L’osso del Santuario di Sombreno: una nuova, affascinante ipotesi emersa alla luce delle recenti scoperte

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini

A un anno esatto dalla rimozione dal soffitto del Santuario della Natività della Beata Vergine, l’ormai celebre osso di Sombreno ha potuto far finalmente ritorno alla sede che a lungo lo ha ospitato sul panoramico avamposto affacciato sulla piana del Brembo.

L’evento ha riguardato la serata dello scorso 7 settembre, durante la quale Marco Valle – direttore in carica del nostro Museo di Scienze Naturali – ha reso noti i risultati delle analisi svolte sul misterioso reperto, al fine di accertarne la reale natura.

La locandina posta all’esterno del santuario

Un’indagine totalmente documentata, svolta a partire dalla fatidica data del 13 settembre del 2018, quando, approfittando dell’impalcatura montata per il restauro del santuario, il personale del Museo, dietro incoraggiamento del parroco don Sergio Paganelli e con il benestare della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, prelevava  dalla storica sede il reperto paleontologico, insieme alla catena di fattura settecentesca che lo assicurava saldamente al soffitto.

Tutto comincia il 13 Settembre 2018: il lungo riposo dell’osso del santuario sta per terminare

 

13 Settembre 2018: tra mille cautele l’osso viene rimosso dal soffitto per essere portato al Museo di Scienze Naturali  in piazza Cittadella, dove verrà trattato ed esaminato

Nel corso della storica serata che ha svelato i misteri legati al prezioso cimelio, il pubblico presente ha colto l’occasione per ammirare il santuario nella sua nuova veste, abbellito da una sapiente opera di conservazione e consolidamento che ha valorizzato la luminosità degli stucchi secenteschi e portato alla luce gli ormai noti affreschi, rinvenuti per larga parte nel corso dei lavori e legati per lo più – come del resto gran parte dell’apparato iconografico dell’edificio – al sacro tema ispiratore del sito: quello della Natività di Maria.

Don Sergio Paganelli, parroco di Sombreno, nel corso della presentazione della conferenza dedicata al ritorno dell’osso nel Santuario nel quale si trova da tempo immemorabile. Al centro dell’altare maggiore fa capolino la pala dello Zanchi intitolata alla Natività di Maria, tema che ha dato il nome al Santuario

Per oltre cinquant’anni, confidando nell’ipotesi del prof. Enrico Caffi (1866-1950), ci siamo cullati nella convinzione che l’osso appartenesse a un mammuth (elephas primigenius ossia progenitore degli odierni elefanti), vissuto nei pressi in età preistorica.

L’osso appeso a una trave del soffitto del Santuario di Sombreno, identificato nel 1934 da don Enrico Caffi come la costola sinistra di un mammuth (Archivio Wells)

Durante alcuni scavi effettuati tra il 1905 e il 1914, dai depositi argillosi della piana di Petosino di Sorisole (un’antica palude lacustre), poco distante dal Santuario, erano emersi denti, zanne e numerose ossa di mammuth, ed altre testimonianze fossili di vertebrati (poi donati dalla Società del Gres al Museo di Scienze Naturali), oggetto di un successivo articolo vergato dal Caffi  (1).

La piana di Petosino, a ridosso dello sperone collinare di Sombreno. L’ipotesi del Caffi era avvalorata dai ritrovamenti venuti alla luce nel corso degli scavi effettuati ai primi del Novecento nei depositi argillosi della piana del Gres – gli stessi sfruttati per oltre un secolo dall’attiguo stabilimento per la produzione di manufatti -, quando erano emersi alcuni resti di Mammuth ed altre testimonianze fossili di vertebrati e vegetali

Incuriosito dall’osso di Sombreno, e tenendo conto dei ritrovamenti d’inizio Novecento, l’esimio professore – primo direttore del Museo -, forte del suo indiscusso prestigio di scienziato aveva identificato l’osso nella costola sinistra del primigenio elefante, che doveva provenire dalla piana di Petosino, sebbene risalente ad un periodo anteriore rispetto ai resti di mammuth citati poc’anzi.

Elucubrando sull’osso del santuario Caffi si spinse un po’ troppo in là con la fantasia, asserendo che questi era stato ritrovato al di sotto degli strati argillosi della piana, sfruttati da tempi immemori per la produzione di ottime stoviglie. Egli immaginava che quando in qualche punto gli scavi dovettero raggiungere la zona fossilifera – non adatta per stoviglie – l’area fosse stata abbandonata e risepolta sino al’arrivo degli escavatori, che rinvenuto il fossile   e ritenendolo “un avanzo del diluvio, lo considerarono come sacro e degno di essere conservato nella Chiesa”.

Il laghetto del Gres nella piana di Petosino (Sorisole), noto deposito di argille esteso tra il torrente Quisa e la collina di Bergamo, sfruttato da tempi immemori per la fabbrica di “proverbiali” stoviglie nonché dalla nota fabbrica del gres, da tempo dismessa

La perentorietà della sua affermazione suonava come una sentenza inappellabile, scagliata contro le leggende locali e contro l’interpretazione avanzata dall’ “enclave” del santuario sulla collina, dove, per diversi motivi, l’osso in questione veniva attribuito ad un cetaceo anziché a un mammuth.

Ma la sentenza del Caffi, se poteva aver rassicurato gli uomini di scienza, non convinceva né gli animi semplici dei popolani né i voli pindarici di coloro che sicuramente egli considerava dei visionari.

Veduta verso nord-ovest dal Santuario di Sombreno

Vi era una leggenda infatti – riferiva il Caffi nel 1942 – che attribuiva la costola di Sombreno “a un mostruoso animale che insidiava la vita degli uomini saggi”: leggenda che insieme ad altre pare essere archiviata nel Santuario e che in quanto tale non deve stupire, dal momento che in Italia sono molti gli edifici sacri a conservare ossa od altri resti animali, trovando riscontro o dando vita ad antiche leggende popolari che li attribuiscono a draghi o a mostruosi serpenti.

“Le nostre chiese, monumenti di fede, furono anche i primi musei d’arte e di storia naturale”, scriveva a tal proposito il curato del santuario di Sombreno, Don Angelo Rota, nel 1963.

L’osso appeso a una trave del soffitto del Santuario di Sombreno (Ph Maurizio Scalvini)

I reperti zoologici potevano giungere da lontano attraverso chissà quali peripezie, od essere rinvenuti nei territori circostanti, come la grande costola di Balena appesa nella chiesa di San Giorgio in Lemine, ad Almenno San Salvatore e a un tiro di schioppo da Sombreno: osso che gli antichi abitanti almennesi ritenevano appartenere al drago ucciso da San Giorgio e che secondo Caffi fu ritrovato in loco durante gli scavi per la fabbrica della Chiesa e dello scomparso Castello: trovata cioè nelle argille marine depositate dall’antico mare pliocenico, insinuatosi sin verso il territorio di Almenno, Villa d’Almè e Clanezzo in Val Brembana.

La stupenda chiesa romanica di San Giorgio in Lemine ad Almenno San Salvatore, in provincia di Bergamo. Appesa a una trave dell’abside, al centro dell’immagine, una grossa costola, che secondo la leggenda apparterrebbe al drago sconfitto dal San Giorgio, la cui gesta sono raccontate nei numerosi affreschi di cui è ricca la chiesa: secondo la tradizione, il Santo sconfisse un drago – simbolo del maligno – per proteggere la principessa

 

La costola di Balena nella chiesa di San Giorgio in Lemine ad Almenno San Salvatore, in provincia di Bergamo

Reliquie che, di volta in volta, oggi attribuiamo – facendo non poca confusione – alla vicinanza del fiume Brembo piuttosto che allo scomparso e mefitico lago Gerundo (il grande acquitrino che fino al medioevo si allargava tra l’Adda e il Serio e secondo alcuni fino al Brembo e all’Oglio), dai cui fumi emergeva il drago Tarantasio (le misteriose esalazioni erano dovute in realtà alla presenza nel sottosuolo di metano e acido solfidrico). Oppure, appunto, all’antico mare Adriatico del Pliocene, che ad Almenno era un golfo nel quale la Balena di San Giorgio avrebbe lasciato i suoi resti.

E se nel nostro pliocene la costola di San Giorgio in Lemine era il primo resto di balena – scriveva il Caffi – “altrove nelle stesse argille furono raccolti numerosi avanzi”.

D’altro canto però, i religiosi arroccati sulla collina di Sombreno attribuivano il singolare osso a “un’enorme costa da cetaceo”, aggiungendo che secondo il parere di un “distinto professore di storia naturale” il reperto doveva corrispondere in lunghezza alla sesta parte dell’animale: una notizia, questa, racchiusa in un opuscolo riguardante il santuario, pubblicato nel 1923 dal sacerdote Daniele Secondi (2).

Il pannello illustra a sinistra, l’appendice dell’opuscolo pubblicato dal sacerdote Daniele Secondi nel 1923, ovvero il primo documento che riporta dati sulla costola conservata a Sombreno. L’articolo fa riferimento a “L’OSSO FAMOSO” termine che anche nei decenni successivi verrà utilizzato per indicarlo. L’autore lo definisce “un’enorme costa da cetaceo” fa inoltre riferimento alla “distinta famiglia Moroni… che aveva pur casa a Venezia” ed alla scritta AIM (A Imperitura Memoria). A destra, l’articolo apparsi su L’Eco di Bergamo del 2 aprile del 1947 del prof, E. Caffi

Nel chiedersi il perché della presenza dell’osso di Sombreno, come e quando fosse arrivato nel santuario e per mano di chi, il sacerdote riteneva che, come ipotizzato dal  parroco locale, il reperto fosse giunto in loco mediante la “distinta famiglia Moroni”, famiglia sombrenese che si era elevata al rango patrizio grazie al commercio marittimo in quel di Venezia, e che aveva concorso all’arricchimento del santuario attraverso la donazione di numerosi arredi.

Non era quindi strampalato supporre – scriveva il sacerdote – che imbattutosi in mare in un terribile scontro col cetaceo, dopo aver scampato una sciagura qualcuno di tale famiglia avesse “trasportato nella amata chiesa tale avanzo” – l’osso famoso – “a trofeo di vittoria, ed a monumento di gratitudine”.

Nell’opuscolo pubblicato dal sacerdote Daniele Secondi nel 1923, è formulata  la teoria di un mostro marino nel quale si sarebbe imbattuto un membro della famiglia Moroni, e si allude allo scampato pericolo di questi, che “a trofeo di vittoria, ed a monumento di gratitudine” avrebbe portato l’osso famoso “nella amata chiesa”

A suffragio di tale interpretazione, il Secondi poneva l’accento sulla scritta AIM che appariva sull’osso, e che non poteva che significare A Imperitura Memoria.

Particolare dell’osso di Sombreno, con la misteriosa scritta “AIM” disegnata sulla sua superficie

In merito a tale questione, dopo quasi cinque lustri e precisamente nel 1947, in un articolo de L’Eco il Caffi parlava espressamente della costola con la scritta AIM ed esternava la sua contrarietà, scrivendo che per essere la costola di una balena era tutt’altro che enorme se confrontata con quella della Basilica di San Giorgio, che aveva una lunghezza doppia.

Non v’erano dubbi: la costola (che aveva asserito essere quella di sinistra, “piatta e curva”) apparteneva a un grosso elefante, aggiungendo che “non abbiamo bisogno di ricorrere alla storiella che essa sia stata portata da uno della famiglia Moroni, che aveva casa anche a Venezia, quando ne troviamo un deposito ai piedi del Colle di Sombreno”.

E in quanto alle leggende locali, come abbiamo capito le rigettava sdegnosamente e in toto.

Dettaglio dell’articolo apparso su L’Eco di Bergamo del 2 aprile del 1947, dove E. Caffi parla espressamente della costola con la scritta AIM e riferisce della presenza della firma al Prof. Venanzio Egidio con la data 14.1.1899 allora direttore del Museo di Bergamo

Oggi, considerati i dubbi che da tempo gravano attorno all’osso del santuario, si è voluto riconsiderare la questione alla luce dell’esattezza offerta dai nuovi ritrovati tecnologici, che hanno permesso di datare lo scheletrico esemplare ed esaminare molto da vicino i particolari della sua superficie.

Il santuario illuminato per una a serata speciale dedicata all’ “Osso famoso”

 

Dopo un tramonto spettacolare, il panorama notturno sul Monte Linzone

I risultati delle ricerche e delle analisi svolte sull’osso di Sombreno sono stati resi noti in occasione dei festeggiamenti per la Natività di Maria, alla presenza di un attento pubblico composto per lo più dagli abitanti del luogo – da sempre partecipi alle vicende del “loro” santuario – e da alcuni giornalisti.

Il pubblico presente alla conferenza dedicata al ritorno dell’osso nel santuario, tenutasi in occasione della festa della Natività di Maria

 

La postazione dedicata al reperto, accanto alla porta della sagrestia

Con l’ausilio di alcuni pannelli esplicativi, Marco Valle ha illustrato passo dopo passo le procedure preliminari di pulizia e consolidamento dell’osso, da cui sono emerse le prime, interessanti notizie.

IL PRELIEVO E IL RESTAURO DELLA COSTOLA

Il 13 settembre 2018, nel corso dei lavori di restauro del santuario il personale del museo preleva il reperto e la catena che lo sospende al soffitto. Nonostante la costola presenti, soprattutto  superiormente, una superficie molto scura costituita da grasso ed alcune macchie di ruggine, la sua struttura è solida e con la dovuta cautela viene trasportata nei laboratori del museo, dove vengono valutate le modalità di intervento, a partire dalla pulizia effettuata mediante prodotti non aggressivi (che non alterano la superficie del reperto) o reversibili.

Pannello esplicativo riguardante le procedure di pulizia e consolidamento svolte nel Museo di Scienze Naturali di Bergamo

 

L’usura e la forma allungata della catena raccontano che prima dell’osso il manufatto deve aver sorretto, se sommate, tonnellate di polenta messa a cuocere nel camino

 

La vecchia catena che assicura la costola al soffitto, dopo la ripulitura

Le zone annerite e la ruggine dovuta al prolungato contatto con la catena di ferro, vengono delicatamente asportate mediante sostanze specifiche, mentre la superficie dell’osso viene consolidata grazie ad un’apposita soluzione.

Per l’asportazione della patina scura costituita da grasso sono stati effettuati impacchi con Carbogel: un gel neutro che mantiene alto tenore di umidità ed assorbe lo sporco presente in superficie senza alterare il substrato. Le macchie di ruggine sono state trattate con uno specifico prodotto anche se i risultati non sono stati completamente raggiunti. La superficie dell’osso è stata consolidata con una soluzione di Acetone e Paralold B72 al 4%

Per riportare l’osso alla condizione originale, vengono asportate le scritte dei nomi che appaiono sulla superficie liscia della costola, e che erano state eseguite nella prima metà del Novecento dalle maestranze allora impegnate in lavori di tinteggiatura del santuario.

La scritta autografa sull’osso, fotografata e poi eliminata, riportava: Bonacina Giuseppe – Ponte San Pietro 8-5-1947

Dall’osservazione del reperto emerge che l’osso non è un fossile (in ciò contraddicendo Caffi), in quanto i tubercoli che ne caratterizzano la superficie si presentano puliti e non  ingombri di materiale come argilla, terriccio o simili, come avviene solitamente nei fossili.

Dettaglio dei tubercoli che rivestono la superficie della costola

Alla domanda di una signora che chiede lumi riguardo il peso dell’osso, il relatore si accorge di non aver rilevato il dato. In ogni caso la lunghezza della costola è di 169 centimetri, ossia 11 cm in meno rispetto a quelli calcolati da Enrico Caffi.

Le reali misure dell’osso del santuario

La ripulitura dell’osso ha messo in evidenza anche il vistoso rigonfiamento nella parte distale, dovuto a una fattura malamente ricomposta.

AIM: QUALE IL SIGNIFICATO?

Ma il momento topico della serata inizia con l’osservazione delle scritte storiche che erano state  segnalate dal sac. Secondi e citate dal Caffi, e che sottoposte a illuminazione ultravioletta da Franco Valoti hanno rivelato un esito del tutto inaspettato.

E qui occorre fare un passo indietro: il sacerdote Secondi nella “guida” del 1923 asseriva che la scritta presente sulla superficie dell’osso, che interpretava come AIM, poteva essere stata eseguita da un membro della famiglia Moroni a significare “A Imperitura Memoria”, in riferimento allo scampato pericolo occorso in mare dopo l’incontro con una balena.

Particolare della scritta sull’osso di Sombreno

La luce ultravioletta ha invece evidenziato che le lettere A e M non sono inframmezzate da una “I” maiuscola – come si credeva – bensì da una croce: pertanto, alla luce della nuova scoperta l’interpretazione di quello che si credeva essere l’acronimo di “A Imperitura Memoria” non è corretta.

Quale significato cela dunque la croce interposta tra le lettere A e M? Riusciremo a dare una risposta?

La fotografia eseguita con luce ultravioletta da rivela a sorpresa che in realtà le lettere A e M sono intercalate da una croce e non da una “I” maiuscola, infittendo il mistero che avvolge l’osso famoso di Sombreno

LA DATAZIONE DELL’OSSO TRAMITE L’ANALISI AL RADIOCARBONIO

Passiamo ora alla datazione dell’osso, per la quale si è estratto un frammento di tessuto dal peso di circa 5 grammi inviato all’Università del Salento, dove è stato sottoposto all’esame del Carbonio 14.

Per inciso, il campione è stato rimosso una porzione già micrifratturata del callo osseo presente nella parte distale della costola.

Il campione osseo (poi ricollocato) inviato all’Università del Salento per datazione al Carbonio 14. L’analisi al radiocarbonio valuta la presenza del radioisotropo del Carbonio ed è in grado di dare indicazioni sulla data nella quale la sostanza organica è stata sintetizzata (fornendo in parole povere indicazioni sulla datazione dell’osso)

Gli esiti dell’analisi al radiocarbonio fanno risalire con tutta probabilità la costola ad un periodo compreso tra il 1432 ed il 1591: ciò significa che essa non può essere quella di un Mammouth, smentendo decisamente la sentenza del Caffi.

Il risultato dell’analisi al Carbonio, con la datazione dell’osso

ELEFANTE E CETACEO A CONFRONTO

Una successiva immagine mette a confronto le costole di un elefante con quelle di un capodoglio, ossia un grosso cetaceo:  le prime appaiono come delle “strisce” sottili ed uniformi, mentre le costole di capodoglio sono a sezione rotondeggiante proprio come la costola del santuario, che è da ricondurre con sicurezza ad un  cetaceo – forse una piccola balena -, vissuto all’incirca 500 anni fa, in pieno Rinascimento.   

L’immagine comparativa tra le costole di un elefante (a sinistra) e le costole di un capodoglio (a destra)

LA SORPRESA…

A questo punto la testolina del reporter Maurizio Scalvini comincia a macinare: “quali dati abbiamo a disposizione?”.

  • Le lettere A e M disegnate sull’osso sono inframezzate da una croce;
  • la costola appartiene ad un cetaceo vissuto tra il 1432 ed il 1591.

L’intuito lo porta a dare un’occhiata all’affresco Moroni, che si trova verso l’ingresso del santuario.

Lo splendido affresco Moroni, meraviglia cinquecentesca riemersa pressoché intatta col recente restauro del Santuario; raffigura la Madonna con Bimbo, San Rocco e San Fermo o San Rustico (che appaiono solitamente accoppiati e senza tratti distinguibili)

Lo sguardo cade ai piedi delle figure, dove un cartiglio indica che l’affresco è un ex voto, recando anche il nome di Antonio Moroni da Breno, con la data di esecuzione: il 15 Maggio 1580.

Intorno a quella data dev’essere dunque accaduto un un fatto talmente importante, da indurre Antonio Moroni a compiere un voto.

Il cartiglio dell’affresco Moroni indica che l’affresco è un ex voto,  commissionato da Antoni Moroni da Breno ed eseguito il 15 maggio 1580

Riassumendo i dati disponibili:

  • Le lettere A e M disegnate sull’osso sono inframezzate da una croce;
  • l’affresco è un ex voto commissionato da Antoni Moroni da Breno nell’anno 1580 (o al massimo poco prima);
  • il cetaceo è vissuto tra il 1432 e il 1591, quindi nel 1580 era vivo e vegeto.

Le lettere A e M potrebbero corrispondere ad Antoni Moroni da Breno, la cui famiglia intratteneva affari commerciali marittimi in quel di Venezia. Accade dunque che nell’anno 1580 (o intorno ad esso), mentre è per mare Antonio s’imbatte in un mostro marino, e invocati i suoi santi scampa alla sciagura per grazia ricevuta; grazia alla quale ottempera commissionando l’affresco per il santuario, al quale dona un osso di balena su cui fa incidere la sue iniziali.

Queste le congetture di Maurizio.

Le lettere maiuscole presenti sull’osso, fotografate agli infrarossi

Tutte coincidenze? I pezzi del puzzle sembrano incastrarsi, tanto più che si sa con certezza che per le genti di mare era consuetudine regalare alle chiese una costola di balena in segno di grazia ricevuta per scampato pericolo corso in mare.

Un’ulteriore verifica attesta che a Sombreno nel Cinquecento esistevano ben due Antoni Moroni, fratelli di quel Beltrami citato nel cartiglio: tutti membri della famiglia più antica di Sombreno oltre che la più misteriosa fra tutte le famiglie Moroni sparse in Lombardia (3).

Cartiglio dell’affresco Moroni, nel Santuario di Sombreno

Resterebbe da verificare quantomeno un effettivo legame tra costoro e i viaggi in mare, per completare il cerchio di quella che don Angelo Rota, curato di Sombreno, definì “una storia avvolta nel mistero”: un mistero che, in fondo,  non fa che accrescere il fascino che da secoli avvolge il piccolo santuario arroccato sulla collina.

 

Note

(1) ENRICO CAFFI, Sul deposito di argille del Petosino (Sorisole, provincia di Bergamo), Rivista di Bergamo, vol. 6 (1934).

(2) Sac. Daniele Secondi, da: Il “santuario e l’antica parrocchiale – Umile guida – 1923 tipografia G. Carrara, Bergamo.

(3) A Sombreno i loro successori edificarono la prestigiosa villa che ora è Maccari (meglio nota come villa Moroni-Maccari) e possedevano altre case e una filanda che era annessa ad una villa sei-settecentesca: edifici che vennero acquistati dal conte Pietro Pesenti che ne fece la fattoria.

Ringraziamenti

A Maurizio Scalvini per le notizie, le fotografie e, ultima ma non ultima, la geniale intuizione.

L’anima di Città Alta a rischio estinzione: sempre meno botteghe e abitanti storici

Lo storico negozio-laboratorio dell’orafo Blumer a due passi da Piazza Vecchia chiuderà presto i battenti: «Lascio una strada sporca e invasa dalle auto. E un centro storico che assomiglia sempre più a Gardaland». La notizia, apparsa ieri sul quotidiano locale L’Eco di Bergamo, riapre l’annoso dibattito legato al fenomeno della Turistificazione dei centri storici, che nell’Italia di oggi ha raggiunto dimensioni preoccupanti coinvolgendo centinaia di città e centri minori, favorito dalla diffusione di piattaforme turistiche digitali. Se Venezia e Firenze rappresentano casi estremi della mercificazione dei luoghi, emblemi di una monocoltura turistica ormai irreversibile che vede i centri storici  cristallizzarsi in musei e in location riservate ad eventi, anche quello di Bergamo non si sottrae a questa tendenza, sedotto dall’idea mettere a reddito la sua bellezza. Da quando Bergamo si è scoperta “città d’arte”, alle dinamiche innescate dal mercato immobiliare dagli anni ‘70 si è aggiunto un ipertrofico sviluppo turistico che ha accelerato i processi di espulsione degli abitanti storici (in particolare delle fasce economicamente più fragili), mutando profondamente il tessuto sociale di Città Alta. Si sono così moltiplicate le infrastrutture per visitatori, dalle strutture ricettive (soprattutto airbnb), ai negozi (gadget, fast food, yogurterie.. e l’elenco potrebbe continuare all’infinito), a discapito degli esercizi di prima necessità e del permanere di  artigiani, divenuti ormai introvabili. Ripropongo perciò un resoconto, risalente al luglio del 2014 ma indicativo di un trend che purtroppo non ha subito mutamenti, aggiornando i dati essenziali alla situazione attuale.

Via Colleoni, la via di Bergamo Alta che presenta il maggior numero di attività commerciali, cambiate radicalmente dalla metà degli anni ’70, con il vorticoso susseguirsi  del cambio tipologico dei negozi

Percorrendo la Corsarola – il lunghissimo “serpentone” che da piazza Mercato delle Scarpe si allunga verso la Cittadella – non si può non avvertire un senso di disagio per la crescita spropositata di esercizi commerciali che ben poco hanno in comune con l’identità di un centro storico, un tempo ricco di botteghe e negozi sufficienti a soddisfare il fabbisogno degli abitanti.

Negozi che, nella loro semplicità e in sintonia con il luogo, si accompagnavano  al brulichìo che si svolgeva entro le mura e che nel volgere di poco hanno chiuso i battenti, per lasciare spazio a un cambiamento poco consono ai ritmi e al tessuto sociale della città sul colle.

Uno dei due negozi di frutta e verdura – entrambi affacciati su via Colleoni – che riforniscono il centro storico di Bergamo Alta, dove negli ultimi decenni si è registrata una forte variazione delle attività commerciali

 

La Pasticceria- bar Cavour in via Gombito, aperta nel 1850, può fregiarsi del prestigioso titolo di “Locale storico”

Un problema annoso, quello della penuria di botteghe storiche e di negozi di vicinato, strettamente legato allo  spopolamento verificatosi a partire dagli anni ’60 e alle vertiginose dinamiche del mercato immobiliare, che in pochi decenni hanno ribaltato l’assetto socio-economico di Bergamo Alta con un notevole incremento già a partire dal trentennio 1971/2001.

Le dinamiche legate al profondo mutamento del tessuto sociale di Città Alta di Bergamo, affondano le radici nel decennio che va dagli anni ’50 agli anni ’60, quando all’esodo dei residenti verso la periferia e al conseguente deprezzamento immobiliare dei fabbricati lasciati in disuso, è seguita, dagli anni ’70, la corsa al recupero a vantaggio della speculazione edilizia. Dinamiche cui s’è aggiunto il fenomeno prorompente del turismo, che assommato a una complessa serie di problematiche ha cambiato l’anima di Città Alta, alterandone indiscutibilmente la vivibilità (nell’immagine, il secondo dei due negozi di frutta e verdura di via Colleoni)

Un centro, quello di Bergamo Alta, dove a una compagine sociale un tempo  prevalentemente popolare, ha corrisposto via via la crescita senza precedenti di una classe d’élite composta per lo più da medio-alta borghesia.

Il Caffè del Tasso in Piazza Vecchia, insieme alla pasticceria Cavour, uno dei più antichi locali storici che la storia della città orobica ricordi

Dai dati demografici annuali del Comune di Bergamo degli ultimi 60 anni circa, si può capire quanto profondo sia stato il mutamento, sia per quanto riguarda il calo della popolazione (in larga parte relativo ai ceti più deboli) e sia riguardo la sua composizione sociale.

L’esodo dei residenti dal centro storico verso la periferia si è verificato già a partire dal decennio ’50-’60. Se negli anni ’50 il centro storico era abitato da 8.000 persone, provenienti per lo più dai ceti popolari (una media superiore rispetto a quella del resto della città), nel 1961 la popolazione si è ridotta sino a raggiungere i circa 6.500 abitanti, subendo un ulteriore calo nel 1971 (con  4.109 abitanti) per arrivare a 2438 abitanti dentro le mura nel 2014: 1571 persone in meno rispetto al 1971, pari al 38% della popolazione.
Un’emorragia che si è ulteriormente aggravata, considerato che nel 2016 il numero degli abitanti ha toccato il minimo storico con 2400 unità.

La vetrina del Panificio Tresoldi in via Colleoni 

Per quanto riguarda la composizione sociale degli abitanti dentro le mura, se nel 1971 era molto simile a quella dell’intera città di Bergamo, nel 2001 già si registrava un incremento del 16% di appartenenti al ceto benestante (imprenditori, liberi professionisti, lavoratori in proprio). Un trend che si è progressivamente aggravato a causa della crescita verticale dell’industria del  turismo, che ha fatto sì che negli ultimi quarant’anni le case vuote siano aumentate di sei volte, le abitazioni di proprietà siano raddoppiate e quelle in affitto dimezzate, precludendo l’accessibilità alle giovani coppie con figli e favorendo “una omogeneità sociale fatta di famiglie piccole e benestanti. La città storica diventa la città dei ricchi. E, in prospettiva vicina, la città dei turisti” (1).

La passeggiata lungo la Corsarola (via Colleoni), spina centrale di Bergamo Alta, lungo la quale si affacciano numerosi gli esercizi commerciali

L’inclusione delle Mura veneziane della città nel patrimonio Unesco ha ulteriormente aggravato il problema delle abitazioni, facendo raddoppiare le vendite “di pregio” e incrementando la presenza di strutture alberghiere, con un aumento del 79%  degli airbnb ed un calo del 9,2% per gli alberghi veri e propri dal 2010 ad oggi: i turisti che ogni anno visitano il centro storico sono stimati in circa 200.000 l’anno, cento per singolo abitante (2).

Panificio-pizzeria da taglio Pesenti in via Colleoni

 

Un’altra significativa immagine di uno dei due negozi di frutta e verdura di Bergamo Alta, affacciati su via Colleoni, la via dello “struscio”

La sensibile estromissione delle botteghe storiche e dei negozi di vicinato – non più in grado di sopravvivere a causa dell’attività molto ridotta -, se da un lato si lega strettamente alla inarrestabile emorragia della popolazione, è d’altro canto ulteriormente favorita dalla crescita, già in atto dalla metà degli anni ’70, di tipologie commerciali sempre più rivolte a chi giunge da fuori.

La Vineria Cozzi in via Colleoni, un tempo ritrovo degli abitanti del centro storico, oggi  è un raffinato ristorante

I negozi di utilità sociale, che dovrebbero soddisfare le necessità quotidiane dei residenti, sono a rischio estinzione proprio a causa della omologazione commerciale dell’effimero composta da negozi di abbigliamento, souvenir e simili, ai quali si sono aggiunte le crescenti offerte di ristorazione e alloggio.

Fruttivendolo in via Colleoni

Alla scomparsa di numerose botteghe artigianali (nel 1976 vi erano ben 5 calzolai), corrisponde nel centro storico un calo considerevole dei negozi di alimentari (dei 14 esistenti ne sono sopravvissuti 3 alla data del 2014), nonché di tutti i negozi di vicinato.

Una situazione aggravata dal fatto che questi ultimi, laddove persistono, non sono più intesi nel senso classico del termine ma si sono trasformati in qualcosa che spesso non è alla portata di tutte le tasche.

Ex panificio Tresoldi, ora adibito a bistrot

 

Nel centro storico, agli esercizi storici come il Ristorante-pizzeria “Da Mimmo” in via Colleoni, si sono aggiunte nel tempo numerosissime attività con una crescita dell’80% di bar e ristoranti, del 55% di negozi di abbigliamento e del 65% di souvenir per Città Alta e Borgo Canale dal ’76 al 2013

Dal 1976 all’ottobre 2013, insieme al calo della popolazione si è registrato il seguente decremento:
-20% panettieri
-35% antiquari
-30% orefici
-50% parrucchieri
-65% fruttivendoli
-75% calzature
-80% alimentari generici e latterie
-100% calzolai

Dal confronto, mentre si registra un forte aumento per i negozi di abbigliamento, di articoli da regalo e in particolare per bar e ristoranti, si è registrato un calo per fruttivendoli, parrucchieri, antiquari, orefici e panettieri, proporzionale alla variazione della popolazione (+/-35%).

Ex Pasticceria Donizetti, ora Enoteca

Il destino peggiore ha riguardato soprattutto i negozi di alimentari e drogheria, calati dell’80%: di fatto, ad oggi dentro le mura trovare un idraulico, un meccanico, un elettricista o un restauratore è diventata un’impresa.

Il Panificio Tresoldi in via Colleoni: bottega storica

Per quanto riguarda la ricettività turistica, dal 1974, con 74 posti letto degli alberghi e locande, si passa nel 2014 ai 320 posti in alberghi e “case per ferie “ (Seminario e suore di via Donizetti) ed i 90 posti tra B&B e “case vacanza“, con un incremento di 336 posti letto pari circa il 500%.

Ed oggi? “La città storica diventa un dormitorio per turisti di lusso: in Città Alta ogni notte dormono 12,4 turisti per abitante, mentre i posti letto sono ormai 30 ogni 100 abitanti”, come affermato da Tommaso Montanari in un articolo recentemente apparso sul Fatto Quotidiano (3).

Il tipico dolce bergamasco che tanto piace ai turisti: la “polenta e osèi”

Le botteghe storiche e i negozi di vicinato sono essenziali per l’aggregazione del delicato tessuto sociale, in particolare per la vita quotidiana delle classi più deboli, anziani in primis, categoria in costante crescita per la quale al disagio di dover raggiungere punti vendita lontani si associa spesso anche quello di non possedere un proprio mezzo di trasporto: cosa per la quale più volte l’Associazione per Città Alta e i Colli di Bergamo, che da tempo si occupa delle problematiche del centro storico, ha sollecitato l’Amministrazione chiedendo l’apertura di un mini Market a prezzi calmierati.

Il Panificio Nessi di via Gombito, altra bottega storica: “dal 1946”

Fece molto scalpore lo sfratto che interessò la storica Latteria Locatelli in Corsarola – unica nel centro storico con questa denominazione – che alla data del 2014 era gestita da 55 anni dalla famiglia Carenini, di cui da tempo si occupava la figlia Emanuela.

Come accaduto per altri negozi di pubblica utilità nel centro storico, anche la storica Latteria Locatelli di via Colleoni in Bergamo Alta ricevette uno sfratto in quanto l’edificio in cui si trovava era stato posto in vendita. La Latteria dovette abbandonare i locali entro la data del 31 dicembre 2014

Il 14 febbraio 2014, dopo il rischio di chiusura per la Latteria Locatelli, l’Associazione di Città Alta e Colli aveva chiesto l’intervento degli organi competenti  per salvaguardare le botteghe storiche e i negozi di vicinato di Bergamo Alta (oltre 50 realtà associative nel 2014), alla luce di quanto dettava  il Piano Particolareggiato di Recupero di Città Alta e Borgo Canale (vigente dal 2005), in merito alla salvaguardia dei negozi storici e di vicinato del centro storico.

La vecchia sede della storica Latteria Locatelli, in via Colleoni

La vicenda, ampiamente descritta ed analizzata nel semestrale dell’Associazione (Bergamore – anno 22 – n° 34 – Marzo 2014), sebbene da tempo risolta, è a tutt’oggi emblematica di una tendenza che non ha subito la minima battuta d’arresto.

L’affaccio su via Salvecchio della Latteria Locatelli, prima del trasferimento

Altro dato che va ad incidere sul triste fenomeno dello spopolamento dipende dal fatto che molti, pur risiedendo dentro le mura di fatto non vi abitano.

I locali lasciati liberi dalla Salumeria Mangili in via Gombito attesero a lungo un nuovo locatario

Una città per ricchi, dominata da un commercio orientato a soddisfare un turismo “mordi e fuggi” e privata di servizi essenziali, è sminuita e minacciata nell’integrità del suo tessuto sociale ed economico.

Dolcetti tipici, in un panificio di Via Colleoni

La comunità del centro storico rivendica la sua vitalità, Città Alta non deve diventare il museo di se stessa, un corpo estraneo rispetto alla città, ma deve vivere e palpitare nella normalità che le spetta, sempre tenendo conto delle complesse dinamiche legate alla delicatezza del suo tessuto storico.

La Vineria Cozzi in via Colleoni, locale storico

Sarebbe bello pensare che l’idea di riportare in Città Alta le famiglie normali composte da giovani coppie, bambini e anziani – tutte le famiglie e non selezionate per censo – non restasse solo un sogno. Sarebbe bello poter recuperare quella perduta dimensione di bellezza, di cui tutti i bergamaschi sentono il bisogno.

La Libreria di via Colleoni

 

Note

(1) Tomaso Montanari, Il Fatto Quotidiano, “Bergamo vale più di un parcheggio – La ‘bellezza inutile’ delle città e i sindaci come il renziano Gori”. 05 Nov 2018.

(2) Ibidem.

(3) Ibidem.

Riferimenti
I dati sono estrapolati daI semestrale Bergamore e dalle informative dell’Associazione per Città Alta e i Colli di Bergamo. Molti dati demografici sono stati elaborati da Nino Gandini, membro storico dell’Associazione di Città Alta e i Colli (AMOREBERGAMO – associazionecittaalta.org). Gli aggiornamenti sono riferiti all’articolo apparso su Il Fatto Quotidiano indicato nelle note.

Nota personale

La porzione del presente articolo, scritta e pubblicata dalla scrivente il  16 luglio 2014 è a tutt’oggi presente nel blog Creative Family (insieme alle fotografie originali), non più online ma tuttora esistente.

La curiosa beffa della tomba di Bartolomeo Colleoni

Bartolomeo Colleoni, particolare dell’affresco eseguito nel Luogo Pio Colleoni di Bergamo

Il «giallo» legato alle sorti dei resti di Bartolomeo Colleoni ebbe inizio nel 1913  in seguito alla visita a Bergamo di Vittorio Emanuele III e alla mancata risposta ad una sua semplice domanda: “Il Colleoni si trova nell’arca superiore o inferiore?”

Due ali di folla, con bandiere, applausi e grida “Viva il re!” al passaggio a Porta Nuova del corteo con l’auto – scortata da carabinieri in bicicletta – con Vittorio Emanuele III in visita alla città il 23 settembre 1913. In quella occasione il re presenziò anche all’inaugurazione del monumento a Cavour, alla posa della prima pietra dell’lstituto Tecnico in foro Boario e visitò l’lstituto Italiano d’Arti Grafiche (da “Fotografi pionieri a Bergamo” di Domenico Lucchetti – Foto di Giuseppe Locatelli)

Gli studi di mons. Locatelli, allora priore di S. Maria Maggiore, portarono a escludere che il condottiero fosse nel suo mausoleo e ad ipotizzare che questi fosse sepolto nell’attigua basilica di Santa Maria Maggiore dove, nel gennaio del 1950, venne scoperto un sarcofago in pietra sepolto nell’angolo sud – est della basilica.
Il sarcofago, che alcuni decenni or sono era ancora visibile sotto gli archi della casa d’angolo fra via Arena e piazza Rosate, conteneva ossa umane delle quali ad oggi non si sa nulla.
Il “Cavaliere Misterioso”, come è stato ribattezzato, riposa ancora sotto Santa Maria Maggiore, in un’urna di ebano protetta da una cassetta di zinco.
Dov’erano sepolte dunque le spoglie del nostro Bartholomeus?

Riassaporiamone gli eventi nella divertente intervista rilasciata nel 2004 al Corriere della Sera dal compianto fotografo bergamasco Domenico Lucchetti, che fu testimone di una vicenda dal sapore rocambolesco.

I propilei di Porta Nuova addobbati in occasione della visita del re Vittorio Emanuele III, in visita alla città il 23 settembre 1913

Quello che di pittoresco e popolare resta di lui: tre paia di «segni virili», come nel 1500 scriveva Spino, che nella sua biografia lo ha sempre e serenamente chiamato Bartolomeo Coglioni.

Tre paia di coglioncini come lustro e orgoglioso decoro della cancellata di ferro intorno alla magnifica cappella funeraria del gran condottiero.

Lo stemma forgiato sulla cancellata di ferro della cappella-mausoleo di Bartolomeo Colleoni, “passato alla storia per il suo nome e per il suo stemma, che sfoggiava dipinti tre “cojoni”, ovvero tre testicoli (secondo altri, tre cuori rovesciati): un potente simbolo di fertilità che fece nascere la leggenda che egli fosse particolarmente “dotato”. Se anche non lo era, forse, fisicamente, dotato lo fu di certo per traslato” (Elena Percivaldi, “Bartolomeo Colleoni – Vita di un grande Bergamasco”)

Lustri come l’oro, a furia di toccamenti e carezze, «perché dicono che porta buono» ridacchia Domenico Lucchetti, che più di tutti conosce la città e le sue storie: «e perché, dopo tanta gloria e tanto splendore, quel che del Colleoni ricorda la gente di Bergamo sono soprattutto gli aneddoti».

Ai tempi s’ era sparsa la voce che, di «segni virili», il gran condottiero ne avesse tre: sui marmorei stipiti della cappella, gli «attributi» ancora più evidenziati, essendo stati scolpiti in eloquentissima prospettiva.

Taglia corto Lucchetti: «Sul tema, sono state scritte migliaia di chiacchiere; stemma e cognome appartenevano già a suo padre e a suo nonno, originari di Malpaga, a sud di Bergamo: dove Bartolomeo Colleoni nacque, e dove morì, il 3 novembre 1475».

A parte i toccamenti ai tre lucenti cosini, è comunque fuori di dubbio che Bartolomeo Colleoni sia un tutt’ uno con Bergamo. Non fosse per la tomba maestosa, che suscitò dispute non meno accese di quelle circa il numero de «i ball», come le chiamano qui.

Oramai vecchio, ricchissimo e in forzato ritiro, il grande soldato era tornato nel castello di Malpaga pensando, finalmente, all’ anima sua: come allora si usava, dopo averne fatte di cotte e di crude.

Convocò l’ architetto Giovanni Antonio Amadeo e gli ordinò di erigere la cappella funeraria a due passi dal suo palazzo di città, di fianco alla chiesa di Santa Maria Maggiore in Città Alta.

Cappella Colleoni (Bergamo, Taramelli, 1890 ca.) Stampa all’albumina o al gelatino bromuro

Volle essere raffigurato a cavallo, armato e corrusco, e interamente dorato.

Il monumento equestre di Bartolomeo Colleoni, la grandiosa statua d’oro che sovrasta la tomba del condottiero nella cappella a lui intitolata in Bergamo Alta (da una stampa ottocentesca)

Dispose inoltre che, nella parete di fronte, fosse preparata la tomba per sua figlia Medea, morta all’ età di quindici anni, e temporaneamente sepolta nel Santuario della Basella insieme al suo canarino.
Tomba di struggente bellezza, con Medea dal lungo collo e la virginale vestina distesa come se stesse dormendo.

Bartolomeo Colleoni visita la tomba della figlia Medea che l’Amadeo ha compiuto (di Giovanni Beri, post 1867. Il dipinto è giunto alle collezioni museali dalla Civica Scuola di Pittura). Quasi sei secoli fa, sul finire dell’inverno del 1470, Medea, la figlia quattordicenne del Colleoni, si ammalò di un grave morbo polmonare. Il condottiero abbandonò i suoi incarichi per stare vicino alla sua amatissima bambina. Ma la fine giunse rapidamente e Medea morì il 6 marzo 1470. Una perdita gravissima

Liquidata la questione della cappella funebre, Bartolomeo Colleoni passò al testamento. Lasciò armi, cavalli e denaro a Venezia, che tranne qualche fuggevole infedeltà aveva servito per tutta la vita, pretendendo in compenso un grande monumento in città: anche qui a cavallo, e anche qui tutto armato.

Venezia – Campo dei Santi Giovanni e Paolo – Monumento equestre a Bartolomeo Colleoni – Verrocchio. Data della ripresa: 1900/1920

Fondò a Bergamo il «Luogo Pio Bartolomeo Colleoni» per fornire una dote alle ragazze bergamasche povere e in età da marito.

Luogo Pio della Pietà, via Colleoni, Bergamo

Nelle campagne bergamasche creò mulini e rogge utili a irrigare le terre che ancora oggi fruttano tutto ciò che serve amantenere la sua funebre cappella.

E infine morì, presenti alcune figlie (ne aveva nove, fra legittime e no), il segretario Abbondio Longhi, il magistrato Candiano Bollani, che Venezia aveva spedito perché si buttasse sui suoi beni.

E Zohane di Zuchi, «inviato» dei Visconti, che descrisse la sua «vestizione «final»: camicia di raso cremisi, «turca» di panno d’argento, berretta  «cappitanesca», bastone di comando, spada, speroni.

Trainata da due cavalli neri, la lunga salma (era alto quasi due metri ) raggiunse Bergamo, che tutta in lutto andò per tre giorni a rendergli onore nella basilica di Santa Maria Maggiore, dove era stata esposta prima della sepoltura nella vicina cappella, ancora fresca di pitture sui muri.

Interno della basilica di Santa Maria Maggiore in una stampa ottocentesca

E poi, sparì: il sacello sul quale montava a cavallo il gran condottiero, risultava vuoto. «L’ hanno cercato come pazzi», racconta divertito Lucchetti.

Nel 1954 monsignor Locatelli, priore di Santa Maria Maggiore si convinse che Colleoni fosse sepolto nella basilica. Ribaltarono il pavimento, finché non si trovarono segni evidenti di una tomba.

Il discusso ritrovamento del 12 gennaio 1950. Mons. Locatelli scopre la massiccia arca lapidea in granito, di tipo barbarico, interrato nel pavimento di Santa Maria Maggiore

Fu convocato il rabdomante Malachia, che i bambini di Città Alta credevano un mago perché ipnotizzava le galline.

Il discusso ritrovamento del 12 gennaio 1950. Il pesante sarcofago della polemica

Fu trovato uno scheletro.

Una scritta scolpita su una lastra autorizzò il priore a cantare vittoria. Finché non giunse una crudele smentita.

Il discusso ritrovamento del 12 gennaio 1950. Lo scheletro ricomposto che fu ritenuto del Colleoni. La commissione che presenziò a questa riesumazione dichiarò frettolosamente che i resti appartenevano al Colleoni senza rilevare le evidenti contraddizioni che vi si opponevano. Non si spiegava il perché dell’utilizzo di un’arca altomedievale, l’assenza di qualsiasi elemento di identificazione del feretro, la presenza di una spada di legno anziché di una vera, l’altezza dello scheletro non corrispondente alla statura tramandataci del Colleoni

 

Il discusso ritrovamento del 12 gennaio 1950. Con ironia la didascalia originale recita così: “I dolenti porgono condoglianze… ai discendenti del Condottiero”. I dubbi, mai sopiti, portarono al riesame dei reperti ad opera di una commissione, indicata dal Ministero della Pubblica Istruzione, presieduta da padre Agostino Gemelli che il 21 maggio 1956 escluse che le ossa in questione appartenessero al Colleoni: si concludeva una vicenda ma il mistero rimaneva, anzi vi si aggiungeva quello della vera appartenenza delle ossa, forse di un guerriero medievale mentre rimaneva inspiegabile la spada di legno rinvenuta insieme al misterioso scheletro

Il volonteroso prete e il mite ipnotizzatore di galline furono coperti di ridicolo.

I giornali dopo il ritrovamento contestato di Mons. Locatelli (1950)

Ma il tormentone aveva oramai invaso la città di Bergamo: «Dov’è Colleoni?».

Il fallimento di Malachia aveva aperto la caccia al fantomatico scheletro.

La ripresa delle ricerche con l’Ing. Alessandro Porro (maggio 1968). Si scavò fino a 4 m. di profondità

 

Il materiale ricavato dallo scavo eseguito nell’angolo in fondo a sinistra della Cappella

Monsignor Angelo Meli, nuovo priore di santa Maria Maggiore studiò a lungo il problema: «Il Colleoni è nella sua tomba.
Ma il suo sacello non è quello dove poggia la statua a cavallo ma quello più in basso».

Il Rotary cittadino si assunse le spese della ricerca.

Fu aperto fra le formelle di marmo un pertugio.
Fu chiesta al custode Sala un manico di scopa per tastare il fondo.
Non trovarono niente.
Offesissimo, Melli: «Io sono sicuro che Colleoni è in quello in basso; che cerchino meglio».

Infatti, chi aveva manovrato il manico della scopa aveva creduto di aver toccato il fondo; e invece era il coperchio della cassa di pero, lunga due metri e alta 45 centimetri «L’ abbiamo trovato!» andarono in trionfo al priore Melli.
E lui, imperturbabile: «Io l’ avevo sempre saputo che il Colleoni era lì».

Il disegno illustra l’ipotesi ritenuta più probabile circa l’introduzione della bara – avvenuta il 4 gennaio 1476 – nell’Arca maggiore: quello che per secoli era stato ritenuto un semplice pavimento sotto l’Arca Maggiore, sempre ritenuta vuota, viene frantumato e sotto un sigillo di calce viene alla luce una cassa di legno di pero priva di qualsiasi decorazione

 

Se i resti di Bartolomeo Colleoni riposano nell’Arca maggiore, a chi era destinata l’Arca minore? Forse il Condottiero pensava di trasferirvi le spoglie dell’adorata figlia Medea, lasciando alla Basella (dove inizialmente venne sepolta) il monumento originario dell’Amadeo

Questa volta, non c’ erano dubbi: le vesti e tutto il resto corrispondevano alla descrizione del cronista visconteo.

Una lastra in piombo ai piedi della bara riportava chiaramente la scritta

«Bartolomeo Colleoni, nobile bergamense per privilegio dello d’ Angiò, invitto condottiero generale della Illustrissima Signoria Veneta.
Visse 75 anni. Comandò per 24. Morì il 3 novembre anno 475 sopra il mille»

La targa di piombo, nitidamente incisa, rinvenuta nella cassa. Si tratta di una vera e propria “carta d’identità” del Condottiero. L’iscrizione dice: « BARTOLOMEUS COLIONUS NOBILIS BERGO. PRIVILEGIO ANDEGAVENSIS ILL.MI IMPERIJ VENETORUM IMPERATOR GENERALIS INVICTUS VIXIT ANNOS LXXX IMPERAVIT IIII ET XX OBIIT. III. NO. NOVEMBRIS CCCCLXXV SUPRA MILLE »

Erano sbagliati soltanto gli anni, che in realtà erano 81.

Domenico Lucchetti, che del Colleoni sapeva ormai tutto, si introdusse nel loculo per fotografarlo.
«La spada era sotto la schiena, perché era stato inumato da sotto, mentre la bara aveva dovuto subire una rotazione in avanti.
Il bastone del comando era in briciole, la spada arrugginita: evidentemente, l’avido inviato veneziano si era portato via i gloriosi cimeli, sostituendoli con altri di meno valore.

La prima fotografia a colori eseguita dopo la sensazionale scoperta delle spoglie di Bartolomeo Colleoni. Il coperchio della cassa viene tolto alle 14,30 del 21 novembre 1969; ai presenti appaiono le spoglie ancora intatte del Colleoni dopo 494 anni, con le vestigia del grande Capitano (nonchè una lastra di piombo con inviso il nome del condottiero). Il capo del Condottiero non è più centrato sul suo cuscino ma è scivolato nell’angolo della cassa; la berretta capitanesca è a sghimbescio, il corpo non è ben diritto. Evidentemente si è spostato all’indietro durante la collocazione della cassa nell’arca maggiore. E’ visibile il bastone di comando sul fianco destro del Capitano, e la targa di piombo cadutagli sui piedi

Ho fotografato ciò che restava di Bartolomeo Colleoni per una mattina intera. Mia madre mi aveva preparato gli ossi buchi, il mio piatto preferito. Non le dissi la verità, inventai una scusa, mangiai un pezzo di formaggio».

Il Rotary chiese in ricordo la scopa del ritrovamento, che tuttora religiosamente conserva.
Il custode Sala disse «sissignori» ma ne consegnò un’ altra.

Medea fu sepolta di fronte al padre due secoli fa. Per oscuri motivi, le autorità religiose la privarono del canarino che suo padre aveva fatto imbalsamare perché le tenesse compagnia anche al di là della vita.

Uccellino imbalsamato nella cappella Colleoni: apparteneva a Medea, figlia del Colleoni. A poca distanza dalla camera della ragazza vi era una gabbietta con un passerotto, suo compagno di giochi. Anche l’uccellino pare avesse avvertito l’agonia della padroncina e infatti morì lo stesso giorno. Bartolomeo ordinò dunque di farlo imbalsamare e di riporlo nella bara di Medea. Seppellita nella chiesa di Santa Maria della Basella, a Urgnano, nel 1842 la bara con le spoglie di Medea e il passero venne trasportati nella Cappella Colleoni. Ed è appunto da quel sarcofago che l’uccellino venne successivamente tolto per essere conservato sotto la cupola di vetro

Lo spennato cimelio, adagiato su un cuscinetto giallo e chiuso in una campanella di vetro, è custodito dalla signora Angela, che vende ricordi in un chioschetto all’ interno della cappella.

E per non smentire la concretezza bergamasca, Lucchetti informa: «Noi lo chiamiamo come la nostra torta più celebre, polenta e osei».

 

Fonti
– Corriere della Sera (21 novembre 2004):  Il Colleoni, gran condottiero e benefattore Gloria di un mondo pittoresco e popolare.
– Le fotografie in b/n e alcune notizie storiche sono tratte da Mario Bonavia, “Storia di una ricerca – La scoperta delle spoglie di Bartolomeo Colleoni”, edito nel 1970 a cura del Rotary Club Est Bergamo Clusone. L’ing. Bonavia è stato l’artefice della scoperta delle spoglie del Colleoni.