosa bellezza di questa conca che – miracolosamente – conserva uno degli angoli di bellissimo verde che impreziosisce ancor di più le pendici di Città Alta.

Veduta d’altri tempi dalla Montagnetta, un bel balcone sulla conca di Valverde con il suo “castello”, sulla piana di Valtesse, sulla Maresana e il Canto Alto

Ora, riposati dalla lunga sosta prepariamoci ad affrontare l’erta ma panoramica salita che in breve ci proietta sugli spalti; bypassiamo la scaletta alla nostra destra svoltando in via S. Lorenzo 21 presso Casa Palma Camozzi Vertova (già Tini Guerinoni).

Casa Palma Camozzi Vertova, All’elegante fronte marmoreo su via San Lorenzo si contrappongono le piccole e rare  aperture del fronte verso via Fara, che ricordano l’aspetto severo di una struttura castellana. L’interno è ricco di preziosi affreschi

Si tratta di un bellissimo esempio, unico nel suo genere, di complesso fortificato medioevale a disegno triangolare, su cui si è innestato il palazzo nel Cinquecento, emergendo dal terrapieno occorso per l’erezione delle Mura e del bastione di S. Lorenzo: il piano terra della vecchia abitazione, allora posta a livello della strada medioevale ed oggi corrisponde alle cantine, racchiude un pozzo ancora funzionante.

Casa Palma Camozzi Vertova, con alle spalle la Rocca

A lato, dove la via si biforca con il viale delle Mura sorge l’umile chiesetta affrescata dedicata alla Beata Vergine Addolorata, meglio conosciuta come chiesetta dell’ultimo respiro. Qui erano condotti, mani e piedi incatenati, i condannati a morte: Venezia condannava all’estremo supplizio ladri ed assassini; l’Austria condannava alla pena capitale i cospiratori favorevoli all’unità d’Italia e la forca era eretta poco distante sul piazzale della Fara.

Chiesetta della Beata Vergine Addolorata, anche detta dello Spasimo e dei Condannati. La deposizione affrescata sopra la porta presenta un Cristo ritratto nell’abbandono della morte col capo appoggiato alla spalla della divina Madre e in un secondo piano una porzione di croce su cui risulta visibile il chiodo che trafisse i piedi del Salvatore. In alto, lo stemma gentilizio della famiglia Giupponi sormontato da una corona con nove punte, sorretta da due angioletti. La chiesa, un episodio architettonico unico in Bergamo presenta all’interno una bellissima pala con molti reliquari annessi

Proseguendo verso la Boccola, ci ritroviamo faccia a faccia con la colonna di San Lorenzo, eretta nel 1627 in memoria della primitiva chiesa di S. Lorenzo, distrutta per la costruzione delle Mura e ricostruita entro la fine del 1600 a pochi passi dalla colonna. Sopra il cartiglio, ormai abraso,  è scolpito uno scudo con giglio, emblema del santo protettore della città.

La colonna di S, Lorenzo, con il cartiglio che conteneva l’antica iscrizione, distrutta a fine sette/inizi Ottocento, nel periodo della Rivoluzione Bergamasca. Il testo, conservato nella Biblioteca Civica di Piazza Vecchia, recitava: EX RECLUSA TANDEM HACE JANUA/QUAE JANI NON EST CLAUSAE JANI/PORTAE IMPORTAT COMMODA PACEM/SEILICET AC UBERTATEM IN OPERA/ATQUE PROVIDENTIA FRANCISCI DUODI/ANNO MDCXXVII (Racc. Gaffuri)

La colonna, benedetta dal vescovo Priuli, fungeva da riferimento per il calcolo delle distanze lungo la Strada Priula tra la fortezza e la Valtellina, misurate in 44 miglia fino a Morbegno (circa 71 km).

La colonna di San Lorenzo, di ordine toscano su piedistallo, reca un cartiglio sovrastato da uno stemma in marmo di Zandobbio e termina con un capitello liscio e un ferro porta stendardo

Mentre le nuvole corrono nel cielo creando strani giochi di luce, continuiamo il nostro tour ricalcando il percorso della cinta medioevale imbattendoci, poco dopo la colonna, nella fontana del Lantro affiancata dalla cinquecentesca chiesa di S. Lorenzo e dall’oratorio dei Morti della Peste del 1630.

Via Boccola: la fontana del Lantro e la chiesa di S. Lorenzo, costruita entro il 1600 dal suo consorzio sulla piazza dell’Olmo, in sostituzione di quella demolita nel 1561 per la cinta bastionata veneziana

La chiesa è stata riedificata sopra la cisterna della Fontana del Lantro, che, originariamente posta all’aperto, si è trovata ad essere inglobata in un atrio interrato, al di sotto della chiesa stessa.

La vasca/fontana del Lantro è alimentata da due sorgenti, quella che  fornisce il nome alla fontana stessa – la più antica e dotata di maggior portata – che scaturisce da una cavità posta sotto la chiesa; l’altra è la sorgente di S. Francesco, che, intercettata durante i lavori di costruzione delle Mura veneziane, scaturisce sotto l’omonimo convento. Nel medioevo l’acqua sgorgava abbondante e soddisfaceva il fabbisogno idrico dell’intera vicinia di San Lorenzo

Alla fine dell’Ottocento la fontana venne sostituita dal nuovo acquedotto civico, rimanendo utilizzata soltanto come lavatoio fino agli anni Cinquanta, quando venne progressivamente abbandonata per un lungo periodo per poi essere recuperata dal gruppo speleologico “Le Nottole” di Bergamo.

Accanto alla chiesa di S. Lorenzo, l’ingresso al lavatoio della Boccola

 

La chiesa di S. Lorenzo, ad una navata e volta a botte, resse le veci di nuova Parrocchiale fino al 1860, quando venne aggregata alla Parrocchia di S. Agata nel Carmine. Grazie al sostegno di mercanti e artisti della vicinia, facenti capo alla Confraternita del SS. Corpo di Cristo, venivano celebrate le messe, distribuito pane tre volte l’anno e curati gli infermi, prima di destinarli all’Ospedale. Conserva all’interno un’Annunciazione di Enea Salmeggia e un Crocefisso con santi e donatori attribuito a Francesco Zucco

La chiesa è affiancata da una cappelletta dedicata ai morti della peste del 1630, preceduta da un portico. Nel lunettone che sovrasta la porta d’ingresso, una composizione macabra e una lastra tombale dipinta al centro, reca la scritta: RIPOSANDO QUI DALLA CHIESA TRASLOCATE LE OSA DEI NOSTRI FRATELLI PREGATE ALLE LORO ANIME REFRIGERIO LUCE E PACE

Inizi Novecento: la chiesa di S. Lorenzo e l’attigua cappelletta dei morti della peste del 1630, precedute dalla colonna di S. Lorenzo (Racc. Gaffuri)

Sul lato destro la morte con la falce accanto e a sinistra un dolente, entrambi appoggiati alla lastra stessa. Teschi, corone di fiori, faci spente e fogliame completano la composizione monocroma eseguita da un giovanissimo Emilio Nembrini nel 1936,  in sostituzione di un’altra precedente ridotta a pallida ombra.

L’oratorio dei Morti della Peste del 1630. I macabri dipinti nel 1936 da Emilio Nembrini, in sostituzione di un affresco scomparso popolarmente attribuito a Vincenzo Bonomini. Nembrini, nativo di Pradalunga ed appartenente a una famiglia di decoratori, venne iscritto giovanissimo alla scuola d’arte Fantoni, allora diretta da Francesco Domenghini, inaugurando una lunga carriera di affreschista

Secondo una tradizione tramandata oralmente dagli abitanti del borgo, il macabro scomparso apparteneva al pennello di Vincenzo Bonomini, pittore molto versato nell’esecuzione di scheletri.

L’oratorio dei morti presso la chiesa di S. Lorenzo intorno al 1965 (Ph Gianni Gelmini)

A metà salita ci imbattiamo nel fronte di nuda pietra del secentesco monastero di S. Agata, convertito a carcere nel 1798 e come tale perdurato fino al 1977. Il corpo di fabbrica a nord, lungo via del Vagine (nell’immagine sottostante), ospitava la sezione maschile, mentre buona parte dell’ala sud del convento, compresa la chiesa, costituiva la sezione femminile, oggi occupata dal bar/ristorante “Circolino”. Il complesso, purtroppo molto degradato e con gravi problemi di natura statica,  attende da tempo una nuova destinazione d’uso.

Le carceri nell’ex-monastero di S. Agata (Michi Cascio)

Più avanti, poco prima che la salita s’impenni sostiamo al cospetto delle grandi arcate sovrastate dalla mole dell”ex complesso del Carmine: un tratto residuo del perimetro difensivo altomedioevale, poggiante su resti d’epoca romana. Sappiamo che gli inizi del Seicento alle arcate erano state addossate, oltre alle case, la “barberia” e la “foresteria” del monastero, una fila di botteghe, tamponate in età moderna.

L’arco temporale di edificazione del monastero del Carmine, vede il periodo di massima attività tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500 (con la costruzione di gran parte dell’elegante chiostro, del refettorio e dei locali per i monaci) per concludersi nella seconda metà del 1600 con la realizzazione delle stalle, della sala capitolare e della nuova, ricca libreria. Tra il 1605 e il 1620 addossate agli arconi e orientate verso via del Vagine vengono fabbricate le botteghe e le case, la “barberia”, la “foresteria” e finalmente in spatio di tempo tutta l’altezza con le camere et granaio di sopra (Storia del Convento, Manoscritto compilato dal padre G. B. Guarguanti). Con l’avvento del XVIII secolo si apre per il monastero un periodo di decadimento e, dopo la sua soppressione in epoca napoleonica, di abbandono

Luigi Angelini  descrisse il Carmine come un’opera edilizia il cui chiostro è tra i più tipici e forse il più caratteristico per eleganza di forme architettoniche ed armonia di misure nei vani dei portici e nella linea delle arcate.

Ex monastero del Carmine, l’ingresso da via Colleoni. Alcuni caratteri architettonici originali sono andati perduti nel corso dei lavori di consolidamento statico del complesso. Dal 1996 ospita il Teatro Tascabile di Bergamo

Poco oltre, incontriamo la Fontana del Vàgine, alimentata da una sorgente che sgorgava sotto via Salvecchio e che anticamente aveva scavato una valletta fino all’altezza delle grandi arcate, poi colmata mediante apporti di terreno, calibrati nel tempo in base alle necessità che man mano si presentavano: sia quelle legate alla disponibilità dell’acqua della fonte dentro o fuori la città e sia quelle legate alla necessità di fortificare il nucleo urbano sulla scorta delle esperienze di assedio subite.

Proprio questa incertezza riguardo l’altimetria del pendio impedisce di tracciare con certezza i percorsi seguiti dalle antiche mura in questa porzione di città, dove peraltro sono state costruite almeno due cortine difensive: una in epoca romana ed in seguito una cinta medievale il cui andamento è stato ipotizzato dal Fornoni: la più antica doveva partire leggermente più a sud dell’attuale porta del Pantano e raccordarsi con le arcate del Vagine per poi proseguire passando circa a metà di quel che oggi è il chiostro del monastero di S.Agata.

La porta medioevale del Pantano inferiore da Piazza Mascheroni, in direzione Colle Aperto (la porta superiore è stata demolita nell’Ottocento)

 

In epoca romana quest’area era interna alla città murata, anche se ne era certamente al margine, come confermato dai reperti ritrovati nel corso degli scavi effettuati prima della costruzione del Relais S. Lorenzo, in Piazza Mascheroni. Qui in corrispondenza delle grandi arcate poste alla base dell’ex monastero del Carmine (testimonianti un tratto residuo del perimetro difensivo altomedioevale) si è rinvenuta una teoria di 16 ambienti terminanti ad emiciclo, identificati come strutture terrazzate di contenimento realizzate per limitare i cedimenti naturali del declivio collinare, in questo tratto particolarmente accentuato. Con il passare dei secoli, in questo contesto urbano intensamente frequentato fin dall’antichità, si sono realizzate opere costruttive sempre più articolate e particolarmente complesse

 

Cunicoli delle mura del Vagine (Racc. Gaffuri)

La seconda cortina si può ancora seguire con esattezza: partiva dalla porta del Pantano e passava di fronte alla fontana del Vàgine, poi pigliando per l’attuale via della Boccola rasentava il giardino di casa Tassis, passava sotto il Seminarino e sotto le case della parte inferiore della via Tassis, toccava il Lantro e raggiungeva la porta S. Lorenzo.

Alvise Cima (1693), Veduta prospettica della città di Bergamo e dei suoi borghi, prima della costruzione delle fortificazioni veneziane, particolare.

Incassata nel primo degli archi a tutto sesto che si susseguono verso le ex carceri di S. Agata è la fontana del Vagine, tra le prime documentate nella storia della città.

Fontana del Vàgine, conosciuta già in epoca romana come fons opacinus, fonte di tramontana, per la sua posizione che volgeva a nord. Ora la falda si è persa e dell’acqua non vi è più traccia. Alla fontana potevano attingere sia gli abitanti che i cavalli e disponeva di un lavatoio e di una cisterna molto grande

Pare che la sorgente godesse di grande fama e che i forestieri si recassero ad ammirarla per le sue qualità curative. Secondo le descrizioni di Mosè del Brolo in Liber Pergaminus (1120-1130), le sue volte, il pavimento e le pareti erano ricoperte di marmo.

La fonte del Vàgine nella Racc. Gaffuri

Al termine della breve ma scoscesa salita sbuchiamo in Piazza Mascheroni, in un’area intensamente frequentata sin dalle epoche più antiche e modificatasi nei millenni per necessità urbane, economiche e di potere.

La piazza assume il nome di piazza Mascheroni all’inizio del Novecento

In angolo tra la Boccola e la piazza, il Relais S. Lorenzo cela al suo interno importanti testimonianze di una parte della ricca storia di Bergamo, visibili e fruibili in giorni ed orari prestabiliti.

Piazza Mascheroni con il Relais S. Lorenzo a sinistra, in angolo con via Boccola

 

Interno del Relais S. Lorenzo, con i reperti archeologici risalenti al VI/V sec. a.C., una domus, strutture absidate ed intonaci dipinti d’età Romana, insieme ad ambienti porticati, cantinati e cortili ascrivibili tra il bassomedioevo e il Settecento

Proprio qui vi era un tempo la più antica Hostaria della città, detta della Croce Bianca, citata nel 1596 da Giovanni Da Lezze e descritta da Tommaso Bottelli nel 1758, alle cui mura verranno accostate quelle ad uso militare della “Munizione della Paglia”: una trattoria con vasti locali di deposito paglia, che forse serviva per le stalle destinate ai cavalli, poste dirimpetto proprio sotto l’alloggio dei soldati presso la Cittadella.

L’angolo tra via Boccola e piazza Mascheroni con il ristorante Giardinetto (Racc. Gaffuri). La creazione di questo lato della piazza è il frutto di una lunga serie di demolizioni attuate fra l’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento (Piano di Risanamento), che avevano lasciato un vuoto privando l’area di una funzione precisa

 

Il Ristorante Giardinetto con pergolato e gioco delle bocce, nel 1975

La piazza si trova al livello del pianoro ondulato sul quale è stato edificato  l'”hospitium magnum” della trecentesca Cittadella viscontea (alloggiamenti per la guarnigione e il comando), il grande recinto murato costruito su terreno vergine che includeva l’intero colle di San Giovanni dividendo in due parti la città.

L’arcigna fortificazione era protetta esternamente da un fossato che nell’area dell’attuale piazza Mascheroni creava una larga fascia inaccessibile, colmata nel Cinquecento con la realizzazione della piazza Nuova.

Piazza Mascheroni con il settecentesco Palazzo Roncalli a chiusura del lato sud, che ingloba il fronte della Loggia dei mercanti, realizzata su progetto di Andrea Ziliolo nel 1520 e tornata alla luce  nel corso di lavori eseguiti nel 1981. Il lato nord è aperto sulle quinte della Maresana e delle Prealpi mentre sui lati lunghi la piazza è chiusa ad ovest dalla Cittadella viscontea (già Hospitium Magnum) e ad est dalle abitazioni poste all’imbocco di via Colleoni e dal Reais S. Lorenzo. E’ completata da olmi siberiani e da una vera da pozzo settecentesca

E’ appunto nel 1520 che la piazza assume la rigorosa forma attuale, quando cioè Venezia decide di trasferirvi una parte del mercato pubblico che si teneva in Piazza Vecchia (granaglie e biade per foraggiare il bestiame), designandola come “Piazza Nuova” per distinguerla dalla precedente, divenuta centro politico-amministrativo della municipalità veneziana.

A tale scopo fa edificare la Loggia mercantile (inglobata nel Settecento  nella facciata dell’attuale Palazzo Roncalli e tornata alla luce nei restauri del 1981), utilizzata per le contrattazioni e per appendervi i bandi e le sentenze criminali, nonché un’ininterrotta fila di botteghe commerciali addossate al lato orientale della Cittadella viscontea. Nello stesso anno la piazza viene selciata.

La nuova piazza affiancata all’hospitium magnum (divenuto residenza del capitano veneziano), diviene così un nuovo polo economico-commerciale per la città e resterà luogo di mercato fino alla metà dell’Ottocento, quando le botteghe sul lato della Cittadella verranno demolite in attesa che la piazza assuma una nuova configurazione.

In un dipinto del 1830, Piazza Nuova (ora piazza L. Mascheroni) realizzata nel 1520 come nuova piazza di mercato e centro dell’economia cittadina, con la loggia mercantile (non visibile nel dipinto) e il basso fabbricato addossato alle mura medioevali Viscontee, con la  lunga fila di botteghe e le osterie

La loggia e tutti i fronti degli edifici attigui vennero decorati con affreschi di cui restano brani sul palazzo porticato e a destra della Torre della Cittadella.

Il pittore brembano Giovanni Busi detto Cariani (allievo del Giorgione) affrescò  le due teste di leone dalla folta criniera poste accanto ai peducci delle arcate isabelliane nonché il busto di uomo con scettro, realizzati in uno splendido monocromo.

La facciata del settecentesco Palazzo Roncalli, nella testata meridionale di piazza Mascheroni, con il fronte della loggia mercantile rinascimentale costruita per le contrattazioni, del cui progetto fu incaricato Andea Ziliol (i lavori per la sua esecuzione e per le varie costruzioni adiacenti vennero assegnati a Francesco Pietro Cleri). Nel Settecento la loggia venne inglobata nella facciata dell’attuale Palazzo Roncalli, tornando alla luce nei restauri del 1981 eseguiti sotto la direzione dell’architetto Francesco Giraldi

Del Cariani anche le decorazioni alla destra dei peducci, con la scena di una Venere distesa insidiata da un satiro e il giovinetto intento a suonare il flauto, posto all’estremità della facciata.  Di particolare interesse, sul fronte laterale del palazzo, altri affreschi attribuiti al Cariani eseguiti probabilmente dopo il 1528 durante il suo secondo soggiorno bergamasco. In una delle due lunette, due uomini accanto a due sacchi tengono fra le mani dei chicchi di grano, che stanno guardando e valutando: una normale operazione che si svolgeva dove il grano era commercializzato e generalmente posto nelle parti alte delle case, dove poteva essere più arieggiato e conservato.

Palazzo Benaglio, una scena di contrattazione di granaglie, collegata alla funzione della loggia mercantile (restauro eseguito da Andrea Mandelli nel 1983)

Per la sua conformazione piana, la piazza ospitava anche giochi, gare, giostre e tornei, fra i quali il Calvi ricorda, nel 1567, la festa per “caccia dei tori e dei cani” durante la quale due tori inferociti, fuggiti al di sopra dello steccato per la Corsarola, ferirono gravemente parecchie persone: una tradizione che raccoglieva l’antica eredità dell’area, occupata dagli edifici da spettacolo sin dall’epoca romana (teatro e anfiteatro), che si è protratta fino all’Ottocento interrompendosi quando la Cittadella, divenuta sede dell’I.R. Deputazione Provinciale, cambiò nome e assunse quello di Piazza del Lino.

Nell’area antistante Palazzo Roncalli, nel settore sud di piazza Mascheroni, il rinvenimento nel 1989 e nel 2001 di frammenti di capitelli, di cornici, di un timpano, di colonne scanalate, consentono di ipotizzare l’ubicazione di orchestra, proscenio e scena del   teatro romano, la cui cavea (molto estesa) doveva sfruttare l’andamento del versante settentrionale del colle di San Giovanni. L’anfiteatro era invece spostato più a occidente, come attestato dall’andamento curvo dell’ala ovest della cittadella viscontea, con strutture murarie spesse oltre due metri fondate su elementi murari più antichi

In asse con la Corsarola, la via che attraversa la città, s’erge la porta-torre viscontea d’ingresso alla Cittadella (l’unica conservatasi nella parte piana), con una terminazione settecentesca ad arco e con cinque singolari cuspidi di gusto sloveno ed una campanella, aggiunte probabilmente nel ‘800 durante l’occupazione austriaca. La torre viene chiamata oggi torre della campanella e presenta sopra il poggiolo uno stemma con al centro un’aquila bicipite (simbolo in stretta connessione con lo stemma del Sacro Romano Impero), adottata come proprio emblema dal casato degli Asburgo, Al centro dell’aquila uno scudo inquartato con i simboli alternati della Serenissima e dei Visconti ossia il leone alato ed il biscione.

La torre d’accesso alla Cittadella viscontea, in piazza Mascheroni. L’affresco dell’aquila posto al centro della torre è ricomparso dopo i lavori di restauro eseguiti nella Cittadella negli anni 1958/60 sotto la direzione dell’arch. Sandro Angelini. Fu dipinto da Luigi Bettinelli (1824 al 1892) per conto dell’amministrazione austriaca che occupava la Cittadella

 

La torre d’accesso alla Cittadella viscontea, in Piazza Nova, oggi Mascheroni, già Mercato del Lino (Racc. Gaffuri). Dopo il restauro della torre della campanella sono scomparsi alcuni elementi presenti nel disegno: l’uomo e la donna a lato dell’orologio, in piedi su un piedistallo e le quattro lunette nella sommità della facciata, due per parte della torre, citate dal Pasta ed attribuite al Cariani. Le botteghe addossate alla Cittadella sono ancora presenti

Al centro della piazza campeggia una vera da pozzo ottagonale in marmo di Zandobbio; l’opera risale al periodo della dominazione veneta, quando alle fontane vicinali si aggiunsero alcune importanti opere di ampliamento e di abbellimento, fra le quali si annoverano anche la cisterna di Piazza Mercato delle Scarpe, la sostituzione della fontana della vicinia di S. Pancrazio con quella più elegante fontana davanti all’omonima chiesa ed infine la costruzione della fontana Contarini in Piazza Vecchia, la più famosa tra le fontane della città.

Piazza Mascheroni prima dell’abbattimento delle casette che si addossavano alla Cittadella. Al centro, la settecentesca vera da pozzo portante il nome del Capitano Marino Cavalli, con la quale si attingeva alla cisterna costruita agli inizi del 1600 sotto la piazza

Chiudiamo la nostra visita alla piazza con la medioevale porta del Pantano inferiore, che sottopassa il breve andito diretto in Colle Aperto e che insieme alla distrutta porta del Pantano superiore – le due antiche porte disposte sul lato di via Boccola – costituiva l’unico possibile passaggio (sorvegliato da una piccola guarnigione che richiedeva anche il dazio), stretto fra il fianco nord dell”‘hospitium magnum” e le mura settentrionali.

La Porta del Pantano inferiore, osservata da Colle Aperto (Racc. Gaffuri)

Ma perché Pantano? Perché fin dall’antichità la zona posta alle sue pendici era pressoché paludosa ed insalubre, e certamente il fossato difensivo che proteggeva la Cittadella non ne aveva migliorate le condizioni.

Particolare di uno degli affreschi cinque/seicenteschi posti sulla facciata dell’edificio che sovrasta la porta del Pantano, dove accanto a brani mitologici compare anche uno stemma gentilizio

Giunti al culmine della nostra passeggiata  e rinvigoriti da tanta bellezza, torniamo sui nostri passi ripercorrendo la Boccola fino alla Fontana del Lantro, dove notiamo sulla destra un andito curioso: è il Passaggio dedicato dalla municipalità a Beccarino da Pratta, un modestissimo caporale della Serenissima che esattamente in questo punto sventò il tradimento del conestabile a guardia della porta, impedendo alle truppe dei Visconti di penetrare nottetempo in città da porta San Lorenzo.

Passaggio Beccarino da Pratta dalla Boccola

 

L’imbocco del passaggio Beccarino da Pratta da via S. Lorenzo

 

Via S. Lorenzo

In un amen l’esigua scorciatoia ci catapulta lungo la salita di S. Lorenzo dove, proprio al di sopra dell’imbocco del passaggio rendiamo omaggio a Santo  patrono della vicinia (uno dei più venerati in tutto il mondo), affrescato sulla facciata del civico 32. La passione di San Lorenzo, martirizzato a Roma nel III secolo, è una delle più note nell’agiografia cristiana.

Al civico 32 di via S. Lorenzo, il patrono della vicinia con indosso la dalmatica, l’ampia tunica rossa, lunga fin sotto il ginocchio. Il santo impugna la graticola, simbolo del suo martirio, la cui corona viene posta sul suo capo da due angeli paffuti. Festeggiato il 10 agosto, è il patrone dei rosticceri, degli osti, dei cuochi, dei bibliotecari, dei librai ed è invocato contro gli incendi, la lombaggine e le malattie della vite

La via S. Lorenzo, da mettere in stretto collegamento con la costruzione del trecentesco convento di S. Francesco, collegava anticamente il centro della città al borgo Fabriciano (Valverde) e alle valli Imagna e Brembana attraverso la porta medievale di S. Lorenzo, demolita nel 1829 ma di cui possiamo vedere l’imposta del pilastro appena superato l’imbocco di via Tassis, quasi in fronte al civico 24a.

L’imposta del pilastro della porta medievale di S. Lorenzo, nella via omonima, demolita nel 1829

La porta medievale di San Lorenzo osservata da sud, in un disegno di Pietro Ronzoni

Poco più avanti incrociamo la curiosa casa dai mille caminetti (un tempo casa di piacere): la leggenda narra che ogni comignolo ricordava il campanile di una chiesa abbattuta per far posto alla costruzione delle mura veneziane.

Ma soprattutto, sulla via S. Lorenzo c’erano un tempo numerose osterie e botteghe, cadute in disgrazia in seguito all’erezione delle Mura veneziane e al crollo del ponte romano  della Regina, che attraversava il Brembo nei pressi di  Almenno S. Salvatore. Delle insegne che segnalavano la presenza di osterie è rimasta quella dell’antico ristorante dell’Angelo, parzialmente riadattata.

Antica insegna del caffè dell’Angelo in via S. Lorenzo. L’angelo, con le ali azzurre, indossa una tunica nocciola e tiene tra le mani una verga; nella doppia cornice di ferro battuto sono evidenziati i tralci della vite; l’insegna è sormontata da una corona di ferro

A fine corsa sfioriamo con lo sguardo la vertiginosa torre del Gombito – dal latino compitum, ossia incrocio o crocicchio -, punto d’incrocio del cardo e del decumano di romana memoria e torre più alta della città.

Torre del Gombito

Torniamo infine sui nostri passi per una sosta all’area archeologica di vicolo Aquila nera (dal nome curioso di una vecchia locanda), spiando da dietro le vetrate un incredibile spaccato della storia della città antica, dell’insediamento protourbano del V secolo a.C. ad oggi.

sfiorando l’area archeologica di vicolo Aquila Nera e lanciando un occhio alla torre del Gombito, edificata nel XII secolo; non prenderà mai il nome delle famiglie che nei diversi secoli ne diventarono proprietarie

Noteremo i resti della domus romana (di cui rimangono parte dei muri e dei pavimenti), il pozzo e reperti risalenti a un periodo compreso tra il I secolo avanti Cristo e il II dopo Cristo, sui quali, in epoca medievale, è stata edificata un’altra abitazione, in parte ancora visibile.

Area archeologica di vicolo Aquila Nera nella Città Alta di Bergamo

La visita è gratuita ma è necessaria la prenotazione: magari la prossima volta?

L’avvincente vicenda del Battistero, indagando tra Curia, sotterranei della Basilica e corte della Canonica

Dal portico del Palazzo della Ragione, il Battistero nel 1936 con alle spalle il Palazzo vescovile

Oltre le ariose arcate del Palazzo della Ragione, fra i ricami del protiro di Giovanni da Campione e la mole caleidoscopica della Cappella Colleoni, s’innalza un po’ in disparte l’edificio ottagonale del Battistero. Concepito in epoca viscontea come fonte battesimale della basilica di Santa Maria Maggiore, vi restò per quasi tre secoli sino a che cominciò il suo peregrinare: più volte venne smontato, trasferito e ricomposto, finché la vicenda si concluse con la decisione di collocarlo nella posizione in cui oggi si trova, sul lato ovest della Piazza del Duomo, in asse con la facciata del Duomo e quasi a ridosso della Cappella Colleoni. Per come si presenta oggi, il capolavoro gotico dell’architettura trecentesca campionese si mostra frutto di un rimontaggio “in stile”, tappa finale di alterne vicissitudini entro le quali l’integrità della realizzazione di Giovanni da Campione è certo venuta meno, inducendo a chiedersi quanto di originario sia possibile rintracciare nel complesso, così come ci è pervenuto.

Il Battistero dal Porticato del Palazzo della Ragione, prima del 1912

Il Battistero fu eretto nel 1340 su progetto de magister comacino Giovanni da Campione, perché fosse collocato all’interno della basilica di S. Maria Maggiore, la chiesa della città, che la tradizione vuole costruita con le offerte dei cittadini bergamaschi.

La basilica, edificata a partire dal 1137, era sorta sui resti di un’antica chiesuola risalente all’VIII secolo, nota con il nome di S. Maria vetus .

La Basilica di S. Maria Maggiore venne riedificata sui resti di S. Maria vetus a partire dal 1137, e ultimata solo nel 1273, anno della sua solenne dedicazione. In quel tempo si stava formando il grande complesso episcopale che interessa l’area dell’attuale piazza Duomo, con il riadattamento romanico della chiesa di S. Vincenzo (posto sotto l’attuale Duomo), la costruzione del Palazzo vescovile e della Cappella di Santa Croce

Per tutti gli abitanti della città e del suburbio, la celebrazione del rito del Battesimo in basilica era un’antica consuetudine; il Sabato Santo il vescovo vi si recava in processione per benedire il fonte e celebrare il battesimo (1), con la partecipazione di tutta la comunità cittadina.

La Basilica di Santa Maria Maggiore, sorta sulle rovine dell’antichissima S. Maria vetus. La basilica era la chiesa battesimale della cattedrale di San Vincenzo, come risulta del resto dalla sua struttura a pianta centrale (G. Elena, Piazza Ateneo verso il 1870)

Ma da dove proveniva l’acqua del fonte battesimale, di cui si dice fosse “unico per città e suburbio”? E soprattutto, è lecito chiedersi se il canale che lo alimentava si trovasse anche in precedenza in quel punto; ovvero se il rito del battesimo venisse celebrato anche nell’antica chiesuola di S. Maria, sulle cui rovine era poi stata eretta la maestosa basilica.

L’ANTICO ACQUEDOTTO E IL FONTE BATTESIMALE

Nel medioevo le acque provenienti da Sudorno e Castagneta si congiungevano in un serbatoio situato all’altezza dell’attuale bastione di S. Alessandro, da dove formavano un unico condotto che si dirigeva all’interno della città facendo capo ai tre grandi partitori dell’Orto degli Albani, del Mercato del Lino e del giardino del Vescovado: i capisaldi della distribuzione idrica all’interno della città. Dei tre, si è mantenuto solo il partitore del Vescovado, dal quale si diramavano numerose canalizzazioni minori che distribuivano l’acqua verso le più importanti utenze della città.

Partitore del Vescovado. E’ indicato il canale maggiore e le diramazioni per la fontana di S. Maria Maggiore (Antescolis) per il Fontanone e per la fontana si S. Michele (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole, cit.)

Una delle importanti diramazioni era costituita da due canali che passavano longitudinalmente sotto la basilica di Santa Maria Maggiore.

A destra, la fontana di Antescolis (XII secolo), posta a ridosso della Basilica di S. Maria Maggiore, caratterizzata da due aperture

Un canale attraversava un vano ipogeo di forma circolare, tuttora esistente sotto la sagrestia della basilica  e fuoriuscendo proseguiva nella grande cisterna viscontea detta Fontanone.

Vano ipogeo a pianta circolare con soffitto a volta in cotto esistente sotto la sagrestia di Santa Maria Maggiore. Era attraversato dall’acquedotto che, provenendo dal partitore del Vescovado, correva longitudinalmente sotto il pavimento della Basilica per alimentare poi la cisterna del Fontanone Visconteo (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole, cit.)

 

In un piccolo vano ipogeo del sotterraneo della sacrestia di S. Maria Maggiore, passano il canale Magistrale ed il condotto per il Fontanone visconteo

 

Nei sotterranei dell’Ateneo, scavato nella viva roccia si trova il gigantesco serbatoio d’acqua del “Fontanone”, alimentato dagli acquedotti dei colli (Sudorno e Castagneta). Fu fatto erigere nel 1342 da Giovanni e Luchino Visconti, per garantire la sopravvivenza e la resistenza della città nell’eventualità di un assedio

 

Nell’area appena a sud dell’Ateneo, insieme al ritrovamento dei resti di una domus di età romana, venne individuata una vasca-fontana alimentata da una condotta d’acqua in piombo, materiale utilizzato per le condutture in epoca romana

All’interno del vano ipogeo, si è rinvenuta una più antica struttura muraria contenente un tubo circolare in bronzo, testimonianza di un precedente impianto idrico (2).

Resti di un’antica canalizzazione nell’ipogeo di Santa Maria Maggiore, testimoniante l’esistenza di un antico impianto idrico. L’ipotesi circa l’esistenza di un antico acquedotto sotto le fondazioni della basilica, era già stata avvalorata dal Fornoni (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole, cit.)

Non è quindi improbabile che anche la chiesuola di S. Maria vetus (VIII secolo) fosse dotata di un fonte battesimale alimentato da un antico acquedotto, e che potesse trovarsi, se non nello stesso punto, non molto distante da quello in cui venne collocato il Battistero nel 1340.

Questi, doveva essere posizionato sotto l’ultima volta della navata minore destra, dove ora si trova il Monumento funebre al cardinale Guglielmo Longhi, di fronte all’altare dedicato a san Giuseppe, poi rimosso (3).

Basilica di S. Maria Maggiore, il Monumento funebre al cardinale Guglielmo Longhi, nell’arca in fondo ala parete

Sembrano confermare questa considerazione anche il passaggio collegante l’Aula Picta della Curia vescovile, attraverso la quale passavano i diaconi e il clero durante i riti del Sabato Santo; passaggio che in seguito venne coperto da un arazzo.

Giuseppe Rudelli, Il Vescovo Conte Dolfin che dal Vescovado si reca in S. Maria Maggiore, attraverso la porta ora murata (Bergamo, propr. L. Angelini)

 

Basilica di S. Maria Maggiore. Accanto al monumento funebre al cardinale Guglielmo Longhi, l’arazzo che cela il passaggio collegante il passaggio per dell’aula della Curia

E sembra confermare tale considerazione anche la bifora murata dell’aula della Curia, che fino all’inzio del XIV secolo gettava un fascio di luce sul fonte battesimale.

Ingresso della Curia vescovile (da Stoylab)

 

La bifora della parete est dell’Aula della Curia, posta all’attuale ingresso del Palazzo Episcopale, realizzata contestualmente al cantiere della Basilica, metteva in comunicazione visiva l’Aula della Curia con l’altare maggiore, con cui è in asse, forse per dotare di legittimazione sacrale atti o giuramenti. Una volta tamponata, è diventata una sorta di sacello incassato, quasi un richiamo alla “confessio” della basilica di S. Alessandro (distrutta nel 1561 per far posto alle mura veneziane), con i tre santi  realizzati dopo la divisione in altezza dell’Aula: Alessandro, supposto primo evangelizzatore di Bergamo, galoppa al centro della lunetta, sovrastando – e mettendo in comunicazione con gli zoccoli del cavallo – le due luci in cui campeggiano gli altrettanto leggendari primi due vescovi di Bergamo, Narno e Viatore: niente di più efficace per sottolineare il peso della Chiesa bergamasca delle origini

LE TENSIONI TRA IL VESCOVO E LA MIA E LA QUESTIONE DEL BATTISTERO

Se la notizia dello spostamento del Battistero in S. Vincenzo nel 1613 è nota, non sono chiare tuttavia le motivazioni finora addotte per giustificarne il trasferimento.

A un certo punto della sua vicenda, il Battistero, che fino ad allora aveva goduto di un proprio spazio all’interno della basilica, comincia la lunga serie delle ricollocazioni che lo vedrà più volte oggetto di smembramenti, ricostruzioni e trasferimenti.

Nell’incisione di Giuseppe Berlendis, datata 1840 con il titolo Piazza Vescovile, il Battistero non compare ancora

I problemi sorsero alla metà del Quattrocento con l’ingresso in diocesi del nuovo vescovo, il patrizio veneto Giovanni Barozzi, il quale trovava strano che la chiesa che ospitava il fonte battesimale cittadino fosse amministrata da un consorzio di laici.

Iniziarono così un secolo e mezzo di controversie tra il vescovo e i reggenti della MIA, legati al possesso della basilica (alla sua gestione e alla nomina dei sacerdoti che dovevano officiarvi).

Nel 1454 il papa Nicolò V confermava appieno al Consorzio i privilegi di cui essa godeva, riaffermandone l’indipendenza da qualsivoglia autorità laica ed ecclesiastica.

Sottratta dal diretto controllo del vescovo, da quel momento la basilica venne gestita secondo le regole del Consorzio, cosa che di fatto non impedì il verificarsi di continui contrasti con i canonici della cattedrale, che non perdevano occasione per rivendicare diritti sulla basilica.

Un ultimo, “ingombrante” ostacolo – e non solo per le sue imponenti dimensioni – si frapponeva tra la MIA e il pacifico godimento di Santa Maria Maggiore: la presenza all’interno della chiesa del fonte battesimale trecentesco, che offriva ai vescovi il “pretesto” per visitare la basilica ed inoltre acuiva i rapporti con i canonici, che lo consideravano di propria pertinenza e che avevano più volte insistito perché la chiave del fonte – che era custodita dal sacrista della basilica – fosse loro consegnata.

La MIA aveva cercato di disciplinarne l’utilizzo, facendo addirittura redigere appositi atti notarili in cui appariva chiaro che vescovi e canonici si servivano del fonte per benevola concessione del Consorzio. Nonostante tutto, però, la situazione riguardo al battistero restava intricata.

Poiché il battistero causava molto incomodo alla chiesa, non solo per le grandi dimensioni del fonte ma pure per le liti sorte intorno al suo utilizzo, per risolvere definitivamente la questione i reggenti della Misericordia lo offrirono in dono ai canonici perché lo accogliessero nella loro chiesa.

L’interno di Santa Maria Maggiore in un’incisione del 1843

Dopo un primo tentativo in tal senso, avanzato nel 1599 (fallito, anche perché i canonici non avevano lo spazio necessario per accogliere il fonte nella cattedrale), l’occasione si ripresentò nel 1611 quando, in occasione del battesimo del figlio del podestà di Bergamo, il vescovo Emo non si limitò ad amministrare il sacramento ma compì una vera e propria visita del fonte e dell’intera basilica: un affronto che la MIA non poteva tollerare, e che si risolse con l’intercessione di Emo il quale, pur di levar ogni seme di discordia convinse i canonici ad accettare l’offerta del Consorzio, che di propria iniziativa si impegnava al ‘trasloco’ del vecchio battistero, assumendosi anche l’onere della sua nuova sistemazione nella cattedrale di S. Vincenzo (intitolata a Sant’Alessandro Martire solo a partire dal 1689).

Il 18 gennaio 1613, nella sala delle udienze dell’episcopio, si giunse così alla sentenza definitiva: i rettori stabilirono che entro due settimane tutto il vase battismale … che si ritrova nel battisterio nella chiesa sopradetta di S. Maria [fosse] a spese … di detta Misericordia levato et trasportato nella chiesa cathedrale di S. Vincenzo.

Il prezzo che la MIA aveva dovuto pagare era davvero ingente: dopo quasi tre secoli di permanenza in basilica, questo capolavoro d’arte trecentesca venne sacrificato solo per salvaguardare un superiore interesse, ossia la libertà e l’immunità della chiesa di Santa Maria Maggiore (4).

Scorcio di Piazza Duomo, ancora priva del Battistero

COMINCIA UN LUNGO VIAGGIO

Nel 1613 la vasca battesimale venne dunque spostata in S. Vincenzo trasferendo di fatto il sacramento del battesimo alla giurisdizione della cattedrale.

In merito alle sorti successive del battistero e fino alla sistemazione del 1856 nel cortile della canonica, circolano notizie diverse e contraddittorie.

Pare che alla metà del ‘600, dati i lavori di decorazione delle campate eseguiti in Duomo, il battistero fosse ormai decisamente d’intralcio e che da qui si decidesse di smontarlo e portarne i pezzi nella sede della MIA in via Arena.

La sede della MIA in via Arena

Nel 1691, i rilievi ed alcune statue che costituivano l’apparato decorativo interno ed esterno del monumento furono reimpiegati in una cappella del Duomo (5), mentre numerose altre parti andarono disperse o perdute (6).

Di fatto, nel 1856, con l’intento di restituire al Battistero le sue forme trecentesche, il monumento venne ricomposto nell’angusto cortile della Canonica, posta all’interno del passaggio Cà Longa, tra Piazza Vecchia e via Mario Lupo, dove se ne percorrono i due lati consecutivi chiusi da un porticato e con cancellata di ferro: uno degli angoli più nascosti di Città Alta nel quale val la pena soffermarsi brevemente a curiosare.

Pietro Ronzoni. Il Palazzo della Ragione dal Cortile dei canonici

IL RIPRISTINO NEL CORTILE DELLA CANONICA DELLA CATTEDRALE

Il Palazzo della Ragione dal Cortile dei canonici in una ripresa molto simile alla precedente

Il ripristino fu affidato all’architetto bolognese Raffaello Dalpino, che tuttavia vi apportò ingenti modifiche prevedendo numerose aggiunte e ammodernamenti dell’apparato scultoreo.

Il Battistero ricomposto nel cortile della canonica che, sebbene già alterato nel suo aspetto originario, ci restituisce la più antica immagine fotografica giunta sino a noi (Bergamo nelle vecchie fotografie, D. Lucchetti)

Sostituì la più bassa zoccolatura originaria con un alto basamento in marmo nero di Gorno, sul quale murò alcune lapidi sepolcrali di alcuni vescovi, rimosse poi nella sistemazione del 1898-99 operata dall’architetto Muzio.

Il Battistero nel cortiletto dei Canonici. 18-09-1900 (esempio di cartolina venduta dopo la mutazione del soggetto; da D. Lucchetti). Il Battistero di Santa Maria Maggiore, spostato dalla basilica nel 1613 e dopo una serie di traversie interamente ricostruito nel 1856, con aggiunte e rifacimenti, dall’architetto Dalpino nel cortile della canonica, dove rimase fino al 1898-’99

Lapidi molto simili compaiono anche nelle fotografie che ci restituiscono l’aspetto otto/novecentesco del cortile, apposte sulla parete laterale esterna della Cappella del Crocefisso: si tratta di lapidi tombali di vescovi, canonici e prelati, recuperate dal rifatto pavimento della Cattedrale.

Cortile della canonica, Sulla parete rivestita in cotto, corrispondente alla parete laterale della Cappella del Crocefisso, le lapidi tombali recuperate dal rifatto pavimento della Cattedrale.  La Cappella del Crocefisso è un’aggiunta costruita dall’architetto Raffaello Dalpino nel 1855. Prende nome da un Crocifisso del ’500 posto sull’altare e corrisponde alla seconda cappella di sinistra del Duomo. Il lato in pietra grigia risale invece al 1459 e fu costruita sui disegni del Filarete

Di fatto, il cortile della canonica è citato come ex cimitero e sappiamo che nell’ultimo decennio del ‘Seicento, anche l’area che attualmente corrisponde alla nuova Cripta dei vescovi, veniva utilizzata come cimiteriale.

Sulla parete di fondo le lapidi tombali di vescovi, canonici e prelati,  affisse sul basamento: sono le stesse disposte inferiormente lungo tutta una parete del cortile della canonica?

Nel cortile, fra l’altro, vi è anche una colonna molto singolare, tozza, rotonda, liscia e molto semplice, nel tipo di quelle che si innalzavano ai crocicchi delle strade dopo la venuta di S. Carlo Borromeo a Bergamo, o di quelle innalzate dopo la grande peste del 1627-30 narrata dal Manzoni, periodo a cui si fa risalire la sua erezione.

La colonna, probabilmente secentesca, con alle spalle le lapidi tombali dei vescovi, canonici e prelati

LA SISTEMAZIONE DEFINITIVA

1886: il Battistero non è ancora stato collocato in Piazza Duomo; la facciata del Duomo è ancora priva del rivestimento marmoreo e la sommità del Palazzo della Ragione è ancora priva della merlatura

Nel 1898 Virginio Muzio venne incaricato dal podestà Ciro Caversazzi di trovare una migliore posizione all’edificio, che presentava gravi segni di degrado a causa dell’umidità del cortile.

Il Battistero nel cortiletto dei Canonici. 18-09-1900 (esempio di cartolina venduta dopo la mutazione del soggetto; da D. Lucchetti)

Non essendo ormai possibile riportarlo all’interno di Santa Maria Maggiore, Muzio decise di collocarlo nella Piazza del Duomo in modo tale da colmare “splendidamente” l’unica parte disadorna della piazza, lasciando la vista di quel po’ di verde e del cielo che contrastando con “il cospicuo gruppo di monumenti antichi ancor oggi la rende così caratteristica” (7). L’attenzione alla collocazione ambientale rappresenta la cifra stilistica ricorrente nella produzione di Muzio.

Dalla loggia della sede vescovile. La definitiva sistemazione dell’edificio nell’attuale collocazione, sul lato ovest di Piazza Duomo, venne realizzata nel 1898-’99 dall’architetto Virginio Muzio, che lo trasferì sull’area donata dal vescovo Guindani, apportandovi ulteriori modifiche

Egli cercò, per quanto possibile, di riportare il Battistero alle sue forme originarie basandosi sulla sola testimonianza grafica esistente dell’antico assetto, pubblicata da Padre Donato Calvi e conservata presso l’Accademia Carrara (8).

Si tratta di un’incisione realizzata nel 1676 da Simone Durello, quando già era avvenuto il trasferimento del manufatto nella cattedrale. Il disegno, piuttosto schematico e con inevitabili concessioni al gusto barocco (come le improbabili volute sulla copertura), riporta però i tratti essenziali della struttura ottagonale, a partire dalle proporzioni meno slanciate, studiate in relazione all’invaso interno della basilica, dove il Battistero doveva assumere ben altra monumentalità, e in cui Giovanni da Campione dovette operare con la stessa fine intelligenza del tessuto architettonico preesistente che mostrerà negli altri interventi per la basilica.

Il battistero di Giovanni da Campione in un’incisione realizzata nel 1676 da Simone Durello, con le pareti scandite da colonnine e le Virtù, collocate in nicchie incassate agli angoli. Altre statue erano poste sul cornicione e vi era un angelo sopra la lanterna (Accademia Carrara – Gabinetto di Disegni e Stampe)

Nella ricomposizione attuata da Muzio in vista della collocazione all’esterno, l’ottagono venne notevolmente sopraelevato rispetto alla configurazione originaria, con l’inserimento dell’alto basamento esterno in conci di marmo grigio di Gazzaniga e del rivestimento superiore in pietra di Verona a fasce alterne, che gli conferirono le giuste proporzioni in rapporto agli altri edifici della Piazza.

L’intera struttura ottagonale, sopraelevata da Muzio, è di nuova realizzazione

Pur riprendendo il sistema originario, venne realizzata ex-novo l’intera copertura piramidale in marmo, con le ricche cornici e le statue con le Beatitudini che s’innalzano lungo la nuova copertura e con l’aggiunta sulla cuspide della statua di un arcangelo, di fattura relativamente moderna.

Il Battistero nella posizione attuale in una ripresa datata 24 – 4 – 1904. Manca il Palazzo Vescovile, edificato nel 1906

L’incisione di Durello riporta anche la fitta sequenza delle colonnine (come oggi, sormontate da capitelli fogliacei e con protomi umane ed animali): una sorta di diaframma traforato che metteva in relazione l’interno della struttura con l’esterno, escludendo dunque la necessità di finestre munite di imposte vere e proprie.

La sequenza delle colonnine sormontate da capitelli fogliacei e con protomi umane e animali, nella zona superiore delle pareti perimetrali, ancor’oggi mette in relazione l’interno della struttura con l’esterno

Ed è curioso osservare che per le due grandi polifore ai lati del portale sulla facciata della Cappella funeraria del Colleoni, realizzate negli anni Settanta del Quattrocento, l’Amadeo s’ispirò proprio alle cortine diafane del Battistero, mentre la policromia di quella stessa facciata, richiama a suo modo l’alternanza cromatica espressa nel portale nord della basilica.

Per le due grandi polifore ai lati del portale sulla facciata della Cappella Colleoni, l’Amadeo s’ispirò proprio alla sequenza delle colonnine del Battistero

 

S. Maria Maggiore, 1901. La policromia della Cappella Colleoni (Amadeo) richiama l’alternanza cromatica espressa nel portale nord della basilica di S. Maria Maggiore, opera dei Maestri campionesi, insieme al protiro meridionale e al portalino di nord-est, affacciato su Piazza Reginaldo Giuliani

Diversamente da oggi, la griglia delle colonnine si disponeva su sette lati della struttura, dal momento che un lato era occupato dalla porta, che era architravata, mentre nella ricostruzione di fine Ottocento vi fu inserito un elemento estraneo al complesso battesimale: un portalino trecentesco che i documenti dicono provenire da una cappella del Duomo: segnale che nel XIV secolo alcuni interventi scultorei, forse riconducibili anch’essi alla maestranza campionese, interessarono evidentemente anche la cattedrale romanica.

La nuova e definitiva sistemazione del Battistero in Piazza Duomo. Nella ricostruzione di Muzio è stato inserito un portalino trecentesco, di cui si dice fosse l’ingresso della Cappella di San Benedetto costruita a fianco della cattedrale romanica (visibile nel Museo degli Scavi e del tesoro del Duomo), in omaggio a Papa Benedetto XII (la foto è datata 1905)

 

15 – 08 – 1905. il Battistero sul lato ovest della piazza, frutto di un rimontaggio “in stile” a seguito di numerose vicissitudini. Non v’è ancora il Palazzo Vescovile, costruito nel 1906

LE VIRTU’

Le otto statue angolari esterne in pietra di Verona, collocate alla quota delle colonnine, raffigurano le Virtù teologali e cardinali, a cui corrisponde il proprio opposto nella fascia inferiore, dove compaiono figurette rappresentanti i Vizi su cui le Virtù stesse trionfano: sotto la Giustizia sta una scena di omicidio; sotto la Prudenza un uomo che tiene in mano forse un serpente o altri animali; sotto la Temperanza un ingordo; sotto la Pazienza una donna che si dispera; sotto la Speranza un suicida; sotto la Fede un donna con i pugni alzati (che bestemmia?); sotto la Fortezza (recante un macigno) un vecchio adagiato a terra con topi che lo assalgono; sotto la Carità un avaro che stringe la borsa del denaro.

Il Battistero in Piazza Duomo. Da una serie stampata in tricromia dall’Istituto Italiano d’Arti Grafiche nel 1905 ca., riservata al mercato francese (D. Lucchetti)

Si tratta di pezzi tra i più straordinari dell’intero corpus di sculture campionesi a Bergamo, frutto di un vero e proprio virtuosismo tecnico e stilistico.

Statua della Virtù

All’interno, la statua del Battista, in parte dorata, è citata nell’inventario dei pezzi trasportati in cattedrale nel 1613: collocata entro una stretta edicola trilobata nella parete di fronte alla porta d’ingresso, in origine doveva sovrastare, forse sotto un baldacchino, il fonte battesimale. Presenta caratteri di grande affinità con le Virtù, per l’austera concentrazione formale e la nettezza quasi rude dei piani.

Le otto formelle marmoree a bassorilievo, con episodi neotestamentari, oggi murati sulle pareti interne del Battistero, ornavano in origine i lati della vasca battesimale (i pezzi sono tra quelli descritti nel citato inventario dei pezzi trasportati in Duomo nel 1613).

Interno del Battistero. La statua di San Giovani Battista con brocca e patena e alle pareti le formelle marmoree a bassorilievo, con episodi neotestamentari

I pannelli, con figure sottilmente intagliate, rappresentano la vita e la passione di Cristo (Annunciazione; Natività; Adorazione dei Magi; Presentazione al tempio; Battesimo; Cattura, Giudizio e Flagellazione; Crocifissione; Deposizione dalla Croce).

I pezzi che più da vicino si rapportano con le austere figure delle Virtù e pertanto sono forse da ascrivere ad un intervento più diretto di Giovanni, sono i rilievi dell’Adorazione dei Magi e della Presentazione al tempio e forse dell’Annunciazione, mentre – da come si evince soprattutto nelle scene più affollate (Cattura, Crocifissione e Deposizione dalla Croce) – è stata ravvisata l’influenza della plastica toscana, anche coeva, temperata però da forti influenze nordiche, tale da convincere della collaborazione di almeno tre maestri, tutti cooperanti all’interno di un piano iconografico predefinito e tutti sovrastati dalla forte personalità dell’autore.

la vasca battesimale, ricostruita da Muzio

Le altre sculture all’interno del Battistero, sei statue di figure angeliche montate su mensole, sono troppo compromesse dai restauri, se non addirittura totalmente ricostruite sulla base di frammenti, da rendere opportuna per il momento una sospensione del giudizio, da parte degli studiosi.

Note

(1) Valsecchi 1989, p. 127.

(2) B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole, Gli antichi acquedotti di Bergamo, edito dal Comune di Bergamo, Assessorato all’Urbanistica, 1992.

(3) Andreina Franco Loiri Locatelli, la Basilica di Santa Maria Maggiore, 12-13, La Rivista di Bergamo, Giugno 1998, p. 12.

(4) A cura di Francesca Magnoni, Santa Maria Maggiore. Un profilo storico.Testi di Attilio Bartoli Langeli, Paolo Cavalieri, Gianmarco De Angelis, Francesca Magnoni.

(5) Muzio, p. 83 fig. 52; Pinetti, 1925, p. 174. in: Cristina Ranucci, “GIOVANNI di Ugo da Campione”. Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 56, 2001).

(6) Muzio, p. 83 fig. 52; Pinetti, 1925, p. 174, in: Cristina Ranucci, “GIOVANNI di Ugo da Campione”. Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 56, 2001).

(7) Muzio, Note e ricorsi della Esposizione d’arte sacra in Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo, 1899, pp. 82-83; si veda anche: Il Battistero di Bergamo, in “Emporium”, novembre 1898, p. 399 e ss.; Angelo Pinetti, Cronistoria artistica di Santa Maria Maggiore. Il Battistero, in “Bergomum”, 1925, n° 4, pp. 167-183; Angelo Meli, Il crollo di una fantasia diventa comune: dove sorgeva in Santa Maria Maggiore il Battistero, in “L’Eco di Bergamo”, 13 gennaio 1963, p. 3.

(8) D. Calvi, Effemeride sacro-profana di quanto di memorabile sia successo in Bergamo, Milano 1676-1677, I, alla data 7 aprile 1340.

Riferimenti Essenziali

Arnaldo Gualandris, “Monumenti e colonne di Bergamo”, a cura del Circolo Culturale G. Greppi. Bergamo, 1976 (con introduzione di Alberto Fumagalli).

Fabio Scirea Il complesso cattedrale di Bergamo (Academia.edu)

Saverio Lomartire, Magistri Campionesi a Bergamo nel Medioevo – Da Santa Maria Maggiore al Battistero. In Svizzeri a Bergamo, nella storia, nell’arte, nella cultura, nell’economia, dal ‘500 ad oggi. Campionesi a Bergamo nel Medioevo.

Giovanni di Ugo da Campione, Treccani.

A cura di Francesca Magnoni, Santa Maria Maggiore. Un profilo storico (Academia.edu). Testi di Attilio Bartoli Langeli, Paolo Cavalieri, Gianmarco De Angelis, Francesca Magnoni.

Roberto Cassanelli (a cura di), “Bergamo e il suo territorio: Battistero”, Arte gotica in Lombardia, Sesaab, Bergamo, 2007, pagg. da 108 a 113.

B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole, Gli antichi acquedotti di Bergamo, edito dal Comune di Bergamo, Assessorato all’Urbanistica, 1992.

Fotografie e disegni del Battistero, in: Ricomposizione del Battistero di S. Giovanni in Piazza Duomo, Bergamo, 1898/1899 {opere esposte nella Mostra “Virginio Muzio. Architetture (1889-1904). Biblioteca A. Mai, Bergamo}.

La Colonna ai Lupi di Toscana davanti la caserma Montelungo

La caserma Montelungo sorge su un’area occupata dall’inizio dell’Ottocento dalla “Caserma delle Orfane, S. Raffaele e Convertite”, dal nome delle tre preesistenti opere di Carità presenti in loco dal XVI secolo. Dopo la seconda metà del’Ottocento il complesso architettonico ha subito numerosi mutamenti che l’hanno portato all’assetto con cui si presenta oggi. Numerosi anche i cambiamenti di nome: nel 1843, come risulta da una mappa dell’Archivio di Stato, la caserma venne contrassegnata con il nome di caserma “S. Giovanni”, dopo l’Unità d’Italia prese il nome di “Umberto I”, per assumere poi quello di “68° Fanteria”, di “Legnano” ed infine di “Montelungo”. Il presidio militare è stato sciolto definitivamente nel 1998 e contemporaneamente l’area e gli immobili sono stati dismessi e poi abbattuti

I Fanti della Brigata Toscana quando conquistarono il monte Melino, nell’ottobre 1915, furono definiti “Lupi” dai difensori austriaci in fuga. L’allora Capitano Ottorino Bonini, che comandava una delle Compagnie impegnate nello scontro, nella sua rievocazione ricorda come quest’appellativo divenisse per il Reggimento quasi una seconda fiammante bandiera.
Nella Grande Guerra la Brigata Toscana era chiamata “Bergamo” (poi denominata 78° Rgt. Fanteria che aveva il suo deposito di guarnigione alla Caserma “Umberto I” Montelungo) e il 77°, che aveva sede a Brescia alla Caserma Alessandro Monti (poi intitolata all’eroico Maggiore Giovanni Randaccio).

Dopo la vittoriosa battaglia sull’altipiano di Asiago e la conquista di Col del Rosso e di Cima d’Echele, nel 1917, i “Lupi” formularono il voto di erigere un Monumento che ricordasse il sacrificio dei Caduti e l’eroismo di tutto il 78° Reggimento Fanteria. A Bergamo, nel 1924, dopo due gare d’appalto, viene finalmente scelto il bozzetto dell’architetto Giulio Paleni. È una colonna trionfale romana di stile corinzio, a scanalature, che si alza per oltre 11 metri da un basamento quadrangolare (1).
Quella stessa colonna la cui familiare sagoma spicca ancor’oggi sul sagrato prospiciente l’ormai demolita caserma Montelungo, innalzata quando la caserma era intitolata ad Umberto I.

La caserma Montelungo in un’immagine d’epoca

Dopo la proclamazione del Regno d’Italia si costituì una nuova brigata granatieri di Toscana, il cui secondo reggimento prese il nome di 78° Reggimento Fanteria, partecipando alla guerra del 1866, alla campagna di Eritrea (1887/’88) e alla guerra italo turca (1895/96).

Esercitazioni di tiro nei campi di Seriate (fotografia anteriore al 1895, eseguita dal Dr. Giovanni Piccinelli) – (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

 

Esercitazioni di tiro nei campi di Seriate (probabile foto conte Gerolamo Medolago) – (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

 

Manovre militari del 1895: passeggiata davanti al palazzo Frizzoni (fotografia eseguita dal Dr. Giovanni Piccinelli) – (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

La storia eroica del Reggimento però inizia con la prima guerra mondiale.
Molte furono le azioni di valore e di ardimento compiute dai fanti del 78°, e la fredda determinazione con cui le portavano a termine meritò l`appellativo di “Lupi”.

I “Lupi di Toscana” ebbero tre citazioni nel bollettino del Comando supremo, due decorati al valor militare di Savoia, 44 medaglie d’argento e 182 medaglie di bronzo.

Grande però fu il tributo di sangue pagato da quegli ardimentosi: più di 6.000 uomini rimasero uccisi o feriti.
Gli ufficiali morti furono 73, 143 i feriti, 50 i dispersi; i militari di truppa morti furono 878, i feriti 3.845 e i dispersi 1.573.
La bandiera del Reggimento andò letteralmente distrutta.

Dopo la vittoriosa battaglia detta “degli altipiani” nei giorni di Natale del 1917, i Lupi, considerate le grandi perdite subite nelle varie azioni di guerra, formularono il voto di erigere un monumento che ricordasse il sacrificio dei caduti e l’eroismo di tutto il Reggimento.

La promessa venne mantenuta: nel 1924, dopo due concorsi, il comitato formato da reduci e varie personalità e presieduto dall’on. Paolo Bonomi, scelse, per la realizzazione, il bozzetto dell’arch. Giulio Paleni e si diede subito inizio ai lavori.

Il monumento consiste in una colonna trionfale romana a scanalature, di stile corinzio, tratta da un sol blocco di marmo di Zandobbio, che si eleva per oltre 11 metri e 50 da un basamento quadrangolare.
Il capitello è in stile classico modernizzato, con delle figure di fante fra le volute.
ll basamento, che a sua volta poggia su una breve gradinata, presenta nella parte anteriore un bassorilievo in bronzo (in realtà un altorilievo, n.d.r.) , opera dello scultore bergamasco Cattaneo, rappresentante l’Italia, avvolta nella bandiera, che tiene fra le mani un ramo di alloro piegato destinato ai vincitori; ai suoi piedi un branco di lupi pronti all’attacco.

La caserma Umberto I, poi Montelungo, con il nuovo monumento ai Lupi di Toscana: la colonna trionfale romana di stile corinzio, a scanalature, che si alza per oltre 11 metri da un basamento quadrangolare. Intagliata in un blocco unico di marmo di Zandobbio, la colonna è sovrastata da un capitello che riproduce figure di Fanti tra le volute

Nella parte superiore del bassorilievo si legge l’esametro latino dettato dal condottiero della terza armata, il duca d’Aosta, che lo assegnò “in un giorno di battaglia come motto agli ardenti lupi del 78° reggimento”:TUSCI AB HOSTIUM GREGE LEGIO VOCATI LUPORUM.
La colonna ha incisi, lateralmente, i versi di Gabriele D’Annunzio, che così definì la fulminea conquista del monte Sabotino:
«Fu come l’ala
che non lascia impronte
il primo grido
avea già preso il monte»

Il basamento, posato su una breve gradinata, sulla parte anteriore esibisce un altorilievo in bronzo dello scultore bergamasco Edmondo Cattaneo che rappresenta l’ltalia vittoriosa avvolta nella Bandiera, protetta da una schiera di lupi pronti all’attacco. Sopra i lupi il motto latino del Duca d’Aosta: “Tusci ab hostium grege Legio vocati Luporum” (Legione di Lupi i Toschi fur detti dal gregge nemico). Sopra il celebre distico di Gabriele d’Annunzio dedicato alla folgorante conquista del monte Sabotino

e la motivazione della medaglia d’oro alla bandiera del Reggimento:
“con impeto irrefrenabile assaltarono e travolsero le più formidabili posizioni con orgogliosa audacia cercarono e sostennero la lotta vicina fieramente spezzando i più gravi sacrifici di sangue ed acquistando fama leggendaria si che il nemico sbigottito ne chiamò “Lupi” gli implacabili fanti (Velikj – Faitj 1 – 3 novembre 1916, Flondar-San Giovanni di Duino, Foci del Timavo 23-30 maggio 1917; 2 agosto – 3 settembre 1917; Tagliamento 2 – 3 novembre 1918)”.

Sugli altri lati del basamento, sono affisse le lapidi con la dedica “Ai gloriosi Caduti del 78° Reggimento Fanteria” con le date della prima e della seconda guerra mondiale, la motivazione della Medaglia d’Oro al Reggimento, le località gloriose della GRANDE GUERRA: Sabotino, Velikj, Col del Rosso e Cima d’Echele e quelle della SECONDA GUERRA: Malj Tabajani, Golico e Africa settentrionale

Per reperire i fondi necessari alla realizzazione del monumento, il comitato si affidò alle offerte volontarie degli ex combattenti e dei singoli cittadini, ma i fondi si rivelarono insufficienti e il comitato dovette organizzare, nel gennaio del 1925, un grande concerto per devolverne il ricavato all’opera intrapresa.
Superato l’ostacolo finanziario e terminato il monumento, il comitato si preoccupò di dare un carattere particolarmente solenne alla sua inaugurazione.

Approfittando del fatto che in Bergamo erano state portate a termine alcune costruzioni del centro piacentiniano e che l’Associazione Madri e Vedove dei Caduti e Dispersi aveva approntato il nuovo Gonfalone municipale, si pensò i riunire questi importanti momenti della vita cittadina in un’unica cerimonia con la presenza del re Vittorio Emanuele III.

La Camera di Commercio il 1° novembre 1925, giorno della sua inaugurazione alla presenza di Re Vittorio Emanuele III (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

Così a Bergamo, il 1° di novembre del 1925 si era in attesa del re; il programma prevedeva:

ore 8,30 Arrivo di S. M. alla stazione. Presentazione e formazione corteo.

ore 9 Inaugurazione nel piazzale della caserma Umberto I del monumento ai caduti del 78° reggimento fanteria “Lupi di Toscana” e del Gonfalone della città, offerto dalle signore bergamasche, ad iniziativa dell’Associazione Madri Vedove e Parenti dei Caduti e Dispersi in guerra. Distribuzione delle drappelle dei trombettieri offerte da un comitato di signore fiorentine alla brigata toscana.

ore 10 Inaugurazione del palazzo di Giustizia.

ore 10 Inaugurazione nuova sede della Camera di Commercio.

Ore 11 Ricevimento dei signori Sindaci della Provincia, delle Autorità e Rappresentanze delle Associazioni nel Palazzo Provinciale.

“1925 circa: sfilata di reduci in via Torquato Tasso” (“Bergamo nelle vecchie fotografie”, D. Lucchetti)

I luoghi in cui avvenivano le cerimonie ufficiali erano tanto ristretti da consigliare un limitato numero di invitati, inoltre, ciascuno di essi non poteva assistere che ad una cerimonia.
Una fitta barriera di carabinieri e militari era stata posta lungo il percorso stazione-caserma Umberto I; la più stretta sorveglianza impediva a chiunque di entrare nei luoghi sopra indicati se non munito di apposito cartellino-invito. Notizia di cronaca curiosa può essere il fatto che questi cartellini differivano per colore in relazione al sesso dell’invitato ed alla manifestazione alla quale poteva partecipare.

Giunto a Bergamo, il Re fu ricevuto dai ministri Rocco e Belluzzo, dal conte Suardo, dal commissario prefettizio Franceschelli, dal generale Segré, dal prefetto e da altre personalità, quindi, a bordo di una “Isotta Fraschini”, di color giallo, raggiunse la caserma Umberto I fra due ali di folla acclamante.

Il Monumento ai Lupi di Toscana fu inaugurato con una fastosa cerimonia dal Re Vittorio Emanuele III il 1° novembre 1925. Giunto a bordo di una Isotta Fraschini, raggiunge la Camera di Commercio accolto dalle Autorità locali e nazionali tra gli applausi scroscianti di una folla imponente

 

Re Vittorio Emanuele III a bordo dell’Isotta Fraschini durante la visita a Bergamo nel 1925

I vecchi “Lupi”, venuti da tutte le città d’Italia (fra essi 500 trinceristi guidati da Franco Gagliani, il garibaldino del Sabotino) sfilarono con i petti fregiati dalle medaglie al valore, preceduti dal loro gagliardetto inaugurato la settimana prima al Vittoriale da Gabriele D’Annunzio.

Il Re, affacciato al balcone, inaugura la Camera di Commercio nel nuovo centro cittadino ideato da Marcello Piacentini. Nello stesso giorno egli inaugurerà anche il Palazzo di Giustizia

Dopo la breve cerimonia dell’inaugurazione del monumento, prese la parola il comandante del reggimento, colonnello Gritti, che brevemente ma incisivamente illustrò le eroiche imprese dei “Lupi”; a lui fecero seguito il generale Martinengo e l’On. Paolo Bonomi.
Al termine, donna Alessandri Ginammi, presidentessa dell’Associazione Madri e Vedove dei Caduti, consegnò al commissario prefettizio il nuovo gonfalone della città al quale era appesa la medaglia d’oro concessa da Umberto I per i gloriosi fatti del 1848.

Il palco per le autorità eretto di fronte alla colonna dei “Lupi”. Nella Caserma “Umberto I” il Re s’intrattiene con i gloriosi “vecchi Lupi”, guidati dal Generale Francesco Gagliani, Comandante storico della Brigata Toscana. Assiste quindi alla parata del 78° Rgt. Ftr. seguito dai Reduci che sfilano con i petti fregiati dalle Medaglie al Valore e con l’azzurro gagliardetto dei Lupi di Bergamo inaugurato la sera del 24 ottobre da Gabriele d’Annunzio al Vittoriale

La cerimonia si concluse nell’interno della Caserma, dove il Sovrano passò in rassegna e si intrattenne con i soldati e i reduci del reggimento.
Recentemente l’Associazione del Fante e dei Lupi di Toscana ha sostituito le tre lastre di marmo infisse nel monumento per incidere i luoghi e le date delle ultime gesta dei Lupi di Toscana nella seconda guerra mondiale.

Mali Tabaianj gennaio 1941
Golico marzo 1941
Africa Settentrionale 1942 (2)

Fonti
(1) Per la prefazione seguita da alcune didascalie poste a corredo delle immagini: “Bergamo restaurato il monumento ai Lupi di Toscana”, da “Il Fante ‘Italia” n. 1 del 3/2012.
(2) Per il testo integrale: Arnaldo Gualandris, “Monumenti e colonne di Bergamo”, a cura del Circolo Culturale G. Greppi. Bergamo, 1976 (con introduzione di Alberto Fumagalli).

La Basilica alessandrina e quel che ne resta

La fronte della Basilica Alessandrina (domus Sancti Alexandri), prima chiesa paleocristiana della città di Bergamo, demolita nel 1561 per ordine di Venezia perché sorgeva sul tracciato delle nuove fortificazioni.  La stampa raffigura un’interpretazione fantastica di una Basilica paleocristiana dei sec. VI e IX, disegnata nel 1675 per le Effemeridi di Padre Donato Calvi. Ai lati del portale maggiore, le due statue di Adamo ed Eva e nell’arcata superiore la statua di Sant’Alessandro a cavallo

Siamo nell’età dioclezianea, prossimi ormai al quarto secolo. L’editto milanese dell’anno 313 permette libertà di culto ai cristiani; nel 380 quello di Tessalonica, sotto il regno di Teodosio, proclama la nuova religione, unico culto dello stato: a duecentocinquant’anni dalla prima persecuzione neroniana in Roma, Bergamo dà il primo segno d’essere stata toccata dalla nuova parola con Alessandro, miles della Legio Tebana di stanza a Milano, martirizzato  sotto la persecuzione di Massimiano (286-305 d.C.) o di Diocleziano (303-304 d.C.).

Narra la tradizione che nei giorni seguenti il martirio di Alessandro, la nobile Grata, figlia di Lupo, trovò il suo corpo, lo raccolse e con la compagna Esteria ed i suoi servi volle dare sepoltura al martire in un suo podere posto sull’alto dei colli, fuori le mura della città. Giunti al podere disteso tra le vigne, all’inizio di Borgo Canale, Grata dette sepoltura al corpo del Santo, là dove successivamente fu eretta la basilica a lui intitolata, di cui oggi resta una colonna innalzata poco più a monte del sito effettivo in cui la basilica si trovava.

A sud della porta S. Alessandro e all’imbocco di Borgo Canale, nel 1621 il Vescovo Emo fece erigere una colonna, a ricordo della distrutta basilica alessandrina, che si trovava a ridosso di un sepolcreto di origine romana

Le figure dei primi cristiani presenti nella nostra città sono tratteggiate da leggende e tradizioni tramandate oralmente: oltre ad Alessandro, il martire legionario venuto dall’oriente, morto alla fine del III  d. C., Fermo e Rustico, i primi giovani bergamaschi capaci di offrire la vita a testimonianza della loro fede; Grata, la gentile, che tra i gigli solleva la testa mozza del martire; Narno, Viatore e Dominatore, i pastori del primo gregge cristiano; Proiettizio, Giacomo e Giovanni, ombre erranti con le torce accese nella basilica, e Esteria la velata.

Nel territorio bergamasco, dove prevale la presenza contadina e ancora permane fortemente radicata la fede pagana, sono questi personaggi i primi protagonisti di una storia in parte vera e in parte intrisa di emozionanti leggende e di figure levate a volo dall’eccitata fantasia di credenti visionari.

Sulle terre dei morti, sulle aree sepolcrali fuori delle porte cittadine, con ogni probabilità inizia soltanto allora a nascere Bergamo cristiana. Ed è appunto dalla metà del IV secolo che, così come solitamente avveniva nei municipia romani, iniziano a profilarsi a Bergamo i primi edifici della topografia cristiana: nasce IV sec. la basilica alessandrina sul sepolcreto di Borgo Canale, fuori la porta occidentale, là dove Grata aveva deposto il corpo mozzato di Alessandro.

Poco dopo, nel V secolo, in un’area centrale della città sorge la basilica di San Vincenzo, concattedrale insieme alla basilica dedicata ad Alessandro, ognuna governata da un proprio Capitolo: per secoli le due canoniche, diretta espressione dei rispettivi schieramenti cittadini, saranno protagoniste di continui contrasti (a volte anche armati), legati al governo della città, al controllo del contado e delle decime.

Documentata solo dal 774 nel testamento del gasindio regio Taido (“Basilica beatissimi Christi martyris Sancti Alexandri…ubi eius sanctum corpus requiescit”), custodisce i resti del martire Alessandro, eletto compatrono di S. Vincenzo per Bergamo e il suo territorio nel 1561, fino a divenire l’unico titolare della città il 4 novembre 1689, all’atto dell’unificazione in un unico Capitolo.

Altri edifici sacri sorgeranno nel corso dell’altomedioevo e, fra questi,  la basilica cimiteriale di Sant’Andrea (menzionata in documenti del 785), fuori la porta orientale, su un’area sepolcrale sviluppatasi a partire dal VI secolo (e sulla quale verrà costruita la nuova chiesa ottocentesca); a settentrione, la ragguardevole San Lorenzo (1), risalente all’VIII secolo, anch’essa abbattuta nel 1561 per la realizzazione della fortificazione veneziana; la chiesa di S. Salvatore, cui risale un’antichissima tradizione legata al “divo Lupo”, padre di S. Grata; la chiesa di S. Grata inter vites (documentata nel 774), sorta sui terreni di proprietà della famiglia di Grata, di cui conserverà le spoglie fino al 1027, quando verranno traslate nella chiesa di S. Maria Vecchia in via Arena, successivamente intitolata alla santa: per non creare confusione nell’identificazione dei due edifici, alla titolazione della chiesa verrà aggiunta la specifica di inter vites (tra le viti), motivata dalla sua posizione fuori le mura del borgo sul colle (2).

INTRA O EXTRA MOENIA?

Riguardo l’ubicazione della basilica alessandrina, è opinione comune che si trovasse fuori dalla cinta muraria (extra moenia), sebbene in certi documenti fosse indicata come interna e non più esterna alle mura: un’incongruenza derivante forse dal fatto che la fortificazione che proteggeva la cittadella alessandrina, sorgendo a ridosso del settore nordovest delle antiche mura (romane, poi altomedioevali e medioevali), venisse talora considerata come parte integrante delle stesse.

Particolare della lapide realizzata dall’Ing. Luigi Angelini nel 1961, apposta sul muro retrostante la colonna di Borgo Canale. La lapide reca incisa la planimetria generale della zona ricavata dalla pubblicazione (1885) di Elia Fornoni, “La Basilica Alessandrina e i suoi dintorni”

Nella veduta di Alvise Cima appare all’incrocio di quattro direttrici (borgo Canale – via Sudorno poi via S. Vigilio/via Cavagnis – Colle Aperto – via Arena), tra cui la stradina che a sud, affiancata da una siepe, superava la portatorre medioevale di S. Alessandro (GG), entrava nella Cittadella viscontea (X-viale delle Mura) e si connetteva alla via Arena fino a giungere nel cuore del nucleo storico. La sua posizione a valle, rispetto al punto in cui sono state collocate nel Seicento la colonna e le lapidi in sua memoria, indicano anche di come fosse posta proprio all’imbocco del borgo Canale, che dopo la chiesa di S. Grata inter vites (10) piegava in discesa fino all’attuale quartiere di Loreto.

Veduta di Alvise Cima, dettaglio della cittadella alessandrina, un recinto che racchiudeva un complesso sistema di edifici comprendente, oltre alla basilica, la chiesa di S. Pietro, la residenza del Vescovo, la casa del Prevosto, la canonica, lo xenodochio e una torre (non tutti visibili nella veduta)

La sua posizione a cavallo del tracciato delle mura veneziane rese inevitabile la sua demolizione, rendendo extra moenia tutto il vicino borgo, che peraltro già soffriva di una condizione marginale dovuta dai tempi della costruzione della trecentesca Cittadella viscontea (3).

Planimetria del colle di San Giovanni nel periodo alto medioevale. Disegno di A. Mazzi

E’ difficile stabilire se, deviando il bastione di Sant’Alessandro, almeno una parte avrebbe potuto salvarsi, non foss’altro perché le più aggiornate tecniche di architettura militare esigevano la presenza di una vasta area libera intorno alla fortificazione: e così nel borgo, insieme alla cittadella alessandrina  vennero distrutte anche 80 case.

LA CITTADELLA ALESSANDRINA

Particolare della lapide realizzata dall’Ing. Luigi Angelini (1961), apposta sul muro retrostante la colonna di Borgo Canale. L’asse principale della basilica risulta orientato in direzione est-ovest, con l’abside dove ora è il bastione di S. Alessandro, mentre la facciata era rivolta verso la salita di via Borgo Canale

Come attestato in antichi documenti, la basilica si trovava all’interno di un sistema di edifici racchiusi in un recinto fortificato, la “Cittadella alessandrina”, comprendente la piccola chiesa di S. Pietro, adibita al rito battesimale, ampliata verso la fine del Quattrocento e demolita nel 1529.
Vi erano poi, oltre a una grande piazza, edifici con funzione di residenza, assistenza e ospitalità: uno xenodochio (ricovero per pellegrini ed infermi), la casa del Prevosto, la residenza del Vescovo e la canonica, dove si svolgeva la vita comunitaria, nonché un’altissima torre campanaria di carattere difensivo.
I terreni circostanti, di proprietà vescovile, erano denominati “Vigna di Sant’Alessandro”.

In quanto molto antica e custode dei resti del santo, è plausibile che la basilica rivestisse, almeno inizialmente, lo status di unica cattedrale, nonostante le cattedrali paleocristiane sorgessero senza eccezioni entro le mura cittadine, seppur in rapporto con i santuari cimiteriali del suburbio.

Come riportato da Lorenzo Dentella, “Il tempio era per antichità insigne, celeberrimo per frequenza e devozione di popolo […] Distinto per la dignità prepositurale e per Capitolo di diciotto canonici”. Le fonti indicano tale numero per il 975, numero che oscillò nel tempo: essi restarono nella Cittadella alessandrina sino al momento della distruzione del complesso basilicale.

LA GRANDE TORRE

La grande torre campanaria e difensiva della Cittadella alessandrina. Fu la prima ad essere abbattuta dai veneziani

Al centro della cittadella alessandrina, “a dieci passi dalla chiesa” si elevava l’imponente torre campanaria a pianta quadrangolare, descritta come molto larga alla base e con una struttura muraria a grandi massi di pietra che la rendeva inespugnabile; essa garantiva le possibilità difensive estreme e costituiva ultimo rifugio in caso di assalto nemico e poteva agevolmente ospitare per molti giorni la corte ecclesiastica al completo con gli arredi più preziosi (4).

La torre, che raggiungeva gli oltre 35 metri in altezza, spiccava su tutta la città rivaleggiando col Campanone affinché il suono delle sue campane (in numero di sei nel XI secolo) potesse chiamare a raccolta il popolo nelle grandi cerimonie che avevano luogo nell’insigne basilica.

Anche la chiesa di San Vincenzo era dotata di un’analoga torre campanaria difensiva (attestata dal 1135 e demolita nel 1688 per far posto all’attuale abside), che fu più volte “ruinata” e riparata nel corso delle lotte intestine fra opposte fazioni.

L’ASPETTO DELLA BASILICA ALESSANDRINA

La fronte della Basilica alessandrina in un’interpretazione di fantasia, disegnata nel 1675 per le Effemeridi di Padre Donato Calvi. L’interno doveva essere splendido. Lorenzo Dentella lo descrive decorato di colonne di marmo antichissime (qualcuno scrisse “variopinte”), ornato di altari, statue e pitture, alcune delle quali rappresentavano, probabilmente in affresco, scene della vita e della Passione di S. Alessandro

L’immagine pittorica più antica della chiesa è giunta sino a noi grazie a un dipinto del 1529 di Jacopino Scipioni, che doveva trovarsi all’interno della basilica alessandrina, per poi essere esposto nella chiesa di San Pancrazio dietro l’altare maggiore.

Dietro l’altare della chiesa di S. Pancrazio, nella pala di Jacopino Scipioni (1529), Madonna col bambino, i santi Proiettizio, Giovanni Vescovo, Esteria e Giacomo con angeli musicanti, è raffigurata l’immagine pittorica più antica della basilica alessandrina (prima pala a destra)

 

La pala di Jacopino Scipioni (Madonna col bambino, i santi Proiettizio, Giovanni Vescovo, Esteria e Giacomo con angeli musicanti) ripresa dal transetto. La figura maschile a destra regge il modello della Basilica alessandrina. Vi è raffigurato un portico slanciato a tripla arcata sovrastato da un loggiato e il fastigio con una piccola apertura che illumina la parte interna e, sul lato a nord, la torre campanaria

Un’altra immagine della basilica alessandrina fu riprodotta da Fabio Ronzelli nella Traslazione del corpo di Sant’Alessandro (1623), dipinto collocato presso la sacrestia del Duomo di Bergamo.

Particolare della Traslazione del corpo di Sant’Alessandro di Fabio Ronzelli. Oltre l’arcata, al di sotto del castello spicca luminosa la Basilica alessandrina

In un altro dipinto, la Tumulazione di Sant’Alessandro (1623) di Fabio Ronzelli, è raffigurato un uomo che tiene fra le mani il modello dell’insigne Basilica: un dipinto è conservato presso la chiesa di S. Alessandro della Croce o presso le sacrestie del Duomo di Bergamo.

Sezione e pianta della basilica primitiva, risalente al IV secolo d.C. (da E. Fornoni, L’antica Basilica alessandrina, Bergamo, 1885)

L’insigne basilica, pur non presentando le vaste dimensioni delle grandi costruzioni romane da cui trae il modello, doveva essere maestosa e lo si può desumere dai disegni del rilievo eseguiti (ad perpetuam rei memoriam) su ordine del vescovo Federico Cornaro dal canonico Giovanni Antonio Guarneri, che dovette redigere una relazione sulla demolizione dell’antica chiesa (le cui dimensioni furono riportate in cubiti) e sul trasporto delle reliquie di S. Alessandro nella chiesa di S. Vincenzo.

Il sacro edificio, a pianta longitudinale diviso in tre navate, aveva una lunghezza di quaranta metri e quindici di larghezza e rispettivamente ventisette metri per sei e mezzo misura la sua navata principale. Conteneva quindi comodamente cinquecento fedeli nello spazio centrale; più di mille, sommando a quello le navi minori.
Un muro, verosimilmente somigliante all’iconostasi della cattedrale di San Vincenzo,  separava le navate laterali dalla zona presbiteriale, alla quale si accedeva dalla navata centrale tramite quattro gradini. La cattedra del vescovo era invece posta dietro l’altare maggiore, circondata dai seggi dei canonici.

Attraverso due scale di quindici gradini si accedeva ad una cripta che conteneva, come riporta la tradizione, i tre altari di Sant’Alessandro, San Narno e San Viatore (i primi due vescovi di Bergamo), presumibilmente posti sopra le rispettive arche e, sempre secondo la tradizione, i resti di alcuni altri santi bergamaschi.

Iscrizione dell’epoca paleocristiana con inciso il nome di quello che secondo la tradizione fu il primo vescovo bergamasco, San Narno (Bergamo, Museo Archeologico di Cittadella)

 

Il più antico e venerato edificio sacro di Bergamo, innalzato nel IV secolo d.C. sul luogo in cui fu sepolto Sant’Alessandro, è stato sin dalle origini oggetto di grande devozione popolare e simbolo stesso della città, tanto da venir impresso su una faccia del “pergaminus”, la moneta coniata dalla zecca di Bergamo nel XIII secolo

L’ASSEDIO DEL 894 E LE MODIFICHE DI ADALBERTO

Nell’anno 894 le truppe tedesche per mano di Arnolfo di Carinzia (figlio di Carlo Magno e futuro re d’Italia), assalirono la città, saldamente fortificata, distruggendone una parte: penetrate dal colle di San Vigilio, distrussero il Castellum e la Cittadella Alessandrina con la sua basilica, “diruta et combusta remansit”, scrive Mario Lupo nel suo Codex diplomaticus.

Solo dopo molti anni, quando il borgo e la vita tornarono a rifiorire, il vescovo Adalberto provvide alla sua ricostruzione.

Sezione e pianta della basilica, con l’addizione del presbiterio sotto il vescovato di Adalberto (894-929). Da E. Fornoni, L’antica Basilica alessandrina, Bergamo, 1885

LA FINE DELL’AUGUSTO TEMPIO

L’abbattimento della basilica alessandrina fu un episodio molto doloroso per la città, raccontato da numerose cronache, “..tristissimo avvenimento da addossarsi a totale carico di chi nel 1561 guiderà la costruzione delle nuove mura: atto di inciviltà e di soldatesca prepotenza favorito dalla disanimata e mercantile piaggeria dei reggitori veneti di quel tempo, posti di fronte ai vocianti e sgangherati aut aut di personaggi dal mercenario mestiere; impietosi e quindi sordi ad ogni voce dei sentimenti di una gente pacifica e proprio per questa ragione spregiata e tenuta in nessuna considerazione” (5)

Nonostante il 7 luglio del 1560 il capitano Pietro Pizzamano avesse fatto presente che l’erezione delle mura avrebbe arrecato gravi danni al patrimonio di Bergamo, l’anno successivo, il Governatore Generale al servizio di Venezia Sforza Pallavicino, giunto a Bergamo con il compito di dirigere i lavori di fortificazione della città, non mise neppure in conto di modificare il tracciato della fortificazione e si limitò a comunicare la sua decisione al vescovo, il veneziano Federico Cornaro, dando disposizioni perché fosse minata la grande torre che fungeva da campanile.

Il vescovo,  entrato nella sua diocesi solo l’11 luglio, fu impotente di fronte all’imminente distruzione di case, chiese e conventi, muri, orti e vigne, e di quella basilica che per più di mille e duecento anni era stata il decoro e la gloria della città. Neppure i cittadini ebbero il tempo di opporsi, né di tentare accordi di modifica alle opere proposte: a nulla valsero le tre precessioni cittadine (30/ 31 luglio e 1 agosto 1561), programmate per chiedere a Dio che illuminasse le autorità venete: la prima annoverava una folla straripante, che convinse i Rettori a vietarne altre di simili per motivi di ordine pubblico.

Il vescovo fece appena in tempo a far  redigere l’inventario di tutti i beni (paramenti sacri, arredi,  suppellettili), tra il 4 e il 7 agosto, giorno in cui all’insaputa anche del Senato, si sarebbero avviate le demolizioni.

Commovente la scena dell’ultima messa solenne nell’agonizzante basilica, gremita di una folla lacrimevole composta da tutto il popolo bergamasco, mischiato ai soldati in armi. Era la domenica nona dopo la Pentecoste, il Pallavicino aveva provveduto 1800 fanti e cinquanta soldati a cavallo per mantenere l’ordine. Quando il diacono al Vangelo cantò et ut appropinquavit Iesus videns civitatem flevit super illiam, quasi fossero parole espressamente ispirate per la indeprecabile fatalità dell’ora, la folla compresa da terrore si abbandonò al pianto.

Il Cornaro, mentre i soldati si erano accampati nella chiesa, fece aprire l’arca che conteneva i resti del Santo, alla presenza di sacerdoti e canonici, mentre i guastatori, eseguendo gli ordini dello Sforza, abbattevano la casa del Prevosto.

Nel corso della funzione sorsero problemi tra i canonici del Capitolo di S. Alessandro e quelli di S. Vincenzo, riguardo la destinazione finale delle reliquie del santo martire; il Vescovo intervenne con decisione e dopo aver esposto alla devozione dei fedeli i resti santi (secondo la tradizione dall’alba alle quindici per gli uomini, dalle quindici fino al tramonto per le donne), dopo aver constatato che le reliquie non erano mai state profanate, un corteo di religiosi, sacerdoti, nobili cavalieri, confusi tra una folla piangente e devota, si avviò in processione notturna nel Duomo cittadino, dove furono portate anche le reliquie dei Santi Narno e Viatore: la tradizione riporta che si fece ricorso a due casse, divise con tanti tramezzi in ciascuno dei quali furono deposte anche le reliquie dei Santi Giacomo, Proiettizio, Giovanni ed Esteria.

S. Alessandro a cavallo e i santi Narno e Viatore, in un affresco dipinto nella Curia vescovile di Bergamo

Dopo la traslazione, il 14 agosto fu distrutta la torre campanaria, imbragata di assi in legno impregnate di pece alla base e private delle pietre portanti, per favorirne la caduta. L’alto Campanile rovinò sulla basilica trascinando con sé tutto quello che ancora restava dell’antica costruzione e distruggendo la canonica e gli edifici adiacenti.

“In questo giorno scoppiò la mina, precipitò la torre, e cadendo al basso sopra la cattedrale… ogni cosa distrusse.. L’insigne Canonica, Santa Basilica e antica Cattedrale di sant’Alessandro, che per 1200 e più anni era stata il decoro e la gloria della nostra patria, in quel funesto giorno cominciò, fra le rovine a deplorare la caduta dei propri privilegi, datosi principio a mandarla per terra con doglie e pianto per tutta la città” (6).

In quei giorni infausti, mentre la diplomazia veneziana fingeva di trattare e nonostante la premessa di poterli risparmiare, venivano distrutti altri edifici sacri: la chiesa di San Lorenzo nell’omonimo borgo, assieme alla chiesa parrocchiale di S. Giacomo, che sorgeva in prossimità della porta nella cerchia delle mura medievali. Vennero poi demoliti la chiesa e il convento domenicano dei Santi Stefano e Domenico  sul colle di Santo Stefano, che sorgeva isolato dalla città: ed anche in questo caso lo Sforza fece ricorso alle mine, scavando delle gallerie sotto il monastero, dove vennero collocati barili pieni di polvere, che esplosero nella notte dell’11 novembre di quello stesso terribile anno.

COSA RIMANE DELLA BASILICA ALESSANDRINA

Con il crollo della torre, poco si salvò della basilica, anche se si dice che alcuni dei suoi altari furono reimpiegati; per lo più i materiali vennero abbandonati o riutilizzati per costruzione di fabbricati; sicuramente molti di essi furono reimpiegati per la costruzione delle mura ed è singolare la vicenda che riguarda le due grandi statue raffiguranti Adamo ed Eva, situate ai lati dell’ingresso della basilica Alessandrina.
Secondo l’abate Calvi, nel crollo dell’edificio andarono a pezzi ma ne vennero recuperate le teste e parte del busto per essere poi utilizzate nella costruzione delle mura e collocate di fronte al luogo dove si trovava la basilica e “ove pur sono di presente”, aggiunge sotto la data del 16 agosto.

Una fonte indica che i pulpiti attuali del Duomo furono ricavati dai marmi giacenti presso i depositi della M.I.A. – Pia Opera di Misericordia – e aggiunge che forse siano quasi tutti derivati dalla demolizione della Basilica.

E’ accertato invece che uno dei due pulpiti del Duomo di Bergamo (il cui rivestimento fu disegnato da Filippo Alessandri), sia completato da una colonna di marmo verde antico, dono della Misericordia Maggiore nel 1746

Le dodici colonne che ornavano la basilica alessandrina presero diverse direzioni: due vennero donate al Santuario di Caravaggio nel 1584, quattro furono adoperate per il portale del Duomo e da qui levate quando l’architetto Bonicello realizzò l’attuale facciata; altre vennero utilizzate per l’altare della basilica di Santa Maria Maggiore.

Una di queste, si dice sia quella fatta innalzare nel 1621 dal Capitolo della Cattedrale sul luogo dove sorgeva l’antica basilica: la colonna cui accennato in precedenza, che ancora si vede in prossimità delI’imbocco di Borgo Canale, alla quale fu data “più degna sistemazione” nel 1961, in occasione del quarto centenario della demolizione della basilica.

La colonna risulta essere di granito di Numidia, lo stesso granito usato nella costruzione delle basiliche costantiniane di Roma. Una coincidenza che fa pensare ad un contributo imperiale per l’antico tempio paleocristiano.

La colonna ubicata all’imbocco di via Borgo Canale, eretta nel 1621 dal Vescovo Emo a ricordo della distrutta chiesa primitiva cittadina demolita nel 1561

Nel presbiterio della chiesa di Sant’Alessandro della Croce in Borgo Pignolo, a sostegno della mensa liturgica trova collocazione un’antichissima arca di pietra utilizzata, secondo l’iscrizione secentesca leggibile sulla parete esterna, come sepolcro per il corpo di Sant’Alessandro (e successivamente per quello di Santa Grata).

L’arca, monolitica e sobriamente decorata di semplicissime figure di pilastri, archi e colonne, collocata in origine nella basilica alessandrina, trovò dapprima una sistemazione nel monastero di Santa Grata, per pervenire alla Parrocchia nei primi anni dell’Ottocento, in seguito agli spostamenti causati dalle soppressioni napoleoniche. La sua attuale funzione rievoca in modo suggestivo consuetudini della Chiesa delle origini, che usava celebrare i riti liturgici sulle tombe dei martiri.

Marina Vavassori, archeologa epigrafista, afferma che il sarcofago di Sant’Alessandro fu in origine destinato a un bergamasco ignoto, abbastanza in vista, nella seconda metà del terzo secolo (250-300): il riutilizzo di antichi sarcofagi era una pratica diffusa ovunque, spesso utilizzata per accogliere i corpi dei martiri; e dal momento che la basilica di Sant’Alessandro sorgeva nell’area dell’antica necropoli romana, non fu difficile trovare un sarcofago da reimpiegare. Erasa l’iscrizione antica, perché sparisse ogni traccia di paganità, l’arca era pronta per accogliere l’eroe della cristianità.

L’altare liturgico nel presbiterio della chiesa di S. Alessandro della Croce sarebbe, secondo la tradizione, l’arca di pietra proveniente dalla distrutta basilica di S. Alessandro, utilizzata come SEPOLCRO per il corpo di S. Alessandro e, successivamente, di Santa Grata. Molto sorprendente il confronto con l’arca sepolcrale raffigurata da Fabio Ronzelli (Bergamo, documentato dal 1621 al 1630) nella già citata Traslazione del corpo di Sant’Alessandro

L’arca sepolcrale dipinta da Fabio Ronzelli nella Traslazione del corpo di Sant’Alessandro (dipinto custodito presso la cattedrale di Bergamo), presenta una somiglianza impressionante con quella posta a sostegno della mensa liturgica nella chiesa di S. Alessandro della Croce.

Si noti la somiglianza tra l’arca sepolcrale raffigurata nel dipinto di Fabio Ronzelli – Traslazione del corpo di Sant’Alessandro – e l’arca sepolcrale posta a sostegno della mensa liturgica nella chiesa di S. Alessandro della Croce (il dipinto è parte integrante del ciclo delle Storie di Sant’Alessandro dipinte da Enea Salmeggia)

E’ nuovamente Marina Vavassori ad informarci che in una Memoria conservata all’Archivio Diocesano di Bergamo, relativa alle spese fatte fra il 1688 e il 1714, si legge che nello scurolo del Duomo (chiesa ipogea) si trovavano “li marmi” dell’antica Cattedrale di Sant’Alessandro distrutta nel 1561, probabilmente lì trasferiti quando lo scurolo non era più attivo.
Ma già prima della demolizione della basilica alessandrina, “molte lapidi si erano disperse e spesso venivano riutilizzate” e se alcuni marmi erano epigrafati, spesso venivano utilizzati dall’altra parte.

Ricordiamo infine che alla basilica alessandrina fu dedicato il nome della porta medioevale che dal versante occidentale dei colli dà accesso al centro storico: denominazione riconfermata con la nuova porta cinquecentesca edificata dai Veneziani.

Nel medioevo, tutte le quattro porte portavano il nome dei santi patroni delle chiese che sorgevano nelle vicinanze: S. Stefano, S. Andrea, S. Lorenzo, e S. Alessandro (nell’immagine). Di queste chiese, tre furono demolite insieme a centinaia di case, per l’ampliamento della cerchia, mentre la quarta, la chiesa di S. Agostino, fu risparmiata dalla demolizione ed è ancora, come sappiamo, esistente (Porta S. Alessandro poco prima del 1912, anno di costruzione della funicolare di S. Vigilio: da D. Lucchetti, “Bergamo nelle vecchie fotografie)

LA CROCE DI UGHETTO: IL SIMBOLO DELL’UNIFICAZIONE DEI DUE CAPITOLI

La croce di Ughetto, la grande croce processionale proveniente dalla distrutta basilica alessandrina, si cela nei sotterranei del Duomo di Bergamo, dove una lunga e importante campagna di scavi ha recentemente portato alla luce la basilica paleocristiana di S. Vincenzo.

Si tratta dell’opera forse più rappresentativa del Tesoro della cattedrale, in origine arricchita da 34 reliquie miracolose, sigillate sotto la sua preziosa oreficeria.

La croce prende il nome dal suo principale esecutore, Ughetto Lorenzoni da Vertova, il quale l’ha realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro.

E’ questo il motivo per cui il Santo appare vistosamente abbigliato come un cavaliere medievale in sella al suo destriero, mentre sullo sfondo si staglia il profilo ideale della città di Bergamo, conquistata alla fede cristiana.

Particolare di S. Alessandro nella croce di Ughetto, realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro, motivo che giustifica la presenza molto evidenziata della figura del Santo

Nell’imminenza dell’abbattimento della basilica, oltre ai paramenti sacri, organi, campane e corredo liturgico, la croce di Ughetto venne portata in solenne processione nella chiesa di S. Vincenzo, insieme alle sacre reliquie: il Capitolo di S. Alessandro perdeva definitivamente la propria sede e da quel momento i due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro si trovarono a convivere fino alla definitiva fusione sotto le insegne di S. Alessandro, avvenuta nel 1689, anno della posa della prima pietra della nuova cattedrale.

La croce fu rinnovata nel 1614, anno in cui fu sancita la provvisoria riunificazione dei due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro: il restauro della croce è quindi la concreta manifestazione di questo tentativo di unità, tanto che la fisionomia originale della croce è stata stravolta e piegata a questo scopo.

In origine il recto esibiva il Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni, in alto un Angelo e ai piedi S. Alessandro a cavallo. Il verso esibiva il Cristo glorioso tra i quattro evangelisti e ai piedi Santa Grata.

Nell’operazione di restauro (oltre alle vere e proprie aggiunte seicentesche) il Cristo crocifisso medievale è stato sostituito con un altro più recente, recuperato da una croce del Capitolo di San Vincenzo.

Croce di Ughetto (1386). Sul recto, domina al centro Cristo Crocifisso con aureola e corona di spine, titulus e angeli tra nubi alle estremità. Nel braccio sinistro un angelo; in quello di destra la Vergine Addolorata; in alto Santa Grata; San Giovanni Evangelista in basso. Nel verso: al centro Sant’Alessandro a cavallo con la città di Bergamo sullo sfondo; alle estremità 4 teste di angeli. Sui bracci Santi Rustico, Procolo e Carlo. Sulla canna in prossimità del nodo è incisa la data 1616, riferita molto probabilmente al rinnovo per mano di Carlo de Giuli di Milano. Egli nel variare la sistemazione delle medaglie e la loro connotazione, inserisce sulla lamina i Santi Rustico, Procolo e Carlo. Il Cristo medievale viene sostituito da una croce appartenente al capitolo di San Vincenzo

Inoltre, i materiali del paliotto d’altare fisso (la cui realizzazione risale al 1908) conservato presso il Duomo di Bergamo, provengono con tutta probabilità dall’antica basilica alessandrina. Si tratta di una ferriatina e di piccole sculture ornamentali, a lungo utilizzati per decorare l’altare di sinistra della Cattedrale di San Vincenzo. Così come oggi si presenta la composizione prevede: nella parte centrale in basso Sant’Alessandro vessillifero; ai lati della ferriatina San Narno e San Viatore; alle estremità del lato a sinistra San Propettizio e San Giovanni Vescovo; a destra San Giacomo e S. Esteria. Tra i racemi emergono gli stemmi di San Pio X e del Vescovo Tedeschi.

Note

(1) Alberto Fumagalli, Le dieci Bergamo. Ed. Lorenzelli.

(2) Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012, cm 21×28, pp. 244.

(3) Tosca Rossi, Op. Cit.

(4) Bruno Cassinelli, Il contesto urbano della corte ecclesiastica alessandrina, in “Bergamo e S. Alessandro”, p. 131-138. Anno 1997.

(5) A. Fumagalli, Op. cit.

(6) Padre Donato Calvi, Effemeridi, 14 agosto 1561.

Riferimenti principali
– Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012, cm 21×28, pp. 244.
– Academia.edu – Fabio Scirea Il complesso cattedrale di Bergamo.
– Bergamosera – La Basilica alessandrina – Andreina Franco Loiri Locatelli.
– Alberto Fumagalli, Le dieci Bergamo. Ed. Lorenzelli.
– Bruno Cassinelli, “Il contesto urbano della corte ecclesiastica alessandrina”, in Bergamo e S. Alessandro, p. 131-138. Anno 1997.

La colonna di Borgo Canale

La colonna di Borgo Canale alla fine dell’Ottocento-inizi Novecento. Dalla “Storia di Bergamo”, vol. 14, pag. 145 . manoscritti di Elia Fornoni (Archivio Ufficio di Arte Sacra Curia Vescovile, Bergamo). La colonna fu innalzata dal vescovo G. Emo il 28 settembre 1621, sessant’anni dopo la fatidica data del 1561, anno in cui venne distrutta la basilica alessandrina per l’erezione delle nuove fortificazioni ad opera della Serenissima

Fuori porta S. Alessandro, nello slargo posto al bivio tra via Tre Armi e via Borgo Canale, s’innalza una colonna (“con un pinnacolo e croce e una inferriata di contorno”) , fatta erigere il 28 Settembre 1621, in memoria dell’avvenuta distruzione della Basilica alessandrina, dal vescovo Giovanni Emo. La colonna si trova poco più a monte del sito effettivo in cui si trovava la basilica, definita dai documenti “antiquam et excelsam eiusdem basilicae columnam”.

In quella circostanza si murava, su una parete retrostante la colonna, una piccola lapide in cui si ricordava in parole latine la benedizione data alla stessa dal vescovo Emo. La parete recingeva l’area già di proprietà Gallina, poi sede del Collegio Orfane di Guerra (1).

La piccola lapide affissa sul muro retrostante la colonna innalzata il 28 Settembre 1621 dal vescovo Emo

Nell”intento di ricordare il triste evento cittadino dell’abbattimento dell’antica basilica, avvenuto esattamente quattrocento anni prima, il parroco di S. Grata in Borgo Canale, don Giacomo Carrara aveva pubblicato su L’Eco di Bergamo dell’11 marzo 1961 un pregevole articolo di carattere storico illustrante le notizie di quel sacro edificio, avanzando la proposta di perpetuare il ricordo dell’insigne sacro edificio dedicato al Santo Protettore di Bergamo, con l’esecuzione di lapidi rievocanti – con dati e rilievi topografici – sul muro retrostante alla colonna eretta dal vescovo Emo in Borgo Canale nel 1621.

La colonna prima dell’ultimo restauro. L’iniziativa di dare alla colonna un’adeguata sistemazione, era partita dal parroco di borgo Canale che all’inizio del 1961 aveva lanciato la proposta, tramite L’Eco di Bergamo, al fine di ricordare degnamente un così triste avvenimento per la chiesa e per l’arte (“..l’assurda demolizione di quel pregevole tempio”)

Il compito del progetto di sistemazione della colonna e dello spazio antistante venne affidato all’ing. Luigi Angelini, che il 14 aprile del 1961 presentò al Vescovo Piazzi una proposta, subito inviata a Roma e favorevolmente accolta da Papa Giovanni XXIII (illuminato cultore di ricerche storiche, che “per decenni aveva dato tanto attivo lavoro di studi agli argomenti della storia cittadina”), il quale aderì con entusiasmo, assumendo a proprio carico l’onere finanziario per la sua realizzazione (2).
Alla risposta giunta dal Vaticano in merito al progetto proposto dall’Ing. L. Angelini, il Cardinal Testa, amico personale del Papa e studioso di storia locale, allegò una serie di indicazioni attraverso elementi aggiuntivi alla lapide secentesca posata dal Vescovo Emo, volte a concretizzare “un più visibile ricordo dello storico evento” (3).

“Zona della colonna eretta nel 1621 a ricordo della demolizione della Basilica Alessandrina in Borgo Canale (agosto 1561)”. Disegno a firma dell’Ing. Luigi Angelini, con data aprile 1961

Il fatto che più importava alla Curia romana era che tutto fosse pronto per quando l’urna di Sant’Alessandro sarebbe stata trasportata in processione solenne dalla Chiesa di Santa Grata alla Cattedrale, in occasione delle feste del quarto centenario della sua traslazione che si era resa necessaria a causa dell’imminente demolizione della basilica, voluta dai provveditori militari, per far spazio al cantiere delle nuove mura e fortificazioni della città.
ll 13 agosto 1961, durante le feste del santo patrono, tenutesi nel quarto centenario della traslazione delle reliquie dei Corpi Santi dalla basilica alessandrina alla cattedrale, mons. Loris Capovilla, segretario particolare di papa Giovanni XXIII°, presentava in Duomo la nuova veste della colonna di borgo Canale eretta a ricordo dell’antica cattedrale di Bergamo poco lontana dal luogo sul quale essa sorgeva.“Ma i secoli invecchiano anche i marmi e le intemperie li corrodono. Ora per la munificenza di Giovanni XXIII°, la colonna e i rilievi statistici e topografici tornano a risplendere. Il gesto del papa ha una significazione che i bergamaschi sanno cogliere”, concludeva mons. Capovilla.

 

LA NUOVA VESTE DELLA COLONNA NEL PROGETTO DELL’ING. ANGELINI

La nuova sistemazione della colonna e dell’area che la contiene, eseguita su progetto dell’Ing. Luigi Angelini. Su consiglio del Cardínal Testa, nella planimetria della zona fatta dall’ing. Elia Fornoni, fu omesso il nome “Colombina” in quanto facilmente si sarebbe scambiata questa localita con l’attuale trattoria e fu messo in rilievo il luogo in cui sorgeva la basilica e quello ove si trova la colonna. Il muro che fa da sfondo fu rivestito in ceppo di Poltragno e in arenaria per le membrature architettoniche, e in marmo botticino per le specchiature

Ai grafici del progetto inviato a Roma l’ing. Angelini aveva accluso una relazione esplicativa che vale la pena riportare: “Gli studi e gli scritti che trattarono l’argomento con valutazioni e affermazioni di carattere generico, salvi i dati lasciati dal Can. Guarneri sulle misure in cubiti delle dimensioni della Basilica, non portarono a concreti elementi per comporre in modo sicuro le incerte valutazioni in descrizioni e grafici. Esiste però un lavoro composto dallo studioso concittadino Ing. Elia Fornoni pubblicato nell’anno 1885 su “La Basilica Alessandrina e i suoi dintorni” che dimostra, con copia di notizie, di ricerche fatte in posto e serietà di metodo, l’attenta cura da lui messa per formare un quadro attendibile della planimetria della zona ove oggi non si eleva nessun elemento antico.
È appunto questo studio, in cui la Basilica è stata graficamente definita sul carattere delle basiliche paleocristiane tuttora esistenti in Italia e particolarmente in Roma, che il Fornoni ha potuto tracciare l’orientamento, le piante e le sezioni della basilica primitiva (del IV° o V° secolo) e dell’ampliamento e restauro al tempo del Vescovo Adalberto che resse la diocesi dall’anno 894 (funesto per distruzioni cittadine da parte delle truppe di Re Arnolfo di Germania) fino al 929”.

Su dati di scrittori vari, il Fornoni ricompose in più, in questo punto della città ove si imbocca Borgo Canale, le determinazioni in posto della chiesetta di S. Pietro, dello xenodochio, della zona cimiteriale, dell’ospedale di Filiberto, così da comporre una planimetria generale che rappresenta in modo pressoché convincente lo stato reale in cui trovavasi questo tratto cittadino in quell’anno 1561 in cui furono abbattute “circa settecento case” – forse il dato è un po’ sovrastimato – per tracciare il perimetro di oltre cinque chilometri della grande opera difensiva.

Disegni eseguiti dall’Ing. Luigi Angelini per la sistemazione dell’area su cui sorge la colonna

Sulla lapide centrale, costituita da una grande lastra di marmo di cm.117 per 150 sono incise due epigrafi:
la prima in alto è la traduzione italiana della lapide fatta murare dal vescovo Emo nel 1621;

la seconda, pure scritta in italiano, ricorda l’attuale sistemazione.

Disegno eseguito dall’Ing. Luigi Angelini della lapide centrale con incisa, superiormente, la traduzione italiana dell’antica lapide fatta murare dal vescovo Emo nel 1621 e, inferiormente, l’attuale sistemazione. Quella posta in basso è invece la lapide antica, recuperata dalla collocazione originaria (1621)

I testi delle epigrafi sono i seguenti:
L’anno del Signore MDCXXI essendo vescovo Giovanni Emo
II Capitolo di S. Alessandro questa colonna fece erigere
Presso la Basilica Alessandrina
Antichissima e insigne prima cattedrale di Bergamo
Demolita nel MDLXI
Allorquando la Repubblica veneta costruì
L’attuale cinta delle mura

L’anno del Signore MCMLXI essendo vescovo Giuseppe Piazzi
Questo luogo dove nel secolo IV
Sorse la primitiva cattedrale
Dal vescovo Adalberto nel secolo X ampliata
Nella ricorrenza del IV Centenario della demolizione
Giovanni XXIII P.M.
Dei fasti antichi della sua diletta patria fervido Cultore
Fece adornare di marmi e munire di storici richiami
a sacra perenne memoria.

Una delle due lapidi centrali realizzata dall’Ing. Luigi Angelini, con incisa, superiormente, la traduzione italiana della lapide fatta murare dal vescovo Emo nel 1621 e, inferiormente, l’attuale sistemazione

Subito sotto questa lapide è collocata l’antica(cm. 33 x 118) che dice:

Anno CI) I) CXXIII Kal OCTOBRIS
IO EMVS EPYS RITV SOLEMNI MONVMENTV HOC BENEDIXIT
IAC°. SVR°. PRAEF. OPT. FAVENTE, ERECTV. A.R.moCAPLO.
S. ALEXANDRI
AD MEMORIAM SEMPITERNA. ILLIVS AECCLAE CATIS
ANTIQUISSIME, IN QVA
EIVSDEM SS.maMARTYRIS CORPUS A B. GRATA TVMVLATVM,
ET ALIORVM SANCTORVM RELIQVIAS CIVITAS VENERABATVR

La lapide antica murata dal vescovo Emo nel 1621, inserita nella parte inferiore del corpo centrale realizzato dall’Ing. Luigi Angelini

Nel corpo laterale di sinistra, su lastra marmorea, è incisa la pianta grafica della zona, ricavata dalle planimetrie dell’ing. Elia Fornoni, con l’ubicazione dell’antica basilica (sorgeva a circa 30 metri dalla colonna).

Disegno eseguito dall’Ing. Luigi Angelini della lapide di sinistra, con incisa la planimetria della zona ricavata dalla pubblicazione Fornoni

 

La lapide affissa nel corpo laterale di sinistra, realizzata dall’Ing. Luigi Angelini, con incisa la planimetria della zona ricavata dalla pubblicazione Fornoni

Nel corpo laterale di destra, sempre su lastra marmorea, è incisa la pianta e la sezione longitudinale della basilica.

Disegno eseguito dall’Ing. Luigi Angelini della lapide di destra,con incise in alto la sezione longitudinale della Chiesa e in basso la pianta della Basilica (entrambi ricavata dai disegni di Elia Fornoni), analoga alle basiliche cristiane romane del secolo IV al sec. VI, come poteva essere dopo l’ampliamento del vescovo Adalberto

 

La lapide affissa nel corpo laterale di destra, realizzata dall’Ing. Luigi Angelini, con incise in alto la sezione longitudinale della Chiesa e in basso la pianta della Basilica (entrambi ricavata dai disegni di Elia Fornoni), analoga alle basiliche cristiane romane del secolo IV al sec. VI, come poteva essere dopo l’ampliamento del vescovo Adalberto

 

Visione complessiva del muro di fondo dopo la sistemazione avvenuta su disegni di Luigi Angelini (foto Lucchetti)

La colonna, la cui sistemazione è stata curata dalla ditta Camillo Remuzzi, dalle imprese Oberti e Gritti e dal fabbro Scuri, poggia su un basamento a forma di dado allungato, alto circa 50 cm., con inciso sui lati, il giglio di Sant’Alessandro.
A sua volta il basamento è posto su un gradino, al quale è stata rifatta la zoccolatura e sul quale si trova la cancellata di protezione.
Alla sommità della colonna si innalzano un pinnacolo e una croce.

Il giglio, simbolo di S. Alessandro, inciso sul basamento della colonna di Borgo Canale

 

Il giglio, simbolo di S. Alessandro, forgiato nella cancellata di protezione della colonna di Borgo Canale

Sino al 1961 si era ritenuto che tale colonna fosse in pietra di Sarnico, ma a seguito di un attento esame fatto dal cardinale Testa, risultò essere di granito di Numidia, lo stesso granito usato nella costruzione delle basiliche costantiniane di Roma. Questa coincidenza fa pensare ad un contributo imperiale per l’antico tempio paleocristiano.

NOTE
(1) Qualche decennio prima della sistemazione dell’Angelini, “il muro era stato sistemato formando una parete di metri 6.98 di lunghezza e m. 3.40 di altezza e lateralmente, in modo simmetrico rispetto alla colonna, fiancheggiata da due spazi di luce di m. 2.35 entro pilastrini in ceppo rustico e chiusi un tempo da cancellata ora mancante” (Luigi Angelini).

(2) Nella sua opera monumentale “Gli atti della visita apostolica di San Carlo Borromeo alla diocesi di Bergamo “, Papa Giovanni XXIII aveva riportato un documento in lingua latina relativo alla Cattedrale in cui il tempio veniva descritto minutamente nelle sue strutture e nei suoi particolari. I preventivi alla fine risultarono inferiori a quanto pattuito, malgrado fossero state apportate modifiche e migliorie nel corso dei lavori.
Mentre il 7 luglio 1961 perveniva il richiesto nulla osta dalla Soprintendenza ai Monumenti, la lettera di autorizzazione del Comune giunse il 28 settembre di quello stesso anno. La sistemazione della colonna, comunque, anche se a grandi linee, era pronta per la data desiderata.
Inoltre, Papa Giovanni XXIII, illuminato cultore di ricerche storiche, nella sua opera monumentale “Gli atti della visita apostolica di San Carlo Borromeo alla diocesi di Bergamo “, aveva riportato un documento in lingua latina relativo alla Cattedrale, in cui il tempio veniva descritto minutamente nelle sue strutture e nei suoi particolari.

(3) Su indicazione del Cardínal Testa, lo spazio antistante al muro e racchiudente la base della colonna secentesca fu sistemato con lastricato di pietra. Gli spazi vuoti laterali (di m. 2,35 di vano) fra i pilastrini esistenti in ceppo furono chiusi da inferriate semplici di ferro piatto.

Riferimento
Arnaldo Gualandris, “Monumenti e colonne di Bergamo”, a cura del Circolo Culturale G. Greppi. Bergamo, 1976 (con introduzione di Alberto Fumagalli).