Per capire le origini dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, sono determinanti gli anni dal 1873, anno in cui sorge la società tipografica e casa editrice “Gaffuri e Gatti”, al 1893, anno della fondazione dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, sorto in via S. Lazzaro – in luogo dell’odierno “Triangolo” – e trasferito dal 1965 nel nuovo impianto di via Zanica: un’azienda che negli anni ha saputo contraddistinguersi per una produzione di altissima qualità e di rilievo internazionale: un’avventura editoriale senza pari, costellata dalle brillanti scelte imprenditoriali di Paolo Gaffuri (1849 – 1931), figura lungimirante intorno alla quale si articola il prestigio dell’azienda.
Prima di fondare l’omonima società, Gaffuri e Gatti avevano lavorato insieme nella tipografia Pagnoncelli, un’officina situata in via S. Alessandro, dove poi si stabilì la Libreria Greppi e dove “bazzicavano il Fachinetti, il can. Finazzi, i bibliotecari Dossi e Tiraboschi e Pasino Locatelli, Gabriele Rosa, il conte Lochis ed altri egregi studiosi del tempo. Colà stamparono i loro primi lavori Angelo Mazzi, Elia Fornoni, l’ing. Ponzetti, Elia Zerbini ed altri” (1).
Era una tipografia ottocentesca che portava avanti anche una propria attività editoriale e che per tenersi in vita sviluppava anche quella del commercio librario. In questa azienda Gaffuri era impiegato come commesso, mentre Gatti, come contabile.
Gaffuri aveva lavorato da Pagnoncelli a partire dal 15 settembre 1861, da quando cioè, dodicenne, era entrato come apprendista: nel 1864 era stato promosso a commesso della libreria con l’incarico di redigerne il catalogo.
Egli aveva iniziato una vera e propria formazione da autodidatta studiando sui testi a sua disposizione, in particolare il Manuel du libraire et de l’amateur de livres di Jacques Charles Brunet e l’Enciclopedia Pomba, oltre che leggendo i testi della libreria Pagnoncelli. E proprio il periodo formativo di Paolo Gaffuri rivestità un’importanza fondamentale nella fondazione e poi nella direzione dell’“Istituto Italiano d’Arti Grafiche”.
LA FONDAZIONE DELLA “GAFFURI E GATTI”
Ma un contenzioso tra Pagnoncelli e Bolis (2), che finì per indebolire entrambi gli editori, indusse Gaffuri a guardare altrove per individuare prospettive più sicure per il proprio futuro. La concomitante crisi finanziaria della tipografia Sonzogni di Bergamo alta, divenne per il ventiquattrenne Gaffuri e il suo collega Gatti, un’occasione per mettersi in proprio, e ai primi di agosto del 1873, entrambi lasciavano la tipografia Pagnoncelli per acquistare la tipografia Sonzogni, intraprendendo un nuovo cammino, quasi avventuroso, in un momento critico per la storia italiana.
Neanche un mese dopo venivano definite le trattative per la modifica della ragione sociale della “Gaffuri e Gatti”, nata come società in nome collettivo e trasformata in accomandita semplice per l’ingresso di due soci accomandanti: i Fratelli Cattaneo, stampatori, e Federico Alborghetti (1825-1887), comproprietario-direttore del giornale “La Provincia Gazzetta di Bergamo” (nel 1877 trasformata definitivamente in “Gazzetta provinciale di Bergamo”, organo quotidiano del liberalismo moderato bergamasco).
Con l’ingresso dei nuovi soci, il capitale sociale della “Gaffuri e Gatti” veniva subito raddoppiato, passando dalle 16.000 lire iniziali a 32.000 lire. Dal 1° gennaio 1874 il giornale riportava il nome della nuova stamperia (3).
La nuova azienda definì subito la propria strategia editoriale e commerciale. Dal punto di vista delle scelte editoriali, le opere stampate nei primi anni erano prevalentemente costituite da studi di impostazione erudita e di argomento letterario, archeologico e artistico, e riflettevano chiaramente la fisionomia culturale degli autori, per lo più insegnanti e giornalisti. Si trattava di intellettuali attivi nelle istituzioni culturali cittadine, legati all’esperienza risorgimentale e caratterizzati da un orientamento politico liberale moderato, quasi sempre cattolici, attenti studiosi delle specifiche tradizioni culturali locali, delle quali si facevano nel contempo custodi e interpreti nel contesto postrisorgimentale (4).
NON SOLO TIPOGRAFIA: INIZIA LA STAMPA DEI CALENDARI (E SARA’ UN SUCCESSO)
Grazie all’esperienza maturata da Pagnoncelli, Gaffuri sapeva bene che per garantire sicurezza economica del neonato stabilimento tipografico, avrebbe dovuto da subito affiancare all’attività editoriale altre attività produttive e commerciali, fra le quali egli individuò la stampa dei calendari: un settore da cui era possibile ottenere commesse sicure e nel quale c’era carenza di offerta da parte dei concorrenti. Questo aspetto si rivelò fondamentale per il futuro professionale dello stesso Gaffuri (5).
Le ragioni principali di questa scelta dipendevano da una concomitanza di fattori. La crisi (6) della tipografia Sonzogni, rilevata da Gaffuri e Gatti, era stata innescata dalla perdita. all’inizio degli anni ’70, di una delle poche commesse sicure: la stampa della modulistica per le amministrazioni locali, fatto che costituì una ghiotta occasione per la tipografia dei F.lli Cattaneo (presente a Bergamo dagli anni ’50 ed ora consociata di “Gaffuri e Gatti”), che portò avanti tale attività diventando uno dei principali fornitori per le amministrazioni locali, dalle quali avevano ottenuto, quasi a condizioni di monopolio, anche la concessione della vendita dei calendari, che acquistavano sul mercato milanese per poi rivenderli nel territorio bergamasco,
Con la nascita della sua tipografia, Gaffuri aveva ottenuto dai consociati la stampa in proprio dei calendari, avvalendosi della litografia (di cui a quei tempi, a Bergamo, era attrezzata solo la tipografia Manighetti-Mariani).
La pubblicazione dei calendari si inseriva nel più ampio contesto della produzione, sia locale che nazionale, anche di almanacchi: un genere di largo consumo e di sicuro successo commerciale, anche grazie alle potenzialità didattico-divulgative insite in questo tipo di prodotti (Pelandi ricorda che il primo campionario di almanacchi eseguiti in litografia dai Gaffuri e Gatti è del 1877).
Alla produzione di calendari ben presto si affiancò la stampa di tappezzerie in carta, stampati per ufficio (block-notes, memorandum, ecc.) e altre tipologie simili, quali diari, ricettari, blocchi a sfoglio, ecc., e in particolare, dal 1878, i libri da messa e di preghiera, tutti prodotti che richiedevano attenzione anche all’aspetto grafico e decorativo.
Ne derivò un successo commerciale assai significativo. Per questo, accanto all’attività editoriale, la produzione tipografica commerciale finì per assumere un ruolo determinante nell’economia dell’azienda, che dal 1879 ebbe il suo primo rappresentante nel vicentino Pietro Robbioni.
L’ESPANSIONE DELL’ATTIVITA’ E IL TRASFERIMENTO DA BERGAMO ALTA A VIA MASONE
L’ampio ventaglio di prodotti rappresentati nel catalogo dell’azienda (cartoni per fotografi, attestati per scuole, assortimento di colli di bottiglie di vini e liquori, etichette e rubriche per cartoleria, sottomani in carta cerata, bordure in oro, chiaroscuro, a colori, a fiori, cartelli, campioni di fatture e cambiali, ecc.) consentì alla “Gaffuri e Gatti” di affermarsi e ampliarsi, tanto da cambiare la sede e trasferirsi da Bergamo alta a via Masone in Bergamo bassa, dove esisteva un vecchio stallazzo fra le case Piccinelli, di fronte all’attuale Palazzo delle Poste.
Preso in affitto lo stabile, la ditta ottenne che fosse rimesso a nuovo e ricoperto di dipinti a tempera e graffito dal pittore Giuseppe Carnelli, con allegorie rappresentanti le Arti Grafiche. Tale decorazione doveva fare intendere – per usare le parole di Luigi Pelandi – che là dentro l’arte della stampa in colore era coltivata e curata.
L’autore dei dipinti, il pittore Giuseppe Carnelli (1838-1909), era definito da Luigi Pelandi “artista di natura e d’istinto, maestro di ogni tecnica pittorica, tanto che per lui non esisteva alcun segreto né per la tempera, né per l’affresco o per la pittura a olio”. Per almeno sette anni Carnelli eseguì cartelloni, disegni, litografie, coi quali contribuì a fare la fortuna dello Stabilimento. Il pittore risiedette a lungo in via Broseta al numero 27 e pressoché di fronte abitava nei suoi anni giovanili Paolo Gaffuri, amicissimo di Carnelli.
Come afferma il Pelandi, agli inizi degli anni ‘60 del Novecento tali decorazioni erano già sparite e stavano sparendo anche quelle della casa vicina, già dei nobili Piccinelli, rappresentanti dei bambini che danzavano o giocavano, eseguiti dal pittore Alberto Maironi. La casa di via Masone, già adibita a tipo-litografia Gaffuri, divenne più tardi la Scuola Tecnica Principe Amedeo Di Savoia (7).
Nella nuova sede la “Gaffuri e Gatti” poté finalmente aggiornare i propri impianti: dal 1880 si sviluppò quindi anche il settore cromolitografico.
Oltre alla vasta gamma proposta, a Gaffuri interessava affermarsi attraverso la qualità dei prodotti, sia commerciali che editoriali, che dovevano contemplare anche un fine estetico-educativo.
A questo scopo, accanto a incisori e stampatori tedeschi, egli chiamò a collaborare artisti e illustratori italiani di notevole rilievo, come Gabriele Chiattone e Cesare Tallone (all’epoca direttore dell’Accademia Carrara di Bergamo), o come i pittori bergamaschi Alberto Maironi e Giuseppe Carnelli, l’autore dei dipinti murali della sede di via Masone.
La “Gaffuri e Gatti” diventò così un’azienda all’avanguardia in Italia per la stampa cromolitografica e per il materiale illustrato in genere.
Sono suoi, infatti, i primi cartelloni murali per pubblicità italiani: quelli che pubblicizzano i pianoforti Ricordi e Finzi, i panettoni Bai e le Assicurazioni generali di Venezia. Sono della “Gaffuri e Gatti” anche le cromolitografie per il “Giornale per i bambini” uscito a Roma dal 1881 e diretto da Ferdinando Martini.
La qualità dell’illustrazione, dunque, divenne un aspetto centrale dell’azienda, tanto da suggerire già nel 1880 a Gaffuri, l’idea di realizzare una rivista illustrata di arte e letteratura, intitolata “La Cartella”, aperta a collaborazioni non legate all’ambito locale: un progetto non realizzato con la “Gaffuri e Gatti”, ma che anticipava idealmente la successiva esperienza di“Emporium”.
Nonostante i successi commerciali, le potenzialità dell’azienda dovettero però scontrarsi con le difficoltà di gestione e la sproporzione tra gli obiettivi che si volevano raggiungere e i mezzi finanziari a disposizione. Il successo commerciale degli inizi aveva infatti portato la “Gaffuri e Gatti” ad ampliare il capitale immobilizzato negli impianti, assumendosi con ciò un notevole impegno debitorio, non coperto dal capitale sociale, tanto che l’eccessiva esposizione finanziaria nel 1882 determinò la crisi dell’azienda.
A dieci anni di distanza dalla fondazione della “Gaffuri e Gatti e cioè nel 1883, i consociati F.lli Cattaneo rilevarono la società, ma, significativamente, mantennero il marchio e il nome dei predecessori come segno di continuità per un’azienda che si era fatta apprezzare sul mercato editoriale e tipografico.
Nacque così la “Fratelli Cattaneo successi Gaffuri e Gatti”, di cui Gaffuri, perduto il ruolo del socio, ne divenne il direttore, mentre – come ricorda Pelandi – Raffaele Gatti ritornò per pochi anni in Fiera, ove aprì una piccola tipografia ed un negozio di libri sulla fronte verso il Sentierone.
In tal modo Gaffuri si svincolava dalle questioni amministrative per potersi concentrare su ciò che più gli stava a cuore già dai tempi di Pagnoncelli: realizzare un vero e proprio progetto editoriale.
Nonostante i fratelli Cattaneo intendessero passare in un futuro la nuova azienda ai nove figli, Gaffuri continuava a perseguire un obiettivo molto ambizioso: quello di svincolare la casa editrice dalla conduzione familiare dei F.lli Cattaneo per fondare una società per azioni anonima, dove i capitali di finanziatori esterni avrebbero consentito progetti di ben più ampio respiro. A tal fine, nel maggio del 1887 Gaffuri, attraverso una lettera-circolare rivolse un appello ai potenziali finanziatori, che conteneva già le premesse progettuali per l’istituzione di quello che, di lì a pochi anni, divenne l’IIAG. L’appello proponeva la costituzione di una società per azioni che, su base finanziaria solida, potesse rilevare l’azienda dei F.lli Cattaneo, dar luogo ad un potenziamento dell’attività tipo-litografica e, contemporaneamente, realizzare un più pieno e razionale uso degli impianti anche attraverso una rinnovata e solida produzione editoriale.
I F.lli Cattaneo, galvanizzati dal successo commerciale raggiunto e spinti dalla necessità di reggere la concorrenza, continuarono a ingrandire lo stabilimento, investendo una quantità di capitale superiore alle loro reali disponibilità, senza attuare un piano amministrativo che permettesse loro di tener sotto controllo la situazione economica, ma vivendo piuttosto alla giornata. Gaffuri vedeva chiaramente che tale politica societaria era destinata ad entrare in crisi non appena fosse diminuita la disponibilità del capitale finanziario. In pratica, l’azienda si trovava nella stessa situazione che, nel 1882, aveva determinato il passaggio dalla “Gaffuri e Gatti” alla società dei F.lli Cattaneo.
A favorire la trasformazione della “F.lli Cattaneo successi Gaffuri e Gatti” in Istituto Italiano d’Arti Grafiche fu anche la questione della sede. I F.lli Cattaneo avevano una loro propria sede, e non avevano mai voluto accorpare in un unico stabilimento la loro azienda originaria con la ditta che avevano ereditato dalla “Gaffuri e Gatti”, la cui sede era nel centro di Bergamo.
Così, quando la “F.lli Cattaneo successi Gaffuri e Gatti”, in fase di espansione, si era trovata nella necessità di trovare una sede più adeguata alle proprie necessità, i Fratelli Cattaneo si erano impegnati finanziariamente per acquistare nuovi locali dove trasportare gli impianti.
L’amministratore della F.lli Cattaneo, Augusto Coffetti, era riuscito a trovare uno stabile in via S. Lazzaro, occupato da un setificio bergamasco poi fallito. La nuova sede era spaziosa e conteneva macchine ed attrezzi per le officine di tipografia, litografia, legatoria, verniciatura, con officine di falegnameria e meccanica. Il personale, tra operai, impiegati e “artisti”, comprendeva 350 persone.
E così, all’inizio del 1892, “trovato l’edificio, preparato il piano per una metodica suddivisione delle officine, degli ateliers, dei reparti, occorrevano i capitali sufficienti per dar vita al nuovo organismo, all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche”. Tuttavia, proprio l’ampliamento aveva determinato ulteriori esposizioni finanziarie da parte dei Cattaneo, che non erano più in grado di sostenere i debiti contratti con le banche.
Per Gaffuri era giunto il momento per realizzare quel passaggio da azienda familiare a società per azioni già ipotizzato nel 1887. Il primo passo in questa direzione furono i contatti intrattenuti da Gaffuri con Lorenzo Limonta, presidente della Banca popolare di Bergamo, che, dal canto suo, sondò accuratamente le reali possibilità di sviluppo della casa editrice.
Primo tangibile risultato dell’incontro tra i due fu il fatto che venne subito sospesa la domanda di copertura dei crediti precedentemente avanzata dalla Banca popolare ai F.lli Cattaneo e, anzi, fu concessa una cospicua somma per portare a compimento la produzione di calendari e almanacchi, dal momento che la produzione era ormai giunta al milione di copie annue, considerate anche le esportazioni in America Latina.
Da parte loro, i Cattaneo avrebbero dovuto cedere l’azienda alla futura società qualora l’esercizio commerciale fosse risultato in attivo, come Gaffuri sosteneva. I Cattaneo tentarono in tutti i modi, nei mesi successivi, di evitare di dover cedere l’azienda, ma alla fine dovettero desistere.
La costituzione della nuova società, denominata “Istituto italiano d’Arti Grafiche”, divenne ufficiale dal 24 giugno 1893, data del rogito notarile. Tra i fondatori figuravano undici nomi, provenienti dal mondo delle professioni di Bergamo e provincia, anche se i soci effettivamente sottoscrittori del capitale sociale iniziale furono solo cinque; tra i nomi figuravano naturalmente anche quelli di Limonta e Gaffuri, il quale ultimo venne nominato direttore generale. Luigi Caldirola ricoprì la carica di direttore tecnico e Giovanni Cottinelli quella di direttore amministrativo oltre ad esser nominato, poco tempo dopo, anche vicepresidente. Il primo presidente del consiglio d’amministrazione fu lo stesso Limonta, in carica fino alla morte, avvenuta il 15 novembre 1911.
Da questo momento iniziava una nuova vicenda per l’istituto editoriale, i cui sviluppi editoriali si intrecciano con l’esperienza della rivista illustrata “Emporium”, stampata a partire dal 1895, che si rivelerà, nel lungo termine, uno strumento efficace di propaganda dell’attività editoriale dell’Istituto. Una prova ulteriore, in tal senso, è costituita dal fatto che, nel 1892, cioè appena un anno prima della fondazione dell’IIAG, l’azienda diretta da Gaffuri aveva assunto la stampa della rivista illustrata “Arte italiana decorativa e industriale” diretta da Camillo Boito.
Del resto, l’attenzione all’aspetto artistico era non solo già stata posta pubblicamente con la qualità grafica di moltissimi prodotti della “Gaffuri e Gatti” prima e della “F.lli Cattaneo successi Gaffuri e Gatti” poi, ma reso evidente anche in termini visivi sulla facciata della vecchia sede di via Masone, decorata appositamente per mettere in evidenza proprio le “Arti grafiche”. Ricorda Luigi Pelandi che al nuovo, complesso organismo, quando dovette assumere l’aspetto commerciale di un’azienda “anonima”, fu dato il nome di “Istituto”, perché le istituzione delle “Arti Grafiche” vi dovevano trovare costante asilo, inserendo il beneficio commerciale e industriale su di un costante progresso tecnico di tutti i rami coltivati. Quello che altrove sarebbe stato superfluo, qui fu sentito indispensabile.
Gaffuri diresse l’istituto fino al 1910. Raccolse una collezione, dispersa tra l’Accademia di Brera, la sede milanese del Touring Club Italiano e la Biblioteca Angelo Mai, che “deve essere considerata come una fonte importante, e in larga parte inesplorata, di informazioni sull’editoria popolare” (8).
Nonostante i brillanti successi in termini culturali e in seguito a rilevanti cambiamenti nella gestione della società, nel 1915 Gaffuri venne licenziato dalla società da lui stesso creata, sostituito da Ezio Sangiovanni. Grande fu il suo rammarico: “Sortirò dall’azienda che ho creata, povero, cacciato con le forme più odiose […] espulso come un ingombro, perseguitato […] poi sarà quel che sarà per me e per l’Istituto”, scriveva con amarezza il 25 febbraio di quello stesso anno ad Arcangelo Ghisleri.
Bergamo, a riconoscenza delle sue grandi capacità imprenditoriali e editoriali che portarono la cittadina al centro dell’editoria lombarda, gli intitolò una via nel quartiere di Loreto. La morte lo colse nel 1931 e la casa natale lo ricorda in un’epigrafe.
NOTE
(1) Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. III. Il Borgo S. Leonardo”. Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1965 (Collana di studi bergamaschi).
(2) Come spesso accadeva a quei tempi, accanto all’attività tipografica e ad una propria attività editoriale, per tenere in vita l’azienda, soggetta alla dura concorrenza del mercato locale, la Pagnoncelli sviluppava anche quella del commercio librario. Ma tra il 1868 e il 1871, gli editori Pagnoncelli e Bolis si contesero la stampa dei quotidiani locali e la relativa concessione degli Atti giudiziari. Contenzioso che finì per indebolire entrambi gli editori e indusse Gaffuri a cercare prospettive più sicure per il proprio futuro (Anna Martinucci. Università degli studi di Milano, “Le origini dell’Istituto italiano d’arti grafiche: per un’illustrazione di qualità”).
(3) Luigi Pelandi scrive che dopo l’acquisizione della tipografia Sonzogni, “La società Gaffuri e Gatti prese in affitto otto botteghe in Fiera dal signor Marco Spinelli. Esse vennero subito adattate ad uso officina ed ivi collocati i banchi di tipografia, il materiale ed i torchi già Sonzogni. In altra tresenda, e precisamente di faccia all’Intendenza di Finanza, era venuta ad installarsi una piccola tipografia per la stampa della “Provincia Gazzetta di Bergamo”, amministrata da Licurgo Spinelli, un buon patriota, ma catttivo amministratore. Il dottor Felice Alborghetti, direttore e comproprietario del giornale, propose ed ottenne dalla nuova società la gestione e la stampa del periodico; infatti il 1° gennaio del 1874 il giornale porta il nome della Stamperia Gaffuri e Gatti” (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963. Collana di studi bergamaschi).
(4) Tra i titoli di questi primi anni si possono ricordare: Pasino Locatelli, I casi di Bernardo Strozzi: pittore genovese, 1875, appartenente alla collana “Nuova collezione di novellieri contemporanei”; Antonio Tiraboschi, Usi pasquali nel Bergamasco, 1878; Emile Zola, Il Capitano Burle, prima traduzione italiana di Augusto Barattani, 1881; Elia Zerbini, Angelo Mai e Giacomo Leopardi, 1882. Tra i testi stampati nel catalogo “Gaffuri e Gatti” figurano anche pubblicazioni d’occasione, come il volume del 1875 dedicato a Gaetano Donizetti e Johann Simon Mayr, tipiche glorie culturali locali da valorizzare nel contesto nazionale (Anna Martinucci. Università degli studi di Milano, “Le origini dell’Istituto italiano d’arti grafiche: per un’illustrazione di qualità”).
(5) Pelandi ricorda che “ad incisore litografico della nuova sociatà era stato assunto un recluso delle carceri di S. Francesco, certo Dolfin, condannato per fabbricazione di biglietti falsi. Abilissimo disegnatore, il recluso fece scuola al primo gruppo di incisori bergamaschi, i quali ben presto diedero prove di buon gusto e di padronanza del nuovo sistema di riproduzione, tanto che dai calendari a semplici ornamenti si passò ben presto a quelli a figura ed a composizione” (Luigi Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Op. Cit.).
(6) La vita precaria delle tipografie locali era caratterizzata da un’alternanza di passaggi, scanditi da cessione ad altri tipografi o da successioni ereditarie. Prima di diventare “Gaffuri e Gatti”, la tipografia Sonzogni aveva attraversato varie fasi: nata nel 1804 come tipografia di Ignazio Duci, questi l’aveva ceduta a Luigi Sonzogni, al quale era succeduta la figlia Angela sposata Salvi. Per il sostanziale disinteresse del marito di quest’ultima (Domenico Salvi detto “Fidelì”, specifica Luigi Pelandi) e per incapacità organizzativa, la tipografia Sonzogni aveva perso, all’inizio degli anni ’70, una delle poche commesse sicure: la stampa della modulistica per le amministrazioni locali, attività svolta già durante la dominazione austriaca. La stampa della modulistica venne immediatamente colta come occasione di lavoro dalla tipografia di Pietro Cattaneo, presente a Bergamo dagli anni ’50, che pubblicava un giornale locale per conto di Pagnoncelli (Anna Martinucci. Università degli studi di Milano, “Le origini dell’Istituto italiano d’arti grafiche: per un’illustrazione di qualità”).
(7) Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Op. Cit.).
(8) Edoardo Barbieri, Francesco Novati e l’editoria popolare, in Produzione e circolazione del libro a Brescia tra Quattro e Cinquecento. Atti della seconda Giornata di studi: ” Libri e lettori a Brescia tra Medioevo ed età moderna”, Brescia, Università Cattolica del Sacro Cuore, 4 marzo 2004, a cura di Valentina Grohovaz, Milano, Vita e Pensiero, 2006, p. 146.
Da: Anna Martinucci. Università degli studi di Milano, Le origini dell’Istituto italiano d’arti grafiche: per un’illustrazione di qualità.
Quarta puntata (per la puntata precedente, clicca qui)
I poie della sciura Cassotti
Nel caseggiato tetro e umido di Via Rocca numero 8 abitava una dolce e tenera vecchietta, la sciura Cassotti.
Piccola e fragile, con un viso angelico incorniciato da capelli grigi e crespi, tutti i pomeriggi, verso le tre, usciva sulla via a far prendere aria alle sue tre “poie”, che teneva in casa in una stia di legno.
Metteva la sua “scagnina” all’ombra, presso “ol pissadùr”, legava con una lunga corda le zampe delle galline al suo polso e le lasciava andare, libere, a becchettare qua e là.
Tenendole d’occhio, con gli occhiali appoggiati sulla punta del naso, lavorava a maglia: faceva solette per calze, che poi vendeva.
Le galline della sciura Cassotti erano degli esemplari unici e buffissimi: avevano il piumaggio solo sul collo e sul capino, il resto era oscenamente nudo e bitorzoluto. Facevano impressione, povere bestie, sembrava fossero state appena spennate, pronte da cucinare in brodo. Vivendo quasi sempre al chiuso, avevano, senza dubbio, problemi di… penne.
Le tre pollastre, incuranti ed ignare del loro terribile aspetto, chiocciando tutte contente, si muovevano sull’acciottolato rovistando tra i sassi con le loro zampe unghiate e beccando non si sa cosa, perché non c’era un filo d’erba, solo sassi. Spesso beccavano anche il muro del cortile delle suore e ne mangiavano l’intonaco. Il loro più grande sollazzo era però quello di grattarsi il sedere sui ruvidi sassi dell’acciottolato, per calmare il prurito che le infastidiva.
La sciura Cassotti curava con tenerezza le sue tre creature, come un’affettuosa nonnina, e le chiamava per nome: Pinù, Bice e Carmelina.
D’inverno, la sciura Cassotti scendeva solo quando c’era bel sole, lasciando zampettare le sue gallinelle attaccate alla corda, come se fossero cagnolini. Quando si allontanavano un po’ troppo, strattonando la corda per andare più avanti, la sciura Cassotti le chiamava per nome e quelle, traballanti e ubbidienti, le correvano vicino. Erano furbe, comunque, perché si aspettavano una ricompensa: la sciura Cassotti prendeva infatti dalle tasche dei pezzettini di pane e glieli imbeccava, come fossero zuccherini.
Quando faceva freddo, copriva le loro nudità con delle mutandine di lana fatte da lei su misura. Al riguardo mi spiegò che, se il sedere delle galline si raffredda, non fanno più le uova. Non era possibile trattenere il riso, guardando quelle galline con le braghette a righe nere, grigie, beige! I turisti che salivano alla Rocca, si fermavano sorpresi e divertiti a fotografare o a filmare quelle simpatiche pollastre.
Un pomeriggio, la sciura Cassotti mi disse che si, le galline facevano ridere e non erano belle, però erano speciali, perché nascondevano un tesoro… Erano galline dalle uova d’oro! Io, nella mia ingenuità d’infante, le credetti alla lettera, come credevo alle fiabe.
Curiosissima, un giorno le chiesi se mi faceva vedere un uovo d’oro, poiché non ne avevo mai visti. Lei, divertita, mi sorrise e disse: “Dopo, vieni su con me, che te ne farò vedere uno.”
Quando il campanile di San Pancrazio suonò le sei, la sciura Cassotti si alzò e chiamò le sue poie. Queste accorsero ubbidienti, si accovacciarono ai suoi piedi e si lasciarono prendere in braccio, senza agitarsi.
lo la seguii, tenendole la “scagnina”, su per le strette e buie scale, che non finivano mai. Alla fine, entrammo in una stanza che sembrava una piazza d’armi.
Da una finestrella, l’unica dell’abbaino, si vedeva di fronte la punta del campanile di San Pancrazio.
Pensai: “Come siamo in alto!”
La sciura Cassotti depose sul pavimento le sue gallinelle, che cominciarono a girellare per la stanza a loro agio, apri la “moscaröla” e tolse un cestinetto di ferro con dentro due uova. Le osservai e delusa le dissi: “Ma, signora Cassotti, sono normali, non sono d’oro!” Con un sorriso accattivante mi guardò e mi rispose: “Te ghét résù, ma per me valgono come l’oro, perché con due uova al giorno io vivo da regina”. Capii perfettamente.
Prima di scendere per tornare dalla nonna, la cara sciura Cassotti mi regalò un uovo, mettendomelo tra le mani. lo lo tenni con cautela, per non romperlo.
La ringraziai con calore, salutai Pinù, Bice e Carmelina, che si facevano i fatti loro, e scesi felice, adagio adagio, perché avevo tra le mani un tesoro.
OL PIPELET
Al numero 6 di via Rocca, in un fosco scantinato, miserevole e maleolente, senza alcuna finestra o pertugio, abitava “ol Pipelet”.
Era un vecchio dalla lunga barba bianca e bianchi capelli, il suo aspetto solenne e ieratico ricordava gli antichi eremiti. Era cieco, ormai, e la sua cecità, isolandolo dal mondo esterno, lo elevava a spirito inaccessibile e inattaccabile.
Non vedeva e non diceva una parola, stava muto, immobile e assorto in chissà quali pensieri. Certamente, dietro quegli occhi spenti, balenavano lumi di immagini vive e le sue labbra ora mute avevano un tempo sussurrato parole d’amore e di passione.
Nessuno sapeva nulla di lui, da dove venisse, come si chiamasse in realtà, quali sofferte esperienze avesse vissuto. A tutti sembrava fosse sempre esistito, come i vecchi muri delle case di Città Alta. Era il vecchio Pipelet.
Tutte le mattine, una donna che viveva con lui nel misero tugurio, non so se fosse la moglie o l’amica, una donna dall’aspetto sgraziato lo accompagnava a mendicare, tenendolo sotto braccio fino in Colle Aperto.
Metteva lo sgabello contro il portone della Cittadella, allora sempre chiuso, vi faceva sedere il vecchio Pipelet, gli dava in mano una fisarmonica a soffietto e lo lasciava li fino a mezzogiorno.
La donna, nell’attesa di andare a riprenderlo, si fermava dal Sergì, l’osteria in piazza San Pancrazio, e chiedeva ad ogni avventore “ü càles”, perché aveva sete.
Era un’alcolizzata, che per un bicchiere di vino sopportava i lazzi salaci e scurrili di uomini che si divertivano a farla bere per vederla ubriaca.
Il povero Pipelet, solo, in Colle Aperto, con il cappello per terra, cercava di attirare l’attenzione dei passanti suonando la sua fisarmonica.
Allargando e stringendo il soffietto, emetteva sempre le solite note stridenti: “frin, frin, frin”, sperando di sentire, prima o poi, il tintinnio di qualche monetina nel suo cappello vuoto. Altero e imperturbabile, non dava segni di stanchezza o noia, perché lui viveva altrove. Il Pipelet non era un barbone qualunque, era un asceta in ritiro spirituale, un santone che non si lamentava mai e nascondeva la sofferenza in un dignitoso e altero distacco.
Un giorno, scendendo da via Rocca per andare a comprare il pane dai Nessi, vidi la sagoma del Pipelet, tutto solo, che saliva a tentoni e con fatica la via, tastando il muro, per riconoscere il suo portone di casa.
Mi arrestai turbata per l’improvviso incontro e, dopo un attimo di esitazione, corsi verso di lui e gli chiesi: “Signor Pipelet, vuole che l’accompagni fino al portone?”
“Grazie, grazie”, sussurrò con un filo di voce, e mi afferrò la mano. Il suo portone non era molto distante, lo accompagnai fino alla soglia e gli feci fare il gradino.
Prima di staccarsi da me, mise l’altra mano nella tasca, tolse una monetina e la mise nella mia mano, ripetendo ancora: “Grazie, grazie”
Io, colta di sorpresa, non ebbi il tempo di rifiutare e gli risposi con un: “Buon giorno, grazie”.
Mentre camminavo, però, sentivo in me imbarazzo e vergogna e mi ripetevo: “Perché ho accettato quella monetina, magari l’unica che aveva ricevuto quel giorno?” Quella monetina mi bruciava tra le mani e nel cuore provavo un gran senso di colpa.
Il mattino seguente, senza dire nulla alla nonna, feci una corsa in Colle Aperto, dove trovai il Pipelet al suo solito posto.
Sollevata nel vederlo, mi misi davanti a lui, ascoltai un po’ la sua nenia sofferente e rimisi la monetina nel suo cappello.
Lo salutai, ma lui non mi rispose, però a me parve di intravvedere un sorriso sulle sue labbra. Ritornai a casa saltellante, con una piacevole sensazione di leggerezza e di liberazione.
L’anno seguente, quando ritornai in via Rocca, non rividi più il povero Pipelet e nessuno sapeva nulla di lui.
Era scomparso nel nulla, come un colpo di vento.
Anna Rosa Galbiati, “Acquarelli Bergamaschi” (Sistema Bibliotecario Urbano – Biblioteca circoscrizionale Gianandrea Gavazzeni, Piazza Mercato delle Scarpe – Città Alta).
Presso la bottega del fabbro Scuri, alla base della più bella torre medioevale del Mercato del Fieno…
..la vecchia baracca del Sarzetti sembra rianimarsi, e sulla scena silenziosa i burattini tornano a ballare.
“E si rinnova un rituale magico dal sapore antico in cui un oggetto inermeimprovvisamente prende movimento, voce, si anima di vita e diventaspettacolo, arte e sogno. Allora quell’angolo di strada, all’apparenza cosìcomune, diventa un luogo di straordinaria poesia. La magia dura poco, il tempo della rappresentazione; poi tutto svanisce tranne l’emozione e il sogno”
A Stefano, mio figlio, oggi un “ragazzo grande”
La tradizione bergamasca della baracca vanta una tradizione antica, che affonda le radici nella Commedia dell’Arte, il teatro d’improvvisazione portato in giro per l’Europa dagli Zanni bergamaschi, da cui scaturirono maschere come Arlecchino, Brighella, Pulcinella.
Una tradizione che si è tramandata per generazioni di padre in figlio e da maestro ad allievo, giungendo a noi non senza fatica, sopravvivendo solo a Bergamo, Napoli e nel territorio compreso tra Parma e Bologna, capitali mondiali dei burattini.
Diretti discendenti – ed ultimi rappresentanti – della Commedia dell’Arte, sono i burattinai bergamaschi dell’Ottocento e del primo Novecento, con i loro magici personaggi e le storie appassionanti e divertenti.
Il loro mondo, sospeso tra arte, stenti, sogno, aspirazioni e fantasia, era semplice e schietto, e della gente interpretava i sentimenti ed i bisogni, le aspirazioni ed i valori, le delusioni, le istanze di giustizia e la voglia di riscatto.
Con l’arrivo del cinema e della televisione, i burattinai scomparvero a poco a poco insieme ai loro burattini, per poi rivivere grazie alla passione e all’estro creativo dei pochi superstiti che hanno saputo fare di quest’arte qualcosa di magico e irrinunciabile.
I PRECURSORI DEI BURATTINAI BERGAMASCHI: ANTICHE TRACCE DI ATTIVITA’ BURATTINESCA
Della vita e dell’attività dei burattinai bergamaschi sappiamo ben poco e di loro, talvolta, non conosciamo neppure le date di nascita e di morte.
La notizia più antica riguarda il burattinaio Angelo Vignola, che presente in città nel 1660 ‘con l’occasione della fiera’ ed esercitando la ‘professione di far ballare alcune piccole figurine dette bamboci’, chiedeva di poter usufruire di una ‘stanza di ragione di questo pubblico sotto il Palazzo Novo’ per i propri spettacoli: si tratta di Palazzo Nuovo, attuale sede della Civica Biblioteca Angelo Mai. La richiesta venne prontamente respinta.
Abbiamo poi notizia della burattinaia Camilla Bissoni detta la Franceschina, che il 22 dicembre 1700 chiedeva di ‘puoter chiudere parte della Loggia sotto il Palazzo Vecchio di Raggione’ allo scopo di ‘far ballare li buratini’ nel Carnevale imminente.
La delibera chiedeva la stipulazione di un’assicurazione per gli eventuali danni arrecati, e la Bissoni prometteva di pagare ‘tutte le spese sì in formare la tramezza, come in distruggerla et ad ogni danno potesse a quello inferire’. Prevedeva inoltre l’obbligo a ‘sgomberare la loggia d’ogni impedimento’ entro i primi giorni di Quaresima, ma la domanda non raggiunse i due terzi dei voti e venne respinta (1).
(1) Francesca Frantappiè, Per teatri non è Bergamo sito. La Società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ‘600 e ‘700. Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, 2010.
Ancora nel Settecento, negli spazi della Fiera, punto di confluenza della maggioranza dei “forestieri”, al teatro “regolare” (le stagioni operistiche estive e gli spettacoli delle compagnie di attori professionisti) si affianca quello “minore” composto dai teatri dei burattini, presenti insieme ad acrobati, ciarlatani, ammaestratori di animali ed ambulanti con i loro apparecchi proto-cinematografici.
Ma è nell’Ottocento che la presenza di una baracca in Piazza Vecchia diverrà una consuetudine, e ancor’oggi, gli unici spettacoli burattineschi che si tengono in città sono rappresentati sotto le arcate del Palazzo della Ragione.
I primi burattinai che danno vita al teatro di figura sono Battista Battaglia e il suo discepolo Pasquale Strambelli, attivi in Piazza Vecchia tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento, in piena dominazione austriaca. Con loro Gioppino è rappresentato per la prima volta proprio in Piazza Vecchia, ispirando i versi del poeta Pietro Ruggeri da Stabello (1797-1858),
Questi, nel 1836 intitola La baraca del Battaja il più fortunato fascicolo delle sue Rime Bortolinine (2): un lungo poemetto che vede protagonisti i burattini, con Gioppino la fa da mattatore e la sua “ramorata” – la Margì (Marietta) -, a cui dedica dei versi d’amore, finiti in musica grazie al maestro Aldo Sala (1912-2002), sono reinterpretati da Luciano Ravasio
“Èco di büratì la gran filéna, composta de Giopì e de Bortolì…”
(2) Bortolino è l’aggettivo con cui nel Settecento i milanesi qualificano i bergamaschi, “che consideravano fin da allora con una certa sufficienza”. Non a caso Manzoni ricorre al nome di Bortolo per designare il cugino bergamasco di Renzo. Il primo fascicolo delle Rime bortoliniane è pubblicato nel 1832 (L. Ravasio).
IL CAPOSTIPITE DEI BURATTINAI: BATTISTA BATTAGLIA, DETTO BATAJA (? – 1834)
Con Battista Battaglia, attivo a Bergamo per circa quindici anni (dal 1820 fino al 1834-35), il trigozzuto Gioppino fa la sua comparsa in Piazza Vecchia, crocevia degli avvenimenti cittadini. E’ lo stesso Ruggeri da Stabello a presentare Gioppino tra le teste di legno che il Battaglia fa muovere nella sua baracca.
Del suo ricco repertorio è nota solo la commedia “Giopì ‘n seganda”, di cui Mazzoleni disse che commuoveva fino alle lacrime.
Battaglia aveva una tale cura e passione, che alcuni anziani riferirono che un tempo, dietro la sua abitazione di via Borgo Canale 21 fossero ben visibili le tracce di un affresco commissionato al pittore Bonomini raffigurante una piccola scena burattinesca.
PASQUALE STRAMBELLI DETTO PASQUALI’ (1804-1865)
Le notizie riguardanti Pasquale Strambelli detto Pasqualì sono state a lungo confuse dalla tradizione popolare con quelle del Battaglia, suo maestro.
Strambelli teneva la sua baracca nell’allora popoloso borgo di S. Tomaso e all’entrata del ponte di borgo S. Caterina, ma era presente anche in Piazza Vecchia, dove teneva spettacoli sotto il Palazzo della Ragione da cui, come già aveva fatto il suo maestro, lanciava i suoi feroci strali alla volta degli austriaci, definiti “pelatori di gelsi”.
Sono gli anni della tirannide austriaca e con Pasquale Strambelli la figura di Gioppino si nobilita e si riscatta ammantandosi d’italianità e di patriottismo.
Rappresentato in Piazza Vecchia fra l’esultanza del pubblico Gioppino prese a dileggiare (e a “bastonare di santa ragione”) i gendarmi austriaci, sgominati alla stregua di delinquenti e malfattori.
Provocazione per la quale Pasqualì venne più volte arrestato e maltrattato finché una sera, dopo l’ennesimo affronto lanciato nel corso di una rappresentazione, mentre gli sbirri erano in procinto di arrestarlo, il pubblico, disposto a muro intorno alla baracca, riuscì a respingere i gendarmi.
L’eroico evento fu narrato in rima dal poeta Giacinto Gambirasio:
E chêla sira Bèrghem, Iìberada prima del tép, per mèret del Giopì, I’ê töta in Piassa Ègia, e I”à portàt, come ün eròe, ‘n trionfo ‘I Pasqualì!
Strambelli ebbe persino l’ardire di sortire con Gioppino in quel di Zanica, dove la comparsa della maschera era considerata un atroce affronto. Per moltissimo tempo nessun’altro volle seguire il suo esempio: non tutti i burattinai erano disposti a farsi distruggere la baracca!
Ai burattinai Battaglia e Strambelli la tradizione lega le origini del teatro dei burattini bergamaschi, che a lungo si affermerà proprio per l’aver creato con Gioppino un personaggio ben definito e molto popolare.
ANGELO FATUTTI (FATÖT)
Dopo di loro si affermò Angelo Fatutti detto Fatöt (1812-1888), che dava le sue rappresentazioni sotto un andito in piazza Mercato del Fieno. E dal momento che egli, almeno per un certo periodo, diede spettacolo contemporaneamente allo Strambelli, si pensa che nella vicina Piazza Vecchia il posto fosse già occupato da quest’ultimo (o forse Piazza Vecchia gli era stata “interdetta” a causa dei fastidi dati alle autorità).
Il Fatutti inaugurò la stagione dei burattini che davano spettacolo anche in provincia, verso la pianura, non più al seguito di guitti e ciarlatani ma in proprio, come veri e propri artisti girovaghi che dopo aver trascorso l’inverno nelle osterie della città, nella bella stagione prendevano a viaggiare: fu così che Fatutti approdò nel Milanese.
Come già aveva fatto il Fatöt, anche Alfonso Strambelli (figlio del Pasqualì) e più tardi il Pèia e lo Steenì, vagarono per la Lombardia con baracca e burattini.
A questi grandi burattinai va aggiunto anche Luigi Nespoli che, come vedremo, ebbe un’avventura molto singolare.
BERNARDINO MORO (PEIA)
Anche Bernardo Moro (1838-1902) detto Pèia (continuatore della tradizione burattinesca del Battaglia, di Pasquale Strambelli e di Angelo Fatutti), sconfinò nel capoluogo lombardo recitando in luoghi dai quali i burattinai erano sempre stati esclusi. Con il Pèia, che si faceva chiamare Gioppino I°, s’inaugurò la stagione di quei burattinai bergamaschi che s’imposero nei locali milanesi stabilendovi una sorta di gerarchia facendosi chiamare Gioppino I°, Gioppino II°, ecc. (3).
Bernardo Moro fu molto popolare nel borgo di S. Leonardo, dove tenne rappresentazioni per un decennio, dal 1870 al 1880.
Diversamente dai burattinai che lo precedettero e da molti altri che seguirono, Bernardo Moro non era analfabeta o semianalfabeta e si ingegnò a dare un certo tono letterario alle recite, curandone intreccio e linguaggio.
(3) La tradizione venne continuata dal figlio dello Strambelli, Alfonso (che dal padre prese il nome di Pasqualì II°) il quale, nella serie dei bergamaschi che fanno divertire i milanesi con i burattini, assunse il titolo di Gioppino II°. A Milano Alfonso agisce dal 1876 in avanti.
La sua ambizione lo portò ad impiantare la sua baracca nel luogo di passeggio pubblico per antonomasia di Bergamo bassa: il boschetto di S. Marta, sul Sentierone.
Quest’angolo della Bergamo dell’Ottocento è rappresentato in un bel dipinto del pittore Gabriele Rosa, con la baracca tra i cittadini che frequentavano il passeggio sul quale si affacciavano gli edifici affastellati attorno all’antica Fiera, con i suoi variopinti Caffè.
ANCORA NELL’OTTOCENTO..
Dopo lo Strambelli, va ricordato il Cannella, che dava i suoi spettacoli nella zona di S. Pancrazio in Città Alta, nel periodo del decadimento economico e sociale del centro storico, ovvero ai tempi in cui erano sorte le prime osterie in cui si mesceva vino ad alta gradazione proveniente dal meridione. Un vino che presto soppiantò i pallidi vinelli locali e che per i vistosi effetti che sortiva faceva dimenticare le tristi condizioni in cui si era ridotta a vivere la parte più umile di Città Alta.
Cannella recitava negli oratori, tenendo a bada anche i ragazzi più turbolenti.
Vi era poi il cappellaio Corna, che divertiva i bambini nell’oratorio di Sant’Antonino.
Anche “il pio e zelante” Don Luigi Palazzolo (1827-1886) amava allestire spettacoli di burattini per i suoi ragazzi, nell’oratorio di San Filippo Neri di cui fu fondatore: cosa giudicata troppo licenziosa dai giudici del processo canonico e che per poco non gli costò la causa di beatificazione, che fu messa in salvo grazie all’intervento del Papa bergamasco.
Con il Cannella, il Corna e don Palazzolo, si conclude il periodo classico dei grandi burattinai che lavoravano a Bergamo, una sorta di decadenza della “tradizionale arte dei burattini” (tuttavia più accentuata nelle altre città) dovuta all’emigrazione a Milano e al tentativo di affermare i burattini in persona: una moda effimera, che non impedirà – negli anni che precedono la guerra – la fioritura di altri artisti burattinai a partire dal Colombo alla Malpensata, Sisto nel rione di Campagnola e Melio Minoia in vicolo Aquila Nera a Bergamo Alta, dove morì nel 1942.
IL TEATRINO DEI GOTTI
Il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti fu attivo tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Abitava in Città Alta nella zona di S. Pancrazio, dove in tempi abbastanza recenti un antennista, recatosi sul solaio di un caseggiato per una riparazione, trovò casualmente un vecchio baule zeppo di burattini lasciati dal Gotti.
Le poche notizie che riguardano la famiglia di questi burattinai bergamaschi, sono frutto esclusivo di memorie tramandate oralmente, e come spesso accade in questi casi, la verità si confonde spesso con la fantasia. Alcune memorie riportavano infatti l’esistenza di “fratelli Gotti” burattinai; in realtà, Domenico Lucchetti venne a sapere da Serafina Gotti, figlia di Giuseppe Alessandro, che questi era figlio – e non fratello – del burattinaio Massimiliano, vissuto nell’Ottocento al civico 36 di Via Pignolo e proprietario di un “Teatrino Gioppinorio e Marionettistico” (Zanetti, Op. cit.).
Nella foto seguente, il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti è ritratto con la sua famiglia; fa da sfondo l’elegante baracca nella quale lavorava. La cura e la dimensione del “teatrino” suggeriscono che la famiglia Gotti godesse di un certo benessere economico. Sullo scenario, che per la sua qualità venne dipinto presumibilmente da un pittore del tempo, sono raffigurate le maschere della Commedia dell’Arte con al centro Gioppino che suona il tamburo. Si tratta di una delle prime rappresentazioni della nota maschera bergamasca.
Alessandro Giuseppe Gotti inaugurò quella che in seguito divenne una consuetudine comune a diversi burattinai bergamaschi: si occupava personalmente dei testi e dell’allestimento della baracca, ma soprattutto della realizzazione delle teste di legno dei suoi burattini, che, sovradimensionate rispetto al consueto repertorio bergamasco (probabilmente in rapporto alle notevoli dimensioni del suo teatrino) diedero vita al famoso detto – cràpa de goti -, sinonimo di “testa di legno” riferito alle cervici dure di comprendonio.
La dinastia venne troncata dall’epidemia di Spagnola che decimò la famiglia subito dopo la fine della prima guerra mondiale, tra il 1918 e il 1919.
Le memorie riportano che Massimiliano Gotti, il capostipite, era stato allievo di Bernardo Moro (Pèia), dal quale aveva ricevuto in dono delle crapedélègn: forse quelle stesse confuse tra i burattini intagliati da Giuseppe, rinvenute in quel solaio di via S. Pancrazio?
Massimiliano era ricordato con nostalgia dal poeta Giacomo Alessandro Gavazzeni in una composizione risalente all’ultima guerra mondiale. In polemica con le norme educative fasciste, il poeta affermava che i ragazzi (bòce) dei suoi tempi non maneggiavano pugnali e moschetti e vedevano i fucili – finti, s’intende – solo nel teatrino del Gotti:
I bòce de chi tép, pié de ardimènt, no i ghe sia de pügnàl gna de moschècc e se a guèra i zögàa, i éra bachècc a ƒurmà töt l’insèm de l’armamènt, o s’i vedìa di s-cìòp, I’éra dal Gòte, che l’ dervìa ƒò ‘I sò tèmpio ai becherée, indóe ‘l Giopì, tra i tante bölerée, l’ispartìa col tarèl moràl e bòte” (Zanetti, Op. cit).
Con i Gotti siamo ormai alla vigilia della Grande Guerra e, se ci atteniamo al repertorio di Giovan Battista Locatelli detto Steenì, c’è da credere che Gioppino si schieri ormai tra gli interventisti.
GIOVANNI NESPOLI
Giovanni Nespoli è il burattinaio d’eccellenza, che visse nel momento migliore per questo genere teatrale di cui vide il lungo decadere. Fu un vero specialista dello spettacolo burattinesco, sia nell’abilità nel muovere i burattini e sia nell’inventiva scenica, utilizzando una gran quantità d’acqua per rappresentare il diluvio universale e inventando una specie di palcoscenico mobile che grazie a una grande ruota di carro gli permetteva di cambiare fulmineamente la scena.
Ricorda Pino Capellini nella sua opera Crapedé lègn, che giunse un momento in cui i burattinai bergamaschi avevano guadagnato un’ottima piazza in quel di Monza, dove si dice vi fosse “Un gran buon pubblico”. Fra costoro Giovanni Nespoli ebbe un’occasione d’oro: dopo esser stato notato da qualcuno della famiglia Reale che alloggiava nella villa dove re Umberto I soggiornava con la sua corte, gli giunse a sorpresa l’invito di presentarsi all’ingresso della reggia con tutto il suo bagaglio. Fu così che la baracca di un bergamasco divertì gli ospiti reali per un certo numero di stagioni.
Non è dato di sapere se Giovanni Nespoli ne ricavò “compensi reali”, ma di certo quelle rappresentazioni costituirono il vertice di una insperata carriera, coronata anche da una sorta di diploma di “burattinaio reale” in pergamena, accompagnato da una medaglia incorniciata sotto vetro che conservò fino alla fine.
Girovagò per tutta la Lombardia, richiesto ovunque, principale attrattiva delle località termali dove soggiornava l’Europa che contava, dormendo spesso sempre in allerta, attento a proteggere l’incasso che andava consegnato alla famiglia.
Conclusa ormai la sua fortuna Nespoli si ridusse a vivere in Borgo Canale, aggirandosi con un carretto da straccivendolo.
Rinunciò definitivamente ai suoi allestimenti, pressato dalla Società degli Autori (SIAE), che richiedeva soldi ad ogni spettacolo.
Morì quasi in miseria nell’ottobre del 1951, lasciando alla moglie, come unica eredità, soltanto qualche burattino. Quei fantocci di legno furono così cari ad entrambi, che alla morte di lei, che l’aveva molto aiutato nel lavoro, trovarono un burattino nascosto sotto il suo letto. Ricordo di tempi migliori, non aveva mai saputo separarsene.
GIOVAN BATTISTA LOCATELLI, DETTO STEENI‘ (1884-1923)
Collocato da taluni ai primi posti della gerarchia dei grandi burattinai bergamaschi, definito “il principe dei Giopì”, può essere considerato come l’ultimo burattinaio della tradizione dell’Ottocento.
Pittore-decoratore era di spirito piacevolissimo e dalle allegre trovate. Riservato per natura, si trasformava quando entrava nella baracca, dove riusciva ad esprimere tutta la sua arguzia e il suo pittoresco senso umoristico, tipicamente bergamasco.
Era il padre del pittore Orfeo Locatelli, che di lui ricordava le mani infilate nei suoi burattini, dei quali otteneva espressioni efficaci che oggi si potrebbero definire metafisiche. Il dialogo, le voci diverse e i vari dialetti erano totalmente prodotti da lui. Il canovaccio della commedia consisteva in un foglietto di registro per ogni atto, un promemoria molto stringato, proprio come nel teatro dell’arte.
“Mi dicevano che scegliendo i burattini per lo spettacolo, mio padre prendesse la testa del fantoccio tra le mani, osservasse per bene la fisionomia del personaggio e, a secondo del tipo, decidesse di assegnargli la voce più adatta” (Orfeo Locatelli).
Steenì dava spettacolo in un magazzino di Via San Lazzaro al costo di dieci centesimi in platea e il doppio in galleria.
Dell’attrezzatissimo teatro del burattinaio bergamasco, che disegnava le sue teste di legno per farle poi intagliare artisticamente, non è rimasto nulla. Fu lo stesso Locatelli a disfarsene dolorosamente non volendo più conservare un segno di questa grande passione, perché i medici gli avevano suggerito di non proseguire con una così faticosa attività .
GLI ANNI FRA LE DUE GUERRE
La Grande Guerra era destinata a sconvolgere pure il quieto mondo provinciale di Bergamo e molti burattinai partirono per il fronte; qualcuno di loro non appena gli fu possibile innalzò rudimentali baracche nelle retrovie. Era uno dei pochi divertimenti consentiti alle truppe.
I burattinai giravano anche negli ospedali e nei convalescenziari, regolarmente richiesti dal personale medico per sostenere il morale dei feriti e degli ammalati. E così Capellini scrive che a Martinengo, in fondo al lungo corridoio di una villa della “bassa” bergamasca, una baracca allietava la convalescenza dei soldati, che si raccoglievano disciplinati nella improvvisata platea. Il fronte era lontano, si poteva sorridere e ridere alle facezie di Gioppino, pensando al giorno in cui tutto sarebbe finito. Dietro le file dei soldati italiani si affacciavano, sparuti e malandati, dei prigionieri austriaci, anche loro feriti e o ammalati e in convalescenza. La guerra stava per finire o doveva essere finita da poco. Nella gran sarabanda conclusiva, Gioppino prendeva a bastonate e a gran testate il “tugnì“, il soldato austriaco. E quei prigionieri sorridevano anche loro. Senza molta allegria forse, ma con la speranza che presto avrebbero preso la strada di casa.
Alcuni vecchi burattinai sparirono nel periodo della guerra, altri invece si cimentarono per la prima volta col pubblico (come Domenico Rinaldi).
Anche Bigio Milesi, il popolare pasticcere Bigio di San Pellegrino Terme, cominciò a far ballare i burattini durante la Grande Guerra. La sua lunga vicenda artistica ebbe inizio quando un giorno suo padre, che era al fronte, a sorpresa gli fece recapitare a casa da un conoscente un sacco che conteneva fantocci e teste di legno, di cui il Bigio non sapeva altro. Portò lo spettacolo burattinesco a notevoli livelli, interpretando il suo Gioppino con signorilità e arguzia. Gli fece da maestro il cugino Irmo Milesi, altra figura popolare di burattinaio.
IRMO MILESI
Irmo Milesi cercò di migliorare lo spettacolo, dandogli dei canoni e sperimentando pure delle forme nuove di rappresentazione. Raccoglitore e autore di testi, preparò anche una commedia da far recitare a burattini viventi. Intagliava lui stesso le teste dei suoi burattini, con risultati notevoli. Dipendente dell’Istituto Arti Grafiche di Bergamo, non era costretto a una vita girovaga per campare e per anni egli dominò incontrastato nel salone del Mutuo Soccorso.
Burattinaio ufficiale del dopolavoro, era quello che riceveva i maggiori consensi e che aveva il pubblico più attento e appassionato.
Poi vi fu l’EMIGRAZIONE, la baracca venne abbandonata dal suo pubblico, restando solitaria nei cortili e sotto gli androni, dove i burattini giacevano abbandonati. Tanti bergamaschi partirono emigranti e capitava che la baracca si ricomponesse anche nei paesi più lontani. Era di casa in Svizzera, in Francia o in Germania e comparve anche negli Stati Uniti e in Argentina.
Ai tempi di via Zambonate, il pubblico non mancava e tanti burattinai facevano a gara per portarvi le loro rappresentazioni.
Ormai avanti negli anni, vi tenne spettacolo anche il Nespoli, mentre Carlo Sarzetti e Pietro Spreafico contesero il primo posto ad Irmo Milesi.
Alla morte di questi subentrò Domenico Rinaldi, uscito terzo a un concorso al quale aveva partecipato quasi per caso, rappresentando “I tre principi di Salerno”.
DOMENICO RINALDI (MENECH)
Domenico Rinaldi detto Mènech, all’età di 14 anni, dopo un periodo di apprendistato cominciò a far ballare i burattini nell’oratorio di Borgo Palazzo, dove era nato e dove ormai più nessuno a causa della guerra teneva spettacoli. Ricevette in dono dal curato una cassa di burattini, vecchi e ammaccati, per far divertire i ragazzi.
Ma ormai il cinema faceva sentire la sua concorrenza, almeno in città, mentre in provincia il burattinaio poteva ancora trovare un buon numero di spettatori. Il mestiere di burattinai ora poteva solo servire ad integrare una paga, ma non più a sfamare un’intera famiglia.
L’ultimo che in quei tempi provò a vivere esclusivamente degli incassi di questo genere di spettacolo fu Luigi Cristini, che ebbe come maestro il Milesi. Ricevuto un indennizzo alla “Magrini” in seguito a un infortunio, lasciò il proprio lavoro e si mise in proprio con i burattini.
Ormai un’altra guerra incalzava, qualche burattinaio vi si trovò coinvolto, altri persero tutto l’apparato o vi rinunciarono definitivamente. Alla fine quelli che sopravvissero e che avrebbero potuto riprendere si potevano contare sulla punta delle dita.
L’immediato DOPOGUERRA segnò quasi una ripresa dello spettacolo. Finita l’era del Mutuo Soccorso si aprì quella di Enrico Manzoni, detto Rissolì.
ENRICO MANZONI DETTO OL RISSOLI’
Enrico Manzoni, altro “principe dei burattini” fu abilissimo nel “far parlare” i suoi burattini, affascinava grandi e piccini per lo più nel suo laboratorio di falegname in via Ermete Novelli, dove gli spettacoli si tennero per un paio d’anni.
La bottega era uno stanzone zeppo di ferri del mestiere coi quali Manzoni, intagliava i suoi bellissimi burattini.
I suoi spettacoli erano il risultato di una elaborazione artistica fatta a più mani. Al Manzoni si affiancarono i pittori Arturo Bonfanti e Orfeo Locatelli (figlio dello Steenì), l’architetto Pippo Pinetti, l’avvocato Davide Cugini, i poeti dialettali Giacinto Gambirasio e Pietro Astolfi, che gli suggerivano spunti per imbastire le trame delle rappresentazioni.
Alle pareti della bottega pendevano “pesanti mascheroni della commedia e, con i muscoli contratti in arcigne espressioni, paurose maschere della tragedia. E poi aquile grifagne, festoni pingui di frutta decorativa, paffuti angelotti, teste di giovani e di vecchi in cornici massicce o sottili; ma soprattutto bellissimi, splendidi burattini intagliati dalle sapienti mani di questo fenomenale burattinaio” (5).
Spostati gli attrezzi e collocata la baracca, Manzoni faceva circolare piccoli inviti a stampa con impresso l’annuncio della recita. Ad ogni suo spettacolo affluiva una ressa variegata, nella quale non mancavano artisti e professionisti: spettatori abituali erano Guido Piovene (che a Bergamo aveva dedicato un bellissimo reportage) e Renato Simoni, che giungevano appositamente da Milano. Quest’ultimo “gli commissionò nel 1951 dieci statuette lignee raffiguranti altrettanti personaggi tipici del mondo burattinesco, da Arlecchino a Brighella, da Meneghino a Gioppino. ll committente pagò la commissione in rate mensili e – particolare curioso – il Rissolì ricevette il vaglia postale dell’ultima rata lo stesso giorno in cui i giornali diffondevano la notizia della morte di Renato Simoni”, racconta Umberto Zanetti.
Quei burattini sono ora al Museo del Teatro della Scala di Milano.
(5) Luigi Medici, L’Eco di Bergamo, 20 novembre 1958.
E’ sempre Luigi Medici a descrivere uno degli spettacoli del Rissolì, tenuto nel suo laboratorio nel 1946. “La sera dell’annunciata rappresentazione la grande officina di falegnameria si riempì in pochi minuti di tutto un pubblico ciarliero e simpaticissimo. C’era, nell’officina, uno spirito rusticano, di Hans Sacs: qualcosa di artigiano, di medioevale con quelle lanterne che illuminavano scialbamente la baracca che i apriva in un angolo. Tre panche, davanti alla baracca, erano riservate agli spettatori privilegiati: i bambini. Gli altri spettatori stavano lungo le pareti pigiati in piedi o semiseduti sulle poche panchine rimaste nel laboratorio svuotato dei banchi artigiani e degli utensili di lavoro. C’era pur sempre un’aria di teatro vero e proprio.
Quando lo spettacolo cominciò, rimase illuminata solo la baracca. Tra le colonnine del proscenio ecco spiccare il sipario (dipinto dallo stesso Rissolì) con la nitida veduta del profilo di Città Alta. Come si alzò il sipario apparve Giopì, non so se scolpito dal Rissolì su disegno suo o dell’amico pittore Bonfanti: l’occhio vivo, la bocca semiaperta con qualche dente in ordine sparso, l’immancabile bacolo. Capii come Renato Simoni si fosse innamorato di queste maschere. E subito lo spettacolo entrò nel vivo: c’era da assistere a una corrida con il Giopì che faceva il torero. Un divertimento per tutti. Quante risate! Una serata indimenticabile”.
In qualche copione venne anche affrontato (con grandi manganellate) il periodo fascista e vi fu anche una rappresentazione dedicata alla vecchia questione, che tanto faceva discutere i bergamaschi, dell’ubicazione della tomba di Bartolomeo Colleoni. Questione sfociata nel clamoroso episodio dell’arca trovata nella basilica di Santa Maria Maggiore, e della quale Manzoni e compari intrecciarono un esilarante canovaccio.
Probabilmente furono gli ultimi episodi locali rappresentati nella baracca dei burattini. Attorno al 1948-’49 questa serie di recite era già conclusa e v’era stata una dispersione dei vari componenti del gruppo.
Ma il Manzoni continuò a intagliare serie su serie di splendidi burattini, che finirono in casa di appassionati e di amici. Ne scolpì per il Ducato di Piazza Pontida, che dopo gli stenti della guerra offrì numerose occasioni di incontro e di divertimento.
Un’epoca di cambiamenti radicali, che avrebbe spazzato via tradizioni e consuetudini, si stava avvicinando a grandi passi: il declino dei burattini, già accentuato con la guerra, fu totale con l’arrivo della TELEVISIONE.
In Città Alta qualcosa sopravvisse. C’erano ancora l’imbianchino Carlo Sarzetti, che portava qua e là la sua baracca quando la brutta stagione gli impediva di lavorare. Pasquale Brignoli, un emigrande rientrato con la baracca dalla Francia, dove aveva imparato a dar spettacolo tra i lavoratori bergamaschi. PucciMazzoleni, uno straccivendolo, che girava con un carretto trainato da un ronzino spelacchiato. MelioMinoia, aggiustatore di ombrelli e di zoccoli.
C’era anche qualcuno nei vecchi borghi, come Piero Spreafico, un altro imbianchino, che teneva spettacolo nelle osterie di Borgo Santa Caterina, di via San Tomaso e in via N. Sauro.
E Arturo Marziali, un decoratore e pure abile intagliatore di teste di burattini.
CARLO SARZETTI
Sarzetti, dopo aver percorso la Bergamasca e la pianura verso Milano e Cremona spostandosi con un motocarro, dava spettacolo in uno stanzone nella stessa via Tassis.
Il Sarzetti era quello di maggior spicco. In realtà fu uno dei continuatori della grande tradizione bergamasca.
Allievo del Gotti, da lui aveva ereditato la grande baracca con la quale il suo maestro aveva vinto il primo premio a un concorso bandito a Milano.
Negli ultimi anni non si muoveva più da Città Alta e dava spettacolo in uno stanzone, prima in via Salvecchio, poi in via Tassis.
In passato aveva girato in lungo e in largo per la provincia, usando il motocarro di un amico, con il quale il Sarzetti si spostava insieme all’amico e fido aiutante, Vittorio Moioli, detto Bachetì, uno degli ultimi burattinai che ancora sopravvivono.
Ma nonostante il Sarzetti con la sua abilità richiamasse ancora il pubblico, la vita per i burattinai era ormai dura, gli incassi erano scarsi e spesso bisognava accontentarsi anche di pagamenti in natura.
Quando si recavano nella “bassa” bergamasca nel periodo del raccolto, ai tempi in cui le cascine erano affollate di braccianti, capitava che il fattore di qualche azienda agricola offrisse loro, in cambio di uno spettacolo tenuto sulle aie dei grandi cascinali, un piatto di minestra, un fiasco di vino, una filza di cotechini, un po’ di pancetta o di salame. E di giorno capitava di restar sul posto a dare una mano a lavorare nei campi.
Sarzetti scomparve nel 1970 dopo aver invano lottato, oltre che contro la concorrenza della televisione, con la tassa che la Siae richiedeva ogni volta che dava spettacolo.
Non capiva perchè dovesse sborsare soldi in questo modo: per lui era una di quelle gabelle che Gioppino spazzava via a suon di bastonate.
Di queste tradizioni, dell’incredibile, vario, fantasioso mondo della baracca e dei burattini, è rimasto ben poco. In parecchie province non c’è più un solo burattinaio. Nessuno si è mai curato li raccoglierne l’eredità, testimonianze o testi.
Qua e là sopravvivono vecchi burattinai, ma i loro spettacoli vengono considerati alla stregua di passatempo per bambini.
Nella Bergamasca, Pino Capellini, vera e proprie miniera d’informazioni, immagini e aneddoti, ricorda Bigio Milesi e Domenico Rinaldi che, pur avanti negli anni, davano ancora spettacoli.
Un terzo è Vittorio Moioli, aiutante del Sarzetti che, data l’età, solo in rare occasioni ne continua la tradizione.
C’è poi Giuseppe Fugini, appassionato dilettante di Brembate Sotto, il paese del grande professionista Benedetto Ravasio, noto a livello nazionale, purtroppo scompaso.
BENEDETTO RAVASIO
Ravasio, originario di Bonate Sotto, si colloca nella scia dei burattinai di un tempo, collocandosi tra i più illustri operanti nel secolo scorso, come Sarzetti, Nespoli, Manzoni, Cristini e Luigi Milesi detto il “Bigio”.
Allievo del Nespoli, iniziò a dare i primi spettacoli negli oratori, ma la sua vera attività ebbe inizio nel Dopoguerra.
Di giorno al lavoro, di sera in giro con la baracca nelle trattorie, all’aperto, negli oratori. Quando decise di dedicarsi totalmente a questo spettacolo venne affiancato validamente dalla moglie, Pina, che a lungo lo aiutò nella baracca. Lei tagliava e cuciva i vestiti e insieme a lui montava gli spettacoli e interpretava i ruoli femminili.
Davvero un gran personaggio, “con quella sua aria bohèmienne, la sua zazzera d’artista, i baffoni grigi, la sua cravatta Lavellière, la sua fecondia, la sua vivacità indomita, la sua simpatia contagiosa”.
I suoi itinerari lo portarono anche fuori provincia, seguendo le orme del Nespoli, soprattutto a Monza dove restò a lungo tra il 1952 e il 1953.
Poi arrivò la televisione e il suo gran guasto. Per quasi due anni l’attività di Benedetto subì una battuta d’arresto: impossibile allestire uno spettacolo per trovare spettatori.
La ripresa fu lenta, ma sicura. Si fece un nome a Milano, percorse a lungo il Comasco, andò a recitare in Svizzera. Il centro dei suoi interessi restò però Milano, dove per sette anni di seguito tenne rappresentazioni al Circolo dei Piccoli presso il negozio “Motta” in Piazza del Duomo.
Nel 1972 approdò alla televisione: fu la sua rivincita dopo quei due anni in cui lo schermo televisivo aveva fatto morire lo spettacolo dei burattini.
Ravasio fu quasi unico nel genere: attore istintivo e geniale, dotato di una bellissima voce, fu abile anche nell’uso di scalpelli e pennello, scolpendo e decorando da sé le teste dei burattini e dipingendo gli scenari. Si occupava della musica (suonava il mandolino ed il violino) e scriveva i copioni delle sue rappresentazioni.
Artista sensibile e in sintonia con il pubblico, ne intuiva i gusti modificando le tragedie e i drammi del repertorio tradizionale lasciando sempre più spazio alle commedie e alle fiabe, più consone ai nuovi canoni della comunicazione.
Rivolto perlopiù a bambini e alle loro famiglie, un po’ come fece Goldoni ripulì la tradizionale parlata triviale di Gioppino, sgrossandola della parte rozza e pesante ma mantenendo le caratteristiche del personaggio rude e un po’ rozzo ma simpatico.
Pina e Benedetto Ravasio hanno conservato e tramandato ai posteri la tradizione, in un periodo in cui le principali compagnie di burattinai appendevano definitivamente al chiodo le proprie crape de lègn: grazie a loro, quella manciata di burattinai professionisti oggi attivi sul territorio, continuano a preservare l’arte burattinesca consentendo al pubblico di conoscere ed apprezzare una tradizione viva da circa due secoli, che affonda le proprie radici nella cinquecentesca Commedia dell’Arte ed è perciò assolutamente da preservare e valorizzare.
La ventennale esperienza di organizzazione di rassegne teatrali promosse dalla Fondazione Benedetto Ravasio, si qualifica nella rassegna estiva “Borghi e Burattini” inserita nella cornice di Piazza Vecchia e di numerose piazze dei comuni bergamaschi.
A Bonate Sotto, paese natale di Benedetto, la Fondazione indice il premio “Benedetto Ravasio”, rivolto ad una giovane compagnia che meglio si sia distinta tra quelle presenti nel panorama nazionale.
Riferimenti principali
Devo molte notizie ed immagini a due meravigliosi libri di Pino Capellini, dei quali consiglio la lettura per la vastità e la completezza della ricerca e per le ricchissime testimonianze iconografiche:
– Pino Capellini, Baracca e Burattini, Bergamo, Grafica Gutemberg, 1977.
– Pino Capellini, Crape dé lègn, Litostampa Istituto Grafico srl – Bergamo, 2002.
– Pilade Frattini, Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo. UTET, 2003.
– Umberto Zanetti, Bergamo d’una volta, Il Conventino.
Con il trattato di Campoformio, dopo circa tre mesi dal suo stabilimento, la Repubblica Bergamasca (subentrata alla caduta del dominio veneziano su Bergamo) entrava a far parte della Repubblica Cisalpina (promulgata nel luglio del 1797), ponendo fine alla breve esperienza di autogoverno cittadino: Bergamo, in qualità di capoluogo del Dipartimento del Serio, veniva ora a dipendere dal potere centrale milanese assumendo un nuovo ruolo rispetto al passato: da città di confine entrava in diversa relazione con il resto della Lombardia.
Intanto in Europa si stava preparando la prima coalizione contro la Francia. Mentre Napoleone di trovava in Egitto, nella primavera del 1799 scendevano in Lombardia gli Austro-Russi, comandati da Suvarow.
Il Direttorio bergamasco della Cisalpina si scioglieva e i suoi membri emigravano. I cosacchi entravano in Bergamo da Porta Broseta il 24 aprile spargendo terrore nella città. L’evento è ricordato in due dipinti di Marco Gozzi, collocati in una cappella del Santuario di Borgo Santa Caterina.
Ma questo stato di cose durò breve tempo: nel novembre Bonaparte ritornava dall’Egitto a Parigi, veniva eletto primo console; nella primavera del 1800 piombava nuovamente in Italia; sconfiggeva nel giugno gli austriaci a Marengo e il territorio orobico entrava a far parte della seconda Cisalpina (1800-1802). Con la Consulta di Lione del 1802 si emanava una nuova costituzione e nasceva così sotto la Vice-Presidenza di Francesco Melzi d’Eril la Repubblica italiana (1802-1805), che alla proclamazione del maggio 1805 di Napoleone Imperatore dei Francesi, doveva divenire Regno d’Italia (1805-1814) sotto il comando del Vice-Re Beauharnais.
Se con la prima Cisalpina si era affermata una classe dirigente composta da uomini già politicamente attivi nei mesi della repubblica democratica (con Marco Alessandri e Girolamo Adelasio nel Direttorio), con la proclamazione della Repubblica italiana e quindi del Regno d’Italia venne realizzato un apparato statale fortemente centralizzato, che determinò la fine della autonoma organizzazione della municipalità di Bergamo, tanto che nel 1805 l’albero della libertà scomparve dalle piazze cittadine per decreto sovrano.
Il regime chiedeva ora la collaborazione di notabili più moderati e conservatori, scelti fra i proprietari terrieri, la borghesia ricca dei commerci e delle professioni, gli intellettuali, i gradi alti dell’esercito, a cui concedeva cariche di prestigio, onorificenze e titoli nobiliari, col proposito di allargare le basi del consenso e di ridurre la resistenza al nuovo assetto statuale.
In contrasto con l’atteggiamento personale del vescovo Dolfin, che appoggiava la politica francese, il clero continuava ad opporsi esplicitamente al governo, esercitando una forte influenza su una popolazione saldamente ancorata ai principi religiosi.
Tale opposizione si era avviata nel periodo “giacobino” (1797), con le soppressioni di conventi e monasteri e relativo incameramento dei beni (nel 1810-1811 si giunse alla soppressione di tutti gli istituti religiosi), la chiusura del seminario, le requisizioni di argenti, le proibizioni di processioni e di altre manifestazioni esteriori di culto, che avevano cominciato ad offendere il sentimento religioso di gran parte del popolo; ma proseguì anche negli anni successivi, quando Napoleone cercò la riconciliazione con la Chiesa quale mezzo indispensabile per la stabilità politico-sociale, nonostante in nome della difesa della laicità dello stato e della razionalizzazione della vita religiosa e della cura pastorale, Napoleone avesse anche decretato la riduzione del numero delle parrocchie, che a Bergamo scesero da 15 a 7.
A tali provocazioni, il clero locale rispose con la scarsa disponibilità a collaborare e con la diffidenza, ma anche con l’opposizione oltranzista di carattere politico operante attraverso l’attività clandestina delle congregazioni di San Luigi o Mariane.
In quell’epoca contrassegnata, con Bonaparte, da rivolgimenti sociali, politico-amministrativi e militari, nell’arco di pochi anni non solo mutarono le strutture politiche e si ridefinirono le classi dirigenti, ma si crearono anche istituzioni di gestione dell’economia e del “soddisfacimento del bisogno sociale” che ebbero un valore epocale, e non ultima la nascita del Codice di Commercio e delle Camere di Commercio. La prima sede della Camera di Commercio a Bergamo, è la “sala maggiore del Palazzo Civico” (attuale sede della Biblioteca A. Mai), dove già aveva esercitato la Camera dei Mercanti.
Cambiò il corpus legislativo e amministrativo; al Comune vennero assegnati compiti nei campi dell’istruzione, dell’assistenza, del controllo anagrafico, che erano prima di quasi esclusiva competenza di organismi caritatevoli ed ecclesiastici. Vennero completamente riorganizzati gli uffici comunali, introdotta la nuova figura del Segretario generale e l’uso del protocollo nella scrittura degli atti comunali.
Venne aggiornata secondo nuovi e più moderni criteri la fiscalità, e con l’introduzione della registrazione catastale delle proprietà immobiliari, venne imposta una perequazione fiscale più razionale ed omogenea (prima di allora la tassazione era basata sulle denunce dirette dei proprietari) (1).
(1) Ispirato al modello Teresiano, il catasto napoleonico è concepito come strumento di accertamento e perequazione fiscale. Prima di allora la tassazione era basata sulle denunce dirette dei proprietari. Con il catasto, in Provincia di Bergamo, per alcune zone già a partire dalla prima metà del Settecento con il Catasto Teresiano, viene introdotto un criterio razionale di individuazione geometrico-particellare del bene immobile e una meticolosa procedura di determinazione della rendita per il calcolo dell’imposta prediale. Si avviano così le operazioni per la prima catastazione condotta con criteri moderni sul territorio bergamasco, ovvero per tutta quella parte dell’attuale provincia che era sottoposta a Venezia, mentre per i ventiquattro comuni ex milanesi le rilevazioni erano già state fatte al tempo del catasto cosiddetto Teresiano. Nel dipartimento del Serio i lavori iniziano nel 1808 sotto la direzione dell’ingegner Giuseppe Manzini e si concludono nel 1813. In tale occasione viene composta la prima mappa di Bergamo in scala 1:2000; il documento, fonte di straordinaria importanza per la conoscenza del tessuto urbano, è conservato all’Archivio di Stato di Milano (una Pianta di Bergamo dell’ingegner Giuseppe Manzini – Acquaforte – è conservata presso la Biblioteca civica A. Mai).
Si procedette alla realizzazione di un nuovo ordinamento territoriale, strutturato secondo una più ordinata geografia dipartimentale, e in linea con un’ottica tutta urbano-centrica si procedette persino ad una ricognizione urbana ed extraurbana del territorio circostante, con l’evidente finalità di procedere verso la costituzione di un regesto generale dei beni architettonici, archeologici e ambientali di maggiore risonanza popolare.
A tale scopo, il pittore bergamasco Marco Gozzi (1759-1839) ricevette l’incarico, prima dal governo francese e poi da quello austriaco, di fornire annualmente all’amministrazione quadri di paesaggi che rilevassero topograficamente alcuni spazi di vedute e paesaggi del territorio lombardo, e con lui si inaugurò il filone del paesaggio moderno lombardo.
I diversi provvedimenti adottati in materia sociale, assistenziale, religiosa, culturale, scolastica, sanitaria (questi ultimi determinando la costruzione di campisanti fuori dall’abitato) e urbanistica, produssero evidenti effetti sulla struttura della città, che subito dopo il passaggio delle truppe francesi si vide cambiare volto attraverso una serie di opere pubbliche, concepite secondo un ottica di decoro cittadino.
DUE PAROLE SULLA FIERA
Il periodo della dominazione napoleonica segna l’ampliamento delle dimensioni del commercio fieristico, preparando l’economia bergamasca ad entrare nel più vasto mercato lombardo e a trarne presto vantaggi, per confronto concorrenziale con la dinamica presenza industriale milanese.
Tra i provvedimenti per il miglior funzionamento, l’ordine e l’organizzazione generale della fiera, nel 1809 si provvede a spostare le botteghe del ferro e nel 1810 il mercato dei bovini, trasferito dal Lazzaretto alla fiera.
Insieme agli altri, anche i provvedimenti di decoro pubblico contribuiscono a fare della fiera un luogo d’incontro e di cultura di tutta la popolazione bergamasca.
D’altro canto però le guerre aggravano anzitutto il problema dell’insufficiente produzione di frumento e gli eventi europei incidono negativamente anche sullo scarso sviluppo della rete viaria (il commercio di transito che da Venezia alla Svizzera, Germania e Olanda passava per la dogana di Bergamo, era via via scemato anche a causa della mancata manutenzione della strada della Val S. Martino e della Ca’ S. Marco).
LA CITTA’ NEL PERIODO NAPOLEONICO
In seguito alla soppressione di tutti gli istituti religiosi, avviata nel 1797 e portata a termine nel 1810-1811 con relativo incameramento dei beni, nell’ottica della riorganizzazione dei centri di potere i conventi e i monasteri vengono convertiti in caserme, uffici doganali, carceri, case di lavoro, ospedali, ospizi (mentre il previsto nuovo manicomio presso il Convento di Astino non verrà realizzato).
All’architetto viennese Leopoldo Pollack è affidata la risistemazione ad uso di carcere dell’enorme complesso edilizio dell’ex convento di S. Agata, anche se il progetto verrà realizzato solo per piccoli lotti a causa di difficoltà burocratiche e finanziarie.
Il principio della concentrazione delle opere di beneficenza nella Congregazione di carità (1807) comporta l’unificazione nella Casa del Conventino dell’Istituto delle orfane.
Il cosiddetto bando della mendicità (era fatto divieto ai mendicanti di questuare per le strade) determina l’istituzione dell’Ospedale della Maddalena per incurabili ed inabili al lavoro.
Il convento dei francescani di S. Maria delle Grazie viene trasformato nel 1811 in Albergo per i poveri (casa di ricovero delle Grazie), fuori delle Muraine.
La legislazione scolastica, che prevede tra l’altro l’apertura di scuole pubbliche presso ogni sede parrocchiale (1801), porta con la riforma del nuovo liceo dipartimentale all’acquisto dell’ex convento di Rosate (1803) e alla fondazione dell’Istituto musicale (1805).
Sull’onda rivoluzionaria che diffondeva certo aggiornamento ad una modernità con opere utilmente pubbliche, entro il primo decennio dell’Ottocento si eressero una serie di edifici, che rientravano in quel processo di espansione delle infrastrutture e dei servizi che è proprio della politica urbanistica napoleonica.
Si completava così il maggior teatro della città in piano, il teatro Riccardi, ricostruito da Bortolo Riccardi dopo un terribile incendio e riaperto al pubblico nel 1799.
Nel 1797, mentre cadeva la repubblica di Venezia era in corso di costruzione del grande Palazzo Grumelli-Pedrocca (lungo l’attuale via S. Salvatore) su progetto di L. Pollack: un estremo aggiornamento stilistico in una Bergamo alta che aveva ormai perso la funzione di centro cittadino e dove – ironia della sorte – i nobili che in gran parte la occupavano si riconoscevano nelle colte intuizioni linguistiche dell’architetto viennese.
Ed è proprio alla presenza dell’aristocrazia che si deve il più importante intervento architettonico realizzato in Bergamo alta nei quindici anni della presenza napoleonica, quando, nel 1803, una società di nobili appositamente formatasi, commissiona al Pollack il progetto di un teatro (teatro della Società o dei Nobili, oggi noto come Teatro Sociale) che sostituisca la poco dignitosa sistemazione provvisoria (dal 1797) di un teatro nel Palazzo della Ragione e faccia concorrenza all’unico vero teatro della città (esistente dal 1770 davanti alla fiera).
L’area prescelta, alle spalle dell’ex Palazzo del Podestà e affacciata sulla via principale (attuale via B. Colleoni), è significativa della volontà di rilanciare la “centralità” (se non altro mondana) di Bergamo alta; e in effetti, con la restaurazione austriaca sul Lombardo-Veneto Bergamo alta verrà ad essere interessata da una serie di interventi che la riproporranno, se non come unico polo della centralità urbana, come uno dei luoghi di più alto interesse della vita cittadina, il primo dei quali, nel 1818, sarà la sistemazione a sede dell’“Ateneo di Scienze, Lettere e Arti”, laddove il portico, costruito nel 1759 sul fontanone visconteo (a est di S. Maria Maggiore), sembra voler indicare nelle sedi istituzionali della cultura uno degli strumenti per la rivitalizzazione della città alta: una tendenza che persisterà nel successivo periodo austriaco (2).
(2) A questi interventi seguirà infatti l’’apertura del Conservatorio musicale, la sistemazione a biblioteca del Palazzo della Ragione, la costruzione della grande sede del liceo-ginnasio sul sito dell’appositamente demolito convento di S. Maria di Rosate, oltre che la nuova sede del Seminario vescovile e gli interventi volti a restituire il circuito delle mura veneziane all’uso civile.
Ai margini della città antica, nello storico borgo San Tomaso, l’Accademia, voluta dal conte Giacomo Carrara, assume più nobile forma su disegno di Simone Elia, concludendosi nel 1810.
Da leggere invece nell’ottica nella celebrazione del potere sono i progetti che si susseguono per la trasformazione dell’Obelisco di Prato, che viene dedicato a Napoleone…
…nonché i diversi monumenti di architettura effimera che nel periodo vengono eretti in città e l’abbellimento di porta Osio, all’incrocio tra via Moroni e via Palma il Vecchio, che ora rappresenta la nuova direttrice principale verso Milano.
Si fa progettare dall’architetto G. Quarenghi un disegno per costruire fuori Porta Osio un arco di trionfo da erigere per l’arrivo imminente a Bergamo di Napoleone Bonaparte. Il progetto non fu mai realizzato.
Si provvede all’edificazione della strada di Circonvallazione fuori delle Muraine.
Con la caduta di Venezia e la conquista napoleonica, perduto il ruolo di città di frontiera Bergamo vede ulteriormente indebolito il ruolo strategico-militare della cinta murata cinquecentesca; venute meno tutte le preoccupazioni di carattere difensivo, la poderosa macchina bellica abbandona la funzione di struttura militare e a poco a poco prende a trasformarsi in un privilegiato luogo di passeggio, affacciato sulla città e la pianura.
Nelle vedute settecentesche come quella di Fossati, riprese dal Fortino presso la chiesa di S. Maria del Giglio, cogliamo la perdita ormai imminente della funzione militare delle Mura: benché ancora dotate di un forte risalto protettivo, le vedute ci restituiscono un’atmosfera serena, con figure che passeggiano e cavalieri.
Sulla scia di una tendenza ormai in atto, nel 1781 il podestà Alvise Contarini propone di trasformare in passeggiata le Mura da S. Giacomo a S. Agostino, tratto che doveva essere molto frequentato se nel 1795 si doveva già provvedere al restauro dei “divisati deliziosi passeggi e giardini pubblici”, e all’abbassamento del tratto di vecchie mura pericolanti fuori Porta S. Giacomo, lungo la strada che porta a Borgo S. Leonardo (3).
(3) Monica Resmini, Le Mura, cit. in bibliografia.
Scompaiono i cannoni, vengono tolte le garitte e demoliti i terrapieni. I ponti lignei di accesso alle porte delle Mura vengono sostituiti da ponti in muratura, e le porte definitivamente aperte.
Le idee illuministiche di decoro urbano, legate a uno sfruttamento più razionale degli spazi, portano con sé nuovi canoni estetici che impongono l’ampio utilizzo del viale alberato.
Lungo la cinta bastionata, il primo ad essere piantumato, a ippocastani e platani, è il tratto tra Porta S. Agostino e Porta S. Giacomo; resi più accessibili e “alla moda”, i baluardi cominciano ad animarsi di cittadini a passeggio.
Dopo la piantumazione di questo primo tratto, viene sistemata a verde l’area nei pressi della Porta di S. Alessandro. Il modello del viale alberato sperimentato sulle Mura verrà adottato anche nei nuovi rettifili realizzati in città.
Acquisiti da parte dell’amministrazione comunale i terreni degli spalti, si provvederà a piantumare il tratto da Porta S. Giacomo a Porta S. Alessandro.
Verranno effettuati degli imponenti interventi neoclassici, in linea con la tendenza che per tutto il Settecento vedrà l’apertura, nella città sul colle, di cantieri privati per la trasformazione o l’edificazione di palazzi signorili.
Con il tempo, anche il colle di S. Vigilio, posto al culmine della città, si ricoprirà di una folta cortina alberata e di una serie di ville di delizia, sorte per godere dell’invidiabile posizione panoramica.
Nelle aree poste ai piedi delle Mura, orti e vigneti si riappropriano dei pendii collinari, assediandoli con le loro volute e tappezzandoli di calde policrome: svanito il timore che eventuali nemici possano mimetizzarsi nella macchia e avvicinarsi senza essere visti, la severa e fredda cinta di pietra si trasforma in un bucolico giardino pensile.
La Pianta della città e del territorio di Bergamo, realizzata da Stefano Scolari nel 1680, mostra la doppia cortina presente nella città: le mura venete, che circondano l’abitato sul colle, e la barriera daziaria delle Muraine, che dalle Mura scende a contenere i borghi come abbracciandoli.
Quasi due secoli dopo, le mappe ad opera dell’ingegner Manzini, realizzate a cinquant’anni di distanza l’una dall’altra (1816 e 1863), rifletteranno i mutamenti avvenuti per le infrastrutture e l’estensione dell’edificato nella parte centrale dell’Ottocento, mutamenti che hanno seguito i vincoli imposti dalle cinte murarie ma hanno anche sottolineato la necessità e la possibilità di un loro superamento.
L’EVOLUZIONE DEI CONFINI DELLA CITTA’ IN UN ARTICOLO
Nonostante la vicenda territoriale del Comune di Bergamo suggerisca l’immagine di un nucleo che si allarga o si ritrae senza spostare il suo centro né il suo asse, soprattutto negli ultimi due secoli la storia dei confini del Comune di Bergamo è abbastanza tormentata.
“Il tramonto del XIV secolo coglieva Bergamo nel pieno della signoria viscontea, dopo aver sostanzialmente esaurito un’esperienza municipale durata oltre due secoli.
Negli statuti cittadini – che ancora si emanavano nonostante le mutate condizioni politiche – le comunità di Colognola, Daste, Dalcio, Palazzo, Grumello e Calvi erano invece riportate come Comuni autonomi.
Anche la descrizione confinaria del 1392 escludeva la maggior parte di queste entità – dai limiti non sempre ben precisati – mentre comprendeva i territori di Torre Boldone e di Rosciano, ora frazione di Ponteranica. Colognola e le altre comunità citate, insieme con Lallio e Curnasco, sarebbero comunque state presto annesse al territorio di Bergamo, che sotto il dominio veneziano non subì cambiamenti di rilievo.
Le «grandi manovre» iniziarono nel 1797 quando Valtesse, Redona, Torre Boldone, Colognola, Grumello del Piano, Curnasco e Lallio si costituirono in Comuni autonomi.
Il decreto del 1805, che favoriva – ma sarebbe meglio dire imponeva – l’accorpamento dei piccoli municipi, avrebbe ispirato però una decisa inversione di tendenza.
Fu infatti il periodo napoleonico a segnare, per pochi anni soltanto, la nascita di una «grande Bergamo» che aveva accorpato ben 28 comuni della cintura (compresi Ponteranica, Seriate e Stezzano) e vedeva la circoscrizione cittadina confinare direttamente con Nembro, Zanica e Zogno.
Si era creato un maxi distretto amministrativo- dove il Comune coincideva con il cantone bergamasco – che era anche il simbolo del ruolo preminente affidato al capoluogo.
I provvedimenti legislativi seguiti alla Restaurazione si preoccuparono di restituire a tutti i Comuni della cintura la loro autonomia.
Intorno al Comune cittadino, ora confinato territorialmente al centro città, si costituiva in municipio il Circondario dei Corpi Santi, corrispondente ai Comuni censuari di Valle d’Astino, Boccaleone e Castagneta.
La nuova entità amministrativa – che riesumava una partizione territoriale del periodo veneziano – ebbe però vita brevissima perché nel 1818 fu di nuovo incorporata alla città.
L’inizio del ’900 vide il riproporsi dei tentativi di aggregazione dei Comuni finitimi. Nel 1918 il Municipio di Bergamo deliberò la richiesta di annettere a sé i territori di Valtesse, Redona, Colognola, Grumello del Piano e in parte di Ponteranica, incontrando l’ovvia opposizione dei Comuni interessati.
Non se ne parlò più fino al 1927, quando la commissione reale incaricata della riorganizzazione municipale diede parere favorevole a tutte le richieste d’annessione, eccezion fatta per quella del Comune di Seriate.
Nemmeno il dopoguerra vi operò modifiche importanti, eccezion fatta per una permuta del 1954 con Orio al Serio, necessaria alla ricostruzione del cimitero distrutto per far posto al campo di aviazione, e per una rettifica di confine con Ponteranica nel 1969.
L’ultima variazione in ordine di tempo risale al 1983, con l’annessione della borgata di Nuova Curnasco e di alcune aree appartenenti a Treviolo. Da quel momento Bergamo raggiunse l’attuale estensione di 3960 ettari” (4).
(4) Prove tecniche di “Grande Bergamo” – Paolo Oscar. L’Eco di Bergamo, 8 ottobre 2000.
L’avvento di una Repubblica di ispirazione giacobina ha una preparazione negli anni che la precedono; la posizione strategica del territorio bergamasco, crocevia tra l’Alta Italia, la Svizzera e l’Austria, favoriva il passaggio di “stampe massoniche eterodosse ed antiautoritarie” che, attraverso le valli, si insinuavano nello Stato Veneto. Agitazioni tra il popolo cominciavano a registrarsi a Nese e alla Ranica fin dal 1793; l’anno successivo, c’è una ribellione a Sarnico contro l’operato delle guardie daziarie.
La penetrazione delle nuove massime rivoluzionarie provenienti dalla Francia si accompagnava a rilevanti problemi in campo economico e fiscale.
Ma saranno soprattutto gli sviluppi della guerra che i Francesi stanno conducendo contro gli Austriaci a coinvolgere Venezia, accusata di appoggiare indirettamente l’Austria permettendo il passaggio delle truppe austriache nel suo territorio.
Bergamo, la città più lontana e più esposta della Repubblica Veneta, era il punto in cui l’esercito francese poteva inserirsi sulla strada per Venezia.
Napoleone stava concludendo la sua prima campagna d’Italia (1796-1797) che terminerà con la proclamazione della Repubblica Cispadana (Bologna, Ferrara, Modena, Reggio E.) del 29 giugno 1797.
Gli eventi vennero annotati dal campanaro del Campanone, Michele Bigoni, morto in tarda età, nel 1871 (sei quaderni in totale, oggi custoditi nella Biblioteca Civica “Angelo Mai”) e illustrati dall’amico-pittore Vincenzo Bonomini (1757- 1839), lasciandoci una preziosa testimonianza degli avvenimenti convulsi che accompagnano e seguono la proclamazione della Repubblica Bergamasca, travolgendo gli antichi equilibri: dalla Serenissima ai “giacobini”, dagli Austro‑russi alla grandeur napoleonica, fino al lungo sonno austriaco. Vista dal Campanone, la vita della città è un andirivieni quasi impazzito di nobili e funzionari, muratori e facchini, musicisti e musicanti, canonici e vescovi, spesso in scene notturne, con le fiaccole dei servi che illuminano le arcate del Palazzo della Ragione e gli androni nobiliari, disegnando, negli ultimi periodi, ombre improvvise e inquietanti. Mentre scrive, con la sua scrittura incerta e faticosa, Bigoni non resiste alla tentazione di descrivere e di giudicare, a volte con acidità, piú spesso con bonarietà popolare, le vicende del suo tempo.
A Bergamo i Francesi arrivarono alla fine del ‘96; il 25 Dicembre occuparono i locali della Fiera e il Castello di S. Vigilio, punto militarmente strategico e la guarnigione veneta venne ritirata dalla Rocca, in attesa di occupare ufficialmente la città.
All’assedio, il Capitano e il Vicepodestà di Bergamo Alessandro Ottolini non furono in grado di opporre una risposta militare ai Francesi: vi fu un periodo di estenuante attesa tra le parti. L’Ottolini fece chiudere il Teatro della Cittadella, per impedire l’ingresso dei soldati Francesi nel suo palazzo come spettatori, e spostò la stagione teatrale invernale al teatro Riccardi. Cinque giorni dopo, un incendio distrusse completamente il teatro. “Per non restare senza teatrale spettacolo nel Carnevale si combinò di aprire nel giorno tredici di gennaio il Teatro Riccardi posto in Prato, ora Campo di Marte; ma nel giorno tredici del Teatro Riccardi non erano che nude muraglie”, annota nelle sule Memorie storiche lo Zuccala (1).
Responsabile dell’incendio, considerato doloso, fu immediatamente ritenuto l’Ottolini. Ma gli avvenimenti incalzavano.
Il 12 marzo i rivoluzionari (esponenti della nobiltà locale, intellettuali e uomini dei ceti medi) imposero ai deputati del Consiglio minore di sottoscrivere il voto per la libertà e l’annessione alla repubblica Cispadana (2); nella notte tra il 12 e il 13 in una sala di Palazzo Roncalli venne ufficialmente proclamata la Repubblica Bergamasca (3) e nominata la nuova Municipalità; la mattina seguente il podestà Ottolini, ultimo rappresentante veneto a Bergamo, venne allontanato dalla città senza spargimento di sangue. Anche il vescovo Dolfin sancì con il suo voto la legittimità del nuovo governo, divenendo poi, con il clero cittadino, agguerrito sostenitore della Repubblica.
Nell’arco di poche ore, si erano consumati in modo irreversibile tre secoli e mezzo di storia che avevano legato Bergamo a Venezia: vennero cambiate leggi e strutture amministrative e fiscali, sconvolti gli ordinamenti politici, le categorie sociali, le consuetudini quotidiane e culturali.
Bergamo era la prima delle città venete di terraferma a ribellarsi a Venezia e la prima a costituirsi in repubblica autonoma.
Per i borghi e per le vie della città un asino trasportò le parrucche requisite ai nobili filoveneziani e alla sera vennero bruciate insieme con le bandiere veneziane.
Vennero atterrati i simboli del passato regime: statue, iscrizioni, medaglie di Guglie, etc. Il leone alato di S. Marco fu scalpellato dalle porte e da sopra il balcone del Palazzo comunale, i simboli araldici tolti dagli antichi palazzi nobiliari. Il 16 marzo si trovarono spezzate e travolte le statue dei Rettori veneti innalzate sull’area di Prato.
Si salvò la piramide dirimpetto a Santa Marta, cui venne posto in capo il berretto frigio.
Il 17 marzo venne innalzato in Piazza Vecchia il primo albero della libertà (4), un’aristocratico pino prelevato dai rivoltosi dal giardino dei conti Benaglio in San Matteo. Venne innalzato con il popolo in festa, al suono del Campanone e con qualche dispensa pubblica di pane, vino e denaro. Simbolo stesso della Rivoluzione, il palo fu dipinto di bianco, rosso e verde e adornato con nastri tricolori e la gente si riunì attorno ad esso per festeggiare la fine del passato.
Narrano le cronache del tempo che le danze furono aperte dalla caffetteria Sanà a cui subito fece seguito la cittadina ex Marchesa Terzi col macellaio Alebardi e col crescente ritmo di coreografico tripudio durò la festa fino alle ore tarde della notte alla luce delle candele e delle torce.
Alberi della libertà furono eretti in molte piazze dei paesi e della provincia. Ovunque vennero abbattuti stemmi, statue e simboli veneziani. I bergamaschi, attraverso la festa, esprimevano la loro gioia per un lungo e desiderato cambiamento sociale, la conseguente riforma della struttura politica, il livello di coinvolgimento che le varie classi sociali ebbero nel determinare la ribellione al regime veneziano, durato a Bergamo quasi 400 anni.
L’imposizione dei nuovi emblemi risignificarono politicamente la città. In quei giorni, Vincenzo Bonomini fu sistematicamente chiamato a sovrapporre nuovi emblemi politici a quelli da lui stesso dipinti pochi anni prima
Nei mesi successivi alla proclamazione della Repubblica Bergamasca, venne attuata una vera e propria campagna di propaganda rivoluzionaria (feste civiche, pranzi patriottici, catechismi, opuscoli di pedagogia politica, stampe satiriche, queste ultime mezzo di comunicazione di immediata comprensione anche per le masse analfabete), al fine di radicare la nuova realtà e il suo portato ideologico nella popolazione, che soprattutto in provincia si era opposta violentemente all’avvenuto cambiamento di governo.
Dopo la proclamazione delle Repubblica Bergamasca infatti, aumentò l’opposizione delle popolazioni del territorio, soprattutto delle valli, dove il basso clero diffondeva le idee controrivoluzionarie dei nobili filo-veneti.
La città si sentì presto assediata dai valleriani o marcolini, soprattutto attivi nelle valli Brembana e Imagna, la Valle Santa, e nella valle San Martino. Questi non accettavano il cambiamento di governo della città, operato soprattutto da alcuni nobili e da elementi progressisti del clero come il Mascheroni, e favorito, di fatto, dall’attendismo del vescovo mons. Dolfin. Dietro premevano anche gli interessi dell’aristocrazia terriera tradizionale, da sempre favorita dal Governo Veneto nel territorio.
Così, se almeno in città la rivoluzione avvenne senza spargimento di sangue, fuori città i rivoltosi presero a fucilate i “cittadini” che cercavano invano di fermarli e ferirono Gerolamo Adelasio, uno dei protagonisti nelle vicende bergamasche nei decenni successivi.
Da tutte le valli i valleriani, con l’effigie di S. Marco nel cappello e col Crocefisso sul petto, erano scesi minacciosi fino alle porte della città e presso Longuelo, alla confluenza tra le attuali Strada Vecchia e via San Martino della Pigrizia, vi fu uno scontro a fuoco tra repubblicani-cittadini e pro-veneziani valligiani, questi ultimi ridotti alla sottomissione solo dal pesante intervento delle truppe francesi.
I morti furono una decina: tre di loro esposti per un giorno intero, dalla sera del 30 marzo stesso, in piazza della Legna, accanto all’albero della libertà, fra canti, balli e fiaccolate.
La festa per la vittoria fu ricordata in una stampa che esaltava il coraggio del popolo di Bergamo il quale, “assaltato da turba infame accorsa dalle valli….andò ad incontrarla, la vinse, la disperse”.
Il fatto di Longuelo segnò l’inizio del declino della resistenza delle valli e del territorio contro la Repubblica Giacobina della città; i valdimagnini, Lovere, la Val Cavallina, soprattutto la Val Seriana, con Clusone e Gandino, cedettero progressivamente ai Francesi. Intanto venivano liberati, in aprile, i contadini fatti prigionieri a Longuelo. La dominazione veneta era finita.
La controrivoluzione, sedata dalle truppe francesi, è emblematica del dissisio esistente tra città e campagna verso la Repubblica Bergamasca, determinato dall’irreligiosità della rivoluzione, ma anche da profonde divergenze di cultura, tradizioni, interessi, sentimenti.
Chi era la nuova classe dirigente? Esponenti della borghesia, sostenuta da mercanti sempre più dediti al contrabbando e oppressi dall’aumento delle tasse imposte da Venezia su molti prodotti (lana, seta, pane, vino); una parte della nobiltà, appartenente a famiglie che avevano acquisito il titolo tra la fine del 600 ed il 700, interessata allo sviluppo degli interessi economici legati al settore della seta; infine artigiani.
I religiosi vennero costretti a donare alla Municipalità metà degli argenti presenti nelle chiese, nei monasteri e negli oratori. Vennero quasi totalmente soppressi i monasteri e i conventi (in città ricordiamo S. Marta, S. Benedetto, Matris Domini, S. Leonardo..); i beni di S. Paolo d’Argon e Astino passarono nel 1797 all’Ospedale, quelli di Pontida finirono l’anno successivo ai privati. Seguì la cancellazione delle confraternite e delle processioni e l’introduzione del divorzio, atti che contribuirono a rendere insanabile il conflitto tra le popolazioni e l’autorità politica (e che si accrebbe durante il periodo napoleonico con la coscrizione obbligatoria).
In questo momento di grande cambiamento nacquero i ‘circoli culturali’, formati da esponenti della borghesia e della nobiltà ‘illuminata’, che si ritrovavano nei caffè a discutere i valori rivoluzionari; contemporaneamente, venne pubblicato (1797) il primo giornale locale, “Il patriota bergamasco”, seguito da “Il giornale degli Uomini Liberi” e, l’anno seguente, da “Il Foglio Periodico del Dipartimento del Serio”.
Attraverso i confini territoriali (Passo San Marco) ci fu una vera e propria circolazione di nuove idee (ad es. la vendita dei libri provenienti dalla Francia operata dagli editori bergamaschi massoni come l’Ambrosioni e l’Antoine), particolarmente sensibili al tema della progressiva alfabetizzazione culturale delle masse, pubblicando a tale scopo l’almanacco popolare (brevi articoli su vari argomenti), che ebbe un ruolo di primo piano nell’educazione delle classi meno agiate.
In pieno periodo repubblicano il Piano generale di pubblica istruzione (di cui era componente anche Lorenzo Mascheroni) produsse una riforma anche nella scuola, sostenendo che l’istruzione pubblica fosse la base di tutte le democrazie.
Da qui l’esigenza di istituire, con le lezioni caritatevoli, scuole elementari serali e festive per i ceti più bassi (sostenute dagli istituti religiosi e dalla Società Industriale Bergamasca per quanto riguardava la parte laica).
Questo complesso di elementi politici, sociali e culturali, impensabili solo fino a pochi anni prima, permise al musicista bergamasco Gaetano Donizetti, figlio di semplici tessitori, di essere ammesso alle lezioni di musica tenute da J. S. Mayer, maestro di cappella.
Con la Repubblica venne proclamato il libero esercizio delle arti e dei mestieri, si abolirono alcuni dazi e si stabilirono nuove imposte per la lavorazione della seta, sulla quale era basata l’intera economia locale.
Con la promulgazione nel luglio del 1797 della costituzione della prima Repubblica Cisalpina terminava l’esperienza di autogoverno cittadino (Repubblica Bergamasca) e Bergamo, in qualità di capoluogo del Dipartimento del Serio, veniva a dipendere dal potere centrale milanese. Con la Rivoluzione Bergamasca si erano poste comunque le premesse, sia sul piano ideologico sia su quello politico-istituzionale, delle successive lotte per l’indipendenza e per l’unificazione nazionale.
Pochi anni dopo, nel periodo napoleonico, le gravi congiunture politiche ed economiche, il continuo regime di guerra, il peso della tassazione e l’introduzione nel 1802 della coscrizione (leva) obbligatoria, fecero precipitare il conflitto tra le popolazioni e l’autorità politica, costringendo tanti uomini alla diserzione, alla clandestinità e al Brigantaggio: e non si può parlare di briganti senza pensare all’inafferrabile Vincenzo Pacchiana, detto Pacì Paciana.
Note
(1) G. Battista Locatelli Zuccala, Memorie storiche di Bergamo dal 1796 al 1813.
(2) Il 12 marzo 1797, settecento persone, tra nobili e non, firmarono la loro adesione per la cacciata del conte Ottolini. M. Gelfi, Tra la fine dell’età moderna e l’inizio dell’età contemporanea: la Repubblica bergamasca, in “Atti dell’Ateneo di scienze, lettere e arti di Bergamo”, 1996-1997, vol. LX.
(3) La Rivoluzione bergamasca si ispirava ai principi della Rivoluzione francese. La costituzione (approvata il 24 marzo), ossia la legge fondamentale dello Stato, scritta dai bergamaschi giacobini, si rifaceva ai valori espressi dalla Dichiarazione dei Diritti Universali (1789), con cui i francesi riconoscevano la libertà di parola e di religione e l’uguaglianza degli uomini di fronte alla legge, invitando tutti gli uomini ad una fraternità universale. Dopo aver esautorato l’ultimo rettore veneto Alessandro Ottolini, un gruppo di giacobini della città di Bergamo e proclamata la Repubblica Bergamasca il 13 marzo 1797, “istituisce un governo provvisorio, composto da una municipalità da 24 membri. I primi atti della nuova amministrazione riguardano la modifica dell’assetto amministrativo ed economico dell’ex provincia veneta, la ripartizione del territorio in 14 cantoni, l’abolizione dei privilegi giurisdizionali e fiscali, la costituzione di comitati per alcune materie (polizia, finanza, sicurezza, sanità, vettovaglie, commercio, milizie). Nei mesi successivi viene reclutata una guardia repubblicana e si estende il controllo politico al territorio orobico” (Archivio di Stato di Bergamo – DIPARTIMENTO DEL SERIO 1797-1814 Introduzione generale al fondo archivistico).
(4) Usato come simbolo di libertà durante la Rivoluzione francese, simbolo pagano adottato come segno di rinascita, di vita nuova e di felicità, l’albero della libertà era un lungo palo ricavato da un grande albero; alla sua sommità veniva posto un berretto frigio (a cono floscio) con la punta ricadente in avanti, di origine anatolica (Asia Minore) utilizzato dagli schiavi liberati dell’antica Roma (gli antichi Frigi).
Bruno Brolis, Tullio Pizzigalli (coordinatori), Corso di aggiornamento anno 2000. La Repubblica bergamasca 1797.
Centro Studi Valle Imagna – Antonio Martinelli, Bergamo. Itinerari nella Storia della città e del suo territorio dalle origini al ventesimo secolo. Bergamo, Grafica Monti, aprile 2014.