Scorci di vita bergamasca ai tempi delle Muraine: un viaggio fra le porte daziarie all’alba del Novecento

Quando nel 1428 la Serenissima s’impossessò di Bergamo, i borghi che si erano allungati fino al piano erano già protetti da una cinta muraria, che  Venezia provvide a rafforzare e completare tra il 1430 e il 1435.

Tommaso Frizzoni, Bergamo vista da occidente, 1795. In primo piano, la muraglia che cingeva i Borghi, lambita esternamente dalla Roggia Serio (in origine Fossatum Communis Pergami), oggi in gran parte interrata

Erano le Muraine, una cortina fortificata con merlatura guelfa, scandita da pusterle e portelli dotati di ponti levatoi, torresini e fossato esterno, forse troppo fragile per garantire una sicura difesa ma certamente più che sufficiente per definire una cinta daziaria attraverso la quale Venezia impose un pesante balzello: su ogni merce, sui servizi, sui titoli di proprietà e sulle attività esercitate dentro quel fragile recinto.

Caselli daziari ovunque

Anche in tutto il territorio il Senato Veneto aveva disposto un sistema di riscossione collocando caselli presso tutti i ponti: sui fiumi Brembo, Serio, Oglio, Cherio e loro derivazioni, dove ogni persona che veniva nel distretto bergamasco doveva pagare in base alla provenienza, se a piedi o a cavallo, naturalmente eccetto coloro che avevano il lasciapassare del Papa, dei Cardinali, delI’Imperatore, dei Duchi, dei Baroni e di altri Principi, di quanti erano “privilegiati dal Serenissimo Dominio” e di chi portava “Biava sopra il mercato”.

Casa Bottagisi a Redivo (Valle Brembana): l’edificio è stato a lungo ritenuto sede della Dogana Veneta. C’era il “dacio della semination del Guado” (pianta erbacea), il “dacio della Gratarola” (compravendita di animali), il “dacio del Pizzamantello” (legumi), il “dacio de’ banditi” (banditi dal territorio)… (Ph A. Fumagalli)

Le colonne di Prato in città

In città, nel 1620, per tassare i partecipanti all’annuale “Fiera di S. Alessandro” i limiti di franchigia erano stati fissati ponendo due colonne marmoree (le “colonne di Prato”) all’imbocco della strada per S. Leonardo, dove rimasero fino alla notte fra il 3 e il 4 giugno del 1882, quando, ormai vecchie e malridotte, vennero rimosse alla chetichella.

La spesa per il loro restauro era stata preventivata in trecento lire del tempo, ma i reggitori della cosa pubblica, per insensibilità o per spilorceria, non ritennero che fosse il caso di aprire la borsa e in gran segreto le cedettero gratuitamente a un capomastro, il quale le smontò e se le portò via nottetempo, essendo stato consigliato di non procedere alla demolizione di giorno per non incontrare le resistenze dei cittadini.

All’indomani del misfatto, l’Eco di Bergamo commentava: “Quel buttarle giù di notte e portarle via alla chetichella ha del misterioso. Si direbbe che chi le abbatteva avesse coscienza di commettere una brutta azione e cercasse il velo delle tenebre. Perché una guerra così esiziale alle innocentissime colonne di Prato?”.

Il campo di Marte nel 1880 in una foto di Andrea Taramelli. Sullo sfondo, all’imbocco di via XX Settembre (di fronte all’attuale via Borfuro), le due colonne di “Prato”, che funsero da limite daziario fino al 1882, indicando il limite della zona franca della Fiera 

Un bel mattino, durante il carnevale del 1898 le due colonne ricomparvero al loro posto. I primi cittadini accorsi attoniti ed increduli non tardarono ad avvedersi che le colonne erano di cartapesta. Alla beffa corrispose il giorno stesso la diffusione di un foglietto stampato, recante una poesia dialettale anonima, scritta per la circostanza da Luigi Citerio, il quale ammoniva le autorità comunali al rispetto delle antichità:

Töt chèl ch’è  vècc me rispetàl!  e ‘ndo ‘l se tròa l’è méi lassàl. Oe del Cümü, per carità la ròba nosta lasséla stà!…” 

Le colonne di “Prato” all’imbocco dell’omonima contrada (oggi via XX Settembre). Costituivano un punto di riferimento per i cittadini ma”Furono demolite con grettezza inqualificabile, come scrisse Davide Cugini (Racc. Gaffuri)

Arrivano i Francesi: dalle porte ai cancelli, ma tutto è ancora tassato

Fatto sta che alla fine del Settecento arrivarono i Francesi e nel frattempo la Città Bassa era cresciuta. Per facilitare il transito dei carri nei punti di maggior passaggio, le anguste porte fortificate medioevali vennero sostituite da cancelli, sempre affiancati dai caselli del dazio: la vecchia muraglia difensiva era quindi rimasta in piedi come cinta daziaria, che ben conosciamo grazie al generoso bagaglio grafico e fotografico dell’epoca.

La porta daziaria di Santa Caterina e il ponte sul torrente Morla nella tempera del pittore Giuseppe Gaudenzi (serie di angoli e tipici edifici cittadini dipinti verso il 1895-1900)

Bergamo si trascinava con riluttanza nel retaggio degli antichi balzelli, che costringevano chiunque volesse valicare la barriera – dal cittadino comune al benestante – a sborsare denaro per tutto ciò che si portava con sé.

Tra Porta Broseta e Porta Osio (Racc. Gaffuri)

Nessuno poteva superarla senza dover sottostare al controllo dei dazieri, che stazionavano lungo i cancelli proprio laddove un tempo erano state le porte medioevali frugando ovunque: dal carico del carro alla sporta della massaia e con tanti saluti alla ‘privacy’. Pagava il dazio l’operaio per il salamino scovato nel fagotto sul braccio, la massaia per il cesto di verdura, il contadino per il sacco di patate.

Tra via Broseta e via S. Lazzaro (Racc. Gaffuri)

“Gente che con poca creanza e meno riguardi metteva le mani addosso a tutti e a tutte, ficcandole col loro ispido mostaccio nelle ceste, nelle gerle, nei bauli, nei cassetti del landò signorile, come in quelli dei calessi o sotto il sedile dei barocci, dentro le diligenze e sopra i carretti di legna o di vettovaglie”.

Via S. Lazzaro (Racc. Gaffuri)

“Con una verga di ferro sforacchiavano involti di biancheria, sacchi e ceste di ortaggi e balle di fieno o fascine di legna da ardere. Dispute, litigi, ingiurie, parolacce, frizzi, moccoli davano empito drammatico a quest’azione farsesca di fastidiosi controlli”.

Costoro (i Finanzini), riconoscibili per una speciale divisa, alloggiavano in un apposito corpo di guardia a lato delle porte, con il compito – tra l’altro – di chiudere i cancelli la sera (d’estate verso le 21 e d’inverno alle 18) e di riaprirli il mattino seguente dopo le otto.

La porta daziaria di Sant’Antonio verso Borgo Palazzo, nella tempera del pittore G. Gaudenzi

Nei pressi delle porte esistevano diverse locande con stalli, proprio per ospitare gli inevitabili “ritardatari”: curiosando nei vecchi cortili di Borgo Palazzo o appena fuori Borgo San Leonardo, si possono ancora rintracciare gli antichi stalli, con tanto di anelli d’ancoraggio fissati alle pareti per assicurare i cavalli alla cavezza.

Prima metà dell’Ottocento: arrivano gli Austriaci e Bergamo è in odore di modernità

Nel 1837, con notevole lungimiranza e volendo creare un ingresso monumentale e nobile alla città degli affari, gli austriaci avevano aperto la barriera di Porta Nuova, assegnando ai propilei la funzione di caselli del dazio, con indubbio vantaggio economico, viabilistico e di decoro.

Nell’anno successivo si era tracciata la Strada Ferdinandea, la moderna arteria che da Porta Nuova si collegava a Città Alta attraverso la porta di Sant’Agostino: un viale di imponenti proporzioni (venti metri di larghezza più cinque pedonali con alberature di alto fusto), così nominato in onore dell’imperatore Ferdinando I d’Austria in visita a Bergamo nei giorni 18-20 settembre 1838, divenendo viale Vittorio Emanuele dopo l’Unità d’Italia.

La barriera di Porta Nuova.  La ripresa è stata effettuata tra il 1890 e il 1901: è posteriore al 1890 perché sono visibili i binari del tram ed è giunta l’energia elettrica a sostituire i lampioni a gas. Non va oltre il 1901 poiché esistono ancora i cancelli daziari (Raccolta D. Lucchetti)

A questa felice scelta era seguita la costruzione della stazione ferroviaria (1857), in perfetto asse con la Ferdinandea, verso la quale venne prolungato il nuovo viale.

I propilei di Porta Nuova e la chiesa delle Grazie, allo “start” della Strada Ferdinandea

Lungo l’arteria che rappresentava il prorompere della modernità e ormai proiettata nel nuovo secolo, Bergamo aveva così realizzato il cardine fondamentale su cui avrebbe impostato la città futura. Ma, a tale scopo, c’era ancora qualche ostacolo da superare.

Porta Nuova ai tempi del dazio in una ripresa anteriore al 1887 (datazione dedotta dalla presenza dei lampioni a gas e la mancanza dei binari del tram) (Raccolta D. Lucchetti)

Le Muraine sul finire dell’Ottocento: un ostacolo allo sviluppo della città

Dopo l’unità d’Italia, superate le inevitabili difficoltà del passaggio tra l’amministrazione austro-ungarica e quella del nuovo stato, Bergamo stava registrando una notevole crescita economica, con le sedi delle istituzioni pubbliche ormai scivolate dalla città sul colle al piano, al quale i bergamaschi guardavano per il futuro della città.

Città Alta prima della realizzazione della funicolare. L’isolamento del vecchio nucleo sul colle non si è arrestato nemmeno dopo la sua costruzione; le cattive condizioni igienico-sanitarie degli edifici indussero a provvedere attraverso un piano di risanamento, affrontato a più riprese (Racc. Gaffuri)

In quell’ultimo scorcio dell’Ottocento, cresceva vertiginosamente una diffusa voglia di modernità: Bergamo doveva crescere e lo spazio ideale era giù in basso, dove i primi urbanisti cominciavano a studiare strade e nuovi quartieri per mettere ordine tra i borghi.

La porta daziaria di via Cologno, ora G. Quarenghi, nella tempera del pittore G. Gaudenzi

Restavano tuttavia due grosse questioni da risolvere: quella del complesso semi-abbandonato della Fiera, di cui ancora non si sapeva cosa fare (e la felice soluzione arriverà più tardi, utilizzandone lo spazio per il nuovo centro), e quella delle Muraine, una specie di camicia di forza che rinserrava i borghi e ostacolava i commerci.

Gli storici edifici della vecchia Fiera

 

Una fase della demolizione degli edifici dell'antica Fiera - poco dopo la Grande Guerra - per far spazio al nuovo centro di Città Bassa progettato dall'architetto romano Marcello Piacentini. Nel lungo periodo della demolizione, non mancavano mai i curiosi
Una fase della demolizione della Fiera nel 1920 per far spazio al nuovo centro di Città Bassa progettato dall’architetto romano Marcello Piacentini. Nel lungo periodo della demolizione, non mancavano mai i curiosi

Immaginatevi la città stretta entro una cinta che non andava oltre Porta Nuova e che finiva da un lato all’inizio di Borgo Santa Caterina e dall’altro all’incrocio di via Broseta con via Palma il Vecchio. Un perimetro angusto, segnato materialmente da un vecchio muro lungo il quale le aperture dei cancelli erano poco più di una dozzina, costringendo chi la valicava a pagare anche solo per la sporta del pane.

E si capisce come Bergamo, città tipicamente mercantile, si sentisse stretta dentro l’antica cerchia.

Le case della ricca borghesia mercantile sorte tra Otto e Novecento lungo via Torquato Tasso

Lungo il recinto i cancelli sbarravano tutti gli sbocchi verso l’esterno: via Broseta, via Osio, Cologno, S. Bernardino, Porta S. Antonio, Borgo S. Tomaso, via Tre Armi, perfino il lungo e solitario budello del vicolo Lapacano.

Anche Porta Nuova era sbarrata da lunghi e grossolani cancelli, sebbene gli austriaci avessero già fatto demolire l’angusto portello pedonale delle Grazie, facilitando con ciò il transito dei carri e, di conseguenza, gli scambi.

G. Rudelli, il Portello delle Grazie al Convento di S. Maria delle Grazie (demolito nel 1829) con la torretta di sorveglianza e il ponte sulla Roggia Serio, osservati dal Prato di S. Alessandro

Fuori la cerchia delle Muraine i carri con le merci seguivano una sorta di circonvallazione lungo un percorso, consolidatosi col tempo, che ricalcava fedelmente il perimetro dell’antico muro: via Palma il Vecchio – via Previtali – via don Palazzolo – via Tiraboschi – via Camozzi – via Frizzoni – via Cesare Battisti: in fin dei conti seguito ancora oggi.

Ma il transito dei carri verso l’interno della città era perennemente ostacolato dalle anguste strade dei borghi e dall’esiguo numero dei caselli che ostruivano, impacciavano e infastidivano la circolazione, irretivano tutta la città quasi fosse un grande reclusorio di delinquenti pericolosi:

“Chi non li ha visti, quei cancelli, non può farsi un’idea della loro arcigna fisionomia ostile. Anche a esservi abituati, incutevano timore e fastidio” (1).

La porta daziaria di via San Bernardino, nella tempera del pittore G. Gaudenzi

E mentre i tram contribuivano a togliere dall’isolamento le periferie e sul colle di San Vigilio stava per nascere un quartiere-giardino, già si intravedevano i vantaggi edilizi che l’abbattimento delle Muraine avrebbe comportato nella città bassa, dove i nuovi ricchi pregustavano le eleganti villette proposte da un’immobiliare nel quartiere di S. Lucia .

Via al Paradiso, oggi S. Lucia, nel nuovo, omonimo quartiere (inizi Novecento)

C’era una gran fame di spazio, di nuove aree per costruire e per tracciare strade e quasi ci si esaltava per la fine del vecchio.

Il quartiere di S. Lucia con i nuovi villini all’inizio del Novecento

Giù le Muraine!

Fu dunque a furor di popolo che Bergamo decretò l’abbattimento della secolare cerchia di mura attorno ai borghi, sacrificata, quasi simbolicamente, al passaggio tra l’Otto e il Novecento.

Alle voci isolate – “Aboliamo la cinta daziaria. Demoliamo le Muraine. Abbasso il Medioevo!” – nell’ultimo decennio dell’Ottocento era subentrato un vero e proprio coro. I primi a tuonare contro dazio e vecchie mura erano stati i commercianti, estenuati dai continui controlli e dai balzelli, e con voto unanime dell’intera amministrazione allo scoccar del 1900 venne finalmente ABOLITO IL DAZIO per la Città di Bergamo.

Era allora sindaco il conte Gianforte Suardi, che, come deputato votò le indennità parlamentari per non impedire la partecipazione al governo delle classi popolari; e votò pure per il suffragio universale, vantandosene in un pubblico comizio. E se a Bergamo e in Bergamasca la pellagra fu finalmente debellata, fu merito anche suo come presidente per vent’anni della Commissione antipellagrologica. E fu lui, oltrettutto, ad avere la prima idea del nuovo centro di Bergamo (2).

I nostri predecessori salutarono con comprensibile gioia ed entusiasmo l’apertura dei cancelli delle porte, e con essa la riconquistata libertà di movimento dentro e fuori i Borghi. Bergamo poteva finalmente proclamarsi “città aperta” e quasi non sembrò vero ai cittadini di poter superare i propilei di Porta Nuova senza dover sottostare a nessun controllo.

L’abbattimento delle Muraine fu ufficialmente festeggiato nella notte fra il 31 dicembre 1900 e il 1° gennaio 1901, salutando il nuovo secolo con molte iniziative che coinvolsero tutta la città, dove botti di bottiglie stappate non si contavano.

Le cronache raccontano che sul Sentierone, dalle 23 a mezzanotte vi fu un concerto della banda Donizetti e poi un corteo sonoro lungo via XX Settembre fino a Piazza Pontida dove si tenne un concerto della banda San Giuseppe, seguito da un corteo sonoro fino ai vecchi caselli.
In Piazza Vecchia e per le vie di Città Alta vi fu un concerto della banda di Stezzano e dopo l’una, un po’ ovunque l’esibizione della Fanfara Garibaldi. Ma non solo: nei giardini pubblici, a mezzanotte vi furono fuochi d’artificio.

Come fu deciso di abolire la barriera daziaria, sembrò che Bergamo volesse cancellare ogni traccia dell’antico muro che ricordava il medioevo; così i nostri avi, travolti dall’entusiasmo, in quella fatidica notte di Capodanno del 1901 presero a demolire cancelli e portelli.
Per un certo periodo i cancelli rimasero spalancati, poi anch’essi vennero rimossi.

La città che si rinnova: demolizione di vecchie case in via Cologno (Racc. Gaffuri)

 

La città che si rinnova: demolizione di vecchie case in via Cologno (Racc. Gaffuri)

In seguito vennero coperte tutte le rogge che scorrevano davanti alle Muraine: nel 1930 circa, la roggia del fiume Serio, tra la torre del Galgario e la Porta S. Antonio. E le due vie (dentro e fuori le Muraine) formarono una sola carreggiata. Infine nel 1963 fu coperto anche il torrente Morla, da S. Caterina al largo del Galgario.

1916: la Roggia Serio nell’attuale via Frizzoni (allora via Pitentino), alla curva presso la torre del Galgario, lungo la Strada di Circonvallazione. Proprio a quest’altezza, il torrente Morla dava il cambio alla Roggia Serio, il canale che ricalcava il confine segnato in età comunale con il “Fossatum communis Pergami”, segnando a lungo il limite estremo della difesa sul margine esterno della cinta muraria e sulle vie principali che conducevano  al di fuori

Sparirono così, sotto i colpi di mazze e picconi, chilometri di muro, e con esso le piccole torri che scandivano a intervalli regolari il suo lungo perimetro.

La cappelletta dedicata ai morti della peste in Via Palma il Vecchio, al momento della demolizione delle Muraine

Per celebrare la fine della barriera daziaria venne anche data alle stampe una cartolina con la città vista da Porta Nuova e rappresentata tra una simbolica catena spezzata. Una cartolina “disegnata” senza problemi; problemi che invece dovettero affrontare gli editori di cartoline fotografiche”…

Quasi certamente questa cartolina fu spedita il giorno stesso della sua emissione (annullo postale del 2-1-1901). Chiaramente simbolica la catena spezzata; come se l’eliminazione dei cancelli avesse abolito il dazio…” (Domenico Lucchetti “Bergamo nelle vecchie cartoline)

“.. Per commemorare il lieto evento si voleva promuovere anche una cartolina fotografica con Bergamo priva dei cancelli daziari rimasti al loro posto ancora per un po’. Che fare? Risolse il problema, con uno stratagemma fotografico, l’editore milanese Fotocromo, mostrando il consueto acume commerciale dei ‘cartolinisti’. Si prese una precedente cartolina (sempre con Bergamo vista da Porta Nuova) della casa editrice bergamasca Libreria Tacchi (non sappiamo se compiacente o meno) e si eliminarono i cancelli con un ritocco abbastanza abile; e la cartolina ebbe successo, tanto che circolò per parecchi anni” (3).

“(annullo postale del 20-12-1899). Fototipia. Questa bella veduta di Porta Nuova fu liberamente usata da diversi editori. Uno di questi, Daniele Legrenzi, giunse persino a farne un’edizione senza cancelli daziari (previo abile ritocco) quando questi furono eliminati il 31-12-1900” (D. Lucchetti – “Bergamo nelle vecchie cartoline”)

Altre cartoline documentarono il procedere delle demolizioni, di cui era stata incaricata la Cooperativa lavoranti muratori.

Il rimpianto per quanto non c’è più

Della cinta murata medievale delle Muraine non restano oggi che pochi tratti, come in via Camozzi e in via Lapacano, mentre altri furono inglobati edifici e ogni tanto, quando ci sono dei lavori, se ne trovano le tracce.

Un tratto di Muraine in via Tiraboschi (cerchiato in nero), lambite dalla roggia Serio; vennero atterrate nel corso degli anni ’60 quando la roggia fu interrata. Nella mappa del 1816 del Manzini il tratto in questione si nota chiaramente

 

Scorcio di via Tiraboschi, affiancata dalla Roggia Serio (Raccolta D. Lucchetti, Museo delle Storie di Bergamo)

E’ dunque difficile immaginare come poteva essere la Bergamo Bassa murata e turrita poco più di un secolo fa, e ancor di più immaginare l’insieme delle due città – alta e bassa – protette da un antico perimetro murario.

La municipalità decise invece di risparmiare una delle due torri rotonde del circuito, quella del Galgario, che si distingueva dalle altre torrette anche per la sua mole: è ancora lì, con il gran traffico che le passa accanto.

Il ricordo più vistoso che resta delle Muraine è la torre del Galgario, l’unica delle due torri  tonde sopravvissuta allo scempio dell’abbattimento. A fianco della torre, usata per sostenere un curioso traliccio per i cavi dell’energia elettrica, un pezzo dell’antico muro sta sparendo sotto il piccone

Ancora a distanza di mezzo secolo l’ingegner Luigi Angelini deplorava l’abbattimento totale delle Muraine definendolo un “misfatto”, così come Umberto Zanetti definì quella demolizione “improvvida e vandalica”: “Non sempre i patres conscripti hanno amato i monumenti della loro terra, non sempre sono stati consci della responsabilità che potevano assumere innanzi alla storia della loro città. Vandalismo inutile quello dell’abbattimento delle Muraine”.

Nel boschetto alle spalle del monumento a Gaetano Donizetti è sopravvissuta una porzione delle antiche Muraine

Ma è quanto avvenne anche nelle altre città lombarde: a Milano, a Brescia, a Como, a Cremona, anche se fu Bergamo la prima in assoluto ad abbattere pressoché completamente la frontiera tra extra muros e la città (l’ultimo tratto delle Muraine fu demolito solo nella seconda metà del febbraio del 1901 e al Lapacano i lavori erano ancora in corso sul finire dell’anno).

I portici dell’antica Piazza della Legna

Il Comune, con il senso di parsimonia tipico del tempo, deliberò di fare buon uso delle pietre squadrate che si allineavano a mucchi lungo il tracciato delle Muraine, destinandole alla costruzione del muro di cinta del nuovo Cimitero monumentale.

Borgo Santa Caterina nel 1920. Qui si trovavano le trattorie delle Tre Corone, dell’Angelo, del Gambero e della Scopa. Luigi Angelini (nato in questo Borgo) ricordò che una sera, rientrando con i genitori da uno spettacolo circense di Piazza Baroni, avendo trovato chiusi i cancelli daziari dovette passare eccezionalmente dalla casa dei dazieri

Abbattute le secolari mura che dividevano materialmente, economicamente e moralmente la città, si era presentata come un’assoluta necessità studiare un coordinamento generale dell’espansione cittadina. Fu perciò definito un sistema stradale concentrico (anello di via Verdi, via Camozzi, via Mai), che alla fine del Novecento era ancora sostanzialmente immutato.

IL CIRCUITO DELLE MURAINE

La cinta daziaria correva lungo il perimetro delle Muraine che circondavano i Borghi. La bassa muraglia si raccordava alle mura di Città Alta (dapprima a quelle medievali ed in seguito a quelle veneziane) nei pressi  di Porta Sant’Agostino da un lato e di Porta San Giacomo dall’altro.

Pietro Ronzoni, Complesso di Sant’Agostino: veduta meridionale dal Baluardo di San Michele, 1837 (Milano, Quadreria dell’800): le Muraine si innestavano all’altezza dell’attuale Parco di S. Agostino correndo parallele alla Noca e piegando al termine di via S. Tomaso

Partendo dal Parco di S. Agostino la muraglia scendeva in direzione dell’Accademia Carrara racchiudendo Borgo San Tomaso fin verso il ponte di Borgo Santa Caterina, che ne rimaneva escluso, diviso dalle acque della Morla.

Da lì, seguendo il corso del torrente giungeva alla torre del Galgario, dove la Morla dava il cambio alla roggia Serio fiancheggiando la muraglia per tutto il rettilineo che, oltrepassato il portello del Raso lungo l’attuale via Camozzi, Porta Nuova e via Tiraboschi, piegava per via Palazzolo profilando il limite meridionale del borgo di San Leonardo, a sud delle vie Quarenghi, San Bernardino, Moroni e Broseta.

La cinta daziaria delle Muraine raffigurata in in una mappa del 1901, costeggiate da una Strada cosiddetta di Circonvallazione, e lambite esternamente dalla roggia

Da via Broseta la cinta risaliva fino al vicolo Lapacano – di cui seguiva il tracciato -,  salendo gradualmente per ricongiungersi con le mura sotto San Giacomo al Paesetto, al termine di via Tre Armi.

La cortina delle Muraine del Lapacano nel 1884, in una incredibile e rara testimonianza lasciataci dal fotografo Cesare Bizioli. La cortina muraria del Lapacano collegava Porta Broseta alla torre tonda del Cavettone, dove  la roggia Serio si univa alla roggia Curna che proseguiva verso l’ospedale per mezzo di un canale, parallelo alle mura, in luogo dell’attuale via Nullo (Patrimonio Lucchetti-Museo delle Storie di Bergamo – Ph rielaborata da Gianni Gelmini nel suo prezioso lavoro dedicato alle Muraine)

 

Antica via Lapacano sul colle, dove il toponimo è scomparso. Nella piana è ancora visibile un tratto superstite delle mura del Lapacano dove, nonostante le ferite inferte anche in epoca recente, quattro merlature ricostruite campeggiano uno accanto all’altra, mentre lo spessore delle mura è evidente grazie alle feritorie da balestra che si affacciano sulla strada

IN VIAGGIO FRA LE PORTE DAZIARIE

Borgo Santa Caterina: il borgo resta fuori 

Attraverso la porta di Santa Caterina si accedeva direttamente al borgo, escluso dalle Muraine, che seguivano in questo tratto il corso del torrente Morla.

Il Ponte di Borgo S. Caterina nell’Ottocento con l’omonima porta e il casello daziario, di notevoli dimensioni data l’importanza della porta. L’immagine riprende gli edifici di via San Tomaso, con in testa l’alloggio del comandante delle guardie daziarie. Sulla parete di destra un manifesto  annuncia uno spettacolo di burattini con Gioppino, da tenersi in via Pignolo

La cinta daziaria, questione di tasse a parte, era causa di non pochi inconvenienti per i cittadini. Borgo Santa Caterina, per quanto molto popoloso, non era mai stato compreso entro la cerchia delle Muraine.
In epoca medievale alcune torri ne difendevano gli accessi dalla campagna (al Maglio del Rame c’era una stongarda), ma non godeva della sicurezza rappresentata dalle mura.

La barriera daziaria di Porta Santa Caterina (già borgo di Plorzano). Il luogo è angusto ma vi passava il tram a cavalli (non c’è ancora la linea aerea di quello elettrico) che, dopo una stretta curva si dirigeva verso Borgo Santa Caterina (foto Rodolfo Masperi) – (Raccolta Lucchetti)

All’epoca del dazio ciò aveva i suoi vantaggi perché il borgo poteva commerciare con le valli senza tante limitazioni, ma la prospettiva cambiava quando calava la notte e gli agenti daziari, non effettuando più nessun controllo, sbarravano i pochi varchi. Bastava un’urgenza, la richiesta di un medico o un incendio: non si poteva passare dalla città al borgo se non dopo aver rintracciato l’agente del dazio per fargli aprire il cancello.

Il vecchio ponte di S. Caterina e l’imbocco di via San Tomaso (Racc. Gaffuri)

Nell’immagine seguente, le Muraine sono state abbattute e via Baioni ha guadagnato in spazio, ricavando notevoli vantaggi per il traffico con la Valle Brembana.

Se l’edificio d’angolo tra via C. Battisti e San Tomaso non è mutato, quello sull’altro lato è stato rimodernato. Al di là del ponte, la Morla è ancora scoperta, segno che non è iniziata la realizzazione di viale Giulio Cesare (in origine dedicato alla regina Margherita), che conduce allo stadio.

Il Ponte di Borgo S. Caterina a fine anni ’20, inizio anni ’30: il cancello daziario e gli edifici annessi sono già stati demoliti ed è anche scomparso il ponte di vecchie pietre sopra la Morla, ora scavalcata da un ponte in cemento (ma sono visibili gli archi del vecchio ponte), sul quale sta transitando il tram. Nel 1963 fu coperta anche la Morla, da S. Caterina al largo del Galgario

Il tracciato delle Muraine seguiva l’andamento del muro che delimitava l’alveo del torrente dal lato di via Cesare Battisti.

Il nuovo ponte di S. Caterina sovrasta le arcate del ponte antico

Il massiccio muro verso la Morla serviva per proteggere le abitazioni dalle piene del torrente, causa frequente di notevoli danni.

La torre del Galgario: la torretta evitò il piccone

La torre del Galgario, l’unica sopravvissuta delle due torri rotonde delle Muraine (l’altra era quella del Cavettone, a nord del Lapacano), rischiò l’abbattimento ben due volte: la seconda negli anni Quaranta, perché si sosteneva che la sua mole ostacolasse il traffico.

Davanti alla torre scorre la roggia Serio, alimentata dalle acque del fiume Serio con una presa situata ad Albino. Le Muraine sono già state demolite. A destra, l’antica muraglia proseguiva verso la porta di borgo S. Caterina, seguendo in questo tratto il corso del torrente Morla

Il 28 febbraio 1949, dalle colonne del “Giornale del Popolo”, l’architetto Pino Pizzigoni ammoniva a non commettere l’ennesimo delitto urbanistico. Sottolineava in particolare che la torre è l’unico ricordo storico della prima cinta esterna medioevale della città, più vecchia quindi delle Mura veneziane, e che fosse di per sé un elemento di decoro cittadino. Fortunatamente l’appello fu accolto.

Porta S. Antonio: e Borgo Palazzo resta fuori

Porta S. Antonio, situata all’altezza dell’imbocco dell’attuale via Pignolo bassa (Raccolta Lucchetti)

Alla porta di S. Caterina seguiva la porta di Sant’Antonio, chiamata anche Porta del Mercato. Fu innalzata dove iniziava il borgo che più tardi prese il nome di Pignolo, a pochi passi dall’antica chiesetta di Sant’Antonio in Foris, posta all’inizio di Borgo Palazzo:  un borgo, quest’ultimo, esterno alle Muraine, ma importante luogo di transito e via di comunicazione con la città, lungo la via per Seriate diretta a Brescia e a Venezia.

Porta S. Antonio, all’imbocco dell’attuale via Pignolo bassa

Ai tempi della Serenissima, l’ingresso in città del nuovo Podestà avveniva proprio lungo questa arteria; il Capitano di Bergamo stava ad aspettarlo sul ponte della Morla in Borgo Palazzo, tutto imbandierato, adorno di drappi e festoni come le case di tutto il borgo. I due personaggi e il loro seguito, compresi i due trombettieri, sfilavano in abiti sgargianti tra le quinte di colori vivaci e i saluti della folla, avviandosi verso Città Alta che era il cuore politico e amministrativo di tutto il territorio.

Ancora Porta S. Antonio in versione colorata

Nel budello di Borgo Palazzo, nascosti nei grandi spazi interni ci sono ancora i cortili e i magazzini che  erano serviti per gli stalli, per gli alloggi, per depositare la merce destinata alla città o che da Bergamo doveva essere trasportata a Venezia. All’epoca della dominazione di quest’ultima, la dogana era ubicata addirittura nel Borgo di S. Antonio. Tutte le merci prodotte in Valle Brembana e Seriana e dirette verso Venezia, vi facevano capo: nella parte del Borgo più prossima alla città, esercitavano l’attività “diversi mercadanti di panni”; la parte più esterna, ossia “Borgo Palazo”, era abitata invece “da conduttori, cavallanti, ed da altre sì fatte zente”, scriveva il Capitano Pizzamanno nel 1560.

Porta S. Antonio. A lato si vede la roggia

Il commercio era situato dentro all’abitato; chi esercitava il trasporto si collocava invece più all’esterno, dove poteva tenere le stalle, le tettoie per i carri, le fucine per riparare i veicoli, i maniscalchi. L’andirivieni di viaggiatori, di commercianti, di “conduttori e cavallanti”, non poteva non concentrare nel borgo osterie e trattorie con alloggio e stallo.

Com’era invece la zona intorno agli anni ’50: tra il 1919 e il 1955 l’edificio sulla destra era stato adibito a Dormitorio pubblico e in seguito impiegato come “Asilo degli Ebbri”, cioè ricovero per gli amanti di Bacco, i quali, dopo essere stati raccolti per le vie della città dalle forze dell’ordine, venivano messi a letto dopo una doccia gelata. I nuovi edifici di quest’area, tra cui il supermercato PAM, sorsero dopo il 1967

Largo di Porta Nuova: via anche l’ultima traccia

I cancelli di Porta Nuova (Raccolta Lucchetti)

La scomparsa dell’antico muro fu determinante per le sorti dell’attuale via Camozzi. Quando venne scattata la fotografia che segue, si chiamava ancora via di Circonvallazione insieme alle vie Tiraboschi e Frizzoni, e ai tempi delle Muraine assorbiva il traffico di carri che si snodava al di fuori della barriera daziaria.

Poi quest’ultima fu abolita e la città cominciò ad impossessarsi degli spazi che si rendevano liberi. E così la via Camozzi, da strada periferica assunse a poco a poco le caratteristiche di una via cittadina, svolgendo un ruolo sempre più importante per lo sviluppo urbanistico del futuro centro.

La svolta decisiva avvenne con la copertura della roggia, che cancellò anche le ultime tracce della presenza delle mura: è evidente che i lavori siano stati portati a termine da poco, tanto che non si è ancora realizzato il nuovo fondo stradale.
I pali di legno della linea elettrica, collocati un tempo lungo la sponda della roggia, segnano il percorso del canale, ormai invisibile.

Il traffico lungo la via Camozzi, carretti a parte, è inesistente. Ma tra non molto vi transiteranno i tram per Borgo Palazzo, il cimitero e Seriate. Nel 1933 vi saranno collocati i binari tolti dal percorso via XX Settembre-via Tasso.

Si lavora alla sistemazione del largo di Porta Nuova. Si sta anche togliendo il traliccio di ferro

Nello stesso punto della fotografia, non molti anni dopo sarà collocata la fontana progettata dall’arch. Bergonzo (la “Zuccheriera”), poi spostata verso la sede del Credito Bergamasco.

Largo Porta Nuova con la “Zuccheriera” progettata da Bergonzo. In Via Tiraboschi si nota sulla destra una porzione dell’antica muraglia demolita entro il 1950

Il portello di via Zambonate: la città ci stava stretta

Il portello di via Zambonate – non una vera e propria porta bensì una stretta apertura – venne aperto nel corso dell’Ottocento per desiderio degli abitanti che avevano bisogno di rendere meno complicato e tortuoso il transito tra una località e l’altra dentro e fuori della cinta muraria. Era all’inizio della strada dal lato verso la via Tiraboschi (tra ‘800 e primi ‘900 via Circonvallazione), oggi quasi all’altezza dei grandi magazzini Coin.

I due piccoli edifici ai lati del cancello servivano alle guardie daziarie per ripararsi dalla pioggia durante la notte.

Il portello di Zambonate. Nel cancello, spalancato solo per il transito dei carri è aperto un passaggio per i pedoni, che venivano controllati dagli agenti del dazio

Dal portello di Zambonate le Muraine si allungavano a comprendere la grande appendice di Borgo S. Leonardo, con al centro il crocicchio di Piazza Pontida –  le “Cinque Vie” – che si diramano rispettivamente per via Quarenghi (verso la porta Cologno e quindi verso Crema e Cremona); la via S. Bernardino (verso la porta Colognola e quindi verso Treviglio); via Moroni (verso la porta Osio e quindi Milano); via Broseta (verso la porta Broseta e quindi Lecco e Como).

Un tratto delle “Cinque Vie” in borgo S. Leonardo, il “cuore pulsante” della città, in direzione, a sinistra, di porta S. Bernardino e, a destra, di porta Osio (attuale via Moroni)

E, dunque, da Porta Cologno (a sud di via Quarenghi alta)….

Porta Cologno, all’incrocio tra via Quarenghi e via Palazzolo, sulla strada per Crema e Cremona (Raccolta Lucchetti)

…le Muraine si dirigevano verso Porta S. Bernardino

Porta S Bernardino, all’incrocio tra via San Bernardino e via Previtali, sulla strada per Treviglio (Raccolta Lucchetti)

 

Porta S Bernardino

…per approdare a Porta Osio, dove Napoleone non arrivò:

Osserviamola: il casello di sinistra di porta Osio è stato sottoposto a restauro; le sue dimensioni sono immutate ed è oggi è ancora riconoscibile anche se è stato sopraelevato e trasformato in una abitazione con più appartamenti.

Porta Osio (sulla strada per Milano), all’incrocio tra via Moroni e via Palma il Vecchio

Al centro del varco, in linea con l’asta centrale del cancello, un daziere posa con il folto gruppo dei presenti, tra i quali si notano anche alcuni ciclisti.

A Porta Osio si sta costruendo un telaio da coprire con teli e festoni, forse per qualche festività (Raccolta Lucchetti)

La città si stava preparando per ricevere Napoleone. Dopo l’arrivo delle sue truppe il 25 dicembre del 1796, la cacciata dei veneziani pochi mesi più tardi e la fine dell’antico regime di San Marco con l’insediamento della nuova municipalità, Bergamo aspettava il condottiero, che se ne stava nel capoluogo lombardo e di cui era stato annunciato il viaggio attraverso la Bergamasca.
Sarebbe dovuto arrivare per la strada di Milano: l’augusto ospite e la sua scorta sarebbero stati attesi all’ingresso della città, allora rappresentato da porta Osio (all’incrocio tra via Moroni e via Palma il Vecchio).

“La diligenza per Milano a Porta Osio”, ovvero Il casello daziario di Porta Osio in un dipinto (1830) di Costantino Rosa. In età napoleonica le porte furono sostituite da cancelli affiancati dai caselli del dazio

In vista dell’arrivo di Napoleone fu dato incarico all’insigne architetto Giacomo Quarenghi di realizzare un arco di trionfo e si pensò anche di trasformare la porta.

Il progetto (affidato all’architetto Giacomo Quarenghi, dell’arco di trionfo da erigersi in porta Osio, la cui costruzione era prevista per l’arrivo imminente a Bergamo di Napoleone Bonaparte. Progetto che non fu  realizzato

Napoleone poi rinunciò a venire: dell’arco furono gettate solo le fondamenta, in quanto alla porta, l’idea non ebbe seguito.

Gli edifici attigui a Porta Osio con il fabbricato semicircolare ancora esistente

Porta Broseta: la seggiola del daziere

Tale porta chiudeva a nord la muraglia del Lapacano, via (allora) di Santa Lucia Vecchia, e a sud via Palma il Vecchio, a quel tempo Strada di Circonvallazione Osio-Broseta.

All’altezza dell’incrocio con le vie Nullo e Palma il Vecchio, Porta Broseta nell’Ottocento, sulla strada per Lecco e Como (Raccolta Lucchetti)

Le due costruzioni dei caselli del dazio sono scomparse da tempo. Sul lato destro di via Broseta (per chi guarda) recentemente è stato abbattuto un edificio, sostituito da uno dal disegno molto moderno e che vuole forse, richiamare l’antica barriera.

Dovevano essere personaggi discreti gli agenti del dazio di guardia alle porte cittadine. Nelle fotografie che si conoscono, compaiono ben di rado.
E pensare che sono immediatamente riconoscibili: giubba con bottoni dorati, berretto con visiera, cappottone fino ai piedi per gli ufficiali (ma pantaloni regolarmente stazzonati).

Porta Broseta

Ci piace però immaginare che la seggiola che appare accanto al pilastro del cancello di Porta Broseta sia quella del gabelliere, usata per un po’ di riposo nei noiosi turni di servizio.
Lui, dopo il voto del consiglio comunale che ha detto “basta con le gabelle”, se ne è andato. La sedia è rimasta.

Fuori porta Broseta compare, come per la barriera di Porta Nuova, il banco di un ambulante. Ma la foto è confusa e non consente di capire che cosa vende: sono sacchi di castagne?

La porta di via Tre Armi: fin sotto le mura venete

Da Porta Broseta, la muraglia si dirigeva verso il vicolo Lapacano e da lì risaliva verso l’alta città, andando a ricongiungersi alle mura del Paesetto sotto Porta San Giacomo, dove si conclude il nostro viaggio.

Al Paesetto, tra via Tre Armi e la salita dell’attuale via Sant’Alessandro

Ed eccoli gli agenti del dazio, distinguibili per la giubba con i bottoni dorati, berretto con visiera e, per gli ufficiali, il lungo cappotto che arrivava ai piedi.

La foto (1895) mostra l’ultimo varco nella muraglia: la porta daziaria di via Tre Armi al Paesetto presso porta S. Giacomo (Raccolta Lucchetti)

 

Accanto alla porta daziaria di via Tre Armi al Paesetto, s’innesca la rampa che conduce a Porta S. Giacomo (Raccolta Lucchetti)

L’assemblaggio delle due immagini precedenti dà l’idea dell’esatta ubicazione della Porta di via Tre Armi: il piccolo edificio all’inizio della rampa di porta San Giacomo era la casa del capo delle guardie daziarie; abbandonato da tempo, è stato recentemente trasformato in una caratteristica abitazione.

La Porta daziaria di via Tre Armi, affiancata dalla casa del capo delle guardie daziarie (Raccolta Lucchetti)

Da via Tre Armi passavano gli ortolani che portavano in città gli ortaggi coltivati negli orti attorno a Borgo Canale e sotto le mura, lungo le scalette del Paradiso e di Santa Lucia. Ma alle nove di sera, quando si chiudevano i pesanti portoni e i finanzieri montavano la guardia, anche in via Tre Armi così come in via Noca, con la complicità delle notti buie senza luna dalle mura fronteggianti venivano calate lunghe corde per issare sacchi e cesti ricolmi di commestibili, che grazie al cielo giungevano a destinazione “de sfross” – di frodo – gabbando con gran soddisfazione le ignare. sonnacchiose guardie del dazio.

Le“Mura del Lapacano” a margine delle case di S. Alessandro, ritraggono le case del “Paesetto”, ai piedi di Porta S. Giacomo (foto Cesare Bizioli 1885 – Raccolta Lucchetti)

 

Note

(1) Carlo Traini, “Pagine al vento”, dattiloscritto conservato presso la Civica Biblioteca di Bergamo.

(2) Alfonso Vajana, Uomini di Bergamo, in “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”, 2013, Utet.

(3) Domenico Lucchetti, “Bergamo nelle vecchie cartoline”.

Riferimenti

Bergamo e la bergamasca nelle immagini tra Ottocento e Novecento. Supplemento a L’Eco di Bergamo corredato da 24 fascicoli. A cura di Pino Capellini (anno non indicato).

Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo”, 2013, Utet.
Domenico Lucchetti, “Le porte daziarie”, in “Bergamo nelle vecchie fotografie”.

Pino Capellini, La ‘barriera doganale’ del ‘400 bloccava lo sviluppo della città di Bergamo” – L’Eco di Bergamo, 12-1-2004.

La vita e il lavoro nella Valverde e nella Valtesse di ieri

E’ impossibile non innamorarsi della conca di Valverde, quell’anfiteatro verdeggiante esposto nel versante più fresco dei Colli, che s’inerpica su, fino alla porta di San Lorenzo, ai piedi della quale si adagia nella sua splendida semplicità, volgendosi al meraviglioso profilo del borgo San Lorenzo.
Ma quanto conosciamo davvero questa piccola località incastonata tra l’alta città e le propaggini montane?  
Cosa sappiamo del suo passato e della sua gente, del  lavoro che per secoli si svolse in questa umile eppur bellissima porzione collinare, consorella di Valtesse?
Per questo motivo ho voluto dedicare alle due località un intimo affresco, che ritrae i momenti più significativi della vita e del lavoro che  si svolgeva nei campi e nelle cascine: dalle attività più tradizionali legate all’agricoltura  con la produzione della vite, a quella tipica del luogo, a molti sconosciuta: quella dei lavandai, un’attività resa possibile dalla presenza della Morla e dai tanti ruscelli e ruscelletti che solcavano copiosi tutta l’area

Le cronache di fine Ottocento raccontano che fino agli anni ’50 del secolo scorso Valverde era tutta composta da lavandai e giornalieri.

Tra le tante famiglie che traevano sostentamento da questa attività, spiccavano i nomi dei Sarzetti e dei Luzzana.

Sarzetti Lucia Rigamonti in una foto giovanile, davanti al cavallo e Sarzetti Pietro nel carro, con il cappello da alpino, assieme ad un amico, con il carico di biancheria da lavare ritirata in città. Foto del 1946, ripresa nella stradella che da via Maironi porta alla cascina di Valverde, sotto la porta Garibaldi

La famiglia Sarzetti svolgeva tale mansione presso la cascina “Cerea”, nel cuore della Val Verde, utilizzando l’acqua del “rio Valverde”, alimentato da sorgenti permanenti disseminate in tutta la valletta che scende da Colle Aperto e da Porta S. Lorenzo, come abbiamo avuto modo di osservare qui.

Porta S. Lorenzo segna la linea di demarcazione fra Valverde e Città Alta (Raccolta D. Lucchetti)

La cascina “Cerea” era anche denominata la “Cà dei sòi”, tradotto letteralmente in “casa dei mastelli”, qui ritratta in una cartolina dell’epoca insieme ad una quantità incredibile di lenzuola stese ad asciugare: l’attività dei Sarzetti reggeva la concorrenza dei lavandai di Paladina, dove quasi tutti gli abitanti erano occupati in tale attività.

La “ca dei sòi”, nella valletta di Valverde, attorniata da lunghe fila di LENZUOLA stese ad asciagare, segno evidente della presenza nella cascina dell’attività di lavandai. La biancheria veniva ritirata al lunedì e riconsegnata al sabato. Agli alberghi si faceva il possibile per riconsegnarla già al mercoledì (Raccolta D. Lucchetti)

Nel vocabolario dei dialetti bergamaschi del Tiraboschi,“Sòi”  sta per “Mastello, Tinello. Gran vaso di legno, a doghe, cerchiato di ferro, consimile a un tino, ed adoperato pel bucato”.

La “Ca dei sòi” e il profilo di borgo S. Lorenzo

I mastelli, collocati sopra un treppiede di legno – “cavra dei sòi” -, contenevano fino all’orlo i panni da lavare, che venivano ricoperti con un tessuto a trama fitta sopra il quale i lavandai versavano la cenere di legno e poi l’acqua bollente. Da questa miscela si otteneva la liscivia, il rudimentale detersivo di una volta.

Il lavoro comportava una gran fatica sia per i lavandai e sia per donne di casa, che adottando tale sistema garantivano una perfetta pulizia del bucato, profumato in modo del tutto particolare.

La “ca dei sòi” e Valverde nella penombra. In lontananza la Maresana e il Canto Alto

Tra gli altri, facevano parte della clientela dei Sarzetti il Comando della Guardia di Finanza con sede in Rocca, il Comando dell’aviazione tedesca, sistemato nell’attuale scuola di ragioneria nei pressi della stazione ferroviaria, l’Albergo “Agnello d’Oro” di Borgo S.Caterina, l’Albergo del Sole di Piazza Vecchia.

Albergo del Sole in Piazza Vecchia

La biancheria veniva ritirata il lunedì e riconsegnata, al massimo, a fine settimana; ma per quanto riguardava, in particolare, le tovaglie dei ristoranti e le lenzuola degli alberghi, si faceva il possibile per portare a termine il lavoro con maggior celerità.
Il trasporto della biancheria avveniva con il carro tirato dal cavallo.

Il carretto dei lavandai in via Arena

 

Il servizio di lavanderia a domicilio svolto dai lavandai di Valverde (Ph Alfonso Modonesi)

C’erano poi i Luzzana, che svolgevano l’attività di lavandai vicino aI ponte della Morla. Il capo famiglia, Luzzana Pietro, era conosciuto come Piero del pùt.
L’abitazione era accanto al ponte dal lato della chiesa.

La barriera daziaria di Porta Santa Caterina (già borgo di Plorzano) in una splendida fotografia di Rodolfo Masperi (Raccolta Lucchetti)

 

Luzzana Pietro e Esposito Giacoma via Maironi da Ponte, 1919 (Lazzana, lavandaio al Ponte della Morla)

Per lavare veniva utilizzata l’acqua stessa della Morla, che all’epoca, alla fine anni ‘3O, era ritenuta pulitissima.

I sòi erano collocati in uno stanzone al piano terra dell’abitazione, mentre i panni lavati, per lo più lenzuoli, tovaglie, asciugamani, venivano stesi ad asciugare in un campo che la famiglia aveva in affitto al di là della Morla, prima del ponte.
In una fase successiva, nel campo era stato costruito anche un capannone dove erano stati sistemati i mastelli e in tal modo tutta l’attività si svolgeva oltre la Morla.

Tra la clientela gli abitanti ricordano le suore Canossiane di via della Milizia (oggi via S. Tomaso), il conte Marenzi di Pignolo, alberghi e ristoranti.

Via S. Tomaso, un tempo chiamata via della Milizia

Per ritirare e riconsegnare la biancheria (ritirata al lunedì e riconsegnata il lunedì successivo) i Luzzana usavano un carretto trainato da un asino di loro proprietà, che tenevano presso il vicino contadino.

La famiglia di Pietro Lussana, di via Maironi, 1948. “Piero del put” è noto per essere stato uno degli ultimi lavandai di Valverde

Piero del pùt cessò l’attività di lavandaio verso l’inizio degli anni 40 per una sfortunata serie di motivi: la morte dell’asino, che gli serviva per ritirare e riconsegnare la biancheria (e che non poteva rimpiazzare), una forte inondazione della Morla, che aveva divelto quasi tutte le pietre sistemate per lavare (l’acqua  aveva ricoperto anche il ponte) e la partenza per la guerra del fratello, che gli dava una mano nell’attività.

La piena della Morla del Luglio 1992 (Foto di Carlo Scarpanti)

 

La piena della Morla del Luglio 1992 (Foto di Carlo Scarpanti)

In Valverde v’erano altre famiglie di lavandai, seppur con attività più limitata rispetto a quelle citate.
I Cerutti (Ol Filottì) svolgevano l’attività in via Filotti, nella casa abitata dalla famiglia e adoperavano l’acqua della Morla.

Anche la casa di Andreini Piero detto, “il Baracchì”, di via Filotti era denominata “la cà dei sòi”.

L’ingresso dell’osteria “Gnuc”

I Noris abitavano in una casetta in via Maironi, dal lato apposto alla chiesa, sotto il castello di Valverde. Usavano l’acqua di una seriolina che passava lungo la strada.
I Noris avevano costruito anche un’ampia tettoia sotto cui stendere i panni ad asciugare.

Nella panoramica, il castello di Valverde sulla destra

I Foresti abitavano all’angolo tra via Valverde e via Maironi; anch’essi usavano l’acqua di una seriolina che passava nelle vicinanze; probabilmente, come per i Noris, doveva trattarsi di diramazioni del “Rio Valverde”.

Un componente di quest’ultima famiglia, di professione tipografo, si faceva notare per essere proprietario di un velocipide (una bicicletta con la ruota davanti grandissima e quella posteriore invece molto piccola) con il quale ogni anno partecipava alla biciclettata organizzata da un gruppo di Valverde.

C’erano poi i Borsatti,  lavandai in via Valverde nella zona delle case Rossi, che utilizzavano l’acqua del ruscello della valle delle Cave. Nella stessa zona  anche i Minoia dovevano forse svolgere la medesima attività.

Nel tratto finale del ruscello, poco prima della confluenza nella Morla, erano sistemate delle grandi pietre lisce utilizzate per lavare i panni.

La via Maggiore, in uscita da Valverde

Con gli anni ’50 cessava l’attività dei lavandai di Valverde.
Diversamente da quanto in quegli anni fu fatto a Paladina – località in cui quasi tutti gli abitanti svolgevano l’attività di lavandai -, a Valverde non furono introdotte innovazioni e quando giunse a termine la stagione del solo lavoro manuale, cessò anche l’attività dei lavandai.

 

Momenti di vita e di lavoro: le immagini

Franco Rigamonti al mercato nel 1954

 

Brembati Evaristo, nonno di Burini Anna Rigamonti

 

Farina Carolina, nonna di Burini Anna Rigamonti

 

I fratelli Rigamonti nella stagione della divisa, 1936. Le quattro divise rappresentano rispettivamente: figlio della lupa, balilla, avanguardista, giovane fascista

 

Cattaneo Giacomo della Tegazza, con i compagni di lavoro, al termine della costruzione della cappelletta votiva lungo la strada che conduce a S. Vigilio (fine anni ’20)

 

Cattaneo Giacomo della Tegazza, muratore, al lavoro per costruire la cappelletta votiva lungo la strada che conduce a S. Vigilio (fine anni ’20)

 

Gritti di Valverde (1° a sinistra), classe 1895

 

Ingresso stabilimento Fratelli Mazzoleni

 

La Sace ritratta nel 1946 in occasione dell’inaugurazione dell’ stabilimento. Il territorio di Valtesse è ancora quasi del tutto agricolo

 

Veduta su Valverde, la piana di Valtesse e la Maresana. In lontananza a destra spicca la chiesa di San Colombano

 

La casa contadina dei Taiocchi trasformata in officina, prima che venisse abbattuta per la costruzione di un nuovo edificio da adibire alla produzione (1960 circa)

 

Via Pietro Ruggeri: Boffelli Gianni nella salumeria ereditata da suo padre Antonio (nativo di Camerata Cornello), che aveva aperto il negozio negli anni ’20

 

“Piciorla e pom”

Panorama su Valverde da Colle Aperto (Raccolta D. Lucchetti)

La piana di Valtesse è molto cambiata, dove c’erano cascine e molti poderi, oggi ci sono tante abitazioni e l’attività agrícola è del tutto scomparsa.

Anni ’30: massaie rurali di Valtesse e Valverde alla “Ca Binca” di via Castagneta

Anche sui Colli, si sa, vi sono stati moltissimi cambiamenti; il numero delle case è rimasto pressappoco lo stesso ma da cascine per contadini si sono trasformate in abitazioni per il ceto medio.

Anni ’30: massaie rurali di Valtesse e Valverde alla “Ca Binca” di via Castagneta

Dei vigneti di allora, testimoniati dalle immagini dell’epca, non restano che pochi lembi.

Veduta sulle propaggini di Valverde e sulla piana di Valtesse

 

Veduta sulle propaggini di Valverde e sulla piana di Valtesse

Quegli stessi vigneti che non consentivano la produzione di vino di buona qualità ma piuttosto di un vino chiamato “piciorla”.

Anni ’30 – “Ca Bianca”: le viti del “piciorla” e la mietitura svolta ad opera delle massaie rurali

 

Anni ’30 – “Ca Bianca”:  Le viti del “piciorla” e il “melgòt”, con le massaie rurali

Si parla del ”piciorla” in un curioso articolo pubblicato dall’“Eco” il 24 apríle del ’93, che rievoca episodi riportati dal giornale un secolo prima:

”Ieri sera (cíoè Domeníca 16 aprile 1893, visto che il reporter scriveva il lunedì 17), verso le 7 e mezza, nell’osteria detta il Trentino fuori Porta S. Caterina, vennero a rissa parecchi contadini di Valtesse. Riscaldatisi presto gli animi, volarono per aria tazze e bicchieri e quant’altro capitava alle mani dei rissanti.
Un certo Properzi Antonio, d’anni 42, mediatore, s’ebbe nella testa la misura di un mezzo litro di vino, che gli produsse una ferita giudicata guaribile in una trentina di giorni. Venne ricoverato all’Ospedale.

Come ricorcla Luigi Pelandi, la bettola in questione era posta in via Baioni. Gestita da pugliesi, prendeva il nome dal prezzo del suo vino: “squinzano” e “manduria” a centesimi trenta (trenta ghèi) al boccale d’un litro. Una vera bazzecola per quegli amici di Bacco, contradaioli e forestieri (così allora venivano considerati anche gli abitanti dell’hinterland), che non potevano o volevano permettersi l’aristocratico barolo o la barbera.

Presso il “trani”, racconta ancora il Pelandi, era stato istituito un servizio di carriole (come quelle in uso dai maratori…) per riportare a domicilio gli incauti bevitori messi K.O. dalla gradazione alcoolica di quel generoso liquore, fatale a compare Turiddu e bevuto disinvoltamente come se si trattasse delle anemiche “piciorle” della Maresana e dei colli limitrofi. Nel caso rievocato la carriola aveva funzionato da…ambulanza”.

La vendemmia, 1982

Fortunatamente si è registrato qualche singolare ritorno al passato nel terreno intorno alla cascina di via Valverde (ex proprietà Garofano), con la nuova piantagione di vitigni adatti all’ambiente, che forniscono uva di buona qualità e dunque un buon vino da tavola.

La vendemmia a Valverde, 1990

 

Il raccolto dell’uva a Valverde

Mosè del Brolo, nel XII secolo, scriveva che sui colli di Bergamo si avevano
“Boschetti ove fiorisce il castagno qui verdi e sempre verdi prati e pampinee viti, e meli e noci e olivi e tenue zampillar di fonti…”.

Scriveva poi il poeta vernacolo Bressani che nel 1490, a Ponteranica e a Sorisole, nella valle del Morla, si producevano e si vendevano mele.

“Gne con tal desideri Sant’Antoní
Per vèend beligòcc, pom e castegni pesti,
Da Poltranga a Surisel specià i doni
Gne ai desidera ch’as faghi di festi”.
(Volpi, “Usi Costumi e Tradizioni Bergamasche”, pag. 183).

 

Il lavoro nei campi e nelle cascine

La cascina sotto le mura di S. Agostino (1978)

 

Andreini Angelo e Tajocchi Franco “massadur de sunì”

 

Arnie in Valverde

 

Prometti Tullio, Rocco, Tomaso e Rosario (primi anni ’50)

 

La fienagione

 

Caprette al pascolo

 

Vaglieri Ernesto con il figlio Gino, 1950

 

La raccolta delle ciliege, 1955

 

Il “ravizzone”, pianta da cui si può cavare l’olio e che può essere usata anche come foraggio, 1996

 

La raccolta delle patate, 1990

 

La mietitrebbia, 1986

 

Le cave

Particolare della Carta Industriale della provincia di Bergamo, fine ‘800. Valtesse porta il segno della presenza di un polverificio

In passato nella località di Castagneta erano attive Cave di pietra mentre in Valverde si estraeva argilla per la produzione della ghisa negli altiforni. L’ultima cava di terra in Valverde, gestita dalla famiglia Rossi, ha cessato la propria attività pochi anni orsono.

Nella zona è stata soprattutto estratta la pietra di Castagneta (molto simile all’arenaria di Sarnico), impiegata abbondantemente in Città Alta sin dall’epoca romana: nei tratti di basolato  rinvenuto nelle vie Gombito e Colleoni e in alcune lapidi, così come in coperture tombali risalenti al medioevo e, in grande misura, nella fabbrica di S. Maria Maggiore, nella chiesa di S. Agostino e  nelle Mura veneziane, da S Agostino fino al Castello di S. Vigilio.

Chiesa di S. Agostino, adibita a caserma

Fra le moltitudini di tagliapietra impiegati nell’opera ciclopica delle Mura vi furono senz’altro i “picapreda” di Valtesse; un documento attesta che l’incarico di costruire la Porta di S. Agostino venne dato ai fratelli Pietro e Cristoforo dei Marchesi, che per quest’opera ricevattero 352 ducati: quella stessa porta che insieme a quella di S. Giacomo il generale conte Francesco Martinengo considerava le “due più belle e più sicure del Veneto”.

Nota
Le notizie relative al capitolo “Gli ultimi lavandai di Valverde”, sono state redatte sulla scorta di informazioni fornite da Lucia Sarzetti Rigamonti e da Giuditta Luzzana Frigeni, che hanno aiutato i genitori e i fratelli piu anziani a svolgere questa attività.

Riferimento essenziale
“Valverde e dintorni” – Centro ricreativo Valtesse per la Terza Età – A cura di Gino Pecchi.

Il “rasgament dèla ègia” ai tempi gloriosi del Ducato di Piazza Pontida

A Bergamo, l’antica tradizione del “rasgamènt de la ègia”, antico retaggio pagano, fu ripristinata nel 1923 quando Rodolfo Paris, “addobbatore di mestiere e suonatore di piano, a orecchio”, decise di organizzare il cosiddetto “rasgamento” dapprima con un gruppo di amici e successivamente, nominato primo Duca del Ducato di Piazza Pontida, aprendo la manifestazione a tutta la provincia sotto l’egida del Sodalizio del Ducato, la cui nascita merita di essere raccontata.

Era la gelida notte di S. Silvestro del 1923 e già da mesi la Torre dei Caduti ergeva la sua mole a dominare il nuovo centro cittadino ma, forse per ragioni burocratiche o forse per scongiurare disordini, da mesi non giungeva il nullaosta (e con esso l’atteso Mussolini) per l’inaugurazione ufficiale.

La Torre dei Caduti scontava intanto la pena di quelle titubanze e di quei timori e ciò contrariava non pochi Bergamaschi, ormai stanchi di aspettare.

Tra questi, un bel tipo di poeta dialettale, Rodolfo Paris, “addobbatore di mestiere e suonatore di piano, a orecchio”, decise di rompere gli indugi sostituendosi alle “autorità’ fantasma”.

Nella Bergamo appena ridisegnata nel suo profilo urbanistico, con la base della torre ancora circondata da una staccionata, la città attendeva ormai da mesi che Benito Mussolini si decidesse a stabilire la data della cerimonia ufficiale. Egli temporeggiava perché una sua visita a Bergamo, città “popolare”, a quel tempo avrebbe certamente suscitato polemiche e provocato forse qualche disordine. La città si sentiva beffata, e Rodolfo Paris ne interpreto’ a modo suo il malcontento e il desiderio di trasgressione

Radunò in Piazza Pontida una “bella brigata di popolo” con non pochi artisti e buontemponi e organizzò un corteo che, fanfara in testa, s’incamminò per via XX Settembre fra spari, bengala, brindisi e inni patriottici.

Piazza Pontida, con un’auto degli anni 30, Wrchivio Wells

Di quell’allegra brigata faceva parte, certamente, lo scultore Alfredo Faino con l’avvocato Davide Cugini, il pittore Dante Montanari, il giornalista Ferruccio Vecchi, l’avvocato Arturo Cattaneo, lo scultore Cesare Archenti, il pittore Umberto Marigliani, l’avvocato Angelo Astolfi, il burattinaio Steeni, i poeti dialettali Renzo Avogadri, Ferruccio Grasselli e Giuseppe Mazza.

Nella fotografia scattata da Pietro Gentili negli anni Trenta del Novecento, si evidenziano  alcuni dei protagonisti della storica nottata di S. Silvestro: lo scultore Alfredo Faino è il primo a sinistra; Pietro Nicoli con l’impermeabile al braccio, Antonio Arienti con la sigaretta e, a seguire, Giuseppe Mazza, l’avvocato Alfonso Vajana, Ferruccio Grasselli con il cappello sulle ventitrè, Giacinto Gambirasio, Battista Algisi, l’avvocato Angelo Astolfi con la mano alzata, con accanto il fratello Pietro detto Giópa

Quando la truppa di uomini intabarrati giunse in Piazza Vittorio Veneto, all’ultimo rintocco della mezzanotte Rodolfo Paris avanzò ai piedi della Torre dei Caduti e, tra un rispettoso silenzio generale (“non si sentivano che i cuori a battere”), con un largo gesto si tolse il caratteristico cappello a fungo declamando con voce commossa: “Regordém i màrtiri de la Patria… La tór la resta issê inaügürada!”. Chinò il capo e stette un attimo con le mani giunte, in atteggiamento di preghiera.

Nel buio della notte una voce si levò all’indirizzo del capo della brigata esclamando: “Viva il Duca di Piazza Pontida!”. Il grido echeggiò nella piazza e la Torre dei Caduti fu cosi inaugurata “fra un delirio di popolo”, che accorse a demolire la staccionata.

Piazza Vittorio Veneto con la Torre dei Caduti

L’appellativo di “duca” affibbiato al Paris – buontempone arguto e spiritoso – scaturiva dall’essere il padrone incontrastato della piazza: il Paris una sera si era divertito a illuminare i portici di Piazza Pontida “facendo penzolare sotto gli archi dei gusci di lumache, che contenevano l’olio e il lucignolo”.

Pare assodato che fu proprio da quella esclamazione, udita all’alba del 1923, a scaturire l’idea di incoronare un duca ed istituire effettivamente un Ducato.

Rodolfo Paris detto “Alègher”: personaggio stravagante e creativo, addobbatore con negozio in via Sant’Antonino (addobbava chiese e contrade per cerimonie religiose, piazze e vie per feste civili e patriottiche), pianista (suonava al Teatro Donizetti durante le proiezioni del cinema muto) e autore di poesie in dialetto bergamasco con lo pseudonimo “Alegher” dovuto al suo spirito ilare e bizzarro. Frequentava un circolo di artisti e professionisti, che aveva la sua sede in Piazza Pontida (Archivio storico-fotografico Domenico Lucchetti)

Il 15 marzo 1924, al ristorante dell’Angelo in Borgo Santa Caterina “un carnascialesco convito di artisti, di letterati e di cultori della poesia dialettale” si riunì per istituire ufficialmente il Ducato di Piazza Pontida e per l’incoronazione di Rodolfo Paris, primo Duca col nome di Rodolfo ü (uno):
“Dopo un lauto banchetto nella sala addobbata con gli emblemi gioppinori, ecco finalmente l’atteso momento dell’incoronazione: Rodolfo Paris sedeva in posizione centrale mentre una damigella graziosissima, Lina Rota, modello di fanciulla e modella per gli artisti, s’avanzava solennemente con la corona di latta posata sul tagliere (basgèta) della polenta. Nell’atto di alzare la ducal corona, due delle cinque molliche di pane, infilate nelle cinque punte, si staccarono e scivolarono sul tavolo. Qualcuno vide nel fatto un auspicio di dubbio significato e venne ordinato di riattaccarle, ma sotto la corona. Subito lo scultore Cesare Archenti si munì di due fili di ferro e li attaccò alla corona con le due palline lasciandole penzolare nel vuoto. Dopo di che la corona venne posata sul capo di Rodolfo Paris tra i ripetuti brindisi e le ripetute generali acclamazioni.
La corona divenne poi l’emblema ufficiale del Ducato e ancora oggi campeggia sulla testata del “Giopì”, organo ufficiale del Ducato di Piazza Pontida” (2), “sodalizio di cultura, arte, folklore e tradizioni bergamasche”, come recita la denominazione ufficiale.

Una delle più antiche piazze di Bergamo bassa, Piazza Pontida, già Piazza della Legna: il cuore della Bergamo popolare, per tradizione luogo di antiche feste vernacolari. Lo scopo del Ducato era quello di tenere gli animi allegri e conservare il dialetto e le tradizioni bergamasche

Ma nella notte di San Silvestro del 1923, mentre si inaugurava a furor di popolo la Torre dei Caduti, chi proruppe nel grido acclamante che elevò il Paris ai fastigi ducali? Fu forse Alfredo Faino, autore dell’egregia statua della Vittoria che faceva bella mostra di sé sulla torre?

Egli, che più d’ogni altro fremeva per i continui rinvii della cerimonia d’inaugurazione, aveva dovuto farsi promotore della manifestazione spontanea di quella brigata di popolo, incontrando la solidale affettuosa adesione del Paris, che sicuramente conosceva sin dai primi anni del secolo.

Lo scultore Alfredo Faino in posa nel suo studio durante la realizzazione della imponente statua della Vittoria da collocare nella Torre dei Caduti (Archivio fotografico – Fondazione Bergamo nella Storia)

QUANDO LA MÈZA QUARÉSMA SI TENEVA IN PIAZZA PONTIDA

Rodolfo Paris fu fra i più attivi organizzatori di quella festa popolare che un tempo aveva nell’albero della cuccagna la sua principale attrazione e che negli anni goliardici della nascita del Ducato di Piazza Pontida culminò nella riesumazione dell’antica costumanza medioevale del rogo (o rasgamento) della “Vecchia”, in occasione della Mezza Quaresima.

La consuetudine del “rogo della vecchia” in Piazza Pontida era stata preceduta da quella del palo della cuccagna (qui immortalato nel 1936), di cui il Paris era stato tra i più attivi organizzatori. Ecco come “L’Eco di Bergamo” citava una delle prime feste del Ducato: “Ieri sera in piazza Pontida ci sono stati grandi festeggiamenti: trampolini, cuccagne, fuochi artificiali hanno valso a trarre nel popolare rione una folla così densa che dalle 20 alle 21 ogni circolazione è stata resa impossibile e i tram hanno dovuto interrompere il traffico” (Archivio storico-fotografico Domenico Lucchetti)

La “vecchia”, quel fantoccio che nell’antica tradizione popolare comune a mezza Italia e diffusa da Asti a Pordenone, raffigura la quaresima – e quindi il digiuno e l’astinenza -, venne caricata dal Paris, dal Faino e dagli altri adepti del nascente Ducato, di significati satirici e polemici, simboleggiando di volta in volta una “magagna” riguardante la vita cittadina: un fatto di costume, un personaggio, un ente, un’istituzione, un provvedimento o una norma da mettere in ridicolo o da togliere di mezzo.

Al calar della sera si brucia la “Vecchia”, o meglio il cartellone che la simboleggia: sotto le tristi sembianze della Vecchia megera, esposta al ludibrio del popolo, l’artificiere ducale brucia  le “grane” cittadine più resistenti, i problemi cronici, le istituzioni malridotte

Ol rasgamènt, ormai in uso da 95 anni, ha subìto nel tempo alterne fortune: sicuramente in uso nel marzo del 1869 (quando Antonio Tiraboschi scriveva: “A mezza Quaresima as rasga la ègia”), è stato con ogni probabilità reintrodotto nel primo dopoguerra dal Ducato di Piazza Pontida – con una interruzione dal 1940 al 1945 con la soppressione del Ducato -, per poi scomparire già a metà Novecento.

Avviso del 1952 invitante ai festeggiamenti di Piazza Pontida

Solitamente, l’argomento prescelto per l’ignominia del rogo riguarda la vita cittadina e il tema – deciso di anno in anno dal Duca di Piazza Pontida, fra quelli che gli vengono sottoposti dai dieci saggi del “Consiglio della Corona” -, viene opportunamente illustrato nel testamento della “Vecchia”, letto coram populo prima che il fuoco avvampi.

Spettacolo in Piazza Pontida

Come non bastasse l’onta delle fiamme, un’enorme sega viene mossa per tagliare in due la “Vecchia”, una figura enigmatica che in molte tradizioni agrarie è sostituita da un albero, trasparente riferimento fallico che rimanda alla simbologia della fertilità degli antichi riti pagani: un gruppo di contadini si muoveva di casale in casale inscenando l’abbattimento dell’albero, che veniva poi segato. Il tutto si concludeva con la simbolica resurrezione, fra danze e canti, che evocava la cacciata dell’inverno e la ripresa dei lavori agricoli. Ecco perchè si parla di “segare” la vecchia.

L’argomento prescelto per l’ignominia del rogo nel 1924 fu l’annona, la tessera annonaria qui rappresentata da “La Nona”, la vecchia segata e bruciata nel 1924 in Piazza Pontida. Tra le prime “vecchie” condotte al supplizio fra una turba di popolo curiosa e festante, vi fu anche la Pace di Versailles. I cartelloni raffiguranti quelle “vecchie” dai tratti fortemente caricaturali, furono approntati da Alfredo Faino

Oggi il rito del rasgamènt  si tiene di sabato in piazza Matteotti, ma un tempo si teneva di GIOVEDI’:

“La sera del giovedì di mezza Quaresima, per simboleggiare la fine della prima parte di questa, ma anche a scopo di satira su avvenimenti politici o d’interesse cittadino, in Piazza Pontida, per iniziativa e a spese degli esercenti del luogo e dei ‘vassalli’ del così detto ‘Ducato di Piazza Pontida’ (specie di società di individui amanti del ridere, mangiare e bere nonché della poesia dialettale), si allestisce uno spettacolo pirotecnico affatto gratuito, rallegrato da una banda musicale a cui assiste sempre una folla strabocchevole accorrente da ogni punto della città.
Un grande pupazzo rappresentante una vecchia, dopo essere stato portato attraverso le vie della città, viene innalzato, verso sera, sul fondo della piazza, tra un apparato di cartoni dipinti e di pali che reggono molteplici girandole più o meno grandi e più o meno complicate che si accendono successivamente, tra il fragoroso scoppio di altri fuochi d’artificio.

La sfilata dei Carri nel 1941

Alla fine, mentre dalla terrazza del palazzo retrostante trabocca un’abbagliante cascata al magnesio, una simbolica sega luminosa fa rovesciare all’indietro e scomparire tra le fiamme di un cratere, tra scoppi e fischi assordanti, la parte superiore del pupazzo.
Dopo di che la folla si disperde commentando allegramente, mentre si spengono le ultime luci e le ultime note della banda”.

La sfilata dei Carri nell’edizione del 1942

Il fantoccio della “Vecchia” veniva prima segato e poi messo al rogo attraverso uno scoppiettante e chiassoso spettacolo pirotecnico.

Oggi dell’antica usanza non ne resta che il dettato: il “segamento” è solo simbolico (per darne la sensazione il pupazzo è sostituito da un gigantesco cartellone che viene tagliato a metà da una metaforica sega luminosa).
..”nonostante di quando in quando spunti qualche moralista scrupoloso a deprecare tanto sfarzo di fuochi artificiali e tanta sana ilarità popolare, in nome dell’austerità (che gli scimmiottatori anglomani hanno stupidamente tramutato in austerity) e dei tempi calamitosi. «Guardiamoci da chi non sa ridere», diceva Giovanni Banfi”.

La sfilata dei Carri negli anni Cinquanta

Le stesse suggestioni di allora, rivivono in una poesia del primo Duca di Piazza Pontida, Rodolfo Paris (la traduzione nella didascalia seguente):

I giràndole, i fontane,
föch in aria, póm granàcc,
che i se dèrv e i furma grane
de brilàncc bèi facetàcc:
Vrach, zach, tach; pò öna grand lüs
de bengài che i góta arzènt,
che i ris-ciara, che i sberlüs,
e la zét che fà moimènt …
E intramèss a lüs e ciàs,
chèsta Ègia pitürada
la par quase dré a speciàs
per vèss bèla e cincinada,
ma ’n d’ü tràcc la s’ dèrv in dù
e del còrp ghe é fò i moscù.
Dopo chèst, dò o trè bombade,
pò ’n de l’ombra l’ turna töt …
Vià la zét per i contrade,
ol Piassàl l’è quiét, l’è öd:
gloria, onùr, föch e bordèl,
töt a l’ passa, ol bröt e ’l bèl

Piazza Pontida nel 1924: Il rogo della “Nona” avvenuto dopo il “segamento”. Le girandole, le fontane, / fuochi in aria, melegrane, / che si aprono e formano grani / di brillanti ben sfaccettati: / Vrach, zach, tach; poi una grande luce / di bengala che gocciolano argento, / che rischiarano, che risplendono, / e la gente che fa movimento … e così, fra luci e chiasso / questa vecchia dipinta, quasi che stia a specchiarsi / per essere bella e cincischiata, / ma in un tratto si apre in due / e dal corpo le escono i «mosconi» [fuochi d’artificio]. / Dopo questo, due o tre bombardate, / poi nell’ombra torna tutto… / via la gente per le contrade, / il piazzale è quieto e vuoto: / gloria, onore, fuochi e strepiti, / tutto passa, il brutto e il bello (Rodolfo Paris) – (Archivio storico-fotografico Domenico Lucchetti)
Esilarante fu il “segamento” del sole di Giovanni Paneroni, Superastronomo. La sua frase più ricorrente era: “La terra non gira o bestie!”.
Si fermava spesso fuori dai licei per bloccare gli studenti, intrattenendoli con le sue strambe teorie: “Dicono che l’aria ci sostiene. Ma bestiacce! È la salute che ci sostiene. Provate a tirare una rivoltellata nella testa a uno e vedrete se l’aria lo sostiene. Cadrà di certo per terra!”.

Giovanni Paneroni, Superastronomo (Archivio storico-fotografico D. Lucchetti)

Pubblicò persino un giornale con questa testata: “NUOVlSSlMA TREMENDA GEOGRAFIA DI PANERONl”: Copernico e Galileo sbagliarono – La terra è piana infinita ferma – il sole è largo 2 metri colla velocità di 2000 chilometri all’ora gli circola sopra e conservando sempre l’altezza di mille chilometri – Sembra a tutti che levi e tramonti – Questo grande divertente profondo studio costa soltanto lire “una” – Vale dei milioni”.

Venne “segato” sulla pubblica piazza senza pietà.

Il “segamento” di Paneroni in Piazza Pontida (Archivio storico-fotografico D. Lucchetti)

Ma il rogo da molti anni non si tiene più in Piazza Pontida.
A sera sotto i quattrocenteschi portici dei Gentiluomini, a Occidente, e quelli settecenteschi della Gallinazza, a Settentrione – edificati in sostituzione delle baracche di legno dei negozi trecenteschi -, si profilano le ombre delle colonne.

La vita non ferve più come un tempo nell’antica Piazza della Legna.

A notte fonda, quando si è placato il fragore del traffico urbano e la piazza è completamente deserta, potresti forse intravedere due figure evanescenti, Rodolfo Paris, infagottato nel vecchio tabarro, la larga tesa del cappello a fungo calata sulla fronte, e Alfredo Faino, in doppiopetto, la giannetta dal pomello eburneo stretta fra il braccio e il fianco, mentre si recano a salutare Pietro Ruggeri, solo e dimenticato sul piedistallo marmoreo all’angolo delle Ortolane.

 

Riferimenti
Umberto Zanetti, Bergamo d’una volta
Pilade Frattini, Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo.

* Ringrazio Laura Ceruti per l’originale raffigurante i portici di Piazza Pontida.

Lo storico Caffè Balzer sul Sentierone, specchio di un’epoca

Il nome “Balzer” suona come una piccola melodia che riecheggia nell’aria evocando profumi e sensazioni palpitanti di vita, e vien voglia di pronunciarlo lasciandosi trasportare dalla scia di storie non poi così lontane.

Quando nel 1936 i Balzer, mercenari originari del Leichtenstein, aprirono i battenti del famoso “Caffè”, potevano già vantare un passato di tutto rispetto avendo già aperto dal lontano 1850 la loro prima pasticceria a Palazzolo sull’Oglio, cui ne era seguita una seconda a Treviglio.

Quando i Balzer nel 1936 aprirono il Caffè sul Sentierone, il Nazionale vi esisteva già dall’Ottocento in un edificio della vecchia Fiera, dove aveva simboleggiato a lungo, grazie all’intraprendenza dell’impresario teatrale milanese Pilade Frattini (che ebbe in gestione anche il Teatro Nuovo e il Casinò di S. Pellegrino), la “Belle Époque” in salsa nostrana. Era anche il ritrovo della vita artistica ed intellettuale di Bergamo

I Balzer erano approdati nel cuore di Bergamo bassa rilevando quei locali sotto i portici del Sentierone posti a pochi passi della pasticceria di Ubaldo Isacchi, già stanziata in loco dal 1917, nei locali occupati in precedenza dal Caffè Nazionale, aperto nell’antica Fiera.

L’ingresso dell’autostrada Milano-Bergamo nel 1928, poco dopo l’inaugurazione, con a destra il cartello pubblicitario della Pasticceria Isacchi e, a sinistra, quello del Moderno, albergo “di prim’ordine” (proprietà Museo delle Storie di Bergamo)

Giunta in città, la storica denominazione si riconfermò da subito come uno fra i marchi più prestigiosi, dando avvio ad un’epoca splendente che vide il suo apogeo negli anni Cinquanta e Sessanta, quando Modugno cantava “Nel blu dipinto di blu”.

Lungo il Sentierone nel 1939

 

La storica pasticceria, dal 1936 tra gli eleganti portici affacciati sul Sentierone, di fronte al Teatro Donizetti, domina il viale pedonale aperto nel 1762 come passeggiata per eccellenza dei bergamaschi

Se fino a metà Novecento il Balzer aveva conteso al Nazionale il primato di “Caffè d’eccellenza” del Sentierone, la gestione unificata dei due locali sotto il nome di Sandro Balzer aveva incrementato l’assidua frequentazione dei caffè più eleganti del “corso”, permettendo ai bergamaschi di rivivere l’eco della romana via Veneto.

 

Il Nazionale intorno alla metà degli anni Cinquanta, dopo che Sandro Balzer ne assunse la gestione. Si notino le tipiche tende Balzer lungo tutte le arcate dei portici, sormontati dall’insegna del “Nazionale” (immagine del Fondo Cittadini esposta alla mostra “La città visibile”, organizzata nel 2008 all’allora Museo storico di Bergamo)

 

Capannelli sul Sentierone nel  novembre 1963 (Foto Giovanni Gelmini)

 

Capannelli sul Sentierone nel novembre 1963 (Foto Giovanni Gelmini)

Fu proprio allora che, con Sandro Balzer, venne “rispolverata” la produzione della celebre “Polenta e Osèi”– rivisitazione dolce del tradizionale secondo piatto locale – che da tempo forma un binomio indissolubile con la città, tanto da essere uno dei pochi souvenir esportati in tutto il mondo.

La “Polenta e Osèi”, il dolce tipico di Bergamo, fu creata nel 1907 da Alessio Amadeo nella sua pasticceria di viale Roma, la “Milanese”. Egli la riprodusse in vari formati, ottenendo da subito un grande successo. Venne poi riproposta da altre pasticcerie della città (proprietà Balzer)

 

Gioppino e la “Polenta e Osèi” di Balzer (Archivio Balzer)

 

Brevetto di Balzer della “Polenta e Osèi” (Archivio Balzer)

 

Brevetto di Balzer della “Polenta e Osèi” (Archivio Balzer)

Negli anni precedenti, dai laboratori del Balzer si sfornavano panettoni annoverati tra i più celebrati marchi meneghini, grazie alla capacità di coniugare la fedeltà verso le antiche ricette ai gusti moderni e all’innovazione.

Anni Sessanta: l’ultima sfornata dei panettoni di Natale, prodotti con ingredienti di prim’ordine e capaci di concorrere con le rinomate fornerie meneghine (Archivio Balzer)

 

Il laboratorio Balzer. Giancarlo Balzer ricorda la produzione della pasticceria quando era piccolo e faceva capolino in laboratorio: “Prima i bignè erano uno diverso dall’altro e grandi, le torte molto lavorate e confezionate con meticolosità da mia nonna nel laboratorio” (Archivio Balzer)

 

Il vigile in pedana in piazza Vittorio Veneto (anni Sessanta)

Durante il periodo natalizio gli automobilisti li acquistavano per depositarli all’angolo del Sentierone, di fronte alla Vedovella, come gentile omaggio per i Vigili Urbani.

1967: il punto di raccolta dove a Natale gli automobilisti depositavano il panettone in omaggio ai vigili urbani

 

1967: il punto di raccolta dove a Natale gli automobilisti depositavano il panettone in omaggio ai vigili urbani

 

1967: il punto di raccolta dove a Natale gli automobilisti depositavano il panettone in omaggio ai vigili urbani

 

Piazza Vittorio Veneto e la torre dei Caduti negli anni Cinquanta (Archivio fotografico Sestini – Fondo Cittadini)

 

Bergamo Alta da piazza Matteotti, illuminata in occasione delle festività natalizie

E così fu anche per la “Torta Donizetti”, prodotta da Angelo Balzer nel 1948 in occasione del centenario della morte del noto compositore bergamasco; dolce di cui ancor oggi si conservano i brevetti originali: una torta margherita a forma di ciambella con pezzetti di ananas canditi.

Di nuovo le tende di Balzer nei locali precedentemente occupati dal Nazionale; tuttavia  l’insegna “Nazionale” è scomparsa (da una cartolina d’epoca)

Il suo successo non fu però immediato ed anzi, dopo la chiusura di alcune pasticcerie – in particolare Viola, Amadeo e Calzavara – la torta del Donizetti aveva addirittura rischiato l’”estinzione”: esplose nel 1997, quando la Camera di Commercio invitò il Gruppo pasticcieri dell’Associazione artigiani a rilanciare la torta e a definirne la ricetta, ora arricchita rispetto alla prima versione, con l’aggiunta di albicocche candite per garantire quel tocco in più di freschezza in una torta già di per sé ricca di burro, uova, zucchero e con un intenso aroma di vaniglia.

La nuova ricetta della Torta Donizetti, del 1997, è stata omologata ed inserita in “Bergamo Città dei Mille sapori”, il marchio della Camera di Commercio che garantisce la genuinità dei prodotti bergamaschi (proprietà Balzer)

Una felice intuizione, all’epoca assolutamente innovativa, fu quella di dotarsi di quei simpatici veicoli bicolori che ogni mattina distribuivano in tutta la provincia i prodotti appena sfornati e che ancor oggi rappresentano l’immagine di Balzer riconosciuta in tutto il mondo.

I furgoni di Balzer negli anni Sessanta (Archivio Balzer)

 

Anni `50 del XX secolo. Bergamo  (proprietà Museo delle Storie di Bergamo)

 

LA DOLCE VITA

L’interno di Balzer in un’immagine d’epoca (Archivio Balzer)

Negli anni “ruggenti” – quelli del Tullio, del Sandro, del Nino e del Pasta -, Balzer era il locale di punta della Bergamo chic e salottiera, quando nell’attiguo Teatro Donizetti impazzavano spettacoli di prim’ordine e l’aperitivo così come il dopo-teatro, erano un rito irrinunciabile.

In quegli anni il Donizetti sciorinava il fior fiore delle esibizioni: Lucia di Lammermoor, Don Pasquale, un concerto dell’orchestra d’Archi dell’Angelicum di Milano, i balletti del Festival internazionale di Nervi: Corrida, Cigno nero, Don Chisciotte, Giselle..

 

Un ricordo del Sig. Salvatore, al lavoro presso il Caffè Pasticceria Balzer (per gent.ma concessione della figlia, Renata Pellegrini)

Vi gravitavano i grandi nomi dello spettacolo e della cultura, nazionale ed internazionale: dalla divina Maria Callas al maestro Gianandrea Gavazzeni, da Mastroianni a Gassman, dal sovrintendente Bindo Missiroli alle ballerine classiche come Ivette Chauvrié (étoile e poi direttore dell’Opéra di Parigi), Lina Dayde e Rosella Hithower fino ai cantanti come Renata Scotto, Paolo Washington, Antonio Zerbini, e moltissimi altri.

Nelle soste prolungate ai tavolini all’aperto si dava appuntamento la crème della Bergamo bene composta da habitué: avvocati come Pezzotta, Riva, Graff, Tadini; politici, notai e banchieri, dottori, calciatori, industriali, giornalisti, intellettuali e nobiltà locale.

Uno stand della libreria fondata da Arnoldi sul Sentierone negli anni Trenta. La libreria si trovava in piazza Santo Spirito (proprietà Libreria Arnoldi)

Bisogna ricorrere all’onnipresente “Novecento a Bergamo” per ricordare alcuni fra i nomi degli habitué del Balzer.

L’insegna del Cinema “Centrale” sotto i portici

Fra gli intellettuali spiccava fra tutti il poeta Alberico Sala, insieme ad Emilio Zenoni col già citato Bindo Missiroli e il suo Teatro delle Novità

Gli edifici del nuovo centro progettato da Marcello Piacentini. Fra gli habitué del Balzer v’era anche anche il noto odontoiatra Mike Avetta, il cui cognome campeggiava a caratteri cubitali proprio sopra i portici del Sentierone

Negli anni Sessanta, fra gli habitué locali v’erano Moltrasio, Gilardoni, Nino Zucchelli, Vavassori tutore di Daniele Pesenti, l’altera signora Mina Pesenti, Martino Marzoli, descritto a rincorrere la splendida soubrette Elena Giusti, Aldo Rigamonti..

E ancora Frattini e Siebaneck, “Xella con la sua rombante moto, Marcello Personeni con il suo fascino di gran conquistatore, il giovane giornalista emergente Ravanelli, Renato Cortesi, l’Annalisa Cima di San Giovanni Bianco, sorella cerebrale di quel mattocchio di Francesco. Tutti seduti al Balzer a ciacolare spensieratamente”.

Notturno, 1953

Fra i “principi” del Foro: Pezzotta, Riva, Graff e Guido Tadini con la bellissima Maria: la coppia più in vista della Bergamo più snob.

Porta Nuova, 1947

Fra la Bergamo nobile: il conte Marino Colleoni, la baronessa Ninì Scotti con la madre Maria, Gian Maria Suardo, Carlo Bonomi e il caratteristico Stanislao Medolago.

Inoltre, il conte Alberto Mapelli, “sfegatato di auto e di belle donne”, Giancarlo Turani, Dedi Testa, i fratelli Radici, Giampiero Pesenti, Pierino Terzi, “il più grande barzellettiere di quel tempo, scapolo impenitente crollato sul filo di lana..”.

Trofeo Balzer Ciclismo. Anni ’50/’60

Ma vi bazzicavano anche personaggi bizzarri, “amanti e nuovi artisti, sfaccendati e biscazzieri, sensali e finanzieri. Bella gente e anche no, però sempre con un certo stile”.

A spasso per i portici del Sentierone, intorno agli anni Trenta

Un locale popolare e aristocratico, culturale e mondano, serio e pettegolo, tradizionale e moderno, dove passarono la cronaca e la storia.

Notturna, 1950

Gli argomenti spaziavano dalla politica allo sport, dalla cronaca locale agli scandali nazionali, dall’arte alla cultura e, naturalmente, le belle donne.

Il sentierone in veste domenicale (Foto Giovanni Gelmini)

 

Piazza Dante era all’epoca un tripudio di bolidi: c’era l’argentea Mercedes di Ferretti, l’Aurelia e la moto Rumi degli affascinanti fratelli Reggiani.

Motociclisti in piazza Matteotti,  anni ’50. Nell’immagine è ritratto uno dei due figli della famiglia Reggiani, entrambi scomparsi giovanissimi (Foto Gentili)

C’era Sergio Nessi con la Topolino Mille Miglia, Cesare Gambirasi con la Mg e Antonio Cembran con una sorta di ‘portaerei’ americana.

 

E non poteva mancare, nel ricordo di Antonio Cembran, un certo Rififì con tanto di Rolls Royce nera e autista in gambali (1).

Per il suo essere intimamente legato alla vita e agli umori cittadini, il Balzer era perciò era divenuto una costante dei principali reportage giornalistici locali, alla stregua della “dolce vita” di romana memoria.

DAGLI ANNI DELLA CRISI ALLA RINASCITA

La famiglia Balzer condusse la gestione del locale fino al 1986. A distanza di dieci anni e cioè dal luglio del 1996, il salotto buono e caffè storico d’Italia venne chiuso per una crisi causata da costi elevati.

Fine anni `50 – inizio anni `60. Bergamo, Sentierone (proprietà Museo delle Storie di Bergamo)

Si ebbe la sensazione che la sua chiusura coincidesse con la fine di una certa Bergamo. Che si trattasse di un cambio epocale e che il mondo che l’aveva caratterizzato fino a quel momento stesse scomparendo, insieme a quella spensieratezza che si era respirata molto a lungo.

Tanto che quando l’anno successivo il locale riaprì i battenti, in molti si chiesero se ciò potesse bastare per ritrovare quell’atmosfera vagamente mitteleuropea che ne aveva fatto un luogo magico e irripetibile.

Un luogo che aveva racchiuso in un angolo di città, tra migliaia di tazzine di caffè ed aperitivi, il pensiero, l’estro, la gioia di vivere, la voglia di esserci e raccontarsi.

Bene o male, si era chiusa un’epoca.

Dopo il lungo periodo contrassegnato dalla gestione della famiglia Balzer, si sono susseguiti a ritmo sempre più serrato ben sei passaggi di mano: un continuo avvicendamento culminato nel 2014 nell’estromissione dalla guida dei Locali storici d’Italia, dove il locale era regolarmente inserito fin dagli anni Novanta del secolo scorso insieme al Caffè del Tasso di Piazza Vecchia e al Caffè Falconi di via Camozzi (2).

Una crisi imputabile in parte anche al fenomeno dello “svuotamento” del centro, che sempre più occupato da banche ed uffici aveva portato la comunità cittadina a cercare altrove i suoi luoghi di incontro.

Mamme e bambini in Piazza Dante negli anni Cinquanta

Oggi, lasciatasi alle spalle le passate traversie, la storica insegna è oggetto di un progetto di rilancio che sembra andare di pari passo con la voglia di recuperare a nuova vita e a nuova energia il centro cittadino.

La rinascita del locale-simbolo della città è stata affidata all’estro e all’esperienza dello chef Vittorio Fusari, intenzionato a ricostruire il prestigio di un marchio che è strettamente legato al mondo del dolce.

Le medaglie di cioccolato dedicate a Donizetti (proprietà Balzer)

La pasticceria è perciò tornata ad essere protagonista assoluta nel rinnovato Balzer, tornando ad essere tutta prodotta nei grandi laboratori del seminterrato del locale, compresi i lievitati – i dolci storici del Balzer -, che tanta celebrità han dato ad un marchio capace di espandersi ben oltre i confini della provincia.

I celeberrimi panettoni “Balzer” (proprietà Balzer)

Un grande lavoro è quotidianamente orientato a recuperare i piatti e i dolci storici del Balzer, quelli che parlano alla memoria dei bergamaschi, alleggeriti però nelle calorie.

A livello più generale Fusari ha rivalutato il concetto di “osteria”, tornando a concepire il locale come un luogo di aggregazione, non solo attraverso una una proposta molto diversificata ed articolata, tesa a soddisfare le esigenze più svariate, ma anche creando più posti a sedere e rendendo accoglienti diversi angoli che erano stati dimenticati nel tempo, sempre nel rispetto dei dettagli storici.

L’interno (proprietà Balzer)

 

Proprietà Immobiliare della Fiera

Per quanto concerne la cucina (sempre aperta), la creatività si coniuga alla freschezza e alla qualità delle delle materie, con una spiccata predilezione per le biodiversità locali, per i prodotti provenienti da agricoltura biologica, per l’utilizzo più tradizionale delle tecniche di cottura, raffreddamento, fermentazione e trasformazione.

Proprietà Immobiliare della Fiera

“Una cucina che sceglie il rispetto del lento scorrere delle stagioni e che si ancori alla memoria della propria cultura e delle proprie origini”.

E se lo dice Vittorio Fusari, possiamo credergli.

Note

(1) “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

(2) Nel 2014 l’attività venne rilevata dal gruppo arabo di Dubai Dnata, uno dei maggiori fornitori al mondo di servizi nel settore aeroportuale, che già dal 2008 deteneva il 50% delle quote insieme alla Servair Air Chef, società francese specializzata nella gestione di bar e nella ristorazione aeroportuale. Il 30 gennaio del 2015 il testimone passò nelle mani dell’esperto imprenditore toscano Giovanni Barghi. Nel febbraio del 2018 la gestione venne ceduta all’imprenditore Patrizio Locatelli, con l’intento di riportare a Bergamo l’eccellenza e la qualità Balzer. Dal marzo 2018 la società capitanata da Patrizio Locatelli ha affidato allo chef Vittorio Fusari il progetto di rilancio della storica insegna del Sentierone.

Quando si pattinava al laghetto di Valverde

Al giorno d’oggi sembra difficile immaginare che fino a qualche decennio fa nella conca sotto il Pianone si trovasse un bucolico specchio lacustre, che fungeva da piscina: era profondo quanto bastava per permettere ai ragazzi di sguazzarvi negli assolati pomeriggi estivi, anche se il fondo terroso ne intorbidiva un po’ l’acqua.

La terrazza del ristorante Pianone, in Castagneta, con ai suoi piedi una città ancora verdissima

Le pozze e gli specchi d’acqua del resto non sono infrequenti da queste parti, dal momento che per sua natura tutto il versante è da sempre lambito da rivoli e ruscelletti, la cui esistenza è favorita dalla presenza della roccia che sostenta questa parte del colle: l’Arenaria di Castagneta, una formazione molto simile all’Arenaria di Sarnico.

Il panorama verso Valverde e la Maresana

Grazie alla sua resistenza, per secoli è stata cavata come pietra da costruzione ed impiegata per edificare un discreto numero di monumenti,  come Santa Maria Maggiore e Porta S. Agostino. Ma è stata molto utilizzata anche per realizzare stipiti, colonne, cornici, pavimentazioni esterne e numerosissimi elementi decorativi.

L’Arenaria di Castagneta è impermeabile quanta basta da consentire l’accumulo di discrete quantità d’acqua, che soprattutto in passato e nei periodi di piogge abbondanti, affioravano in superficie sotto forma di sorgenti o rivoli di ogni specie. E a pensarci bene, non è proprio qui, lungo il versante oggi tutelato dal consorzio del Parco dei Colli che i Romani realizzarono l’acquedotto più antico della città, con tanto di canali, uschioli e cisterne? Fu proprio grazie alla grande disponibilità idrica presente in loco, che i nostri avi poterono rifornirsi, per secoli e secoli, di acqua utile alla vita.

L’acquedotto dei Vasi raccoglie lungo il suo tragitto le acque sorgive dislocate tra gli avvallamenti boscosi posti dalle pendici che dal Monte Bastia vanno ai fianchi del crinale, spingendosi sin verso Valmarina, da cui risale per la località Gallina e Castagneta. Proprio nella zona di Valmarina, il tracciato della sinuosa via dei Vasi (da non confondere con l’originaria via dei Vasi ubicata lungo l’omonimo sentiero), nasconde ancora una porzione dell’antico acquedotto – con tanto di uschiolo d’ispezione e di cisterna per la raccolta delle acque -che da qui risale verso “Gallina” per poi attraversare via Castagneta e raggiungere la cisterna interrata nel baluardo di S. Alessandro 

Ma se – e non senza una punta d’invidia – oggi fatichiamo a immaginare i nostri nonni sguazzare liberamente ai piedi della collina, non possiamo che meravigliarci nell’apprendere che quello stesso specchio d’acqua nel periodo invernale diventava una vera e propria pista da pattinaggio: una sorta di pala-ghiaccio ante litteram, contornato dai freschi e molli declivi del versante nord.

La pista di Valverde, ai piedi della conca distesa tra il Pianone e la località Gallina

Ma attenzione, non si trattava di una pista qualunque, bensì di un vero e proprio ritrovo “en plein air”, organizzato e fornito di tutto il necessario per mantenere il manto ben ghiacciato ed allietare la permanenza chi lo frequentava: uomini e donne, ragazzi, bambini ed intere famiglie, provenienti perlopiù da Valverde e da Valtesse, o dalla Ramera e Pontesecco, ma anche dal resto della città.

Pattinaggio a Valverde nel 1938. Una delle poche immagini del pattinaggio riprese con I’obiettivo rivolto verso Valtesse e il colle della Maresana

Se il caso aveva voluto che tutta l’area fosse mirabilmente ricca d’acqua, l’esposizione a nord aveva fatto il resto mantenendo il laghetto ghiacciato per tutto l’inverno.

La gente vi confluiva numerosa da ogni parte della città: si trattava perlopiù di giovani e ragazze che vi arrivavano in bicicletta o col famoso “cavallo di San Francesco” (cioè a piedi).

Le biciclette parcheggiate alla pista di pattinaggio di Valverde

C’erano guardiani che si davano il turno per custodire la pista, che era provvista anche di illuminazione.

Il servizio di pattinaggio comprendeva una casetta per ospitare il bar e tutta la “squadra” dell’organizzazione.

Esperti e non, alla pista di pattinaggio di Valverde

Gli anziani del posto raccontano che nelle sere d’inverno, quando l’attività sulla pista era ormai terminata, aiutavano il gestore a versarvi dell’acqua , che durante la notte sarebbe gelata rinnovandone il manto.

Tutti insieme appassionatamente, alla pista di Valverde!

La pista era frequentata da pattinatori di ogni tipo: sia da quelli muniti di pattini, già in grado di pattinare, e sia da quelli che, totalmente inesperti, vi pattinavano alla buona. Perciò quegli stessi ragazzi – gli anziani di Valtesse e di Valverde che oggi raccontano questa storia – aiutavano quelli di città a cimentarsi sulla pista, rimediando così qualche mancetta che in tempi avari di possibilità – com’erano quelli di allora – risultava sempre assai gradita.

Giovani pattinatori in posa sul laghetto di Valverde, 1935 (Raccolta D. Lucchetti)

Grazie alla lungimiranza di Domenico Lucchetti, che ha raccolto e conservato gran parte di queste sbiadite fotografie, oggi possiamo assaporare il ricordo del perduto laghetto di Valverde, già esistente  dalla fine degli anni Venti.  Lo apprendiamo da un articolo dell’”Eco”, datato 14 gennaio 1929:

“Belle, gaie volate sul ghiaccio! Scrosci di risate che echeggiano nella valletta, capitomboli. Sotto la luce dei riflettori la pista brilla come un pavimento di madreperla. I novellini si guidano a brigata, un braccio qua, uno là. Il campione, in mezzo alla brigata, trascina. Ordine e eleganza: maglia, golf, calzettoni, pellicce, sciarpe, berrettoni. Tutte le fogge e tutti i colori: dal rosso sangue al cobalto mare, dal bianconero al giallo limone. Tutta una tavolozza sgargiante e festosa”.

Il laghetto Di Valverde agli albori del Novecento (Archivio Storylab)

Col dopoguerra, la città cominciava a cambiare e a poco a poco il cemento avrebbe divorato gli ultimi lembi di prato: alla fine degli anni Cinquanta anche il laghetto di Valverde scomparve, fra il rimpianto di molti.

Ma non cessò la passione, a lungo coltivata da alcuni ex-pattinatori del laghetto, che di lì a poco formarono il “Gruppo Pattinatori Bergamo” e diedero vita alla nuova pista ghiacciata della Malpensata, inaugurata nel febbraio del 1955.

Nota
Le fotografie non contrassegnate da una data, risalgono agli  anni ’30 o ’50.
Riferimenti
– “Valverde e dintorni” – Centro ricreativo Valtesse per la Terza Età – A cura di Gino Pecchi.
– “Bergamo nelle vecchie fotografie” – Domenico Lucchetti. Grafica Gutemberg.