Dal Foro Boario alla Malpensata fra Ottocento e Novecento, alla scoperta della città

L’ANTEFATTO STORICO

Con la dominazione austriaca (1815-1859), a Bergamo si avviano i primi consistenti processi di mutamento della città in senso moderno, che segnano un periodo di forte espansione economica e di una gestione della cosa pubblica esemplare dal punto di vista del’efficientismo amministrativo e della organizzazione urbana.

Nella prima metà del secolo, con l’ascesa della nuova borghesia produttiva lo “scivolamento” della città al piano si fa più consistente, portando a compimento le trasformazioni della struttura urbana già avviate nel periodo napoleonico.

La Fiera e la città alta sullo sfondo

Dal 1732 l’antichissimo mercato di Bergamo, posto a metà fra i borghi, può finalmente avvalersi di una Fiera stabile in muratura, disposta su un’area quadrata con 540 botteghe. Verso sud il Sentierone, parallelo alle Muraine, diventa un’arteria per il collegamento dei borghi.

Il centro della Fiera di pietra, oggi Piazza Dante, in cui si trova, ultimo ricordo del complesso, la bella fontana opera di G. B. Caniana del 1734, incorniciata da una serie di alti alberi che nascondono i casotti delle botteghe del vecchio complesso

Con l’erezione dei Propilei in stile neoclassico nel 1837, nella Barriera daziaria delle Grazie viene aperto il varco di Porta Nuova, rappresentando simbolicamente l’ingresso monumentale alla città degli affari.  

Il 20 agosto 1837, in coincidenza con l’apertura della Fiera di S. Alessandro viene inaugurata Porta Nuova (ampliando la Barriera daziaria delle Grazie), il nuovo e simbolico accesso alla città degli affari, delimitato dai propilei neoclassici disegnati da Giuseppe Cusi e realizzati da Antonio Pagnoncelli: al di là delle Muraine l’unico edificio era la Fiera; al di qua era campagna

L’anno successivo (1838), in occasione della visita a Bergamo di Ferdinando I d’Austria inizia la costruzione del primo tratto della Strada Ferdinandea (futuro Viale Vittorio Emanuele),  che, partendo da Porta Nuova laddove s’incontrano le due spine dei borghi che da Città alta si protendono al piano, sale con un lungo rettilineo tagliando gli orti e i grandi broli dei monasteri fino alla Porta di Sant’Agostino.

Grazie alla Ferdinandea, da un lato viene superata quella frattura con Città Alta creata a partire dal 1561 con la costruzione delle mura veneziane e, dall’altro, si viene a creare una vera e propria arteria moderna, che presto diverrà la spina dorsale intorno alla quale verrà ridisegnato l’intero volto della città.

La Strada Ferdinandea, ora viale Vittorio Emanuele, ancora di larghezza modesta, con il viale alberato e il palazzo Stampa. Da Porta Nuova, dopo aver disegnato un’ampia curva poco oltre il monastero Matris Domini, la strada sale per le ortaglie sotto le mura di S. Giacomo per ricongiungersi con la Porta di S. Agostino. Il suo tracciamento ebbe come risultato lo straordinario potenziamento dell’area della Fiera, fronteggiata dalla porta e tangente alla nuova strada, che venne terminata nel 1845 (la ripresa è del 1915)

Nel 1857, quando la ferrovia raggiunge Bergamo viene eretta la Stazione Ferroviaria – in asse con Porta Nuova – e lo scalo merci.

Il piazzale della Stazione Ferroviaria prima della costruzione della fontana (1910 circa)

Demolita la quattrocentesca chiesa di S. Maria delle Grazie – che avrebbe impedito la prosecuzione assiale del viale -, la Strada Ferdinandea viene prolungata verso sud fino alla stazione (chiamandosi in questo tratto viale Napoleone III), completando la spina dorsale della futura “Città Bassa”, attorno alla quale si sviluppa una intensa attività edilizia ed urbanistica che, soprattutto dopo gli anni post-unitari, porterà alla formazione di un nuovo centro.

Nella “corografia datata 1878” è evidente la risistemazione della zona delle “Grazie”. La chiesa, , consacrata una prima volta nel 1427, fu demolita nel 1856 per aprire il rettifilo che da Porta Nuova conduce alla Stazione Ferroviaria (costruita quando la ferrovia raggiunse Bergamo), eretta in asse con l’apertura nelle Muraine, e la sua collocazione condiziona ancor’oggi lo sviluppo urbanistico della città. L’attuale Piazzale degli Alpini è ancora indicato come Piazza d’Armi, nonostante a questa data l’area sia da tempo occupata dal Mercato del Bestiame (da “L’Ospedale nella città”, Op. cit. nei Riferimenti)

Intanto con l’800 si va sempre più consolidando il trasferimento delle sedi del potere amministrativo e statale nei pressi della Fiera, con la costruzione di edifici pubblici di corrente tardo-neoclassica disposti lungo il corso che unisce i due borghi centrali, quello di S. Leonardo e quello di S. Antonio, che ancora si configurano come il margine netto di passaggio tra l’urbano e la campagna.

Nel frattempo la finanza bergamasca si evolve e modernizza attraverso lo sviluppo del sistema bancario e la collocazione di nuove sedi, mentre alla fine del secolo si osserva la costruzione del Manicomio e del Ricovero (1892), del Cimitero monumentale (1896) e del Teatro Donizetti (già Teatro Riccardi). Decisivo per l’espansione della città sarà l’abbattimento delle Muraine nel gennaio del 1901, mentre la discussione sulla Fiera darà luogo alla costruzione del centro piacentiniano.

Nella zona che dal 1857 è chiamata “Campo di Marte”, poi Piazza Cavour e oggi piazza Matteotti, si costruisce il palazzo del Comando militare, che negli anni ’70 diverrà sede degli Uffici comunali. Di fronte, dal 1836 è già edificato Palazzo Frizzoni (attuale sede del Municipio), sorto sull’area dell’antico complesso ospedaliero di S. Antonio di Vienne. Con l’avvio dell’industrializzazione urbana lungo via XX Settembre (antica Contrada di Prato) sorgono le nuove residenze della borghesia mercantile, a pochi passi dagli edifici produttivi stanziati lungo i corsi d’acqua che circondano le  Muraine

 

Con la metà dell’800, lungo la Contrada di S. Bartolomeo, oggi via T. Tasso sorge la Scuola dei Tre Passi; nell’area del Mercato dei Bovini si costruisce il Palazzo della Pretura, che nel 1874 diventerà sede del Comune (trasferito nel 1933 a Palazzo Frizzoni), mentre tra il 1864 e il 1871 vengono edificati il Palazzo della Prefettura e quello della Provincia. Infine, l’emblematico trasferimento del Municipio dalla Piazza Vecchia al Palazzo della Pretura. Nel frattempo anche qui sorgono le nuove residenze della borghesia mercantile: questi i primi significativi interventi del periodo nella città bassa, mentre altri interventi riguardano Città Alta con le opere degli architetti Bianconi, Crivelli e Berlendis, testimonianti il favorevole atteggiamento dell’amministrazione austriaca

 

Porta S. Antonio, aperta nel circuito delle Muraine in corrispondenza dell’attuale via Pignolo Bassa e in direzione della via Borgo Palazzo. Nonostante i due borghi centrali di S. Antonio e di S. Leonardo si configurino ancora come il margine netto di passaggio tra l’urbano e la campagna, la città si è espansa ben oltre, in direzione di borgo Palazzo e borgo Santa Caterina, dove l’insediamento delle manifatture e di altre attività produttive ha innescato un notevole incremento della densità residenziale

L’AREA DELLA STAZIONE

Il monumentale, sovradimensionato rettifilo intitolato a Napoleone III (oggi viale Papa Giovanni XXIII), espressivo di un’epoca caratterizzata dal monumentalismo neoclassico e dalla moda del passeggio, viene delimitato da filari e alberature che ne evidenziano il ruolo e l’importanza.

La panoramica più antica della città, risalente al 1865, riprende il secondo tratto della Strada Ferdinandea visto dalla stazione. Dopo la sua demolizione (1856) per la formazione del secondo tratto della Ferdinandea, la chiesa delle Grazie presenta la cupola ancora in costruzione, mentre lungo il viale sono state disposte le giovani alberature. Proprio nell’anno in cui viene scattata questa fotografia, il Mercato del Bestiame viene trasferito presso la Piazza d’Armi, delimitata ad est, in corrispondenza dell’attuale via Foro Boario, dalla struttura del Bersaglio con il suo lungo corridoio di tiro

Le mappe catastali del 1853 e del 1866 depositate presso l’Archivio di Stato di Bergamo documentano le trasformazioni avvenute nell’area a sud del monastero delle Grazie: una zona ancora  fortemente rurale (se si esclude il monastero, due case coloniche, le fabbriche del Salnitro e per la filatura del Cotone nonché un piccolo deposito per le bestie infette), che, come detto, con la scelta localizzativa della Stazione Ferroviaria e la creazione del grande viale Napoleone III – prosecuzione della Ferdinandea -, manifesta il primo segno di apertura a sud della città.

La Stazione Ferroviaria fu costruita nell’ambito del progetto della ferrovia Ferdinandea (Milano-Venezia) e fu inaugurata il 12 ottobre 1857 assieme al tronco Treviglio-Bergamo-Coccaglio. Entro il 1900 si realizzò il primo collegamento ferroviario tra Bergamo e i centri maggiori della pianura (Milano, Brescia, Lodi, Lovere) e con i territori delle due valli a nord (Seriana e Brembana); il consolidamento i rapporti con i centri commerciali circostanti, cui corrispose un rinnovamento del ruolo territoriale di Bergamo, rese definitivamente obsoleta la Fiera come perno economico della città

Gli spazi ad est del viale, sul sito dell’attuale piazzale degli Alpini, vengono riorganizzati mediante la creazione della Piazza d’Armi (nota come “Campo di Marte” e luogo di esercitazione militare), in funzione della quale, sull’estremità orientale, in corrispondenza dell’attuale via Foro Boario viene costruita la struttura del “Bersaglio” con il suo lungo corridoio di tiro.

 

Per creare la piazza d’Armi, viene deviata e canalizzata la roggia Morlana, di cui abbiamo una bella testimonianza.

Dal Foro Boario verso Città Alta intorno al 1895. E’ visibile la chiesa di S. Maria delle Grazie e a destra l’edificio del Macello comunale. Oltre alla roggia Morlana, qui ritratta, l’area era attraversata dalla roggia Nuova e dalla roggia Ponte Perduto (nome curioso, forse derivante da un ponte scomparso), che si origina dalla Morlana in Borgo Palazzo, dalla quale si dirama proprio in questa zona (Raccolta Lucchetti)

L’esigenza di donare una nuova funzione agli spazi e ai luoghi della città bassa richiede una nuova collocazione degli usi esistenti e pertanto, in seguito al nuovo progetto della sede della Provincia nel 1865 il Mercato del Bestiame viene trasferito nella Piazza d’Armi, proseguendo il suo lungo itinerare, vecchio quanto la storia della città.

Carretti al Foro Boario (Mercato del Bestiame) ai primi del Novecento. Il palazzo dell’Istituto Tecnico non è ancora stato realizzato e si intravede il Macello, nell’omonima via parzialmente tracciata

Nasce da qui la denominazione di Foro Boario (in latino Forum Boarium o Bovarium), toponimo mutuato da un’area sacra e commerciale dell’antica Roma collocata lungo la riva sinistra del fiume Tevere, tra i colli Campidoglio, Palatino e Aventino, che prese il nome dal mercato del bestiame che vi si teneva.

A destra del viale della Stazione il Foro Boario, corrispondente all’attuale Piazzale degli Alpini ed adiacenze, delimitato a sud dal piccolo bar-ristorante, già presente entro il 1876, soglia alla quale la via del Macello (attuale via A. Maj) è già tracciata a realizzata fino alla rogge Nuova e Morlana, delimitando dal 1890 il lato nord del piazzale con il nuovo Macello  comunale

I MERCATI DEL BESTIAME NEL TEMPO

Se in antico i mercati si tenevano nell’antica “Platea S. Vincentii” (attuale area del Duomo), dove a cadenze fisse affluivano i prodotti del territorio (sale, biade, formaggi, ferramenta e panni, bestiame…), con lo straordinario sviluppo commerciale nel periodo della dominazione veneziana il mercato cittadino si frazionò in alcune piazze che nella loro attuale denominazione ancora richiamano l’antico ruolo merceologico: Mercato del Fieno, Mercato del Pesce, Mercato del Lino (ora piazza Mascheroni), Mercato delle Scarpe, dove – afferma Luigi Volpi –  si teneva il mercato degli asini e dei buoi, spostato nel 1430 a Porta Dipinta.

Nel medioevo, per i loro affari tessitori e commercianti facevano riferimento alle barre di ferro riproducenti le misure in uso a Bergamo, murate nella facciata settentrionale di S. Maria Maggiore. Esse testimoniano non solo il ruolo mercantile di questo centro ma anche della necessità di garantire il valore delle misure locali ai mercanti provenienti da altre sedi. Il controllo delle misure dei panni era affidato ai consoli del paratico dei tessitori, sottoposti a giuramento

Nel Duecento in tutta la città solo una beccheria gestita dal Comune era autorizzata alla macellazione e alla vendita e doveva essere già localizzata nell’attuale via Mario Lupo nelle botteghe di proprietà dei Canonici di San Vincenzo. Dopo due secoli le beccherie erano quattro, di cui una in borgo Pignolo, una in San Leonardo e una in Sant’Antonio.

Via Mario Lupo, già via delle Beccherie, dove erano le botteghe della macelleria, di proprietà dei Canonici di San Vincenzo (l’istituzione della Canonica risale al IX secolo)

la “Domus Calegariorum”, in piazza Mercato delle Scarpe, ospitava anche il Paratico dei Beccai (macellai), dove oggi sorge il palazzo della funicolare.

Piazza Mercato delle Scarpe (così chiamata dalla fine del Trecento) e il palazzo della funicolare, fatto costruire da Guidino Suardi sull’area già occupata dalla Domus Calegariorum et Becariurum

Intanto nella città al piano, già prima dell’anno Mille, in coincidenza con le festività del santo patrono si teneva  una grande fiera annuale nel Prato di S. Alessandro, dove con il tempo confluirono tutti i mercati della città, divenendo ben presto un centro economico e finanziario di grande importanza nel circuito delle fiere cittadine italiane ed europee: tanto che alla metà Cinquecento, grazie alla sua grande capacità produttiva Borgo S. Leonardo sembra già somigliare a una piccola città nella città, mentre cresce la tendenza al trasferimento di funzioni sempre più importanti del centro cittadino – la Città alta – verso la città Bassa (trasferimento che aumenterà significativamente con l’erezione delle mura veneziane, erette fra il 1561 e il 1595, ritrovando nuovo vigore nel Sette/Ottocento).

La più antica veduta del Prato di S. Alessandro, risalente al 1450. Dall’alto medioevo, nel vasto slargo a ridosso delle Muraine, in coincidenza con la festività del santo patrono si teneva una fiera provvisoria che ben presto assunse rilevanza internazionale. In questo luogo, a metà tra I borghi di S. Antonio e di S. Leonardo, affluivano le maggiori vie di transito (da un codice agiografico conservato nella Biblioteca di Mantova)

 

A pochi passi dalla Fiera, nel 1454 vengono eretti i portici intorno alla piazza del Borgo S. Leonardo (attuale Piazza Pontida), cuore pulsante della vecchia Bergamo

Nel vasto prato di S. Alessandro, la scarsa durata della manifestazione commerciale (pochi giorni alla fine di agosto), non pretendeva strutture o infrastrutture speciali, se non terreno sgombro ed acqua; ma il sistema di seriole e rogge già esistente e perfezionato nel Quattrocento garantiva il buon funzionamento del periodico affollarsi, oltre che di merci, anche di bestiame, qui presente sin dal 1579 in un mercato settimanale; nel 1593 i Rettori concessero che si tenesse i primi quattro giorni della prima settimana intera di ogni mese.

Anche se non è semplice stabilire come fosse distribuito tale mercato, è noto che in fiera, insieme alle più svariate mercanzie locali affluiva il bestiame allevato nella pianura e nelle valli, da dove scendevano in gran numero animali provenienti da zone specializzate in allevamenti: cavalli da Selvino, pecore da Clusone e Parre (1), muli (dei quali si faceva molto uso nelle miniere per il trasporto del minerale, del carbone, del ferro, ecc.), buoi e vitelli dalla valle Seriana, per i quali si conservava libera una determinata zona.

Da una relazione fatta dagli ispettori della Repubblica Veneta nel 1591 si parla di un mercato dei cavalli lungo la strada che va dal borgo di S. Antonio a S. Leonardo, mentre Gelfi allude per quel periodo ad un mercato del bestiame, specialmente bovino, che si teneva i primi tre giorni della prima settimana del mese (2).

Il bestiame diretto in città sostava nella piana di Valtesse (in antico detto Tegies o Teges per le sue tettoie atte al ricovero delle bestie), dove in parte doveva essere allevato.

La piana di Valtesse dalla Montagnetta (Baluardo di S. Lorenzo)

Nel Settecento, presso il Prato di S. Alessandro si tenevano due mercati del bestiame: uno a maggio e l’altro dal primo all’otto novembre, in occasione del “mercato dei Santi” (il terzo dei mercati annuali cittadini insieme a quelli di S. Antonio e S. Lucia), dove veniva commerciato “bestiame d’ogni specie ed in copiosa quantità”.  Più tardi il governo napoleonico dispose l’allontanamento del mercato del bestiame dalla zona del Sentierone, con la dichiarata volontà di migliorare le porte di accesso alla Fiera, come vetrina della città moderna.

Costantino Rosa, “Il Sentierone e la Fiera”. La Bergamo al piano è dominata dalla grande Fiera di pietra, edificata tra il 1732 ed il 1740 e per molto tempo un importante centro di scambi commerciali di livello nazionale ed internazionale. Sul fondo la città alta, cuore invece dell’attività politica ed amministrativa della vecchia Bergamo (Bergamo, proprietà dr. E. Tombini)

Tralasciando le tante notizie contraddittorie riportate dalle fonti per l’Ottocento, una una carta del 1809 attesta il Mercato dei Cavalli tra il Portello delle Grazie e il Teatro Riccardi (oggi Donizetti), mentre  nella Pianta del 1816 disegnata dal Manzini l’indicazione generica di Mercato del Bestiame compare tra l’attuale Prefettura e l’allora Teatro Riccardi (3), non molto distante dal vecchio Campo di Marte (Piazza d’Armi).

Dislocazione della Fiera di Bergamo in una carta del 1809. Cerchiato in rosso il Mercato dei Cavalli, tra il Portello delle Grazie e il Teatro Riccardi (da M. Gelfi, Op. cit.)

 

Pianta di Bergamo del 1816 disegnata dall’ing. Manzini. Nell’area antistante il quadrilatero della Fiera, il Campo di Marte da un lato e il Mercato del Bestiame dall’altro: quest’ultimo si estendeva tra l’attuale Prefettura e l’allora Teatro Riccardi, oggi Donizetti (M. Gelfi, Op, cit. per la didascalia)

 

Tra Piazza Cavour e via XX Settembre ai primi del Novecento. Solo pochi decenni prima la vasta area antistante la Fiera era occupata solo dal Teatro Riccardi; un’area così grande da ospitare il Mercato del Bestiame e la Piazza d’Armi, dove si esercitavano i soldati della guarnigione

Dopo la metà dell’Ottocento, in previsione della costruzione della sede della Provincia si realizzò un nuovo Mercato del Bestiame presso la nuova Piazza d’Armi, nel grande prato che presto assunse il nome di Foro Boario: un’ampia zona che comprendeva l’area dell’attuale Piazzale degli Alpini e della Stazione delle Autolinee.

Pecore al pascolo al Foro Boario

 

Mandria di bovini al Foro Boario

IL FORO BOARIO, IL MERCATO DEL BESTIAME E IL MACELLO

Come osservato, nel 1857, con l’erezione della Stazione Ferroviaria e l’apertura dell’attuale Viale Papa Giovanni XXIII la città aveva aperto un varco verso sud, continuando quell’opera di rinnovo urbano che era cominciata nel 1837 con l’apertura della Porta Nuova e l’erezione dei Propilei – ingresso monumentale e qualificato alla città degli affari -, seguita immediatamente dall’apertura della Strada Ferdinandea.

Tutta l’area a sud delle Muraine iniziava ad assumere una nuova configurazione, cambiando il volto di un’area che da rurale si apprestava a diventare “urbana”.

Attraverso le mappe del 1876 e del 1892, leggiamo le trasformazioni avvenute nella zona, che riscontriamo anche  nelle tante immagini giunte a noi.

Dal 1865 il nuovo Mercato del Bestiame occupa dunque la Piazza d’Armi presso la Stazione, e suddiviso in Mercato dei Cavalli, dei Bovini e dei Suini (4), attira una vivace folla di compratori e venditori, animando tutta la zona.

Una bellissima fotografia di Cesare Bizioli, risalente al 1885, rende bene l’idea della collocazione del Mercato, posto in corrispondenza dell’attuale piazzale degli Alpini.

Panoramica della Fiera di Bergamo sul “Prato Sant’Alessandro” vista dalle Mura di Città Alta, così come si presentava nel 1885. Davanti alla Fiera il Teatro Riccardi e verso destra i propilei. Oltre l’ultima cortina edificata la chiesa delle Grazie e, al centro dell’immagine, la vasta area non edificata del Foro Boario, preceduta dall’edificio del Macello e da un primo abbozzo dell’attuale via A. Maj (foto di Cesare Bizioli – Raccolta Lucchetti).

Almeno dal 1876 si inizia a tracciare la via del Macello (attuale via A. Maj) fino alla rogge Nuova e Morlana, ed entro il ’92 la via sarà completata, delimitando il lato nord del piazzale con il nuovo fronte del Macello comunale (1890), che possiamo ammirare nelle splendide immagini che seguono.

A fianco del Foro Boario, davanti al nuovo Macello comunale, realizzato nel 1890, la via del Macello (oggi A. Maj) in costruzione, con il Gamba de Lègn carico di pietrame della ditta Fabbrica Lombarda Cementi Riuniti. La via, parzialmente già tracciata almeno dal 1876,  sarà completata nel 1892

 

Via del Macello in costruzione, in un’immagine posteriore al 1890, anno di realizzazione del Macello (Foto Solza)

Intanto, entro il 1876, all’imbocco del piazzale della Stazione sorge il piccolo bar-ristorante intestato a Luzzana Maddalena, poi divenuto Albergo Stazione ed oggi sede di Mc Donald, in Piazzale Guglielmo Marconi.

L’attuale viale della Stazione, all’imbocco del quale sorge il piccolo bar-ristorante intestato a Luzzana Maddalena – oggi sede di Mc Donald – indicato sulla mappa del 1876. In lontananza, la cupola delle Grazie è completata sebbene non si noti il campanile, rialzato successivamente. Si notino le giovani alberature lungo il viale, ancora mancanti in via del Macello (attuale via A. Maj)

 

Il viale nel 1880. Il bar-ristorante ha mantenuto la dimensione originaria, mentre lungo il viale è stato piantumato anche il tratto vicino alla Stazione. Alle spalle del bar-ristorante, il Foro Boario e il primo tratto di via del Macello, anch’esso piantumato. L’edificio del Macello non è ancora realizzato (Foto di Andrea Taramelli)

 

Il viale dopo il 1890: il caffè-ristorante è stato sostituito da un “Caffè Ristorante con Alloggio” in muratura

 

L’Albergo Stazione (1891?)

Alla soglia del 1892 il Foro Boario, dopo la copertura delle rogge e alcuni accorpamenti compare nella sua massima estensione, con le due gradinate che lo delimitano verso il viale per superare il dislivello e il fronte est corrispondente all’attuale via Foro Boario delimitato dal muro dell’ex-Bersaglio.

Pianta di Bergamo del 1893. Si può notare la costruzione delle ferrovie e del Mercato del Bestiame (Foro Boario), così come il nuovo nome della Strada Ferdinandea, suddivisa in  viale Vittorio Emanuele e viale Napoleone III. La Piazza d’Armi è spostata fuori città, tra via Suardi e via S. Fermo

All’interno, compare la tettoia per l’alloggiamento dei cavalli, realizzata nel 1889 ed in seguito ridimensionata.

La tettoia per l’alloggiamento dei cavalli, realizzata nel 1889 e ridimensionata alla soglia dell’1898

Mentre il grande viale e l’area del Foro Boario acquistano via via una loro definizione, a  sud è comparso l’edificio della Ferrovia della Valle Seriana (1882-1884 circa) ed entro il 1906 sarà realizzato quello liberty della Valle Brembana, rappresentando una nuova opportunità economica e un
ulteriore radicamento della centralità di Bergamo nel contesto
montano.

L’edificio della Ferrovia della Valle Seriana, voluta per permettere un più agevole scambio di merci tra le industrie presenti in valle e il resto del territorio nazionale. Quello liberty della Valle Brembana verrà realizzato nel 1904-1906

Nel 1892 la via Paleocapa è ancora da attuare ma già delineata, con in testa il nuovo Palazzo Dolci, eretto in stile eclettico all’incrocio con il viale della Stazione.

Palazzo Dolci, eretto negli anni ‘70 dell’Ottocento, rappresenterà un segno architettonicamente dominante dell’incrocio tra via Paleocapa e il viale della Stazione, dove esprime il linguaggio eclettico del tempo. Il viale è ombreggiato dalle grandi chiome degli ippocastani, ampie e non maltrattate da maldestre potature

 

Veduta da Palazzo Dolci intorno al 1890, tra l’attuale viale Papa Giovanni e via Ermete Novelli. In quest’area, nel 1899 sorgerà il politeama Ermete Novelli e nel 1908 la Casa del Popolo, dove ha sede L’Eco di Bergamo. L’edificio a destra dovrebbe corrispondere al retro dell’odierno Hotel Piemontese, mentre quello a sinistra è un ampliamento del piccolo bar-ristorante intestato a Luzzana Maddalena, in  fronte al piazzale della Stazione, dove ad oggi si sono avvicendati numerosi esercizi di ristorazione. La ripresa mostra il Giardino  e il laghetto del floricoltore Codali (che vi teneva una grande serra), alimentato dalla roggia Ponte Perduto. D’estate fungeva da “piscina”, rigorosamente riservata alla popolazione maschile e affittata a 10 centesimi, mentre d’inverno lo specchio d’acqua ghiacciava diventando pista da pattinaggio e rifornendo ghiaccio per uso domestico. La serra fu poi trasformata in teatro (proprietà Dolci)

 

Il Politeama Ermete Novelli, sorto nel 1899 nella via Ermete Novelli riadattando la grande e singolare serra del preesistente Giardino Codali. In alto si riconosce la mole della Casa del Popolo, costruita agli inizi del Novecento cambiando la fisionomia del viale per la stazione. Fu proprio l’attore Ermete Novelli, con la sua compagnia, a tenere lo spettacolo con il quale si inaugurò la nuova sala. Che tuttavia non durò molto venendo tutta la zona coinvolta nelle trasformazioni del nuovo centro, che interessarono anche i lati del viale della stazione

Oltre il viale della Stazione si sta delineando la passeggiata in continuità del viale stesso con alcuni edifici sparsi .

Foro Boario e Macello

Verso la fine dell’Ottocento, sul lato orientale è quasi completamente aperta la via Foro Boario, impostata sul sito dell’antico Bersaglio, a collegare l’area del Macello con la Stazione Ferroviaria.

Primi del Novecento: il Macello comunale (cerchiato in rosso) affiancato da Casa Benaglio-Nava (in giallo) delimita a nord l’area del Foro Boario. A destra la via Foro Boario (in verde), è rimarcata da una fila di alberi. L’appartenenza ai Benaglio potrebbe riferirsi ai conti Benaglio, famiglia di antichissime origini, da sempre in ruoli chiave nell’amministrazione della città (tra le diverse residenze possedute a Bergamo, la più nota è Villa Benaglia presso S. Matteo a Longuelo). Nel mappale del 1901 l’edificio risulta di proprietà di Nava Giuseppina fu Battista (Roberto Brugali per Storylab), forse l’acquirente successiva Quest’ultima, come indicato in una non ben precisata Guida della città, potrebbe appartenere alla famiglia dei custodi del Macello

 

Il Foro Boario nel 1900, con la cupola della ottocentesca chiesa di S. Anna a far capolino sullo sfondo (Foto di Giovanni Limonta). La via a sinistra, sopraelevata rispetto al piazzale e dove sono assiepati molti spettatori è Via Angelo Maj. Visibile poco più avanti il complesso del Macello Comunale (1890). L’edificio visibile all’interno del Foro dovrebbe corrispondere alla struttura a croce evidenziata nel mappale del 1898. Tutta l’area cambiò volto dal 1921, in seguito alla costruzione dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II e alla realizzazione dell’antistante giardino pubblico

 

1897: un gruppo di operai lavora al completamento di via del Macello. Sulla destra è già realizzata la piccola struttura con pianta a croce, visibile nel mappale del 1898

 

Via del Macello nel 1885

 

1910: il viale del Macello sullo sfondo, perpendicolare a via Foro Boario (Raccolta D. Lucchetti)

Agli albori del Novecento, la qualificazione architettonica di tutta l’area ulteriormente viene favorita dalla realizzazione in stile liberty della Stazione della Valle Brembana (1904-1906 arch. R. Squadrelli).

L’edificio della F.V.B a destra e, a sinistra, quello della F.V.S. all’inizio del ‘900

 

La piazza antistante la Stazione Ferroviaria in una foto anteriore al 1912, ancora priva della fontana. Il viale mostra le trottatoie riservate al passaggio dei carri; i tram passavano invece ai lati del viale, doppiando la rotonda occupata da alcune palme, per dirigersi in centro e fino alla stazione della funicolare

 

La nuova fontana della Stazione, inaugurata il 15 giugno 1912 per celebrare il completamento del nuovo acquedotto di Algua, che da quel momento avrebbe alimentato le abitazioni private e le fontane pubbliche al posto della condotta che scendeva dalle sorgenti di Bondo Petello, sopra Albino, che in tempi siccitosi lasciava i rubinetti asciutti. La fontana – un elemento decorativo di notevole efficacia – offrì anche l’occasione per sistemare il piazzale con quattro aiuole contornate dall’elegante barriera in ferro battuto, poi rimosse (la ripresa è dei 1921)

Nel frattempo in viale Roma emergono, in posizione frontale al Foro Boario Casa Paleni (1902-1904), commissionata da Enrichetta Zenoni Paleni a Virginio Muzio e dalla ricca facciata in stile liberty.

Casa Paleni, tra via Novelli e viale Papa Giovanni XXIII. Le trifore curvilinee che decorano tutto il primo piano e gli ornati che vivacizzano la superficie della facciata, furono realizzati in cemento dalla stessa ditta Paleni, che si occupò anche della decorazione della chiesa di Santa Maria delle Grazie

Emerge poi per la compattezza anche se con una composizione più rigida la Casa del Popolo, progettata inizialmente da Virginio Muzio (scavi e posa della prima pietra risalgono al 1904), ma variamente realizzata da Ernesto Pirovano e completata nel 1908, anno della sua inaugurazione.

La Casa del Popolo, l’edificio oggi conosciuto come Palazzo Rezzara, ospita anche la sede de L’Eco di Bergamo. L’edificio fu progettato su incarico del Consiglio direttivo dell’Unione delle Istituzioni Sociali Cattoliche Bergamasche, presieduto da Rezzara

 

La Casa del Popolo, all’angolo tra viale Papa Giovanni XXIII e via Paleocapa. Oltre alle istituzioni cattoliche erano presenti anche un albergo, un ristorante, negozi, appartamenti, la redazione de “L’Eco”, la Banca Piccolo Credito, la cappella, sale di lettura, biliardo e il teatro Rubini che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta fu sostituito dal Centro Congressi Giovanni XXIII. L’allora Viale della Stazione fu ribattezzato viale Roma – denominazione che mantiene anche oggi nel tratto tra Porta Nuova e via Petrarca -, mentre il tratto tra la stazione e Porta Nuova fu intitolato a Papa Giovanni XXIII

 

Via Paleocapa nel 1910, epoca in cui cominciavano a spuntare diversi villini liberty, solo in parte sopravvissuti. Al numero 9 sorgeva Villa Schubiger (1905-1910), tuttora esistente,  affiancata fino al 1967 da Villa Tadini (al civico 11) e da Casa Zanchi poco più distante, progettata da Ulisse Stacchini, molto attivo in quel di Milano

Dagli inizi del Novecento, anche se in tutto il territorio bergamasco la zootecnica restava una una coltura piuttosto povera e poco evoluta, il Mercato del Bestiame era diventato il principale della Lombardia, grazie alla posizione strategica delle città che catalizzava la produzione proveniente soprattutto dai distretti montani.

Carretti al Foro Boario e il Macello, nel 1903. La ripresa è scattata dall’attuale stazione delle autolinee

Ogni settimana venivano messi in vendita circa 15.000 cavalli, 2.000 fra muli e asini, 25.000 bovini adulti, 2.000 vitelli, 3.000 tra pecore e capre e 3.000 suini (l’afflusso nel corso dell’anno variava a seconda dell’andamento stagionale).

Il mercato, però, serviva soprattutto per l’esportazione, dato che la popolazione operaia era vegetariana “per necessità”, causa le scarse disponibilità economiche (5).

Il Foro Boario agli inizi del Novecento (sicuramente ante 1912 perché manca ancora la fontana della Stazione)

 

Un gregge di pecore al pascolo ripreso nel 1910 da Romeo Bonomelli dal Foro Boario (da Fotografi pionieri a Bergamo, di Domenico Lucchetti)

Tuttavia, verso il 1915, quando il Foro Boario perse la sua agibilità a causa della costruzione di nuovi edifici, il Mercato del Bestiame venne trasferito alla Malpensata, a quei tempi estrema periferia. Nel frattempo, in occasione delle celebrazioni del centenario del Donizetti (1897) si faceva strada l’idea di riqualificare architettonicamente ed urbanisticamente sia il viale Vittorio Emanuele e sia il Foro Boario, porta d’ingresso alla città dalla stazione: i lavori per la costruzione dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II e del giardino antistante (attuale piazzale degli Alpini) si avvieranno a partire dal 1921.

Palazzo Nuovo, eretto nel corso del Seicento e attualmente sede della Biblioteca Civica  Angelo Mai, ancora privo della facciata, completata negli anni 1926-27 dallo Scamozzi. L’ex Municipio divenne dal 1873 sede dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II (collocato in precedenza presso il Palazzo della Pretura Nuova in via Tasso 4) e venne adattato per ospitare anche la sezione industriale, che inizialmente si trovava in vicolo Aquila nera (trovando poi sede definitiva presso l’ex stabilimento della Società Automobili Lombarda, denominato Esperia). Agli inizi del Novecento, dati i grandi mutamenti che coinvolgevano l’economia e il sistema produttivo della nascente industria, si decise di unificare tutte le sezioni dell’Istituto (alla morte del re intitolato Regio Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II) in un’unica sede in Foro Boario, nei pressi della stazione, completandola nel 1936

Intanto il Consiglio Comunale decideva di concentrare diversi mercati presso il Foro e nel 1909 deliberava di adattare 1.700 mq da destinare ad un eterogeneo “Mercato delle verdure”,  da tenersi parallelamente al Mercato del Bestiame.  Si commerciavano prodotti come latticini, granaglie (frumento, granoturco, orzo, segale), riso, lenticchie, fagioli e patate, che costituivano l’alimentazione principale per la maggior parte delle persone (6): con la riqualificazione del Foro Boario, il Mercato delle verdure dovette  confluire – se non tutto, almeno in parte – presso la struttura a pianta ellittica del Mercato ortofrutticolo, costruita su progetto di Ernesto Pirovano (1913-16), con l’affaccio principale su via S. Giorgio. Sotto i suoi porticati liberty avveniva la vendita quotidiana di frutta e verdura, mentre l’edificio principale ospitava gli uffici di controllo e i depositi merci.

Il Mercato Ortofrutticolo di via San Giorgio alla Malpensata, per metà demolito nel 1970, quando vennero abbattuti i  tre corpi di fabbrica porticati che sorgevano in posizione arretrata rispetto a via San Giorgio. A partire dal ’75 l’edificio principale ha ospitato nei locali al primo piano la biblioteca rionale San Tomaso, mentre ora è quasi totalmente dismesso, così come i porticati sopravvissuti alle demolizioni, ormai degradati

IL CICLODROMO/IPPODROMO E BUFFALO BILL

Alla fine dell’Ottocento, fuori la vasta area del Foro Boario, verso l’attuale via Fantoni venne realizzata la struttura del Ciclodromo, teatro di sfide fra corridori ciclisti anche stranieri – dove di certo non mancavano le scommesse – utilizzato anche come Ippodromo.

Nelle intenzioni della società che lo gestiva (la “Società Bergamasca di Sport e Ciclodromo”) avrebbe dovuto essere un grande impianto sportivo, il primo in città per le riunioni velocipedistiche.

La struttura, presente nelle piante dell’epoca, dovette restare in uso per  una ventina d’anni, dal momento che in una cartina del 1920 non è più evidenziata.

Bergamo dall’alto. Foto del 1924 della Società Airone. E’ visibile l’ampia zona libera dell’ex Foro Boario, ora occupata dall’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II e dal giardino antistante. Il Ciclodromo sorgeva poco oltre, in prossimità dell’attuale via Fantoni

In un secondo momento, un altro Ippodromo sarà realizzato nell’area tra l’ex Lazzaretto e i Celestini, da dove dovrà sloggiare nel 1928 per l’erezione dello Stadio Brumana: nella seconda piantina infatti l’Ippodromo accanto al Lazzaretto compare in concomitanza con la struttura del Ciclodromo presso il Foro.

Gli avventori erano accolti all’ingresso da una facciata posticcia, dipinta in stile neogotico su di un rivestimento in legno, con la denominazione della Società in bella mostra.

Carrozze e calessi in attesa di clienti davanti al Ciclodromo, tra la fine dell’Otto e l’inizio del Novecento. Sull’insegna spicca la scritta “Società Bergamasca di Sport e Ciclodromo”. La biglietteria staccava biglietti di prezzo diverso a seconda dei posti occupati lungo la pista: in piedi 50 centesimi; nel palco una lira, mentre per la loggia bisognava sborsare due lire (da Fotografi pionieri a Bergamo di Domenico Lucchetti. Foto di Cristoforo Capitanio)

La pista ebbe un ospite d’eccezione, Buffalo Bill, che all’inizio del secolo si esibì in città per ben due volte (compreso il 1906) a distanza di pochi anni, offrendo uno spettacolo ricco di connotazioni esotiche, non solo con indiani d’America ma anche con cosacchi, arabi, africani… Vi fu anche la singolare sfida con un ciclista bergamasco, Perico, e dopo un’emozionante gara, il grande cow boy a cavallo batté il concorrente in velocipede.

Buffalo Bill a Brescia (per gentile concessione di Livio Beneceretti)

Nel 1906, lo show si svolse in una struttura coperta (un tendone da circo?), sfruttando l’energia di un potente generatore elettrico. I dettagli di questo evento sono descritti minuziosamente da L’ Eco di Bergamo del 3 maggio 1906.

IL MERCATO DEL BESTIAME ALLA MALPENSATA: NASCE IL MERCATO DEL LUNEDI’  

Verso il 1915 dunque, il riassetto di tutta l’area del Foro Boario e la costruzione di nuovi edifici  avevano dato luogo al trasferimento del Mercato del Bestiame nell’allora periferico piazzale della Malpensata, reso agibile in seguito alla recente dismissione del Cimitero di San Giorgio, che si trovava tra la chiesa omonima e il piazzale.

Cappella al cimitero di San Giorgio, alla Malpensata, dismesso nel 1909 quando già da qualche anno era in funzione il Monumentale; la sua struttura resistette in loco fino agli anni ’40

E fu grazie al nuovo Mercato del Bestiame, che si teneva il lunedì, che si consolidò l’usanza di allestire alla Malpensata il grande ed eterogeneo “mercato del lunedì”, dove sino a poco tempo fa si smerciavano i prodotti più svariati.

Ripresa fotografica del 1925 circa: i l nuovo Mercato del Bestiame trasferitosi alla Malpensata verso il 1915 (Raccolta Lucchetti)

Il lunedì, giorno di mercato, i primi a riversarsi in città erano i mandriani provenienti dal contado, che si davano di turno e di cambio ogni qualche lunedì; viaggiavano sistemati per lo più su carri e carretti trainati da cavalli e talvolta da muli, stracolmi di bovini destinati al macello o al mercato che lo concerneva.

“Tentavano l’avventura nella città e i meno timidi addirittura all’ingresso di quelle case un po’ riposte le cui vestali, come se li trovavano davanti, subito li portavano al lavandino del servizio annesso alle stanze fatali per un cautelare ‘rigoverno’. Un’operazione sempre opportuna prima degli abbandoni a mercenarie lascivie”.

Per le povere bestie, il viaggio verso Bergamo “era una tappa interlocutoria verso la soluzione finale che gli animali presentivano e denunciavano in lamentazioni struggenti; lamentazioni che nella bella stagione risvegliavano subito quei cittadini che dormivano con le finestre aperte. C’era poi anche il sottofondo, il grufolio dei porcelli contrappuntato, nel periodo pasquale, dai belati delle caprette che già vedevano il figlioletto sgozzato, arrostito e offerto in bella vista tra verdi grasèi e gialle polente”. A questi suoni si univano le urla dei venditori.

Ripresa fotografica del 1925 circa: i l nuovo Mercato del Bestiame trasferitosi alla Malpensata verso il 1915 (Raccolta Lucchetti)

Dopo le bestie e i mandriani, al mercato arrivavano i mediatori – col fazzoletto al collo tenuto da un anello – i venditori e i rivenditori, così come gli acquirenti di granaglie e di concimi, gli allevatori con i loro esperti di fiducia, i rappresentanti delle ditte produttrici di attrezzi e macchine agricole.

Ripresa fotografica del 1925 circa: i l nuovo Mercato del Bestiame trasferitosi alla Malpensata verso il 1915 (Raccolta Lucchetti)

Tutti armati di taccuini e di matite copiative, si allogavano ai tavolini dei caffè e delle mescite del centro, dove alcune osterie raccoglievano i mediatori delle valli ed altre quelli della pianura. Solitamente il Caffé Dondena (poi demolito) raccoglieva i subalterni, mentre i “padroni” si recavano al Cappello d’Oro, dove poi avrebbero pranzato.

Appena fuori Porta Nuova, sorsero presto numerosi alberghi e ristoranti per accogliere i viaggiatori. Il Cappello d’Oro, a sinistra della fotografia, assicurava anche il noleggio di carrozze

Nel secondo pomeriggio, dopo aver congedato i mercanti ormai ubriachi (qualcuno diretto alla corriera ed altri a piedi, spingendo col bastone fino a casa le bestie acquistate), costoro prendevano la via di quelle case dove già avevano indugiato i giovani mungitori, aggirandosi in quei vicoli intorno a Piazza Pontida, dai nomi un po’ misteriosi (del Bancalegno, dei Dottori, di San Lazzaro, della Stretta degli Asini) dove “pulsava la presenza, domiciliare e lavorativa, di signorine o ex signore, talora anche un po’ sul declino, dai fascinosi nomi d’arte: la Parigina, la Sigaretta, la Fornarina, l’Avorio Nero, la Nuvola. Le favorite degli operatori del lunedì che più potevano spendere e che potevano anche concedersi una cenetta al Ponte di Legno” (7).

Quando il sole cedeva alla sera e si rinfrescava l’aria, Città alta si profilava nel cielo nitida e sola, ed estranea ai mercati del Borgo sembrava una gran dama, che dal suo balcone assisteva sorridente a una festa di paese.

Resistettero quei lunedì non troppo oltre l’ultimo dopoguerra.

Negli anni Cinquanta, specialmente in occasione del “mercato del lunedì” il palazzo della Borsa Merci fu a lungo sede di contrattazioni ed infine si pensò alla realizzazione di un nuovo Mercato del Bestiame e di nuovo Macello pubblico.

Il palazzo della Borsa Merci, realizzata nel 1954 su progetto di Marcello Piacentini per conto della Camera di Commercio di Bergamo. L’edificio si sviluppa tra viale Vittorio Emanuele II e via Francesco Petrarca e costituisce il completamento del disegno urbano per l’odierna piazza Libertà. I locali per le contrattazioni venivano affittati singolarmente. Il piano interrato ospitava i servizi della borsa e alcuni locali adibiti a esposizioni temporanee dominati dalla presenza di un pilastro centrale che Angelini rivestì con ventidue tipi diversi di marmi, provenienti dalle valli bergamasche, che costituiscono un’allegoria della maschera di Arlecchino. Angelini  l’artefice delle soluzione spaziali adottate per gli interni, di cui progettò anche gran parte dell’arredo. L’edificio ospita oggi diverse attività commerciali e amministrative

LA TRADIZIONE DEL LUNA PARK

Come testimoniato dalle tante immagini giunte a noi, per molto tempo l’antesignano del Luna Park trovò la sua collocazione ideale nell’allora Piazza Baroni, sull’area oggi compresa tra il Palazzo di Giustizia e il Palazzo della Libertà, a pochi passi dai pazienti ricoverati presso il vecchio Ospedale di San Marco, a lungo costrette a condividere la promiscuità con gli schiamazzi e gli olezzi provenienti dall’area.

Era la parte riservata al divertimento della Fiera di Sant’Alessandro, che richiamava un gran numero di persone dalla provincia e dalle regioni vicine. Arrivavano giocolieri, saltimbanchi, piccoli circhi, ambulanti; meraviglie e attrazioni di ogni genere: le oche ammaestrate, la donna barbuta, il gorilla, la balena impagliata. Ma venivano presentate anche le meraviglie del secolo, compresa la fotografia, che un fotografo ambulante portò a Bergamo poco dopo l’invenzione di Daguerre.

Accanto a Piazza Baroni, la futura via Verdi (anche via Tasca ancora non esiste) fa da spartiacque alle baracche e ai tendoni che costituiscono la parte più ludica della Fiera, quella degli animali da circo e dei fenomeni da baraccone. Un articolo dell’”Eco” riferisce che il 24 agosto del 1908, in occasione della festa di Sant’Alessandro in fiera, in Piazza Baroni si promuovevano diverse iniziative. Sul fondo si distinguono, sulla sinistra la facciata del tempio evangelico, uno dei primi edifici del nuovo centro cittadino, ai margini della via Ferdinandea ora viale Vittorio Emanuele II; sulla destra il campanile della chiesa di S. Alessandro in Colonna (terminato nel 1905) e a destra l’Ospedale di San Marco (fondato nel 1458 e completato nel ‘500), demolito nel 1937

 

Scene di vita dalla vecchia Fiera del “Prato S. Alessandro”. Dai tendoni sullo sfondo si nota che la zona è quella dedicata ai divertimenti nello spazio esterno ai casotti

Con l’abbattimento della Fiera verso la fine degli anni Venti, il Luna Park trovò una sede più idonea presso il Foro Boario, dove – racconta Luigi Pelandi – si ergeva solitamente un grande anfiteatro a mo’ d’arena e dove soprattutto durante il periodo della Fiera si combinavano delle ascensioni con il globo aerostatico, esercizi di acrobazia, esibizioni ginniche, corse di cavalli, ed altro ancora.

Acrobati motociclisti nel 1915 in Piazza Baroni o presso il Foro Boario? Un dubbio sollevato da Adriano Rosa in Storylab: “Il presunto vincitore è posto su una motocicletta, e alle sue spalle è presente una struttura che pare essere circolare, tipica di quelle dove si svolgono le acrobazie dette “giro della morte”. Inoltre anche sullo sfondo compaiono disegni di motociclette. Infine si notano due scritte “Faust” e “Radames”, che rimandano a due famose opere liriche (Radames, indirettamente, è un personaggio dell’Aida). Se ricordo bene ciò che ho letto da qualche parte, questi spettacoli venivano effettuati in una struttura eretta in Piazza Baroni o in Foro Boario”

 

Un “ottovolante” al Foro Boario, nel 1929

In seguito, per un breve periodo si posizionò nei giardini della Casa del Popolo (sede odierna de L’Eco di Bergamo) e successivamente, per un certo periodo (verosimilmente nel dopoguerra) dovette sostare nel grande campo incolto che si estendeva tra l’attuale piazza della Repubblica e viale Vittorio Emanuele.

Appena dopo la seconda guerra mondiale, la zona tra l’attuale piazza della Repubblica e viale Vittorio Emanuele era ancora un campo incolto. Sullo sfondo, Casa S. Marco (1938), la Casa Littoria (Casa della Libertà, 1936) e il Palazzo delle Poste, inaugurato nel 1932

Agli albori degli anni Cinquanta, la costruzione del palazzo dell’INPS e la riqualificazione del piazzale costrinsero i baracconi della Fiera di Sant’Alessandro a trasferirsi sul piazzale di terra battuta della Malpensata, dove periodicamente, da qualche tempo doveva stazionare il Circo equestre, di cui si conserva una testimonianza.

Anni Cinquanta: il Circo di Darix Togni – domatore di tigri – alla Malpensata. Alle spalle si riconosce l’edificio della “Bonomelli”,  prima dei vari ampliamenti e ristrutturazioni susseguitesi negli anni. L’edificio con le quattro finestre sovrapposte fa ora parte di un’ala che arriva fin quasi alla ex pista di pattinaggio su ghiaccio

Una fotografia datata 1957/58 – Elefanti alla “Zuccheriera” di Porta Nuova – attesta per quegli anni la presenza di un Circo equestre nelle vicinanze del centro; l’abbigliamento estivo dei bambini lascia supporre che la ripresa sia stata eseguita in primavera, in occasione dell’allestimento del Circo alla Malpensata.

Elefanti all’ “abbeverata” di Porta Nuova (la Zuccheriera) nel 1957/58 (Fondo Fausto Asperti – Museo delle storie di Bergamo)

 

Una rara immagine dei baracconi della Fiera di S. Alessandro, intorno alla fine degli anni Cinquanta, con il piazzale della Malpensata ancora spoglio. In quello che allora veniva chiamato “Autosprint”, il circuito a forma di 8 visibile in primo piano, sfilarono in un primo tempo delle automobiline piuttosto veloci che ricordavano la Giulietta spider, venendo poi sostituite da Go Kart. In secondo piano si vede l’Autoscontro mentre a destra si intravedono le famose “Gabbie”

 

Via Don Bosco dal piazzale della Malpensata intorno alla fine degli anni Cinquanta, come si evince anche dal “grattacielo” di via Tiraboschi visibile in alto a destra e risalente a quel periodo. La ripresa fu scattata dalla ruota panoramica della fiera, della quale si intravede uno scorcio di baraccone in primo piano. “Cosi’ si presentava l’incrocio Via Carnovali-Via Don Bosco, con quel distributore (marchio Caltex, se ricordo bene), che resto’ lì per molto tempo, fino alla fine degli anni ’70. Una zona molto cambiata, quasi tutti gli edifici sulla sinistra sono stati demoliti, sostituiti da enormi condomini. Il grande edificio del gasometro, la cui demolizione è stata completata da poco per la costruzione del parcheggio, è appena fuori quadro, Ci sono due campanili visibili: quello piccolo a sinistra è della Chiesa di San Giorgio, quello più alto è quello, inconfondibile, di S. Alessandro. La foto fu scattata ad Agosto, quando sul piazzale della Malpensata si teneva il Luna Park” (Adriano Rosa per Storylab. Fotografia caricata da Pietro Bellavita)

In occasione della sistemazione del piazzale della Malpensata, messo a punto nel ’64, il Luna Park della festa patronale di Sant’Alessandro si trasferì presso il Piazzale della Celadina, dove rimase per una cinquantina d’anni finché di recente non venne spostato in un’area adiacente.

Piazzale della Malpensata, 1964

LA RIQUALIFICAZIONE DEL FORO BOARIO E LA COSTRUZIONE DELL’ISTITUTO TECNICO VITTORIO EMANUELE II

Mentre la nascita, tra  il 1882 e il 1906, degli edifici delle Ferrovie delle Valli  rappresenta un primo segno di qualificazione architettonica dell’area, sull’ampio piazzale si realizzano interventi tesi a razionalizzare e concentrare diverse attività, destinando – come detto – 1700 mq del foro per il Mercato delle verdure.

Con le celebrazioni del centenario del Donizetti (1897) comincia tuttavia a farsi strada un progetto di più ampio respiro, teso a riqualificare il viale Vittorio Emanuele e il Foro Boario, che costituiscono la porta d’ingresso alla città dalla stazione.

L’evoluzione novecentesca del viale della Stazione, poi viale Roma ed oggi Papa Giovanni XXIII

La decisione di collocare sul sito il nuovo palazzo per accogliere l’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II (concepito come embrione di una cittadella degli Studi), realizzando il nuovo giardino pubblico antistante, sarà determinante nella definizione dell’attuale area del piazzale.

 

Dopo la posa della prima pietra il 23 settembre 1913 alla presenza del re Vittorio Emanuele III, l’edificio verrà costruito in due diverse fasi, di cui gli studi riportano date discordanti.

Due ali di folla, con bandiere, applausi e grida “Viva il re!” al passaggio a Porta Nuova del corteo con l’auto – scortata da carabinieri in bicicletta – sulla quale sfila Vittorio Emanuele III in visita alla città il 23 settembre 1913. In questa occasione il re presenzia alla posa della prima pietra dell’lstituto Tecnico in Foro Boario e all’inaugurazione del monumento a Cavour. Inoltre compie una visita l’lstituto Italiano d’Arti Grafiche ed un’altra in Città Alta e alla Cappella Colleoni (da “Fotografi pionieri a Bergamo” di Domenico Lucchetti – Foto di Giuseppe Locatelli)

Il progetto, che prevedeva per il complesso un’impostazione a C e a prospetto lineare con un corpo centrale emergente, fu affidato all’ing. Michele Astori, ma venne indetto un concorso di architettura per la facciata nel 1913, vinto da Marcello Piacentini. Luigi Angelini coordinerà i lavori, su cui poi interverrà con delle modifiche l’ing. Ernesto Suardo.

La prima ala venne terminata nel 1922 e completata nel 1934-1936 con la variante del corpo centrale disegnato dal Piacentini (8), mentre il complesso è completato nel 1936 e nell’ottobre dello stesso anno è inaugurata l’ala nuova (9).

La fabbrica del primo lotto (1818) dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II. A lavori ultimati, comprendeva 13 aule, 6 aule speciali, 6 di disegno, 4 laboratori (fisica, elettrotecnica, chimica generale, chimica industriale)

 

Il secondo lotto dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II, completato nel 1936. Venne occupato dall’Istituto Industriale, che nel 1919 trovò sede nella ex fabbrica di automobili Esperia, lasciando dunque spazio al neonato liceo scientifico. L’edificio fu infatti fortemente voluto per i grandi mutamenti che coinvolgevano l’economia e il sistema produttivo della nascente industria

 

 

In una foto del 1924, il primo lotto dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele, concluso nel 1922. In primo piano il nuovo giardino realizzato nei primi anni Venti da P. Pesenti. Costruita la prima ala dell’Istituto Tecnico e realizzato il primo impianto dei giardini pubblici, l’area del Foro Boario ospiterà gli stand della Fiera campionaria (che in precedenza si teneva nel cortile del Palazzo Tre Passi) e gli espositori – industriali, artigiani, commercianti, agricoltori – raddoppieranno

 

Una fotografia priva di data, con l’impianto del giardino non ancora ultimato e piantumato

Nel corso dei lavori del primo lotto il Comune realizza il primo impianto dei giardini pubblici che, seppur diverso rispetto al progetto iniziale (10), è ben evidenziato nelle foto aeree del 1924 con la rete geometrica dei vialetti e il parterre della sezione centrale che enfatizza l’architettura aulica e monumentale del nuovo edificio.  Le due ampie piazzole ai lati erano destinate ad aree di sosta.

Volo aerea del 1924, dettaglio sul Foro Boario e contesto (Civica Biblioteca Angelo Mai Bergamo), Si noti anche l’ampio viale allineato con il muro di cinta meridionale delle scuole, a delimitare il confine del giardino. Nel 1927 sono citati alcuni aceri, due magnolie, due laurus a palle e cinque laurus a piramide

 

Da Raccolta Lucchetti (l’annullo postale è del 1930). Nel 1922 l’edificio in Foro Boario ospita il l Regio  Istituto Tecnico, ridotto alla sola sezione Commercio – Ragioneria

Mentre l’intero Foro si anima Foro con la presenza di alcuni chioschi e di strutture di svago, Bergamo cresce; di lì a poco, tra il 1933 e il ’36 verrà realizzata la nuova Stazione delle Autolinee, che si raccorderà al giardino pubblico – posto a una quota inferiore – mediante un’ampia gradinata di collegamento.

Bergamo dall’alto. Foto del 1924 della Società Airone. L’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II nell’area dell’ex Foro Boario, come si presentava al termine della prima fase della sua costruzione. Si nota la Chiesa delle Grazie con ancora il vecchio campanile, mentre dietro la cupola, nell’attuale via Taramelli è visibile la ciminiera del Cotonificio Reich. Oltre la via A. Maj, verso le vie Bono, Rovelli e David emergono le tante fabbriche dell’epoca: la lombarda Cementi, Molini Bergamo, Cesalpinia, Agnelli, Molini Callioni, ed altre. In lontananza, la ciminiera più alta: quella del Linificio e Cotonificio Oetiker di via A, Maj

 

L’ARRIVO DELLA STAZIONE DELLE AUTOLINEE CANCELLA LA TORRE E LO STADIO “BARLASSINA”

Nel 1957 la stazione è sottoposta ad una complessiva ristrutturazione per la realizzazione della Stazione delle Autolinee, in occasione della quale viene innalzato il grande arco di sostegno in cemento e tiranti e della struttura delle pensiline: il terminal venne ritenuto all’avanguardia.

La Stazione dellle Autolinee vista da sud. Venne realizzata nel 1957, con il grande arco di sostegno  della struttura delle pensiline. Oltre ai negozi e bar, la zona era provvista anche di un albergo diurno con docce pubbliche

 

La nuova Stazione delle Autolinee con a fianco, l’edificio liberty della Ferrovia della Valle Brembana, opera dell’arch. Squadrelli

E’ probabilmente in questa occasione che viene demolita l’alta torre che sorgeva a lato del fronte sud-est dell’Istituto Tecnico, la cui collocazione si precisa in alcune immagini di repertorio.

1924: a destra dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II, la torretta di Piazzale Marconi. Come ipotizzato nei commenti di Storylab, poteva trattarsi di una cabina elettrica appartenente alla società privata Orobia

 

La torretta di Piazzale Marconi, presso il Foro Boario

La ritroviamo in altre due riprese eseguite probabilmente per immortalare la piena del torrente Morla del ’37 e del ’49.

A sinistra, la torre in Piazzale Marconi nel 1949, verosimilmente demolita intorno al 1965 per la realizzazione della Stazione delle Autolinee. Il piazzale è allagato probabilmente a causa della piena della Morla di quello stesso anno. Lo stadio “Barlassina”, demolito negli anni Cinquanta, si trovava proprio oltre la muraglia sovrastata dalla scritta (casuale quanto azzeccata) “Masera” (“a macero” nel dialetto locale) (Archivio Wells)

 

Un’altra immagine della , la torre in Piazzale Marconi nel 1937, probabilmente scattata in occasione della piena della Morla registrata dalle cronache. Poco distante, l’edificio della Stazione della Valle Brembana

 

Estratto da Piano regolatore della Città di Bergamo del 1906, il corso del torrente Morla nellarea della Stazione Ferroviaria (Archivio Ra.pu)

Ed è probabilmente a causa della realizzazione della Stazione delle Autolinee che viene abbattuto il piccolo Stadio Barlassina (11) che sorgeva a fianco della F.V.B. e di cui è difficile reperire la data di costruzione.

Inizi anni Cinquanta: la demolizione dello Stadio Barlassina, nell’area dove venne realizzata la Stazione delle Autolinee. Quei vagoni ferroviari dovrebbero appartenere alle Ferrovie delle Valli. Il tamburo a destra dovrebbe essere quello di S. Anna; l’edificio a destra è ancora esistente (anche se ridotto nelle volumetrie) quasi all’incrocio tra le vie Foro Boario e Bono, così come gli edifici retrostanti

Si è osservato che l’origine del nome Barlassina potrebbe derivare dall’arbitro più famoso degli anni Trenta, Rinaldo Barlassina – di origine novarese – scomparso a Bergamo nel 1946 per un incidente stradale. Se ciò fosse vero, il campo di calcio dovette perdurare solo per pochi anni in quanto il piccolo stadio, con il fondo in in terra battuta, venne demolito agli inizi degli anni Cinquanta.

La struttura occupava parte dell’area dell’attuale Stazione delle Autolinee e confinava con la FVB.

Pizzale Marconi nel 1953: il “Barlassina”, che sorgeva a lato della F.V.B., è da poco scomparso per fare spazio alla rinnovata Stazione delle Autolinee (Foto Wells)

D’estate il campo ospitava il celebre torneo detto “Notturno”,  poi sostituito dal “Palio 18 Isolabella” che negli anni ’50/’60 si teneva ogni sera d’estate e con grande affluenza di pubblico sul campo dell’Olimpia nell’Oratorio di Borgo Palazzo, a cui partecipavano – profumatamente pagati e sotto falso nome – anche calciatori professionisti (12).

IL DOPOGUERRA E LA NASCITA DEL “GIARDINO LUSSANA”

Nel Dopoguerra, tra i vari progetti avviati per la ricostituzione del patrimonio arboreo delle aree verdi pubbliche devastate durante la seconda guerra mondiale, si avvia quello del “Giardino Lussana”, nome che assume il giardino antistante l’Istituto Vittorio Emanuele II.

Dopo qualche variante apportata nel luglio del ’46 viene realizzato il nuovo giardino progettato da Luigi Angelini, con il viale in asse con la facciata dell’Istituto e l’aiuola centrale con piazzola. Le immagini raccontano la sua evoluzione.

Come previsto nell’atto di cessione del lotto di terreno, le piantumazioni hanno  lasciato libera la visuale dal viale Roma al corpo centrale della facciata principale dell’Istituto Tecnico

 

Il  giardino in un immagine antecedente al 1962

 

Il Giardino Lussana ancora privo del monumento all’alpino in una foto non datata

Nel frattempo via Paleocapa va assumendo il volto attuale.

Via Paleocapa, con a sinistra l’ex Casa del Popolo, oggi Palazzo Rezzara, con visibili l’ingresso dell’Hotel Moderno e del Cinema Rubini (sostituito tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta dal Centro Congressi Giovanni XXIII). A destra il Palazzo Dolci

DAL MONUMENTO ALL’ALPINO AL DECLINO E ALLA RINASCITA DELL’AREA

Nella Bergamo da tempo privata di un monumento dedicato agli alpini ed in seguito alle pressanti richieste degli alpini bergamaschi, nel 1957 si decide finalmente di issare in città un nuovo monumento. Per la collocazione la scelta cade sul Giardino Lussana, ed in seguito a un concorso nazionale vengono affidate agli arch. Giuseppe Gambirasio, Aurelio Cortesi e Nevio Armeggiani la progettazione, la collocazione e la realizzazione dello slanciato monumento con vasche d’acqua dedicato agli alpini, mentre la scultura bronzea dell’Alpino arrampicante è di Peppino Marzot.

La posa della prima pietra avvenne il 31 gennaio del 1960 e per desiderio degli alpini bergamaschi l’inaugurazione viene fatta coincidere con l’adunata nazionale degli alpini, che si terrà a Bergamo il 18 marzo del 1962.

L’altezza del monumento diventa un preciso riferimento urbano, accentuando maggiormente la centralità dell’impianto del giardino – titolato d’ora in avanti Piazzale degli Alpini -, a scapito della visione del palazzo dell’Istituto Tecnico.

Il monumento all’Alpino nel piazzale degli Alpini. Al fine di valorizzare il monumento, nella fontana non vengono realizzati giochi d’acqua

 

Pianta topo-idrografica della città di Bergamo e sobborghi dell’Istituto Geografico Militare, compilata e disegnata dall’Ing. Roberto Fuzier nel 1896. Sono indicate le rogge principali e i canali secondari derivati. L’area è ricca di corsi d’acqua: in corrispondenza della fontana la roggia Nuova e la Coda Morlana si uniscono dando origine alla roggia Ponte Perduto

Negli anni 80 inizia il declino della Stazione delle Autolinee, con l’aumento degli scippi, delle rapine e soprattutto dello spaccio di droga. La sala d’aspetto diventa un bazar dello spaccio e ostello per sbandati e clochard di ogni sorta.

Clochard in viale Roma, anni ’70

Mentre crescono le retate e i presidi delle forze dell’ordine, e crescono le telecamere, si muove anche la solidarietà con l’istituzione del camper di Don Fausto Resmini e i volontari della Caritas. Nel 2010 iniziano i lavori per riqualificare il piazzale degli Alpini per la costruzione del moderno Bergamo Science Center (arch. Giuseppe Gambirasio e Marco Tomasi), finchè non si approda all’ennesimo restyling dell’area, frutto di storia recente.

 

VECCHI RICORDI DI VIA ANGELO MAJ

Nel 1953 il vecchio Macello comunale di via A. Maj fu spostato alla Celadina e poco dopo la sua demolizione fu costruito l’istituto Secco Suardo.

Via Angelo Maj e, in primo piano, il vecchio macello cittadino. L’immagine è antecedente al 1953, anno in cui il vecchio macello della città fu spostato alla Celadina. Dopo il trasferimento l’edificio fu demolito per fare posto all’istituto Secco Suardo (Archivio Wells)

Nella stessa via, oggi trasfigurata, c’erano altre attività storiche come il Mulino Oleificio Callioni, la Trattoria del Bue Rosso e l’edificio del Monopolio di Stato. Quest’ultimo era stato costruito prima della seconda guerra mondiale e per tantissimi anni aveva mantenuto la stessa impostazione: tabacchi sulla destra, sale sulla sinistra, un ampio cortile ombreggiato da un grande fico al centro.

Poi i Monopoli arrivarono al capolinea, con l’affidamento della manifattura e della distribuzione del tabacco ai privati ponendo fine a una delle ultime testimonianze di quella che può essere considerata una vera e propria epopea.

Uno dei carretti che si aggiravano in città per conto del Monopolio di Stato. Trasportava sale e tabacchi, raggiungendo anche Città Alta, forse percorrendo il viale delle Mura per evitare che il ronzino si affaticasse lungo le ripide strade. Il capo chino, le orecchie basse e il passo lento, per le strade piane del centro, sono un ricordo familiare per molti. Questo  carretto doveva circolare ancora intorno alla metà degli anni Settanta, come si evince anche dalle automobili riprese, e c’è chi lo ricorda ancora almeno oltre la metà degli anni Ottanta, anche se in un primo periodo il cavallo bianco veniva utilizzato alternativamente ad un cavallo marrone. Negli ultimi periodi venne invece utilizzato un cavallo nero

 

1979: l’ultimo cavallo che trainò il carretto del Monopolio; il conducente era il signor Magri. Il carretto è ripreso all’altezza della ricevitoria del Totocalcio, a fianco del Teatro Donizetti. E’ strano che in un periodo come quello il monopolio si servisse ancora di un carretto per recapitare le sue merci. O forse, chissà, può essere stata una scelta del “carrettiere”: forse non lo sapremo mai, ma ci resta pur sempre questo bellissimo ricordo (Ph Giuseppe Preianò)

Dopo la loro privatizzazione, avvenuta tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del nuovo secolo, nel giugno del 2005 lo storico deposito di via A. Maj è stato ceduto dallo Stato e destinato a complesso residenziale e negozi, evocando nel  nome (Residenza Monopoli) i gloriosi trascorsi.

In lontananza il profilo del vecchio Macello, prima del 1953

Pur pur non presentando alcun pregio artistico,  l’intervento edilizio, eseguito su progetto dell’architetto Pietro Valicenti, ha mantenuto, ristrutturandolo, il fronte su via Maj perché legato al vincolo imposto dal vecchio piano regolatore. L’unica modifica ha riguardato l’ampliamento dei riquadri sulla facciata che sono stati rimpiazzati da ampie finestre.

 

Note

(1) A Bergamo la lana era prodotta e commerciata già dal Duecento e nel ‘500 Bergamo, Milano e Como, costituivano di gran lunga la principale area laniera italiana e una delle principali d’Europa, cosicché, nella seconda metà del ‘500, grazie al raggio d’azione internazionale dei potenti mercanti bergamaschi legati soprattutto alla manifattura della lana (settore fondamentale in ambito tessile bergamasco), la grande Fiera di Bergamo godeva del suo massimo splendore. La manifattura tessile legata soprattutto al settore laniero legato ai panni di lana della Val Gandino (una delle  componenti essenziali della Fiera) si esaurì rapidamente con la caduta della Repubblica di Venezia, per gli ostacoli posti al commercio internazionale e dal ripetuto variare dei regimi doganali, che nel periodo napoleonico favoriscono i mercati francesi. Il settore laniero era ormai incapace di reggere la concorrenza lombarda, soprattutto milanese (da M. Gelfi, La fiera di Bergamo: il volto di una città attraverso i rapporti commerciali, Ed.Junior, 1993).

(2) M. Gelfi, Op, cit.

(3) M. Gelfi, Op, cit.

(4) Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo: Piazza Carrara, Piazzale Risorgimento, Piazzale Alpini. Luigi Pelandi (Op. cit.) afferma che nel 1857 al Foro Boario fu trasportato il Mercato bovino e, nel 1870, anche quello equino. Al mercato equino, Luigi Volpi (Op. cit.) aggiunge anche il mercato fessipede.

(5) LA S.A.B. AUTOSERVIZI – Più di cent’anni ma non li dimostra. Ricerca condotta da: Chiara Caccia, Stefano Negretti, Maria Grazia Pirozzi.

(6) Ibidem.

(7)  Rievocazione di Emilio Zenoni in: Pilade Frattini, Renato Ravanelli, Op. cit.

(8) Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo, Op, cit.

(9) A cura di Giovanni Luca Dilda, La sezione ottocentesca dell’archivio del Vittorio Emanuele II.

(10) La realizzazione dell’impianto, progettato dall’arch. Michele Astori, fu rimandata per via del conflitto mondiale e probabilmente non venne eseguita. Esso era impostato su un viale centrale ad enfatizzare la facciata del palazzo e un viale perpendicolare aderente alla facciata per dare continuità e attenzione alla visuale con città alta, ma non è chiaro se in un primo momento fosse stata adottata la soluzione del viale centrale. Il disegno è conservato presso la Civica Biblioteca Mai Bergamo. Nel 1923 la Giunta approvava un progetto di sistemazione a giardino «con piante, vialetti e pietre» di cui rimane un disegno (Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo, Op, cit.).

(11) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, Op. cit.

(12) Pilade Frattini e Renato Ravanelli, Op. cit.

Riferimenti principali

Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo: Piazza Carrara, Piazzale Risorgimento, Piazzale Alpini.

“Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

Mauro Gelfi, La fiera di Bergamo: il volto di una città attraverso i rapporti commerciali, Ed.Junior, 1993.

Luigi Volpi, Vecchie botteghe bergamasche. La Rivista di Bergamo (anno sconosciuto).

Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

Luigi Pelandi, Passeggiando per le vie di Bergamo scomparsa – La Strada Ferdinandea – Collana di Studi Bergamaschi – A cura della Banca Popolare di Bergamo. Bergamo, Poligrafiche Bolis, 1963.

Mariola Peretti, L’ex Mercato ortofrutticolo di Bergamo, terra di nessuno.

Luigi Angelini, Il volto di bergamo nei secoli, Bolis, 1952.

A cura di Giovanni Luca Dilda, La sezione ottocentesca dell’archivio del “vittorio emanuele II”.

RINGRAZIAMENTI

A Storylab e in particolare a Giuliano Rizzi, Adriano Rosa , Roberto Brugali, Adriano Colpani, Duccio Crusoe e Sergio Meli per Casa Benaglio-Nava in via del Macello e per alcune preziose  informazioni concernenti il Luna Park,  lo Stadio Barlassina, la torretta presso la Stazione, il Circo Togni alla Malpensata nonchè il Ciclodromo.

Bergamo nel passato, fra rogge, torrenti e canali

Insieme al torrente Morla la città di Bergamo è interamente attraversata da una fitta geografia sotterranea di antichi canali, oggi in gran parte interrati, la cui presenza ha intrecciato per secoli un rapporto strettissimo con la vita, le attività e le abitudini dei Bergamaschi, svolgendo un’importante funzione nell’assetto topografico e nell’evoluzione economica della città prima del loro degrado e della conseguente, parziale copertura.

Con un pizzico d’immaginazione, di quel passato non poi così lontano possiamo sentire ancora l’eco: nei luoghi più appartati dei vecchi rioni è ancora possibile imbattersi nei vecchi canali oppure sentire, attraverso grate e chiusini, l’umidore del fiume imprigionato sotto la città e quasi dimenticato.

I MODULI DI PLORZANO E LA ROGGIA SERIO NEL QUARTIERE DI BORGO S. CATERINA

Tornando ai miei ricordi di bambina, si affacciano alla memoria alcuni scorci del mio quartiere di nascita, dove amavo seguire con lo sguardo lo scorrere pigro e poderoso della roggia Serio Grande – giustamente considerato il “fiume per Bergamo”, che scorre in via Barzizza a lato di Borgo S. Caterina ed è lo stesso che si scorge anche in via S. Lazzaro.

Via Borgo Santa Caterina

Ad un tratto l’acqua verdastra scompariva inghiottita nel nulla, lasciandomi assorta a fantasticare, fra apprensione e curiosità, su quel misterioso mondo sotterraneo, che immaginavo di esplorare, rabbrividendo.

I moduli di Plorzano, partitori della roggia Serio Grande, in via Barzizza nel 1910. Derivato dal fiume principale poco a valle del ponte di Albino, il canale – Fossatum communis Pergami – era stato scavato in età comunale a scopi irrigui e artigianali e poi sfuttato ad usi industriali. Lungo il canale e le sue derivazioni (“seriole”) sorsero officine, magli, mulini, laboratori tessili. L’edificio di fronte fu la sede di un filatoio che, situato all’inizio del borgo, sull’angolo con via Barzizza, sfruttava la forza della roggia Serio (Raccolta D. Lucchetti)

Un tempo, qui era tutto un altro mondo: sull’altro lato della stradicciola sorgeva un’officina poi abbattuta per consentire il transito del tram. Nei pressi venne realizzato il primo impianto per la produzione dell’energia elettrica – pure mosso dall’acqua della roggia -, con cui furono alimentate la funicolare e la rete tranviaria. Vi sorgevano anche un filatoio e la trattoria “Il Giardinetto”, con i tavoli all’aperto sotto i grandi tigli e le stalle da un lato.

Le massaie lavavano i panni presso il rudimentale lavatoio formato da un unico blocco di pietra, levigata dal continuo lavorìo.

Un’altra versione della fotografia precedente. Dalla roggia Serio Grande deriva la roggia Nuova – che si diparte a destra dell’immagine -, ricevendo da quella principale una quantità d’acqua sufficiente grazie allo sbarramento dei moduli di Plorzano. La roggia Nuova scorre alle spalle del borgo – entra nel Parco Suardi – e attraversa tuttora il centro cittadino, passando anche davanti alla chiesa di S. Bartolomeo

Non posso fare a meno, ora, di sorridere pensando che quel mondo creato dalla mia fantasia era lo stesso che popolava l’universo mentale di ogni bambino: le stesse domande, i medesimi turbamenti e fantasticherie.

LA ROGGIA SERIO GRANDE E LA ZOGNA, UN TOPONIMO DIMENTICATO

Un altro pezzo della Bergamo scomparsa si trovava nell’attuale via Suardi, dove attualmente sorge l’ex Caserma Scotti, che dal 1884 ha inglobato  parzialmente la “Zogna” – una bella villa suburbana d’inizi cinquecento – per edificare l’Infermeria Militare.

L’ingresso della Caserma Scotti, in via Suardi (anni ’70)

La villa, che a monte si  affacciava sulle sponde della roggia Serio, era posta ai margini dell’allora “Campo di Marte”, nome popolare con cui si designava  quella che sulle mappe era indicata sulle come “Piazza d’Armi”.

A destra, il gruppo edificato della “Zogna”, tra le attuali vie Cairoli, Ghislandi, Giovanni da Campione e Suardi, quest’ultima ben tracciata a sinistra dell’immagine, benchè non ancora terminata. Verso destra la “Piazza d’Armi” (la foto risale al 1924)

Come indicato nelle mappe sottostanti, il vicino quartiere di via Fratelli Cairoli, risalente al 1912, ha mutuato la titolazione di “Zognina” proprio dalla cinquecentesca villa “Zogna”: un toponimo di cui abbiamo perso la memoria.

La “Zogna”, villa suburbana fra la Roggia Serio e l’ex Piazza d’Armi, nel 1884 fu  parzialmente inglobata nella Caserma Scotti. L’edificio presentava richiami architettonici a Pietro Isabello e affreschi interni di Andrea Previtali (1510-12), in seguito strappati e conservati nel Palazzo del conte Guido Suardi (litografia – Bergamo – racc. Gaffuri)

 

 

Se ci spostiamo all’altezza di via degli Albani, pare di immaginare la bella dimora affacciata sull’antico canale, sulle acque che scorrono limpide e gaie in una chiara giornata di sole.

Da Villa “Zogna” a Caserma Scotti. L’edificio, affacciato da un lato sull’attuale via Suardi e dall’altro sulla roggia Serio Grande, è ripreso dalle chiuse di via degli Albani

“IL MORLA” O “LA MORLA”?

Il ponte sul rio Morla in Borgo Palazzo (1885 circa). Il torrente fu immortalato nei diplomi regii ed imperiali poiché diede il nome ad una Corte regia: “la corte Morgola… presso al fiume che fino ad oggidì porta lo stesso nome, in quel luogo che ora è detto Borgo Palazzo” (Lupi, 1780) – ( Raccolta D. Lucchetti)

Appunto: “Il Morla” o “la Morla”? Un quesito a proposito del quale l’indole bergamasca non nutre alcun dubbio, e che indusse Gino Cortesi a vergare con piglio poetico :

“Mi auguro che non mi capiti più di sentir dire, o di leggere, il Morla. Per i bergamaschi l’antica Murgula, più che un torrente (maschile), è una leggiadra ninfa che scende nottetempo dal Canto Alto, attraversa sinuosa e ancheggiante la città e va ad adagiarsi mollemente nei verdissimi prati della Bassa.
Non facciamole barba e baffi, per carità!” (1).

Veduta di Città Alta da via Torretta. Autore ignoto (Propr. Museo Storico di Bergamo)

Ricordiamo che anche il compianto studioso bergamasco Lelio Pagani la chiamava al femminile, rivelando con ciò un legame davvero forte e viscerale con la sua amata città.

IL GALGARIO, UN INCROCIO DI CORSI D’ACQUA

Due corsi d’acqua a cielo aperto, oggi interrati, cingono l’ex monastero del Galgario: la Morla, che da via Muraine va ad intersecare le attuali vie Suardi e Galgario, e la roggia Serio Grande, che corre parallela a via Suardi facendo di quest’angolo un punto nodale della città, legato alla presenza dei due principali corsi d’acqua cittadini.

L’ex monastero del Galgario e la torre del Galgario nella ell’aerofotografia del 1924. La via Suardi in questo tratto non è ancora tracciata, mentre via Pitentino (attuale via Frizzoni) è lambita dalla Roggia Serio Grande, che prosegue verso il centro della città. A destra dell’ex monastero corre la Morla

E fu proprio nella verdeggiante ansa, oggi completamente trasfigurata, che gli Umiliati fondarono il convento (occupato dalla seconda metà del XVII secolo dai frati Paolotti), compreso tra i due corsi d’acqua particolarmente ricchi di calcare (calcherium=Galgario): elemento prezioso per un Ordine dedito alla lavorazione e alla follatura della lana (2).

Giuseppe Rudelli (1790-1850). La chiesa e la torre del Galgario. Al Galgario, nella primitiva chiesa del SS. Salvatore trovarono sede  dall’inizio del XIII secolo gli Umiliati, che vi restarono sino al 1570, anno della soppressione dell’Ordine  

Adibirono alcuni stabili a mulino e a calchera (forno per la fabbricazione della calce) mentre la forza motrice della Morla azionava i macchinari per la produzione della polvere da sparo. Polvere che ancora nel Seicento veniva fabbricata presso la “polverista” (“edificio da polvere”) del Galgario, a costi inferiori e in quantità maggiori rispetto alle vetuste macine della Rocca.

Giuseppe Berlendis, La Morla dal Galgario (Bergamo, Biblioteca Civica)

Se in precedenza era soprattutto Venezia – alla quale Bergamo inviava il salnitro – a rifornire la nostra città di polvere da sparo,  nell’ex-convento la produzione avrebbe dovuto bastare per il fabbisogno non solo della fortezza ma anche per le fortezze vicine.

La torre del Galgario fungeva così da deposito, in tutto simile alle polveriere dell’alta città, comunque ancora in uso almeno sino alla metà del Settecento.

La piazza del Galgario, con la torre e l’ingresso al monastero nell’Ottocento, in un disegno di Giuseppe Rudelli (1790-1850). Il Galgario fu sede della prima fabbrica della polvere a Bergamo. In tempi più recenti è stato sede della Questura, sino a che negli anni Ottanta  non è stata edificata quella nuova (Propr. Sandro Angelini)

Ma essendo la collocazione nel Galgario troppo pericolosa per le vicine abitazioni (presso l’ex-convento si erano verificati alcuni incendi), la fabbrica per la polvere venne trasferita in una nuova e più sicura costruzione nei pressi della cappella del Sant’Jesus, dietro il monastero di Santa Maria delle Grazie, tra le vie Taramelli e Casalino, dove passavano due canali.

La cappella del Santo Jesus, tra le vie Taramelli e Casalino, demolita nel 1889. Accanto sorgeva la nuova fabbrica della polvere da sparo

Una nuova fabbrica venne poi costruita nell’edificio dell’ex convento di Santa Maria di Sotto, l’attuale “Conventino”, lambito dalla roggia oggi coperta.

Via Gavazzeni ieri e oggi. Nell’immagine più antica, la roggia è ancora scoperta 

I Paolotti vi giunsero nel 1668 dopo aver sostenuto a proprie spese anche i pregevoli interventi decorativi riemersi durante gli ultimi lavori di restauro in una porzione del convento, oggi destinato ad ospitare il dormitorio per i poveri.  Fra questi, spiccano le opere di Frà Galgario (al secolo Vittore Ghislandi, il più importante ritrattista lombardo della prima metà del XVIII secolo) e del figlio di Domenico, il più importante quadraturista locale del XVII secolo di cui ricordiamo, fra gli altri, gli interventi a Palazzo Terzi e Palazzo Moroni.

A Vittore in particolare, spetta il merito di aver devoluto al convento i proventi di molte sue opere, che servirono per edificare anche il ponte sul torrente Morla.

Pietro Ronzoni (1781 – 1862). Il ponte sopra la Morla al Galgario nella prima metà dell’Ottocento (proveniente dall’eredità di Daniele Farina da Bonate Sotto, nipote del Ronzoni)

Poi anche qui tutto è cambiato. La roggia Serio è stata per gran parte interrata.

Raffronto fra….Oggi & Ieri, 1916: la Roggia Serio nell’attuale via Frizzoni (allora via Pitentino), alla curva presso la torre del Galgario, lungo la Strada di Circonvallazione. La roggia scorreva esterna e parallela alla trecentesca cerchia delle Muraine che circondava i borghi, ponendosi a spartiacque fra la città e la campagna e scoraggiando anche eventuali incursioni  nemiche. Le Muraine vennero atterrate nel 1901

 

Via Tiraboschi ancora lambita dalla roggia Serio Grande (sulla destra)

 

Via Tiraboschi Ieri & Oggi

Oggi nei pressi di via Suardi la roggia Serio sottopassa il torrente Morla con un sifone.

Ponte di via Suardi: la griglia a protezione del sifone e sulla sinistra il canale di scarico al torrente Morla utilizzato per “alleggerire” il centro cittadino dalle piene

Intorno agli anni Ottanta si decise di coprire il torrente Morla per costruire la nuova sede della Questura, all’angolo tra via Noli e via Suardi: dell’area resta però qualche foto-ricordo.

Il ponte di via Suardi osservato da via Noli, prima della copertura del torrente Morla e della costruzione della nuova Questura

 

In lontananza, il ponte del Galgario osservato da sotto il ponte di via Suardi

 

Il ponte di via Suardi dall’alto con a destra la via Noli, nell’area attualmente occupata dalla sede della Questura

 

Tra via Noli e via Suardi Ieri & Oggi

I TANTI REGNI DELLE LAVANDAIE

Quando rogge e canali scorrevano per lunghi tratti a cielo aperto, le nostre nonne e bisnonne vi si recavano a lavare i panni in ogni stagione. Vi arrivavano la mattina presto, sospingendo le carriole cigolanti e cariche di biancheria o curve sotto un bastone assicurato al collo dal quale pendevano, in equilibrio, due grandi secchi.

Il dipinto di Costantino Rosa – “La Morla al mulino del Galgario” – ritrae in una visione idealizzata e romantica una donna con accanto una cesta ricolma di panni (Bergamo – Proprietà arch. M. Frizzoni)

L’abbondanza di corsi d’acqua permetteva a molte famiglie di ricavare sostentamento grazie all’attività di lavandai, che si svolgeva sulle rive della Morla (e l’abbiamo visto qui), della Tremana e sui canali delle rogge Serio, Nuova, Morlana, Guidana: sui tanti piccoli e grandi corsi d’acqua che disegnano la complessa geografia del sottosuolo della città.

La “Ca dei sòi”, nella valletta di Valverde, attorniata da lunghe fila di LENZUOLA stese ad asciagare, segno evidente della presenza nella cascina dell’attività di lavandai (Raccolta D. Lucchetti)

 

Uno scorcio dell’attuale centro cittadino ripreso intorno al 1895 con la chiesa di S. Maria delle Grazie la roggia Morlana (risalente almeno al secolo XII), derivata dal Serio all’altezza di Nembro e ancora visibile in via Madonna della Neve. Al partitore del Casalino essa si divide nelle rogge Colleonesca e Coda Morlana, dirette ad irrigare i territori di Stezzano, Levate e Pognano: venne infatti ampliata da Bartolomeo Colleoni per poterne poi derivare altre rogge

 

La roggia a Campagnola, nel 1910

 

Colognola nel 1952: la roggia Guidana, realizzata prima del 1453

 

La roggia alla Malpensata

 

La filanda sulla roggia, in via Daste e Spalenga

LA “PICCOLA VENEZIA” SUL CANALE

Dall’Ottocento il Comune volle dotare diversi rioni di lavatoi, alcuni dei quali sorsero anche lungo il complicato reticolo dei canali della roggia Serio. Uno di questi si trovava lungo la via San Rocco: un angolo pittoresco del borgo di San Leonardo – scomparso nella prima metà del Novecento sotto una gettata di cemento -, che restò a lungo uno dei soggetti preferiti dai pittori.

Il canale Serio nella zona di via S. Lazzaro (Racc. Gaffuri)

 

Il canale Serio in via S. Lazzaro (Racc. Gaffuri)

 

Il canale Serio tra via Broseta e via San Lazzaro (Racc. Gaffuri)

E ci fu chi lo chiamò “piccola Venezia”.

La Seriola nuova in via San Rocco, prima della copertura.  Ospitava il regno delle lavandaie, che vi giungevano attraversando le passerelle affacciate sulla roggia: quella a fianco della chiesa di San Rocco è utilizzata ancor oggi (Raccolta D. Lucchetti)

Vi sorgeva la “trattoria La Morala”, la cui insegna campeggia nella foto e cui si accedeva dal ponticello da via San Rocco o da via Broseta, da cui proveniva la maggior parte delle massaie. Poco distante c’era  la trattoria dei Tre Gobbi, preferita da Gaetano Donizetti.

In via Manzù nei pressi dell’attuale Triangolo rimane un tratto che scorre in superficie, testimonianza dell’antico rapporto del centro urbano con il millenario fossato. Era attraversato da un ponte con alzata che portava alla chiesa di San Rocco. Lo stesso ponte con portichetto è ricordato in un’immagine ottocentesca ed esiste tuttora anche se dalla parte di vicolo San Rocco non ha più le sembianze di un ponte poiché il canale è stato interrato. Uno stretto passaggio sotto il portichetto lo collega ancor oggi all’entrata della chiesa in via Broseta

La tettoia lungo il canale consentiva di lavare i panni stando al riparo dalla pioggia. Era l’unica comodità concessa alle massaie, che nella seriola trovavano acqua in abbondanza rispetto ai pochi secchi forniti dai pozzi nei cortili.

Il lavatoio di via S. Lazzaro (vecchie cartoline della Raccolta D. Lucchetti)

 

La signora Fiorella, in una foto-ricordo davanti al lavatoio di via San Lazzaro (per gentile concessione di un amico)

Di questo minuscolo regno delle lavandaie si avverte ancora l’eco: delle voci, dei canti e delle risate, del fragore dei panni strusciati e battuti sulla pietra, dove le donne davano libero sfogo alle gioie ed ai dolori, che non trattenuti scorrevano via, insieme alla corrente.

Via S. Lazzaro Ieri & Oggi

QUANDO SI PESCAVA NELLA MORLA

Come molti di noi hanno appreso dai racconti dei rispettivi padri e nonni, nelle rogge cittadine, ricche di pesci e gamberi, pescare era la norma.

Città Alta dal rio Morla dalla zona di via Suardi. E’ riconoscibile, a sinistra, il campanile della chiesa di S. Alessandro della Croce, in via Pignolo alta (Raccolta D. Lucchetti)

Tutti sanno che quand’essi erano ragazzi la Morla era assai pescosa; un abitante di Valtesse ricorda la pesca col martello: si tramortiva il pesce sferrando un colpo secco su di una pietra che affiorava dall’acqua affinché questi venisse a galla per poi  essere agevolmente catturato.

Giuseppe Rudelli – Veduta di Città Alta dal torrente Morla presso il Galgario (Bergamo – proprietà ing. L. Angelini)

Un altro metodo consisteva nel pescare con un tubo in vimini a forma d’imbuto, rivolto controcorrente per far sì che il pesce vi restasse intrappolato.

Ma una scoperta fantastica è la seguente: il nome di via Pescaria deriva dal fatto che questa era una zona di acquitrini dove ancora ai primi del Novecento si veniva a pescare pesciolini e gamberetti.

I BAGNI E I TUFFI NELLA MORLA

E ovviamente, nelle limpide acque della Morla – “il Tevere bergamasco” secondo la definizione di Carlo Traini – si facevano anche i bagni.

Nella zona di Valtesse il torrente offriva ai nostri nonni diversi punti favorevoli a belle nuotate, bagni ed anche tuffi: si andava al gor di Tajocchi, in fondo alla strada della Morla, al gor di Vanai, poco dopo i Mortini e a quello di Cornago, un po’ più a valle.

E poi, al gor del cimitero o del piantù, ritenuto il più grande e il più interessante anche per la presenza di un grosso gelso che fungeva da piattaforma di lancio per i tanti ragazzi che, tuffandosi, battevano talvolta la zucca sul fondo poiché… l’acqua non era poi così profonda.

1925: due bimbi della famiglia Corti, della parte alta di via Valverde fanno il bagno nella Morla all’altezza dell’attuale via Serena

Si andava anche al gor di Capù, nella zona di via Baioni sotto le mura di S. Agostino, frequentato anche dai ragazzi di Città Alta e nelle belle estati degli anni Cinquanta si amava nuotare alla Mezza della Morla, dove poco prima dello Stadio una piega del torrente formava una graziosa insenatura con tanto di spiaggetta.

Ieri & Oggi: Palazzina Scanzi in piazzale Oberdan

QUESTIONI DI DECENZA

Luigi Deleidi detto Il Nebbia – Il Ponte di Borgo Palazzo. Penna e acquarello su carta (dall’album Vimercati Sozzi, Bergamo – Biblioteca Civica)

Come in tutti gli specchi d’acqua della città, anche sulle rive della Morla vigeva per questioni di decenza una tacita regola che richiedeva di adottare costumi da bagno non troppo ridotti; regola che peraltro sovente non veniva rispettata, come del resto evidenziato in una lettera recapitata all’Eco di Bergamo:

“Richiamo ancora una volta l’attenzione delle Autorità di pubblica sicurezza su alcuni bagnanti che, senza alcun riguardo, senza alcuna decenza, si tuffano in acqua nella Morla, in Borgo Palazzo, proprio nel momento in cui dallo stabilimento Oeticker escono le operaie. Si tratta di cosa indecentissima e non si capisce perché l’Autorità, più volte sollecitata, continui a fare orecchie da mercante”.

Una irriconoscibile via Borgo Palazzo. Piazza S. Anna ancora non esiste e la via A. Maj non è stata tracciata

LA TRAGEDIA ALLA CHIUSA DI VIA COGHETTI 

Va annotato purtroppo anche un tragico fatto accaduto nel 1946 alla chiusa di via Coghetti, quando la roggia fu fatale per un povero ragazzino che, per non essere da meno con gli amici, si cimentò – solo e al riparo dagli sguardi beffardi dei coetanei – in una pericolosissima prova di coraggio che in quel periodo  veniva messa quotidianamente in atto dai monelli del posto.

Via Coghetti con il campo di grano, prima della costruzione del quartiere San Paolo

Una prova che gli costò la vita perché rimase intrappolato nel meccanismo della chiusa e venne semi-tranciato dalle lamiere.

All’angolo tra via Palma il Vecchio e via Coghetti

INSEGUENDO LA TREMANA

Come la Morla, anche le acque della Tremana erano linde e trasparenti e prima della sua copertura i bambini si divertivano a percorrerla a piedi scalzi sino alle pendici della Maresana, laddove il torrentello veniva inghiottito dalla roccia.

La Tremana nasce sotto la chiesetta della Maresana e scende formando una valletta incantevole fino a Monterosso, dove – ahinoi – viene ingoiata in una galleria di cemento.

Il colle della Maresana dalla Montagnetta, sopra Valverde. Il torrente Morla nasce alle pendici del Canto Alto e all’altezza di viale Giulio Cesare riceve il contributo del torrente Tremana, il cui bacino interessa proprio il versante della Maresana (Racc. Gaffuri)

Il corso d’acqua costeggiava tutta la via, che negli anni ’40/’50 era solo un sentiero in terra battuta. Si gonfiava solo in certi periodi dell’anno e l’acqua era così limpida da consentire il bagno e la pesca.

Via Tremana negli anni ’40, ancora percorsa dal torrente, con il Lazzaretto, lo Stadio comunale e le piscine annesse; a metà via è visibile il “Ponte di pietra” che  attraversava il torrente Tremana

Il suo alveo fu coperto con la costruzione dei condomini del quartiere di Monterosso e il ponte venne demolito

LA ROGGIA SERIO: “IL MARE DI BERGAMO” AL GALGARIO

Ci fu poi un tempo in cui presso la torre del Galgario sorgeva una sorta di piscina, costituita dal corso del Serio Grande: l’antesignana della pubblica piscina cittadina realizzata dapprima presso lo Stadio comunale e molto più tardi presso l’attuale “Italcementi” nella Conca d’Oro.

Nell’Aerofotografia del 1924,  si individuano i primi bagni pubblici di Bergamo, nel groviglio di strade ed edifici (scala 1:2000 – Società Anonima Airone)

La piscina – un vero e proprio stabilimento balneare – si trovava all’altezza dell’ex monastero del Galgario, dove più tardi sorse il comando ormai in disuso di Polizia Stradale, ed è proprio qui che faceva bella mostra l’insegna “Bagni pubblici”.

L’attuale via Frizzoni ai primi del Novecento, con la roggia ancora scoperta e, sullo sfondo l’edificio dei “Bagni pubblici”

Erano stati aperti il 2 giugno del 1886 in seguito a un’ordinanza del sindaco per consentire alla cittadinanza, al costo di qualche centesimo, il bagno e il nuoto pubblico. Lo stabilimento balneare era aperto ogni giorno, da giugno a settembre, dalle ore 5 alle 14 e dalle 16 alle 21.

Quando i nostri avi scavarono il canale Serio, mai e poi mai avrebbero potuto immaginare che i loro lontani successori vi avrebbero realizzato una piscina colmata dalle acque correnti della roggia!..

L’alveo della roggia Serio presso la torre del Galgario (Racc. Gaffuri) E’ sicuramente antecedente al 1910 in quanto venne pubblicata in quella data sul libro“Bergamo” di Pietro Pesenti, per la collana Italia Artistica. Dietro la torre, l’ingresso ai “Bagni pubblici”

 

La Caserma Colleoni presso il Galgario con relativa torre e la roggia Serio ancora scoperta, che correva parallela alle demolite Muraine

Luigi Pelandi assicura che ancora negli anni Sessanta era visibile il portone che dava accesso al “misero stabilimento dei bagni pubblici popolari”.

L’attuale via Frizzoni da Borgo Palazzo verso la torre del Galgario: è visibile in fondo a destra l’edificio che fu sede dei “Bagni pubblici”

Nella piscina dello stabilimento – che tutti chiamavano “I bói” ad indicare i bollini che certificavano il pagamento dell’ingresso -, la metà più a monte era riservata ai nuotatori più esperti e la parte a sud ai principianti.  C’erano anche dei camerini – alcuni dei quali in uso dei facoltosi – che con l’annesso servizio di biancheria costavano solo due soldi.

Il medesimo tratto negli anni successivi, con la roggia ormai interrata

La sorveglianza naturalmente assicurava che venissero osservate le predette  regole di decenza affinché i costumi non fossero troppo ridotti.

IL BAGNO DI CAPODANNO NELLA ROGGIA SERIO 

Ne “Il Novecento a Bergamo”, Emilio Zenoni assicura che nello “stabilimento balneare” per un periodo vi era stato una specie di fuori programma, il bagno – o per meglio dire la Gara – di Capodanno. Nell’occasione, “I bòi” venivano riaperti in via del tutto eccezionale e i nuotatori esentati dal prezzo del bollino.

La prima competizione si era tenuta il 14 gennaio del 1906; la gloriosa stagione “Cimento invernale” si chiuse con la gara del 14 gennaio 1920.

La temeraria impresa – un centinaio di metri in totale – partiva dalla torre del Galgario per raggiungere la Porta di Sant’Antonio, all’imbocco di via Pignolo  bassa.

Porta S. Antonio con a lato la roggia Serio Grande

 

1916: la roggia Serio Grande all’altezza della torre del Galgario nell’allora via  Pitentino (oggi Frizzoni), da cui partivano le dispute del “Cimento invernale”

Memorabile la gara del primo gennaio del 1915 quando alle 14.30 quattro nuotatori della Società Bergamasca di Ginnastica e Scherma fecero una bella  nuotata nelle acque della roggia Serio, lungo l’ormai consueto percorso. L’acqua era gelida e la temperatura dell’aria misurava meno quattro gradi!

Il “teatro” del “Cimento invernale”: il tratto di via Frizzoni da Borgo Palazzo alla torre del Galgario

L’Eco di Bergamo annotava: “Ieri largo concorso pubblico assiepato lungo gli argini del canale. Malvezzi, ha coperto l’andata ed il ritorno risalendo la corrente, raccoglie insistiti applausi. Gli organizzatori offrono una medaglietta ricordo e un provvidenziale vin brulé. I Rarinantes benestanti, a loro spese, bevono un grappino al bar della piazzetta di Santo Spirito”.

LE DRAMMATICHE PIENE DELLA MORLA

Il ponte di Borgo S. Caterina nel 1910. Luogo di rogge e fiumane che si incontrano ed accelerano, precipitando dagli scivoli dell’alveo sotto il manto stradale

Nonostante la sua modesta portata, nel corso del tempo la Morla ha causato non pochi guai, ricordati persino da Mosè del Brolo: paurosi straripamenti, inondazioni e vittime, ricordate in una una lapide apposta sulla facciata di un’ex chiesetta costruita sul suo argine in località “Scuress”, a Ponteranica.

Presso il Ponte di Santa Caterina, un muro massiccio serviva per proteggere le abitazioni dalle piene del torrente, causa frequente di notevoli danni.

Il Ponte di Borgo S. Caterina tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, quando il cancello daziario e gli edifici annessi sono già scomparsi insieme al ponte di vecchie pietre sulla Morla, ora scavalcata da un ponte un cemento sul quale sta transitando il tram (sotto il ponte, sono tuttavia ancora ben visibili gli archi del ponte originario)

La Morla infatti è un torrente dal corso tortuoso con il fondo lastricato di rocce cenericce e sfaldabili chiamate Sass de la Luna: quando è in secca non ci si accorge della sua esistenza ma in occasione di piogge abbondanti si sveglia e può diventare pericolosa, gonfiandosi anche grazie all’apporto della Tremana, che intercetta in viale Giulio Cesare, e del Gardellone, di cui dal 1950 riceve soltanto le acque di sfioro.

Tra le non poche calamità naturali causate in passato dal torrente in particolare nei borghi di Santa Caterina e Palazzo, memorabile è quella del 3 maggio 1936 quando, in una bella giornata di sole seguita a molti giorni di maltempo, senza alcun preavviso un vero e proprio diluvio si abbatté sulla città: i torrenti Tremana e Gardellone furono presto in piena e riversarono tonnellate d’acqua nella Morla, il cui straripamento era già stato causa di danni nel 1932.

Il ponte sulla Morla in Borgo Palazzo (Racc. Gaffuri)

La parte bassa a oriente della città era in stato d’allarme. Nonostante verso le 20 si cominciassero ad udire le sirene dei pompieri (che ricevettero la bellezza di 106 chiamate in meno di un’ora!), non v’era l’impressione che in diversi punti della città stesse avvenendo qualcosa di grave. Invece in Borgo Santa Caterina e in Borgo Palazzo le acque erano ormai straripate e scorrevano nelle strade come nel letto di un fiume.

Si videro delle ossa galleggiare, dovevano essere quelle dell’antico cimitero di Valtesse. La violenza dell’acqua fu tale da sfondare numerose saracinesche di negozi ed anche quelle della Banca Mutua Popolare, che venne piantonata dai carabinieri. I pompieri compirono diversi atti “eroici” di salvataggio, mettendo in salvo soprattutto donne anziane che stavano per essere travolte dalla corrente.

La piena della Morla a Valverde. Fotografia di Carlo Scarpanti

Lungo l’elenco dei danni: particolarmente ingenti quelli arrecati alla ditta Seguini, la cui vasta e fornitissima cantina era stata devastata, data la rottura di numerose botti, di ben dodicimila fiaschi di vino e di bottiglie di liquori, che si mischiarono all’acqua che scorreva per strada.

A Valverde e a Valtesse la furia delle acque abbatté diversi muri e sradicò non pochi alberi, mentre sue violentissime scariche elettriche causarono la rottura dei vetri di numerose abitazioni. Annegarono molti animali da cortile.
Il rumore della corrente era pauroso e impressionante.

La piena della Morla a Valverde. Fotografia di Carlo Scarpanti

All’ospizio della Bonomelli, dove l’acqua aveva superato i due metri, fra i ricoverati si contarono 11 feriti e due vittime per annegamento.
In tutta la città fu interrotta l’energia elettrica ma fortunatamente il telefono continuava a funzionare. Intervennero anche i soldati e il podestà, anch’egli gettandosi in acqua per salvare qualcuno.

Anche alla Malpensata la furia della corrente abbattè dei muri, bloccando la gente al cavalcavia, mentre in Borgo Palazzo il tram per Seriate era semi-sommerso e a Torre Boldone  le acque divelsero i binari del tram di Albino.

Anche la furia del Gardellone fece una vittima, il ventenne Giuseppina Bonomi.
L’allarme cessò soltanto alle 2 di notte e quando le acque si ritirarono, lasciarono al suolo una coltre di fango spessa 20 centimetri.

La piena aveva lasciato i suoi segni funesti su tantissime case (3).

E POI TUTTO (O QUASI) VENNE COPERTO

Accanto a quella tragica del 1936, la storia della Morla registrò altre drammatiche piene (di cui memorabili furono quelle del 1896, 1932, ’37, ’40, ’46, ’49 e ’76), che accesero discussioni e rafforzarono il convincimento di coprire le rogge cittadine.

La piena della Morla presso il piazzale della stazione, 1937

Al carattere insidioso del regime torrentizio della Morla, che alternava lunghe secche a potenti e rovinose piene, si era aggiunto il progressivo degrado del torrente causato dall’aumento delle acque di scarico civili: con l’incremento edilizio gli antichi pozzi neri erano stati abbandonati e gli scarichi delle fognature finivano nel torrente, dove peraltro la popolazione trovava più comodo e sbrigativo gettare rifiuti.

Nella foto sopra, la Morla nel 1960 tra via Cesare Battisti e via Pitentino, ripresa dal Palazzetto dello Sport; si intravede l’edificio detto “Nave”, in primo piano nella seconda fotografia: Il torrente venne coperto nel 1962 e la via venne dedicata all’Ingegnere Idraulico Alberto Pitentino, gran maestro di chiuse e canali, vissuto nell’ultimo scorcio del XII secolo

 

Ieri & Oggi: il ponte di Borgo Santa Caterina, dove un tempo la Morla scorreva a cielo aperto (piazzale Oberdan)

 

L’arcata del vecchio Ponte di Borgo S. Caterina ripresa nel gennaio del 2013 in occasione del rifacimento della copertura stradale

Tutto ciò contribuì in breve tempo a fare della Morla una discarica a cielo aperto: era spaventosa a vedersi e fu per molto il regno dei topi, delle zanzare, di insetti di ogni sorta, che trovavano nel “pittoresco” un ambiente quantomai favorevole, portando alla decisione di coprire il torrente nel 1962.

Giustamente o ingiustamente, la stessa sorte toccò gran parte delle rogge cittadine, che vennero in gran parte obliterate dal cemento per ragioni igieniche, di vivibilità  e per allargare strade o realizzare parcheggi.

La zona di Borgo Santa Caterina vide scomparire totalmente il corso d’acqua che ne aveva caratterizzato la storia, posto sotto il manto di nuove strade e piazzali, su cui venne costruito anche il nuovo palazzetto dello sport della città

Le poche sopravvissute in città sono oggi ridotte a rivi maleodoranti. La pittoresca Bergamo dei canali e delle rogge è quasi del tutto scomparsa.

 

Note

(1) Gino Cortesi, “L’Eco di bergamo del 14/07/’97.

(2) Tosca Rossi, “A volo d’uccello – Bergamo nelle vedute di Alvise Cima – Analisi della rappresentazione della città trà XVI e XVIII secolo”, Litostampa, Bergamo, 2012.

(3) “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.

Riferimenti essenziali
– “Valverde e dintorni” – Centro ricreativo Valtesse per la Terza Età – A cura di Gino Pecchi.
– “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”, Pilade Frattini e Renato Ravanelli – UTET.
– Per il “Cimento invernale: L’Eco di Bergamo – 28 dicembre 2013.

La vita e il lavoro nella Valverde e nella Valtesse di ieri

E’ impossibile non innamorarsi della conca di Valverde, quell’anfiteatro verdeggiante esposto nel versante più fresco dei Colli, che s’inerpica su, fino alla porta di San Lorenzo, ai piedi della quale si adagia nella sua splendida semplicità, volgendosi al meraviglioso profilo del borgo San Lorenzo.
Ma quanto conosciamo davvero questa piccola località incastonata tra l’alta città e le propaggini montane?  
Cosa sappiamo del suo passato e della sua gente, del  lavoro che per secoli si svolse in questa umile eppur bellissima porzione collinare, consorella di Valtesse?
Per questo motivo ho voluto dedicare alle due località un intimo affresco, che ritrae i momenti più significativi della vita e del lavoro che  si svolgeva nei campi e nelle cascine: dalle attività più tradizionali legate all’agricoltura  con la produzione della vite, a quella tipica del luogo, a molti sconosciuta: quella dei lavandai, un’attività resa possibile dalla presenza della Morla e dai tanti ruscelli e ruscelletti che solcavano copiosi tutta l’area

Le cronache di fine Ottocento raccontano che fino agli anni ’50 del secolo scorso Valverde era tutta composta da lavandai e giornalieri.

Tra le tante famiglie che traevano sostentamento da questa attività, spiccavano i nomi dei Sarzetti e dei Luzzana.

Sarzetti Lucia Rigamonti in una foto giovanile, davanti al cavallo e Sarzetti Pietro nel carro, con il cappello da alpino, assieme ad un amico, con il carico di biancheria da lavare ritirata in città. Foto del 1946, ripresa nella stradella che da via Maironi porta alla cascina di Valverde, sotto la porta Garibaldi

La famiglia Sarzetti svolgeva tale mansione presso la cascina “Cerea”, nel cuore della Val Verde, utilizzando l’acqua del “rio Valverde”, alimentato da sorgenti permanenti disseminate in tutta la valletta che scende da Colle Aperto e da Porta S. Lorenzo, come abbiamo avuto modo di osservare qui.

Porta S. Lorenzo segna la linea di demarcazione fra Valverde e Città Alta (Raccolta D. Lucchetti)

La cascina “Cerea” era anche denominata la “Cà dei sòi”, tradotto letteralmente in “casa dei mastelli”, qui ritratta in una cartolina dell’epoca insieme ad una quantità incredibile di lenzuola stese ad asciugare: l’attività dei Sarzetti reggeva la concorrenza dei lavandai di Paladina, dove quasi tutti gli abitanti erano occupati in tale attività.

La “ca dei sòi”, nella valletta di Valverde, attorniata da lunghe fila di LENZUOLA stese ad asciagare, segno evidente della presenza nella cascina dell’attività di lavandai. La biancheria veniva ritirata al lunedì e riconsegnata al sabato. Agli alberghi si faceva il possibile per riconsegnarla già al mercoledì (Raccolta D. Lucchetti)

Nel vocabolario dei dialetti bergamaschi del Tiraboschi,“Sòi”  sta per “Mastello, Tinello. Gran vaso di legno, a doghe, cerchiato di ferro, consimile a un tino, ed adoperato pel bucato”.

La “Ca dei sòi” e il profilo di borgo S. Lorenzo

I mastelli, collocati sopra un treppiede di legno – “cavra dei sòi” -, contenevano fino all’orlo i panni da lavare, che venivano ricoperti con un tessuto a trama fitta sopra il quale i lavandai versavano la cenere di legno e poi l’acqua bollente. Da questa miscela si otteneva la liscivia, il rudimentale detersivo di una volta.

Il lavoro comportava una gran fatica sia per i lavandai e sia per donne di casa, che adottando tale sistema garantivano una perfetta pulizia del bucato, profumato in modo del tutto particolare.

La “ca dei sòi” e Valverde nella penombra. In lontananza la Maresana e il Canto Alto

Tra gli altri, facevano parte della clientela dei Sarzetti il Comando della Guardia di Finanza con sede in Rocca, il Comando dell’aviazione tedesca, sistemato nell’attuale scuola di ragioneria nei pressi della stazione ferroviaria, l’Albergo “Agnello d’Oro” di Borgo S.Caterina, l’Albergo del Sole di Piazza Vecchia.

Albergo del Sole in Piazza Vecchia

La biancheria veniva ritirata il lunedì e riconsegnata, al massimo, a fine settimana; ma per quanto riguardava, in particolare, le tovaglie dei ristoranti e le lenzuola degli alberghi, si faceva il possibile per portare a termine il lavoro con maggior celerità.
Il trasporto della biancheria avveniva con il carro tirato dal cavallo.

Il carretto dei lavandai in via Arena

 

Il servizio di lavanderia a domicilio svolto dai lavandai di Valverde (Ph Alfonso Modonesi)

C’erano poi i Luzzana, che svolgevano l’attività di lavandai vicino aI ponte della Morla. Il capo famiglia, Luzzana Pietro, era conosciuto come Piero del pùt.
L’abitazione era accanto al ponte dal lato della chiesa.

La barriera daziaria di Porta Santa Caterina (già borgo di Plorzano) in una splendida fotografia di Rodolfo Masperi (Raccolta Lucchetti)

 

Luzzana Pietro e Esposito Giacoma via Maironi da Ponte, 1919 (Lazzana, lavandaio al Ponte della Morla)

Per lavare veniva utilizzata l’acqua stessa della Morla, che all’epoca, alla fine anni ‘3O, era ritenuta pulitissima.

I sòi erano collocati in uno stanzone al piano terra dell’abitazione, mentre i panni lavati, per lo più lenzuoli, tovaglie, asciugamani, venivano stesi ad asciugare in un campo che la famiglia aveva in affitto al di là della Morla, prima del ponte.
In una fase successiva, nel campo era stato costruito anche un capannone dove erano stati sistemati i mastelli e in tal modo tutta l’attività si svolgeva oltre la Morla.

Tra la clientela gli abitanti ricordano le suore Canossiane di via della Milizia (oggi via S. Tomaso), il conte Marenzi di Pignolo, alberghi e ristoranti.

Via S. Tomaso, un tempo chiamata via della Milizia

Per ritirare e riconsegnare la biancheria (ritirata al lunedì e riconsegnata il lunedì successivo) i Luzzana usavano un carretto trainato da un asino di loro proprietà, che tenevano presso il vicino contadino.

La famiglia di Pietro Lussana, di via Maironi, 1948. “Piero del put” è noto per essere stato uno degli ultimi lavandai di Valverde

Piero del pùt cessò l’attività di lavandaio verso l’inizio degli anni 40 per una sfortunata serie di motivi: la morte dell’asino, che gli serviva per ritirare e riconsegnare la biancheria (e che non poteva rimpiazzare), una forte inondazione della Morla, che aveva divelto quasi tutte le pietre sistemate per lavare (l’acqua  aveva ricoperto anche il ponte) e la partenza per la guerra del fratello, che gli dava una mano nell’attività.

La piena della Morla del Luglio 1992 (Foto di Carlo Scarpanti)

 

La piena della Morla del Luglio 1992 (Foto di Carlo Scarpanti)

In Valverde v’erano altre famiglie di lavandai, seppur con attività più limitata rispetto a quelle citate.
I Cerutti (Ol Filottì) svolgevano l’attività in via Filotti, nella casa abitata dalla famiglia e adoperavano l’acqua della Morla.

Anche la casa di Andreini Piero detto, “il Baracchì”, di via Filotti era denominata “la cà dei sòi”.

L’ingresso dell’osteria “Gnuc”

I Noris abitavano in una casetta in via Maironi, dal lato apposto alla chiesa, sotto il castello di Valverde. Usavano l’acqua di una seriolina che passava lungo la strada.
I Noris avevano costruito anche un’ampia tettoia sotto cui stendere i panni ad asciugare.

Nella panoramica, il castello di Valverde sulla destra

I Foresti abitavano all’angolo tra via Valverde e via Maironi; anch’essi usavano l’acqua di una seriolina che passava nelle vicinanze; probabilmente, come per i Noris, doveva trattarsi di diramazioni del “Rio Valverde”.

Un componente di quest’ultima famiglia, di professione tipografo, si faceva notare per essere proprietario di un velocipide (una bicicletta con la ruota davanti grandissima e quella posteriore invece molto piccola) con il quale ogni anno partecipava alla biciclettata organizzata da un gruppo di Valverde.

C’erano poi i Borsatti,  lavandai in via Valverde nella zona delle case Rossi, che utilizzavano l’acqua del ruscello della valle delle Cave. Nella stessa zona  anche i Minoia dovevano forse svolgere la medesima attività.

Nel tratto finale del ruscello, poco prima della confluenza nella Morla, erano sistemate delle grandi pietre lisce utilizzate per lavare i panni.

La via Maggiore, in uscita da Valverde

Con gli anni ’50 cessava l’attività dei lavandai di Valverde.
Diversamente da quanto in quegli anni fu fatto a Paladina – località in cui quasi tutti gli abitanti svolgevano l’attività di lavandai -, a Valverde non furono introdotte innovazioni e quando giunse a termine la stagione del solo lavoro manuale, cessò anche l’attività dei lavandai.

 

Momenti di vita e di lavoro: le immagini

Franco Rigamonti al mercato nel 1954

 

Brembati Evaristo, nonno di Burini Anna Rigamonti

 

Farina Carolina, nonna di Burini Anna Rigamonti

 

I fratelli Rigamonti nella stagione della divisa, 1936. Le quattro divise rappresentano rispettivamente: figlio della lupa, balilla, avanguardista, giovane fascista

 

Cattaneo Giacomo della Tegazza, con i compagni di lavoro, al termine della costruzione della cappelletta votiva lungo la strada che conduce a S. Vigilio (fine anni ’20)

 

Cattaneo Giacomo della Tegazza, muratore, al lavoro per costruire la cappelletta votiva lungo la strada che conduce a S. Vigilio (fine anni ’20)

 

Gritti di Valverde (1° a sinistra), classe 1895

 

Ingresso stabilimento Fratelli Mazzoleni

 

La Sace ritratta nel 1946 in occasione dell’inaugurazione dell’ stabilimento. Il territorio di Valtesse è ancora quasi del tutto agricolo

 

Veduta su Valverde, la piana di Valtesse e la Maresana. In lontananza a destra spicca la chiesa di San Colombano

 

La casa contadina dei Taiocchi trasformata in officina, prima che venisse abbattuta per la costruzione di un nuovo edificio da adibire alla produzione (1960 circa)

 

Via Pietro Ruggeri: Boffelli Gianni nella salumeria ereditata da suo padre Antonio (nativo di Camerata Cornello), che aveva aperto il negozio negli anni ’20

 

“Piciorla e pom”

Panorama su Valverde da Colle Aperto (Raccolta D. Lucchetti)

La piana di Valtesse è molto cambiata, dove c’erano cascine e molti poderi, oggi ci sono tante abitazioni e l’attività agrícola è del tutto scomparsa.

Anni ’30: massaie rurali di Valtesse e Valverde alla “Ca Binca” di via Castagneta

Anche sui Colli, si sa, vi sono stati moltissimi cambiamenti; il numero delle case è rimasto pressappoco lo stesso ma da cascine per contadini si sono trasformate in abitazioni per il ceto medio.

Anni ’30: massaie rurali di Valtesse e Valverde alla “Ca Binca” di via Castagneta

Dei vigneti di allora, testimoniati dalle immagini dell’epca, non restano che pochi lembi.

Veduta sulle propaggini di Valverde e sulla piana di Valtesse

 

Veduta sulle propaggini di Valverde e sulla piana di Valtesse

Quegli stessi vigneti che non consentivano la produzione di vino di buona qualità ma piuttosto di un vino chiamato “piciorla”.

Anni ’30 – “Ca Bianca”: le viti del “piciorla” e la mietitura svolta ad opera delle massaie rurali

 

Anni ’30 – “Ca Bianca”:  Le viti del “piciorla” e il “melgòt”, con le massaie rurali

Si parla del ”piciorla” in un curioso articolo pubblicato dall’“Eco” il 24 apríle del ’93, che rievoca episodi riportati dal giornale un secolo prima:

”Ieri sera (cíoè Domeníca 16 aprile 1893, visto che il reporter scriveva il lunedì 17), verso le 7 e mezza, nell’osteria detta il Trentino fuori Porta S. Caterina, vennero a rissa parecchi contadini di Valtesse. Riscaldatisi presto gli animi, volarono per aria tazze e bicchieri e quant’altro capitava alle mani dei rissanti.
Un certo Properzi Antonio, d’anni 42, mediatore, s’ebbe nella testa la misura di un mezzo litro di vino, che gli produsse una ferita giudicata guaribile in una trentina di giorni. Venne ricoverato all’Ospedale.

Come ricorcla Luigi Pelandi, la bettola in questione era posta in via Baioni. Gestita da pugliesi, prendeva il nome dal prezzo del suo vino: “squinzano” e “manduria” a centesimi trenta (trenta ghèi) al boccale d’un litro. Una vera bazzecola per quegli amici di Bacco, contradaioli e forestieri (così allora venivano considerati anche gli abitanti dell’hinterland), che non potevano o volevano permettersi l’aristocratico barolo o la barbera.

Presso il “trani”, racconta ancora il Pelandi, era stato istituito un servizio di carriole (come quelle in uso dai maratori…) per riportare a domicilio gli incauti bevitori messi K.O. dalla gradazione alcoolica di quel generoso liquore, fatale a compare Turiddu e bevuto disinvoltamente come se si trattasse delle anemiche “piciorle” della Maresana e dei colli limitrofi. Nel caso rievocato la carriola aveva funzionato da…ambulanza”.

La vendemmia, 1982

Fortunatamente si è registrato qualche singolare ritorno al passato nel terreno intorno alla cascina di via Valverde (ex proprietà Garofano), con la nuova piantagione di vitigni adatti all’ambiente, che forniscono uva di buona qualità e dunque un buon vino da tavola.

La vendemmia a Valverde, 1990

 

Il raccolto dell’uva a Valverde

Mosè del Brolo, nel XII secolo, scriveva che sui colli di Bergamo si avevano
“Boschetti ove fiorisce il castagno qui verdi e sempre verdi prati e pampinee viti, e meli e noci e olivi e tenue zampillar di fonti…”.

Scriveva poi il poeta vernacolo Bressani che nel 1490, a Ponteranica e a Sorisole, nella valle del Morla, si producevano e si vendevano mele.

“Gne con tal desideri Sant’Antoní
Per vèend beligòcc, pom e castegni pesti,
Da Poltranga a Surisel specià i doni
Gne ai desidera ch’as faghi di festi”.
(Volpi, “Usi Costumi e Tradizioni Bergamasche”, pag. 183).

 

Il lavoro nei campi e nelle cascine

La cascina sotto le mura di S. Agostino (1978)

 

Andreini Angelo e Tajocchi Franco “massadur de sunì”

 

Arnie in Valverde

 

Prometti Tullio, Rocco, Tomaso e Rosario (primi anni ’50)

 

La fienagione

 

Caprette al pascolo

 

Vaglieri Ernesto con il figlio Gino, 1950

 

La raccolta delle ciliege, 1955

 

Il “ravizzone”, pianta da cui si può cavare l’olio e che può essere usata anche come foraggio, 1996

 

La raccolta delle patate, 1990

 

La mietitrebbia, 1986

 

Le cave

Particolare della Carta Industriale della provincia di Bergamo, fine ‘800. Valtesse porta il segno della presenza di un polverificio

In passato nella località di Castagneta erano attive Cave di pietra mentre in Valverde si estraeva argilla per la produzione della ghisa negli altiforni. L’ultima cava di terra in Valverde, gestita dalla famiglia Rossi, ha cessato la propria attività pochi anni orsono.

Nella zona è stata soprattutto estratta la pietra di Castagneta (molto simile all’arenaria di Sarnico), impiegata abbondantemente in Città Alta sin dall’epoca romana: nei tratti di basolato  rinvenuto nelle vie Gombito e Colleoni e in alcune lapidi, così come in coperture tombali risalenti al medioevo e, in grande misura, nella fabbrica di S. Maria Maggiore, nella chiesa di S. Agostino e  nelle Mura veneziane, da S Agostino fino al Castello di S. Vigilio.

Chiesa di S. Agostino, adibita a caserma

Fra le moltitudini di tagliapietra impiegati nell’opera ciclopica delle Mura vi furono senz’altro i “picapreda” di Valtesse; un documento attesta che l’incarico di costruire la Porta di S. Agostino venne dato ai fratelli Pietro e Cristoforo dei Marchesi, che per quest’opera ricevattero 352 ducati: quella stessa porta che insieme a quella di S. Giacomo il generale conte Francesco Martinengo considerava le “due più belle e più sicure del Veneto”.

Nota
Le notizie relative al capitolo “Gli ultimi lavandai di Valverde”, sono state redatte sulla scorta di informazioni fornite da Lucia Sarzetti Rigamonti e da Giuditta Luzzana Frigeni, che hanno aiutato i genitori e i fratelli piu anziani a svolgere questa attività.

Riferimento essenziale
“Valverde e dintorni” – Centro ricreativo Valtesse per la Terza Età – A cura di Gino Pecchi.

Nel magico mondo dei burattinai bergamaschi, fra Otto e Novecento

Presso la bottega del fabbro Scuri, alla base della più bella torre medioevale del Mercato del Fieno…

..la vecchia baracca del Sarzetti sembra rianimarsi, e sulla scena silenziosa i burattini tornano a ballare.

“E si rinnova un rituale magico dal sapore antico in cui un oggetto inerme improvvisamente prende movimento, voce, si anima di vita e diventa spettacolo, arte e sogno. Allora quell’angolo di strada, all’apparenza così comune, diventa un luogo di straordinaria poesia. La magia dura poco, il tempo della rappresentazione; poi tutto svanisce tranne l’emozione  e il sogno” 

A Stefano, mio figlio, oggi un “ragazzo grande”

La tradizione bergamasca della baracca vanta una tradizione antica, che affonda le radici nella Commedia dell’Arte, il teatro d’improvvisazione portato in giro per l’Europa dagli Zanni bergamaschi, da cui scaturirono maschere come Arlecchino, Brighella, Pulcinella.

Anni Settanta: una recita del burattinaio Benedetto Ravasio nel cortile di una cascina a Bonate. I burattinai, girovaghi per natura, ben conoscevano l’arte dell’adattamento e recitavano ovunque: sulle aie delle cascine, negli oratori, nelle osterie e nelle piazze di città e paesi (foto Pepi Merisio)

Una tradizione che si è tramandata per generazioni di padre in figlio e da maestro ad allievo, giungendo a noi non senza fatica, sopravvivendo solo a Bergamo, Napoli e nel territorio compreso tra Parma e Bologna, capitali mondiali dei burattini.

Diretti discendenti – ed ultimi rappresentanti – della Commedia dell’Arte, sono i burattinai bergamaschi dell’Ottocento e del primo Novecento, con i loro magici personaggi e le storie appassionanti e divertenti.

La baracca dei burattini sotto il palazzo della Ragione, immortalata da Tito Terzi

Il loro mondo, sospeso tra arte, stenti, sogno, aspirazioni e fantasia, era semplice e schietto, e della gente interpretava i sentimenti ed i bisogni, le aspirazioni ed i valori, le delusioni, le istanze di giustizia e la voglia di riscatto.

La baracca gioppinoria di uno spettacolo viaggiante, intitolata “Il mago Robante”, una nota rappresentazione burattinesca (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Con l’arrivo del cinema e della televisione, i burattinai scomparvero a poco a poco insieme ai loro burattini, per poi rivivere grazie alla passione e all’estro creativo dei pochi superstiti che hanno saputo fare di quest’arte qualcosa di magico e irrinunciabile.

“La tradizione è tramandare il fuoco, non adorare le ceneri” (Gustav Mahler) è il motto di Daniele Cortesi, qui ritratto con il suo maestro, Benedetto Ravasio, dal quale ha ereditato il mestiere (e la bravura) di burattinaio (foto di Gabriella Ebano)

I PRECURSORI DEI BURATTINAI BERGAMASCHI: ANTICHE TRACCE DI ATTIVITA’ BURATTINESCA

Della vita e dell’attività dei burattinai bergamaschi sappiamo ben poco e di loro, talvolta, non conosciamo neppure le date di nascita e di morte.

La notizia più antica riguarda il burattinaio Angelo Vignola, che presente in città nel 1660 ‘con l’occasione della fiera’ ed esercitando la ‘professione di far ballare alcune piccole figurine dette bamboci’, chiedeva di poter usufruire di una ‘stanza di ragione di questo pubblico sotto il Palazzo Novo’ per i propri spettacoli: si tratta di Palazzo Nuovo, attuale sede della Civica Biblioteca Angelo Mai. La richiesta venne prontamente respinta.

Una splendida veduta su Palazzo Nuovo dal portico del Palazzo della Ragione (Raccolta Gaffuri)

Abbiamo poi notizia della burattinaia Camilla Bissoni detta la Franceschina, che il 22 dicembre 1700 chiedeva di ‘puoter chiudere parte della Loggia sotto il Palazzo Vecchio di Raggione’ allo scopo di ‘far ballare li buratini’ nel Carnevale imminente.

Un’animata Piazza Vecchia ossevata da Vicolo Aquila Nera (Raccolta Gaffuri)

La delibera chiedeva la stipulazione di un’assicurazione per gli eventuali danni arrecati, e la Bissoni prometteva di pagare ‘tutte le spese sì in formare la tramezza, come in distruggerla et ad ogni danno potesse a quello inferire’. Prevedeva inoltre l’obbligo a ‘sgomberare la loggia d’ogni impedimento’ entro i primi giorni di Quaresima, ma la domanda non raggiunse i due terzi dei voti e venne respinta (1).

(1) Francesca Frantappiè, Per teatri non è Bergamo sito.  La Società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ‘600 e ‘700. Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, 2010.

Nonostante parli ormai il dialetto veneziano, nel Settecento Arlecchino è sicuramente ancora il protagonista della scena burattinesca bergamasca

Ancora nel Settecento, negli spazi della Fiera, punto di confluenza della maggioranza dei “forestieri”, al teatro “regolare” (le stagioni operistiche estive e gli spettacoli delle compagnie di attori professionisti) si affianca quello “minore” composto dai teatri dei burattini, presenti insieme ad acrobati, ciarlatani, ammaestratori di animali ed ambulanti con i loro apparecchi proto-cinematografici.

La Fiera raffigurata un secolo dopo da Costantino Rosa

Ma è nell’Ottocento che la presenza di una baracca in Piazza Vecchia diverrà una consuetudine, e ancor’oggi, gli unici spettacoli burattineschi che si tengono in città sono rappresentati sotto le arcate del Palazzo della Ragione.

Nell’Ottocento la presenza di una baracca in Piazza Vecchia diviene una consuetudine e non è un caso se ancor oggi gli unici spettacoli burattineschi che si tengono in città siano rappresentati sotto le medesime arcate

I primi burattinai che danno vita al teatro di figura sono Battista Battaglia e il suo discepolo Pasquale Strambelli, attivi in Piazza Vecchia tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento, in piena dominazione austriaca. Con loro Gioppino è rappresentato per la prima volta proprio in Piazza Vecchia, ispirando i versi del poeta Pietro Ruggeri da Stabello (1797-1858),

Il poeta vernacolare Pietro Ruggeri da Stabello (1797-1858)

Questi, nel 1836 intitola La baraca del Battaja il più fortunato fascicolo delle sue Rime Bortolinine (2): un lungo poemetto che vede protagonisti i burattini, con Gioppino la fa da mattatore e la sua “ramorata” – la Margì (Marietta) -, a cui dedica dei versi d’amore, finiti in musica grazie al maestro Aldo Sala (1912-2002), sono reinterpretati da Luciano Ravasio

“Èco di büratì la gran filéna,
composta de Giopì e de Bortolì…”

(2) Bortolino è l’aggettivo con cui nel Settecento i milanesi qualificano i bergamaschi, “che consideravano fin da allora con una certa sufficienza”. Non a caso Manzoni ricorre al nome di Bortolo per designare il cugino bergamasco di Renzo. Il primo fascicolo delle Rime bortoliniane è pubblicato nel 1832 (L. Ravasio).

IL CAPOSTIPITE DEI BURATTINAI: BATTISTA BATTAGLIA, DETTO BATAJA (? – 1834)

Con Battista Battaglia, attivo a Bergamo per circa quindici anni (dal 1820 fino al 1834-35), il trigozzuto Gioppino fa la sua comparsa in Piazza Vecchia, crocevia degli avvenimenti cittadini. E’ lo stesso Ruggeri da Stabello a presentare Gioppino tra le teste di legno che il Battaglia fa muovere nella sua baracca.

Il burattino Gioppino regge tra le mani il proprio burattino. La tradizione legata a Gioppino appare radicata nell’Ottocento, con la tipica figura del “burattino gozzuto, tarchiato e rozzo, famelico e beone, fannullone e bastonatore”, come definito da Umberto Zanetti (disegno di Giovan Battista Galizzi – Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Del suo ricco repertorio è nota solo la commedia “Giopì ‘n seganda”, di cui Mazzoleni disse che commuoveva fino alle lacrime.

Battaglia aveva una tale cura e passione, che alcuni anziani riferirono che un tempo, dietro la sua abitazione di via Borgo Canale 21 fossero ben visibili le tracce di un affresco commissionato al pittore Bonomini raffigurante una piccola scena burattinesca.

PASQUALE STRAMBELLI DETTO PASQUALI’ (1804-1865)

Le notizie riguardanti Pasquale Strambelli detto Pasqualì sono state a lungo confuse dalla tradizione popolare con quelle del Battaglia, suo maestro.

Il ponte alla porta di Santa Caterina (foto Rodolfo Masperi – Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Strambelli teneva la sua baracca nell’allora popoloso borgo di S. Tomaso e all’entrata del ponte di borgo S. Caterina, ma era presente anche in Piazza Vecchia, dove teneva spettacoli sotto il Palazzo della Ragione da cui, come già aveva fatto il suo maestro, lanciava i suoi feroci strali alla volta degli austriaci,  definiti “pelatori di gelsi”.

Piazza Vecchia, ai tempi Piazza Garibaldi. Gioppino è in qualche modo partecipe dell’epopea risorgimentale, al punto che, secondo il Guerrazzi, ai tempi dell’assedio di Roma del 1849, Garibaldi prendeva “meraviglioso diletto” dalle rappresentazioni gioppinorie di un volontario bergamasco

Sono gli anni della tirannide austriaca e con Pasquale Strambelli la figura di Gioppino si nobilita e si riscatta ammantandosi d’italianità e di patriottismo.

Rappresentato in Piazza Vecchia fra l’esultanza del pubblico Gioppino prese a dileggiare (e a “bastonare di santa ragione”) i gendarmi austriaci, sgominati alla stregua di delinquenti e malfattori.

Due gendarmi nell’allora Piazza Garibaldi (Piazza Vecchia)

Provocazione per la quale Pasqualì venne più volte arrestato e maltrattato finché una sera, dopo l’ennesimo affronto lanciato nel corso di una rappresentazione, mentre gli sbirri erano in procinto di arrestarlo, il pubblico, disposto a muro intorno alla baracca,  riuscì a respingere i gendarmi.

Ufficiali e soldati scolpiti con grande maestria dal prolifico Enrico Manzoni, in una scena raffigurante un accampamento militare

L’eroico evento fu narrato in rima dal poeta Giacinto Gambirasio:

E chêla sira Bèrghem, Iìberada
prima del tép, per mèret del Giopì,
I’ê töta in Piassa Ègia, e I”à portàt,
come ün eròe, ‘n trionfo ‘I Pasqualì!

Per mantenere elevati i valori risorgimentali, senza però rischiare di apparire sfacciatamente contro agli austriaci che esercitavano un rigido controllo tramite la censura, il burattinaio bergamasco dell’epoca mette in risalto, nei propri spettacoli, la figura di un eroe vissuto in precedenza, ai tempi del dominio napoleonico: è Vincenzo Pacchiana detto “Pacì Paciana, ol padrù de la Val Brembana”, continuamente braccato dalle guardie napoleoniche

Strambelli ebbe persino l’ardire di sortire con Gioppino in quel di Zanica, dove la comparsa della maschera era considerata un atroce affronto. Per moltissimo tempo nessun’altro volle seguire il suo esempio: non tutti i burattinai erano disposti a farsi distruggere la baracca!

Ai burattinai Battaglia e Strambelli la tradizione lega le origini del teatro dei burattini bergamaschi, che a lungo si affermerà proprio per l’aver creato con Gioppino un personaggio ben definito e molto popolare.

ANGELO FATUTTI (FATÖT)

Claudio Facheris, Mascherata in Piazza Mercato del Fieno (collezione personale)

Dopo di loro si affermò Angelo Fatutti detto Fatöt (1812-1888), che dava le sue rappresentazioni sotto un andito in piazza Mercato del Fieno. E dal momento che egli, almeno per un certo periodo, diede spettacolo contemporaneamente allo Strambelli, si pensa che nella vicina Piazza Vecchia il posto fosse già occupato da quest’ultimo (o forse Piazza Vecchia gli era stata “interdetta” a causa dei fastidi dati alle autorità).

Un classico degli scenari dei burattinai bergamaschi: Piazza Vecchia (Burattinaio Marziali. Raccolta Scuri, Bergamo)

Il Fatutti inaugurò la stagione dei burattini che davano spettacolo anche in provincia, verso la pianura, non più al seguito di guitti e ciarlatani ma in proprio, come veri e propri artisti girovaghi che dopo aver trascorso l’inverno nelle osterie della città, nella bella stagione prendevano a viaggiare: fu così che Fatutti approdò nel Milanese.

Fatutti fu il primo a portare Gioppino nel capoluogo lombardo, dando origine a una serie di commedie e farse in cui Gioppino e Meneghino comparivano assieme. Persino un burattinaio milanese, Giuseppe Re (attivo dal 1890 al 1920), preferì Gioppino a Meneghino nelle sue rappresentazioni

Come già aveva fatto il Fatöt, anche Alfonso Strambelli (figlio del Pasqualì) e più tardi il Pèia e lo Steenì, vagarono per la Lombardia con baracca e burattini.
A questi grandi burattinai va aggiunto anche Luigi Nespoli che, come vedremo, ebbe un’avventura molto singolare.

BERNARDINO MORO (PEIA)

Anche Bernardo Moro (1838-1902) detto Pèia (continuatore della tradizione burattinesca del Battaglia, di Pasquale Strambelli e di Angelo Fatutti), sconfinò nel capoluogo lombardo recitando in luoghi dai quali i burattinai erano sempre stati esclusi. Con il Pèia, che si faceva chiamare Gioppino I°, s’inaugurò la stagione di quei burattinai bergamaschi che s’imposero nei locali milanesi stabilendovi una sorta di gerarchia facendosi chiamare Gioppino I°, Gioppino II°, ecc. (3).

Bernardo Moro fu molto popolare nel borgo di S. Leonardo, dove tenne rappresentazioni per un decennio, dal 1870 al 1880.

Scorcio di Borgo San Leonardo, con la celebre fontana “Fiascona

Diversamente dai burattinai che lo precedettero e da molti altri che seguirono, Bernardo Moro non era analfabeta o semianalfabeta e si ingegnò a dare un certo tono letterario alle recite, curandone intreccio e linguaggio.

(3) La tradizione venne continuata dal figlio dello Strambelli, Alfonso (che dal padre prese il nome di Pasqualì II°) il quale, nella serie dei bergamaschi che fanno divertire i milanesi con i burattini, assunse il titolo di Gioppino II°. A Milano Alfonso agisce dal 1876 in avanti.

Largo Cinque Vie in Borgo San Leonardo. Il Moro “Piaceva al colto pubblico e all’inclita guarnigione per la cura con la quale elaborava la trama ed infiorava i dialoghi delle sue rappresentazioni. Il suo Gioppino parlava un dialetto colorito, vivo, non improvvisato e strascicato ma denso di vocaboli tipici, di sapide espressioni idiomatiche attinte alla genuina parlata popolare” (Umberto Zanetti)

La sua ambizione lo portò ad impiantare la sua  baracca nel luogo di passeggio pubblico per antonomasia di Bergamo bassa: il boschetto di S. Marta, sul Sentierone.

Il Boschetto di S. Marta in una fotografia del 1920: un’area verde con molte piante d’alto fusto, per lo più ippocastani, abbattuti nell’autunno del 1923 per far posto al nuovo centro piacentiniano (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Quest’angolo della Bergamo dell’Ottocento è rappresentato in un bel dipinto del pittore Gabriele Rosa, con la baracca tra i cittadini che frequentavano il passeggio sul quale si affacciavano gli edifici affastellati attorno all’antica Fiera, con i suoi variopinti Caffè.

La più antica testimonianza del teatro dei burattini a Bergamo in un dipinto di Gabriele Rosa del 1840: spettacolo di burattini sul Sentierone durante la Fiera di Sant’Alessandro. La baracca di Bernardo Moro è ben visibile a sinistra del boschetto di S. Marta, ai confini del quale d’estate egli montava la sua baracca per lasciarvela tutta la stagione. Durante gli intervalli sua moglie passava con il bussolotto tra il pubblico per raccogliere le offerte

ANCORA NELL’OTTOCENTO..

Dopo lo Strambelli, va ricordato il Cannella, che dava i suoi spettacoli nella zona di S. Pancrazio in Città Alta, nel periodo del decadimento economico e sociale del centro storico, ovvero ai tempi in cui erano sorte le prime osterie in cui si mesceva vino ad alta gradazione proveniente dal meridione. Un vino che presto soppiantò i pallidi vinelli locali e che per i vistosi effetti che sortiva faceva dimenticare le tristi condizioni in cui si era ridotta a vivere la parte più umile di Città Alta.

Cannella recitava negli oratori, tenendo a bada anche i ragazzi più turbolenti.

Antica rivendita del “vino forte” nella piazzetta di San Pancrazio (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Vi era poi il cappellaio Corna, che divertiva i bambini nell’oratorio di Sant’Antonino.

Anche “il pio e zelante” Don Luigi Palazzolo (1827-1886) amava allestire spettacoli di burattini per i suoi ragazzi, nell’oratorio di San Filippo Neri di cui fu fondatore: cosa giudicata troppo licenziosa dai giudici del processo canonico e che per poco non gli costò la causa di beatificazione, che fu messa in salvo grazie all’intervento del Papa bergamasco.

Tre teste di burattini appartenute al beato Luigi Palazzolo, la cui baracca era rifornita di un gran numero di crape dé lègn. La tradizione vuole che sia stata la madre, di famiglia nobile, a commissionare a uno scultore l’esecuzione dei burattini utilizzati dal beato per le recite nell’oratorio. Alle sue recite assistevano “con grandissimo piacere” anche negozianti, signori, professionisti, parroci e canonici. Palazzolo accorreva anche in Seminario, e furono frequentissimi gli spettacoli dati ai giovani del collegio S. Alessandro 

Con il Cannella, il Corna e don Palazzolo, si conclude il periodo classico dei grandi burattinai che lavoravano a Bergamo, una sorta di decadenza della “tradizionale arte dei burattini” (tuttavia più accentuata nelle altre città) dovuta all’emigrazione a Milano e al tentativo di affermare i burattini in persona: una moda effimera, che non impedirà – negli anni che precedono la guerra – la fioritura di altri artisti burattinai a partire dal Colombo alla Malpensata, Sisto nel rione di  Campagnola e Melio Minoia in vicolo Aquila Nera a Bergamo Alta, dove morì nel 1942.

IL TEATRINO DEI GOTTI

In questa graziosa composizione risalente al 1901, epoca in cui fu attivo il burattinaio Giuseppe Gotti, la Fontana del Delfino (1526) è ritratta con la Fontana di S. Pancrazio (1549). Nella lunetta dell’arco, in luogo dell’attuale affresco, appare una scritta ormai scomparsa (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti fu attivo tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Abitava in Città Alta nella zona di S. Pancrazio, dove in tempi abbastanza recenti un antennista, recatosi sul solaio di un caseggiato per una riparazione, trovò casualmente un vecchio baule zeppo di burattini lasciati dal Gotti.

Un diavolo fatto risalire a Giuseppe Gotti

 

Un burattino fatto risalire a Giuseppe Gotti 

Le poche notizie che riguardano la famiglia di questi burattinai bergamaschi, sono frutto esclusivo di memorie tramandate oralmente, e come spesso accade in questi casi, la verità si confonde spesso con la fantasia. Alcune memorie riportavano infatti l’esistenza di “fratelli Gotti” burattinai; in realtà, Domenico Lucchetti venne a sapere da Serafina Gotti, figlia di Giuseppe Alessandro, che questi era figlio – e non fratello – del burattinaio Massimiliano, vissuto nell’Ottocento al civico 36 di Via Pignolo e proprietario di un “Teatrino Gioppinorio e Marionettistico” (Zanetti, Op. cit.).

Il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti era figlio del burattinaio Massimiliano, vissuto nell’Ottocento al civico 36 di Via Pignolo e proprietario di un “Teatrino Gioppinorio e Marionettistico

Nella foto seguente, il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti è ritratto con la sua famiglia; fa da sfondo l’elegante baracca nella quale lavorava. La cura e la dimensione del “teatrino” suggeriscono che la famiglia Gotti godesse di un certo benessere economico. Sullo scenario, che per la sua qualità venne dipinto presumibilmente da un pittore del tempo, sono raffigurate le maschere della Commedia dell’Arte con al centro Gioppino che suona il tamburo. Si tratta di una delle prime rappresentazioni della nota maschera bergamasca.

1914: il burattinaio Giuseppe Alessandro Gotti ritratto con la famiglia. Giuseppe furoreggiò per diversi anni nelle sale cittadine e certamente nel 1012 dava spettacolo all’Apollo (già Concordia), in Viale Roma (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti)

Alessandro Giuseppe Gotti inaugurò quella che in seguito divenne una consuetudine comune a diversi burattinai bergamaschi: si occupava personalmente dei testi e dell’allestimento della baracca, ma soprattutto della realizzazione delle teste di legno dei suoi burattini, che, sovradimensionate rispetto al consueto repertorio bergamasco (probabilmente in rapporto alle notevoli dimensioni del suo teatrino) diedero vita al famoso detto – cràpa de goti -, sinonimo di “testa di legno” riferito alle cervici dure di comprendonio.

La dinastia venne troncata dall’epidemia di Spagnola che decimò la famiglia subito dopo la fine della prima guerra mondiale, tra il 1918 e il 1919.

Gruppo di burattini probabilmente appartenuto al burattinaio Giuseppe Gotti, noto per bravura e per l’utilizzo di fantocci dalle teste molto grosse e perciò meglio visibili anche da lontano (raccolta privata)

Le memorie riportano che Massimiliano Gotti, il capostipite, era stato allievo di Bernardo Moro (Pèia), dal quale aveva ricevuto in dono delle crape lègn: forse quelle stesse confuse tra i burattini intagliati da Giuseppe, rinvenute in quel solaio di via S. Pancrazio?

Massimiliano era ricordato con nostalgia dal poeta Giacomo Alessandro Gavazzeni in una composizione risalente all’ultima guerra mondiale. In polemica con le norme educative fasciste, il poeta affermava che i ragazzi (bòce) dei suoi tempi non maneggiavano pugnali e moschetti e vedevano i fucili – finti, s’intende – solo nel teatrino del Gotti:

I bòce de chi tép, pié de ardimènt,
no i ghe sia de pügnàl gna de moschècc
e se a guèra i zögàa, i éra bachècc
a ƒurmà töt l’insèm de l’armamènt,
o s’i vedìa di s-cìòp, I’éra dal Gòte,
che l’ dervìa ƒò ‘I sò tèmpio ai becherée,
indóe ‘l Giopì, tra i tante bölerée,
l’ispartìa col tarèl moràl e bòte”
(Zanetti, Op. cit).

Con i Gotti siamo ormai alla vigilia della Grande Guerra e, se ci atteniamo al repertorio di Giovan Battista Locatelli detto Steenì, c’è da credere che Gioppino si schieri ormai tra gli interventisti.

I genitori di Gioppino: Maria Scatolera e Bortolo Socalonga

GIOVANNI NESPOLI

Giovanni Nespoli, artista completo e ottimo impresario di se stesso, d’inverno dava spettacolo  passando per le varie osterie nei quartieri di Bergamo e nei paesi più vicini. Con la bella stagione si metteva in viaggio lungo un percorso ben definito, dai paesi della bassa all’Adda e al Milanese risalendo poi il Comasco. A Boario la sua presenza era richiesta in tutte le stagioni; percorse anche tutta la Valle Camonica e fu di casa a Ponte di Legno. Venne invitato a dare spettacolo alla Villa Reale di Monza quando vi soggiornava re Umberto I con la sua corte

Giovanni Nespoli è il burattinaio d’eccellenza, che visse nel momento migliore per questo genere teatrale di cui vide il lungo decadere. Fu un vero specialista dello spettacolo burattinesco, sia nell’abilità nel muovere i burattini e sia nell’inventiva scenica, utilizzando una gran quantità d’acqua per rappresentare il diluvio universale e inventando una specie di palcoscenico mobile che grazie a una grande ruota di carro gli permetteva di cambiare fulmineamente la scena.

Ricorda Pino Capellini nella sua opera Crape dé lègn, che giunse un momento in cui i burattinai bergamaschi avevano guadagnato un’ottima piazza in quel di Monza, dove si dice vi fosse “Un gran buon pubblico”. Fra costoro Giovanni Nespoli ebbe un’occasione d’oro: dopo esser stato notato da qualcuno della famiglia Reale che alloggiava nella villa dove re Umberto I soggiornava con la sua corte, gli giunse a sorpresa l’invito di presentarsi all’ingresso della reggia con tutto il suo bagaglio. Fu così che la baracca di un bergamasco divertì gli ospiti reali per un certo numero di stagioni.

Non è dato di sapere se Giovanni Nespoli ne ricavò “compensi reali”, ma di certo quelle rappresentazioni costituirono il vertice di una insperata carriera, coronata anche da una sorta di diploma di “burattinaio reale” in pergamena, accompagnato da una medaglia incorniciata sotto vetro che conservò fino alla fine.

Il re e il suo cosigliere, ciambellano o scudiero, di solito usati per la recita del “Don Gusmano”, presentata anche con il titolo “La famiglia gioppinoria alle prese del castello di Pamplona”. I due fantocci appartengono al burattinaio Arturo Marziali (Raccolta Scuri)

Girovagò per tutta la Lombardia, richiesto ovunque, principale attrattiva delle località termali dove soggiornava l’Europa che contava, dormendo spesso sempre in allerta, attento a proteggere l’incasso che andava consegnato alla famiglia.

Conclusa ormai la sua fortuna Nespoli si ridusse a vivere in Borgo Canale, aggirandosi con un carretto da straccivendolo.

Una bellissima cartolina raffigurante Borgo Canale ai primi del Novecento (per gentile concessione dell’Antiquaria Laura Ceruti)

Rinunciò definitivamente ai suoi allestimenti, pressato dalla Società degli Autori (SIAE), che richiedeva soldi ad ogni spettacolo.
Morì quasi in miseria nell’ottobre del 1951, lasciando alla moglie, come unica eredità, soltanto qualche burattino. Quei fantocci di legno furono così cari ad entrambi, che alla morte di lei, che l’aveva molto aiutato nel lavoro, trovarono un burattino nascosto sotto il suo letto. Ricordo di tempi migliori, non aveva mai saputo separarsene.

La locandina del Sarzetti, collocata nello stesso punto dove il burattinaio annunciava, anni or sono, i suoi spettacoli

GIOVAN BATTISTA LOCATELLI, DETTO STEENI‘ (1884-1923)

Collocato da taluni ai primi posti della gerarchia dei grandi burattinai bergamaschi, definito “il principe dei Giopì”, può essere considerato come l’ultimo burattinaio della tradizione dell’Ottocento.

La famiglia gioppinoria (per gentile concessione dell’Antiquaria Laura Ceruti)

Pittore-decoratore era di spirito piacevolissimo e dalle allegre trovate. Riservato per natura, si trasformava quando entrava nella baracca, dove riusciva ad esprimere tutta la sua arguzia e il suo pittoresco senso umoristico, tipicamente bergamasco.

Era il padre del pittore Orfeo Locatelli, che di lui ricordava le mani infilate nei suoi burattini, dei quali otteneva espressioni efficaci che oggi si potrebbero definire metafisiche. Il dialogo, le voci diverse e i vari dialetti erano totalmente prodotti da lui. Il canovaccio della commedia consisteva in un foglietto di registro per ogni atto, un promemoria molto stringato, proprio come nel teatro dell’arte.
“Mi dicevano che scegliendo i burattini per lo spettacolo, mio padre prendesse la testa del fantoccio tra le mani, osservasse per bene la fisionomia del personaggio e, a secondo del tipo, decidesse di assegnargli la voce più adatta”  (Orfeo Locatelli).

Steenì dava spettacolo in un magazzino di Via San Lazzaro al costo di dieci centesimi in platea e il doppio in galleria.

Il burattinaio Giovan Battista Locatelli detto Steenì, chiamato “il principe dei Giopì” (1884-1923). Rappresentava copioni tradizionali e testi creati da lui stesso. Se ne ricordano due: Alla Baionetta! e L’impero della forca, che risalgono alla prima guerra mondiale. Due testi sicuramente a favore dell’intervento contro l’Austria

Dell’attrezzatissimo teatro del burattinaio bergamasco, che disegnava le sue teste di legno per farle poi intagliare artisticamente, non è rimasto nulla. Fu lo stesso Locatelli a disfarsene dolorosamente non volendo più conservare un segno di questa grande passione, perché i medici gli avevano suggerito di non proseguire con una così faticosa attività .

Ne “Il Novecento a Bergamo” si fa menzione dei fratelli Locatelli, considerati “tra i più celebri burattinai del loro tempo”. Costoro ricevevano i “clienti” (cioè coloro che volevano ingaggiarli per qualche recita) nello storico albergo Ponte di Legno in Piazza Pontida, famoso per il suo caffè-ristorante e per i suoi stanzoni ben tenuti ed eleganti. Geo Renato Crippa accenna ai fratelli Locatelli, famosi pittori decoratori e celebri burattinai, descritti come “Tipi genialissimi (…) e molto apprezzati (che) ascoltavano sorridendo agli inviti di teatrini presso i quali dovevano recarsi. Togliendosi dal portafoglio la distinta delle loro esibizioni: commedie, drammi, monologhi, la sciorinavano davanti agli occhi stupiti degli ingaggiatori. Recitavano, seduta stante, i pezzi più azzeccati della loro ‘produzione’; allora il silenzio incombeva sui presenti, data l’arguzia e la vivacità delle quali sfoggiavano i ‘maestri’ travolgendo l’improvvisato uditorio. Siccome, d’urgenza, si spargeva la notizia della recitazione, nei negozi vicinori: salumieri, fruttivendoli, carbonai, merciai, armaioli, formaggiai, bastavan pochi istanti perchè l’albergo straripasse”

 

La locandina di Luigi Cristini 

GLI ANNI FRA LE DUE GUERRE

La Grande Guerra era destinata a sconvolgere pure il quieto mondo provinciale di Bergamo e molti burattinai partirono per il fronte; qualcuno di loro non appena gli fu possibile innalzò rudimentali baracche nelle retrovie. Era uno dei pochi divertimenti consentiti alle truppe.

Le due rudimentali teste di burattini vennero fabbricate per un improvvisato spettacolo allestito per intrattenere i combattenti a poca distanza dal fronte durante la Prima guerra mondiale (Raccolta Angelini)

I burattinai giravano anche negli ospedali e nei convalescenziari, regolarmente richiesti dal personale medico per sostenere il morale dei feriti e degli ammalati. E così Capellini scrive che a Martinengo, in fondo al lungo corridoio di una villa della “bassa” bergamasca, una baracca allietava la convalescenza dei soldati, che si raccoglievano disciplinati nella improvvisata platea. Il fronte era lontano, si poteva sorridere e ridere alle facezie di Gioppino, pensando al giorno in cui tutto sarebbe finito. Dietro le file dei soldati italiani si affacciavano, sparuti e malandati, dei prigionieri austriaci, anche loro feriti e o ammalati e in convalescenza. La guerra stava per finire o doveva essere finita da poco. Nella gran sarabanda conclusiva, Gioppino prendeva a bastonate e a gran testate il “tugnì“, il soldato austriaco. E quei prigionieri sorridevano anche loro. Senza molta allegria forse, ma con la speranza che presto avrebbero preso la strada di casa.

Alcuni vecchi burattinai sparirono nel periodo della guerra, altri invece si cimentarono per la prima volta col pubblico (come Domenico Rinaldi).

Anche Bigio Milesi, il popolare pasticcere  Bigio di San Pellegrino Terme, cominciò a far ballare i burattini durante la Grande Guerra. La sua lunga vicenda artistica ebbe inizio quando un giorno suo padre, che era al fronte, a sorpresa gli fece recapitare a casa da un conoscente un sacco che conteneva fantocci e teste di legno, di cui il Bigio non sapeva altro. Portò lo spettacolo burattinesco a notevoli livelli, interpretando il suo Gioppino con signorilità e arguzia. Gli fece da maestro il cugino Irmo Milesi, altra figura popolare di burattinaio.

Tre bellissimi fantocci della raccolta del famoso burattinaio-pasticcere di San Pellegrino, Bigio (Luigi) Milesi. I due a sinistra sono i più antichi e risalgono all’Ottocento

 

Nato a Bergamo nel 1905, Bigio ha raccolto pazientemente una gran quantità di burattini dispersi  “perché il cugino lrmo li aveva avuti dal Gotti, il quale li aveva dati il Pèia”, scriveva Umberto Zanetti

IRMO MILESI

Irmo Milesi cercò di migliorare lo spettacolo, dandogli dei canoni e sperimentando pure delle forme nuove di rappresentazione. Raccoglitore e autore di testi, preparò anche una commedia da far recitare a burattini viventi. Intagliava lui stesso le teste dei suoi burattini, con risultati notevoli. Dipendente dell’Istituto Arti Grafiche di Bergamo, non era costretto a una vita girovaga per campare e per anni egli dominò incontrastato nel salone del Mutuo Soccorso.

Una pagina di un canovaccio appartenuto al burattinaio Irmo Milesi. Questi testi vennero sicuramente scritti nell’Ottocento. Alla grande stanza della Società di Mutuo Soccorso, si accede direttamente passando per il cortile che si apre su via Zambonate. Fu il crocevia di innumerevoli vicende di burattinai negli anni ’20 e ’30 e là lrmo Milesi rivelò le sue eccellenti doti di burattinaio 

Burattinaio ufficiale del dopolavoro, era quello che riceveva i maggiori consensi e che aveva il pubblico più attento e appassionato.

Locandina del burattinaio Luigi Cristini. L’epoca è 1932-’35 (Raccolta fratelli Cristini, Bergamo) 

Poi vi fu l’EMIGRAZIONE, la baracca venne abbandonata dal suo pubblico, restando solitaria nei cortili e sotto gli androni, dove i burattini giacevano abbandonati. Tanti bergamaschi partirono emigranti e capitava che la baracca si ricomponesse anche nei paesi più lontani. Era di casa in Svizzera, in Francia o in Germania e comparve anche negli Stati Uniti e in Argentina.

Ai tempi di via Zambonate, il pubblico non mancava e tanti burattinai facevano a gara per portarvi le loro rappresentazioni.

La sede del Mutuo Soccorso in via Zambonate, nel 1921. La fotografia rappresenta un momento di grande festa (con banda musicale) dell’Associazione Proletaria Escursionisica ospitata nel caseggiato del Mutuo Soccorso

Ormai avanti negli anni, vi tenne spettacolo anche il Nespoli, mentre Carlo Sarzetti e Pietro Spreafico contesero il primo posto ad Irmo Milesi.

Alla morte di questi subentrò Domenico Rinaldi, uscito terzo a un concorso al quale aveva partecipato quasi per caso, rappresentando “I tre principi di Salerno”.

Locandina del burattinaio Sarzetti, probabilmente ereditata dal burattinaio Gotti, di cui fu allievo

DOMENICO RINALDI (MENECH)

Domenico Rinaldi detto Mènech, all’età di 14 anni, dopo un periodo di apprendistato cominciò a far ballare i burattini nell’oratorio di Borgo Palazzo, dove era nato e dove ormai più nessuno a causa della guerra teneva spettacoli. Ricevette in dono dal curato una cassa di burattini, vecchi e ammaccati, per far divertire i ragazzi.

Il burattinaio Domenico Rinaldi, detto Ménech con il Gioppino portato in scena nel corso di decine e decine di rappresentazioni. Egli cominciò l’attività nel 1916 a soli 14 anni, dopo l’apprendistato attraverso Colombo, Gotti, Salvi, Steenì, Lecchi, Pasqualì

Ma ormai il cinema faceva sentire la sua concorrenza, almeno in città, mentre in provincia il burattinaio poteva ancora trovare un buon numero di spettatori. Il mestiere di burattinai ora poteva solo servire ad integrare una paga, ma non più a sfamare un’intera famiglia.

L’ultimo che in quei tempi provò a vivere esclusivamente degli incassi di questo genere di spettacolo fu Luigi Cristini, che ebbe come maestro il Milesi. Ricevuto un indennizzo alla “Magrini” in seguito a un infortunio, lasciò il proprio lavoro e si mise in proprio con i burattini.

Le teste di questi burattini, appartenuti al burattinaio Luigi Cristini, sono tutte opera del falegname bergamasco Enrico Mazzoleni detto Rissolì. Questi, oltre che essere un abile burattinaio fu uno splendido intagliatore. Luigi Cristini, dal 1932 al 1935 tentò la grande avventura correndo da un paese all’altro in bicicletta. L’esito di tante speranze fu però gramo e dovette rinunciare alla libera professione di burattinaio. Conservò però i suoi burattini per tutta la vita

 

Giuseppe Garibaldi, un garibaldino, un frate e due briganti, per “La foresta del terrore” (Raccolta Cristini)

Ormai un’altra guerra incalzava, qualche burattinaio vi si trovò coinvolto, altri persero tutto l’apparato o vi rinunciarono definitivamente. Alla fine quelli che sopravvissero e che avrebbero potuto riprendere si potevano contare sulla punta delle dita.

Via Borgo Santa Caterina, angolo via Pitentino, nel 1938

L’immediato DOPOGUERRA segnò quasi una ripresa dello spettacolo. Finita l’era del Mutuo Soccorso si aprì quella di Enrico Manzoni, detto Rissolì.

Uno spettacolo del burattinaio Carlo Sarzetti sul colle della Maresana, davanti a un’osteria. L’autore dello scatto, effettuato subito dopo la Seconda guerra mondiale, è Diego Lucchetti, padre del noto fotografo e collezionista bergamasco Domenico. Nel ’40 e nel ’41 Sarzetti soleva dare spettacolo alla Maresana nelle occasioni di Pasquetta e Ferragosto, o anche per la festa della chiesetta che sorge sul colle. Si noti la brocca del quarto di vino fra le mani dello spettatore in piedi al centro dell’immagine (Archivio storico fotografico Domenico Lucchetti, Museo storico di Bergamo)

ENRICO MANZONI DETTO OL RISSOLI’

Enrico Manzoni, con uno dei tanti burattini usciti dal suo laboratorio

Enrico Manzoni, altro “principe dei burattini” fu abilissimo nel “far parlare” i suoi burattini, affascinava grandi e piccini per lo più nel suo laboratorio di falegname in via Ermete Novelli, dove gli spettacoli si tennero per un paio d’anni.
La bottega era uno stanzone zeppo di ferri del mestiere coi quali Manzoni, intagliava i suoi bellissimi burattini.

Brighella, Arlecchino e Gioppino, tre dei tanti burattini usciti dal laboratorio di Enrico Manzoni detto Rissolì, abilissimo e fantasioso intagliatore di teste

I suoi spettacoli erano il risultato di una elaborazione artistica fatta a più mani. Al Manzoni si affiancarono i pittori Arturo Bonfanti e Orfeo Locatelli (figlio dello Steenì), l’architetto Pippo Pinetti, l’avvocato Davide Cugini, i poeti dialettali Giacinto Gambirasio e Pietro Astolfi, che gli suggerivano spunti per imbastire le trame delle rappresentazioni.

Alle pareti della bottega pendevano “pesanti mascheroni della commedia e, con i muscoli contratti in arcigne espressioni, paurose maschere della tragedia. E poi aquile grifagne, festoni pingui di frutta decorativa, paffuti angelotti, teste di giovani e di vecchi in cornici massicce o sottili; ma soprattutto bellissimi, splendidi burattini intagliati dalle sapienti mani di questo fenomenale burattinaio” (5).

Spostati gli attrezzi e collocata la baracca, Manzoni faceva circolare piccoli inviti a stampa con impresso l’annuncio della recita. Ad ogni suo spettacolo affluiva una ressa variegata, nella quale non mancavano artisti e professionisti: spettatori abituali erano Guido Piovene (che a Bergamo aveva dedicato un bellissimo reportage) e Renato Simoni, che giungevano appositamente da Milano. Quest’ultimo “gli commissionò nel 1951 dieci statuette lignee raffiguranti altrettanti personaggi tipici del mondo burattinesco, da Arlecchino a Brighella, da Meneghino a Gioppino. ll committente pagò la commissione in rate mensili e – particolare curioso – il Rissolì ricevette il vaglia postale dell’ultima rata lo stesso giorno in cui i giornali diffondevano la notizia della morte di Renato Simoni”, racconta Umberto Zanetti.

Quei burattini sono ora al Museo del Teatro della Scala di Milano.

(5) Luigi Medici, L’Eco di Bergamo, 20 novembre 1958.

L’invito ad una recita fatto stampare appositamente dal falegname Enrico Manzoni, che teneva spettacolo nello stanzone del suo laboratorio 

E’ sempre Luigi Medici a descrivere uno degli spettacoli del Rissolì, tenuto nel suo laboratorio nel 1946. “La sera dell’annunciata rappresentazione la grande officina di falegnameria si riempì in pochi minuti di tutto un pubblico ciarliero e simpaticissimo. C’era, nell’officina, uno spirito rusticano, di Hans Sacs: qualcosa di artigiano, di medioevale con quelle lanterne che illuminavano scialbamente la baracca che i apriva in un angolo. Tre panche, davanti alla baracca, erano riservate agli spettatori privilegiati: i bambini. Gli altri spettatori stavano lungo le pareti pigiati in piedi o semiseduti sulle poche panchine rimaste nel laboratorio svuotato dei banchi artigiani e degli utensili di lavoro. C’era pur sempre un’aria di teatro vero e proprio.
Quando lo spettacolo cominciò, rimase illuminata solo la baracca. Tra le colonnine del proscenio ecco spiccare il sipario (dipinto dallo stesso Rissolì) con la nitida veduta del profilo di Città Alta. Come si alzò il sipario apparve Giopì, non so se scolpito dal Rissolì su disegno suo o dell’amico pittore Bonfanti: l’occhio vivo, la bocca semiaperta con qualche dente in ordine sparso, l’immancabile bacolo. Capii come Renato Simoni si fosse innamorato di queste maschere. E subito lo spettacolo entrò nel vivo: c’era da assistere a una corrida con il Giopì che faceva il torero. Un divertimento per tutti. Quante risate! Una serata indimenticabile”.

Un bellissimo Gioppino, il cui legno pare materia viva, è uscito dalle mani del versatile falegname-intagliatore Enrico Manzoni, il quale ha rivestito un ruolo importante nel teatro bergamasco dei burattini negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale. Le recite tenute nel suo laboratorio di via Novelli a Bergamo richiamarono un pubblico di professionisti e di intellettuali

In qualche copione venne anche affrontato (con grandi manganellate) il periodo fascista e vi fu anche una rappresentazione dedicata alla vecchia questione, che tanto faceva discutere i bergamaschi, dell’ubicazione della tomba di Bartolomeo Colleoni. Questione sfociata nel clamoroso episodio dell’arca trovata nella basilica di Santa Maria Maggiore, e della quale Manzoni e compari intrecciarono un esilarante canovaccio.

Il discusso ritrovamento del 12 gennaio 1950. Mons. Locatelli scopre la massiccia arca lapidea in granito interrato nel pavimento di Santa Maria Maggiore: fu convocato il rabdomante Malachia, che i bambini di Città Alta credevano un mago perché ipnotizzava le galline (dal racconto di Domenico Lucchetti)

Probabilmente furono gli ultimi episodi locali rappresentati nella baracca dei burattini. Attorno al 1948-’49 questa serie di recite era già conclusa e v’era stata una dispersione dei vari componenti del gruppo.

Ma il Manzoni continuò a intagliare serie su serie di splendidi burattini, che finirono in casa di appassionati e di amici. Ne scolpì per il Ducato di Piazza Pontida, che dopo gli stenti della guerra offrì numerose occasioni di incontro e di divertimento.

Un’epoca di cambiamenti radicali, che avrebbe spazzato via tradizioni e consuetudini, si stava avvicinando a grandi passi: il declino dei burattini, già accentuato con la guerra, fu totale con l’arrivo della TELEVISIONE.

In Città Alta qualcosa sopravvisse. C’erano ancora l’imbianchino Carlo Sarzetti, che portava qua e là la sua baracca quando la brutta stagione gli impediva di lavorare. Pasquale Brignoli, un emigrande rientrato con la baracca dalla Francia, dove aveva imparato a dar spettacolo tra i lavoratori bergamaschi.
Pucci Mazzoleni, uno straccivendolo, che girava con un carretto trainato da un ronzino spelacchiato.
Melio Minoia, aggiustatore di ombrelli e di zoccoli.

C’era anche qualcuno nei vecchi borghi, come Piero Spreafico, un altro imbianchino, che teneva spettacolo nelle osterie di Borgo Santa Caterina, di via San Tomaso e in via N. Sauro.
E Arturo Marziali, un decoratore e pure abile intagliatore di teste di burattini.

CARLO SARZETTI

Sarzetti, dopo aver percorso la Bergamasca e la pianura verso Milano e Cremona spostandosi con un motocarro, dava spettacolo in uno stanzone nella stessa via Tassis.

Il burattinaio Carlo Sarzetti nella sua abitazione di via Tassis, a Bergamo Alta

Il Sarzetti era quello di maggior spicco. In realtà fu uno dei continuatori della grande tradizione bergamasca.

Allievo del Gotti, da lui aveva ereditato la grande baracca con la quale il suo maestro aveva vinto il primo premio a un concorso bandito a Milano.

Il grande, sovradimensionato teatrino di Carlo Sarzetti, che la tradizione vuole appartenesse in origine a Giuseppe Gotti, il quale lo lasciò a Sarzetti, suo allievo. Con questo teatrino Sarzetti vinse a Milano un concorso regionale per la più bella baracca di burattini (Raccolta Scuri)

Negli ultimi anni non si muoveva più da Città Alta e dava spettacolo in uno stanzone, prima in via Salvecchio, poi in via Tassis.

Il burattinaio Carlo Sarzetti nella sua abitazione di via Tassis, a Bergamo Alta (Museo storico di Bergamo) 

In passato aveva girato in lungo e in largo per la provincia, usando il motocarro di un amico, con il quale il Sarzetti si spostava insieme all’amico e fido aiutante, Vittorio Moioli, detto Bachetì, uno degli ultimi burattinai che ancora sopravvivono.

Bachetì, al secolo Vittorio Moioli, all’opera durante uno spettacolo in un’immagine di qualche decennio fa

Ma nonostante il Sarzetti con la sua abilità richiamasse ancora il pubblico, la vita per i burattinai era ormai dura, gli incassi erano scarsi e spesso bisognava accontentarsi anche di pagamenti in natura.

Vittorio Moioli, detto Bachetì, uno degli ultimi burattinai rimasti della generazione novecentesca

 

Vittorio Moioli con i suoi burattini, accanto a Lele Scuri, collezionista di baracche e crape de lègn

Quando si recavano nella “bassa” bergamasca nel periodo del raccolto, ai tempi in cui le cascine erano affollate di braccianti, capitava che il fattore di qualche azienda agricola offrisse loro, in cambio di uno spettacolo tenuto sulle aie dei grandi cascinali, un piatto di minestra, un fiasco di vino, una filza di cotechini, un po’ di pancetta o di salame. E di giorno capitava di restar sul posto a dare una mano a lavorare nei campi.

I burattini in cascina a Bonate (Bg) nel 1966 (foto Pepi Merisio)

Sarzetti scomparve nel 1970 dopo aver invano lottato, oltre che contro la concorrenza della televisione, con la tassa che la Siae richiedeva ogni volta che dava spettacolo.
Non capiva perchè dovesse sborsare soldi in questo modo: per lui era una di quelle gabelle che Gioppino spazzava via a suon di bastonate.

Il baule utilizzato da Carlo Sarzetti per il trasporto dei burattini. Anche le teste usate dal Sarzetti (in origine aiutante dei Gotti e ai quali subentrò dopo la morte) erano di notevoli dimensioni. Una caratteristica comunque tipicamente bergamasca (Raccolta Angelini) 

Di queste tradizioni, dell’incredibile, vario, fantasioso mondo della baracca e dei burattini, è rimasto ben poco. In parecchie province non c’è più un solo burattinaio. Nessuno si è mai curato li raccoglierne l’eredità, testimonianze o testi.
Qua e là sopravvivono vecchi burattinai, ma i loro spettacoli vengono considerati alla stregua di passatempo per bambini.

Nella Bergamasca, Pino Capellini, vera e proprie miniera d’informazioni, immagini e aneddoti, ricorda Bigio Milesi e Domenico Rinaldi che, pur avanti negli anni, davano ancora spettacoli.

La scena, che  rappresenta la piazzetta del Delfino, veniva usata anche per farvi comparire il padre di Gioppino e di Pantalone prima della partenza di Gioppino (dalla commedia “Per Milano in cerca di moglie”). Raccolta Bigio Milesi, S. Pellegrino Terme

Un terzo è Vittorio Moioli, aiutante del Sarzetti che, data l’età, solo in rare occasioni ne continua la tradizione.

“Occhi attoniti di bambini, sorrisi di mamme, risate squillanti di giovanotti dai sedici ai settant’anni: una lampada illumina il proscenio mentre il posto del pubblico, sotto i portici del Palazzo della Ragione, rimane in ombra come nei teatri moderni. Tre squilli di campanello annunciano l’inizio dello spettacolo. Un rumore di panche e di sedie rimosse, qualche colpo di tosse, poi il silenzio. Si alza il sipario e appare la scena, dipinta dallo stesso burattinaio che tiene tutti i ruoli, compreso quello di pittore. Protagonista è Gioppino, che esce dalle quinte e si inchina agli spettatori con una delle sue movenze più burlesche. Applausi. Lui li tronca battendo forte il bacolo sul ripiano della ribalta. La baracca ha uno scossone e ondeggia un poco, ma poi riprende la sua stabilità e la rappresentazione incomincia” (Sereno Locatelli Milesi) 

C’è poi Giuseppe Fugini, appassionato dilettante di Brembate Sotto, il paese del grande professionista Benedetto Ravasio, noto a livello nazionale, purtroppo scompaso.

BENEDETTO RAVASIO

Il burattinaio bergamasco Benedetto Ravasio, uno dei grandi burattinai del Novecento
 

Ravasio, originario di Bonate Sotto, si colloca nella scia dei burattinai di un tempo, collocandosi tra i più illustri operanti nel secolo scorso, come Sarzetti, Nespoli, Manzoni, Cristini e Luigi Milesi detto il “Bigio”.

Pina e Benedetto Ravasio

Allievo del Nespoli, iniziò a dare i primi spettacoli negli oratori, ma la sua vera attività ebbe inizio nel Dopoguerra.

Benedetto Ravasio e la moglie Giuseppina durante l’allestimento di uno spettacolo tenuto sotto il portico del Palazzo della Ragione in Piazza Vecchia

 

Benedetto Ravasio e la moglie Giuseppina sotto il portico del Palazzo della Ragione in Piazza Vecchia

 

Benedetto Ravasio all’opera, sotto il portico del Palazzo della Ragione a Bergamo. Amava profondamente il suo mestiere, di cui conosceva l’intrinseco segreto

 

I burattini di Benedetto Ravasio in Piazza Vecchia

Di giorno al lavoro, di sera in giro con la baracca nelle trattorie, all’aperto, negli oratori. Quando decise di dedicarsi totalmente a questo spettacolo venne affiancato validamente dalla moglie, Pina, che a lungo lo aiutò nella baracca. Lei tagliava e cuciva i vestiti e insieme a lui montava gli spettacoli e interpretava i ruoli femminili.

Una intensa immagine di Pina, compagna di vita nonché insostituibile collaboratrice di Benedetto Ravasio, nel dare voce ai personaggi femminili, animare i burattini (dei quali confezionava gli abiti), contribuendo anche alla scrittura dei testi

Davvero un gran personaggio, “con quella sua aria bohèmienne, la sua zazzera d’artista, i baffoni grigi, la sua cravatta Lavellière, la sua fecondia, la sua vivacità indomita, la sua simpatia contagiosa”.

Benedetto Ravasio con il suo Gioppino

I suoi itinerari lo portarono anche fuori provincia, seguendo le orme del Nespoli, soprattutto a Monza dove restò a lungo tra il 1952 e il 1953.

Dalla sua bottega in Piazza Vecchia, Domenico Lucchetti seguiva attentamente gli spettacoli che si succedevano sotto il Palazzo della Ragione

Poi arrivò la televisione e il suo gran guasto. Per quasi due anni l’attività di Benedetto subì una battuta d’arresto: impossibile allestire uno spettacolo per trovare spettatori.

La ripresa fu lenta, ma sicura. Si fece un nome a Milano, percorse a lungo il Comasco, andò a recitare in Svizzera. Il centro dei suoi interessi restò però Milano, dove per sette anni di seguito tenne rappresentazioni al Circolo dei Piccoli presso il negozio “Motta” in Piazza del Duomo.

Piazza Vecchia, anni ’70: Benedetto Ravasio e il suo Gioppino

Nel 1972 approdò alla televisione: fu la sua rivincita dopo quei due anni in cui lo schermo televisivo aveva fatto morire lo spettacolo dei burattini.

La baracca di Benedetto Ravasio sotto le arcate del Palazzo della Ragione negli anni ’70

Ravasio fu quasi unico nel genere: attore istintivo e geniale, dotato di una bellissima voce, fu abile anche nell’uso di scalpelli e pennello, scolpendo e decorando da sé le teste dei burattini e dipingendo gli scenari. Si occupava della musica (suonava il mandolino ed il violino) e scriveva i copioni delle sue rappresentazioni.

Benedetto Ravasio

Artista sensibile e in sintonia con il pubblico, ne intuiva i gusti modificando le tragedie e i drammi del repertorio tradizionale lasciando sempre più spazio alle commedie e alle fiabe, più consone ai nuovi canoni della comunicazione.

Rivolto perlopiù a bambini e alle loro famiglie, un po’ come fece Goldoni ripulì la tradizionale parlata triviale di Gioppino, sgrossandola della parte rozza e pesante ma mantenendo le caratteristiche del personaggio rude e un po’ rozzo ma simpatico.

Un’intenso ricordo di Benedetto Ravasio

Pina e Benedetto Ravasio hanno conservato e tramandato ai posteri la tradizione, in un periodo in cui le principali compagnie di burattinai appendevano definitivamente al chiodo le proprie crape de lègn: grazie a loro, quella manciata di burattinai professionisti oggi attivi sul territorio, continuano a preservare l’arte burattinesca consentendo al pubblico di conoscere ed apprezzare una tradizione viva da circa due secoli, che affonda le proprie radici nella cinquecentesca Commedia dell’Arte ed è perciò assolutamente da preservare e valorizzare.

Il teatrino di Daniele Cortesi, erede artistico di Benedetto Ravasio nonchè il più noto burattinaio bergamasco contemporaneo, sotto il porticato del Palazzo della Ragione

 

Il teatrino di Daniele Cortesi, sotto il porticato del Palazzo della Ragione

La ventennale esperienza di organizzazione di rassegne teatrali promosse dalla Fondazione Benedetto Ravasio, si qualifica nella rassegna estiva “Borghi e Burattini” inserita nella cornice di Piazza Vecchia e di numerose piazze dei comuni bergamaschi.

I burattini, una passione di famiglia. Fondazione Ravasio

A Bonate Sotto, paese natale di Benedetto, la Fondazione indice il premio “Benedetto Ravasio”, rivolto ad una giovane compagnia che meglio si sia distinta tra quelle presenti nel panorama nazionale.

 

Riferimenti principali

Devo molte notizie ed  immagini a due meravigliosi libri di Pino Capellini, dei quali consiglio la lettura per la vastità e la completezza della ricerca e per le ricchissime testimonianze iconografiche:
– Pino Capellini, Baracca e Burattini, Bergamo, Grafica Gutemberg, 1977.
– Pino Capellini, Crape dé lègn, Litostampa Istituto Grafico srl – Bergamo, 2002.
– Pilade Frattini, Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo. UTET, 2003.
– Umberto Zanetti, Bergamo d’una volta, Il Conventino.

Il “rasgament dèla ègia” ai tempi gloriosi del Ducato di Piazza Pontida

A Bergamo, l’antica tradizione del “rasgamènt de la ègia”, antico retaggio pagano, fu ripristinata nel 1923 quando Rodolfo Paris, “addobbatore di mestiere e suonatore di piano, a orecchio”, decise di organizzare il cosiddetto “rasgamento” dapprima con un gruppo di amici e successivamente, nominato primo Duca del Ducato di Piazza Pontida, aprendo la manifestazione a tutta la provincia sotto l’egida del Sodalizio del Ducato, la cui nascita merita di essere raccontata.

Era la gelida notte di S. Silvestro del 1923 e già da mesi la Torre dei Caduti ergeva la sua mole a dominare il nuovo centro cittadino ma, forse per ragioni burocratiche o forse per scongiurare disordini, da mesi non giungeva il nullaosta (e con esso l’atteso Mussolini) per l’inaugurazione ufficiale.

La Torre dei Caduti scontava intanto la pena di quelle titubanze e di quei timori e ciò contrariava non pochi Bergamaschi, ormai stanchi di aspettare.

Tra questi, un bel tipo di poeta dialettale, Rodolfo Paris, “addobbatore di mestiere e suonatore di piano, a orecchio”, decise di rompere gli indugi sostituendosi alle “autorità’ fantasma”.

Nella Bergamo appena ridisegnata nel suo profilo urbanistico, con la base della torre ancora circondata da una staccionata, la città attendeva ormai da mesi che Benito Mussolini si decidesse a stabilire la data della cerimonia ufficiale. Egli temporeggiava perché una sua visita a Bergamo, città “popolare”, a quel tempo avrebbe certamente suscitato polemiche e provocato forse qualche disordine. La città si sentiva beffata, e Rodolfo Paris ne interpreto’ a modo suo il malcontento e il desiderio di trasgressione

Radunò in Piazza Pontida una “bella brigata di popolo” con non pochi artisti e buontemponi e organizzò un corteo che, fanfara in testa, s’incamminò per via XX Settembre fra spari, bengala, brindisi e inni patriottici.

Piazza Pontida, con un’auto degli anni 30, Wrchivio Wells

Di quell’allegra brigata faceva parte, certamente, lo scultore Alfredo Faino con l’avvocato Davide Cugini, il pittore Dante Montanari, il giornalista Ferruccio Vecchi, l’avvocato Arturo Cattaneo, lo scultore Cesare Archenti, il pittore Umberto Marigliani, l’avvocato Angelo Astolfi, il burattinaio Steeni, i poeti dialettali Renzo Avogadri, Ferruccio Grasselli e Giuseppe Mazza.

Nella fotografia scattata da Pietro Gentili negli anni Trenta del Novecento, si evidenziano  alcuni dei protagonisti della storica nottata di S. Silvestro: lo scultore Alfredo Faino è il primo a sinistra; Pietro Nicoli con l’impermeabile al braccio, Antonio Arienti con la sigaretta e, a seguire, Giuseppe Mazza, l’avvocato Alfonso Vajana, Ferruccio Grasselli con il cappello sulle ventitrè, Giacinto Gambirasio, Battista Algisi, l’avvocato Angelo Astolfi con la mano alzata, con accanto il fratello Pietro detto Giópa

Quando la truppa di uomini intabarrati giunse in Piazza Vittorio Veneto, all’ultimo rintocco della mezzanotte Rodolfo Paris avanzò ai piedi della Torre dei Caduti e, tra un rispettoso silenzio generale (“non si sentivano che i cuori a battere”), con un largo gesto si tolse il caratteristico cappello a fungo declamando con voce commossa: “Regordém i màrtiri de la Patria… La tór la resta issê inaügürada!”. Chinò il capo e stette un attimo con le mani giunte, in atteggiamento di preghiera.

Nel buio della notte una voce si levò all’indirizzo del capo della brigata esclamando: “Viva il Duca di Piazza Pontida!”. Il grido echeggiò nella piazza e la Torre dei Caduti fu cosi inaugurata “fra un delirio di popolo”, che accorse a demolire la staccionata.

Piazza Vittorio Veneto con la Torre dei Caduti

L’appellativo di “duca” affibbiato al Paris – buontempone arguto e spiritoso – scaturiva dall’essere il padrone incontrastato della piazza: il Paris una sera si era divertito a illuminare i portici di Piazza Pontida “facendo penzolare sotto gli archi dei gusci di lumache, che contenevano l’olio e il lucignolo”.

Pare assodato che fu proprio da quella esclamazione, udita all’alba del 1923, a scaturire l’idea di incoronare un duca ed istituire effettivamente un Ducato.

Rodolfo Paris detto “Alègher”: personaggio stravagante e creativo, addobbatore con negozio in via Sant’Antonino (addobbava chiese e contrade per cerimonie religiose, piazze e vie per feste civili e patriottiche), pianista (suonava al Teatro Donizetti durante le proiezioni del cinema muto) e autore di poesie in dialetto bergamasco con lo pseudonimo “Alegher” dovuto al suo spirito ilare e bizzarro. Frequentava un circolo di artisti e professionisti, che aveva la sua sede in Piazza Pontida (Archivio storico-fotografico Domenico Lucchetti)

Il 15 marzo 1924, al ristorante dell’Angelo in Borgo Santa Caterina “un carnascialesco convito di artisti, di letterati e di cultori della poesia dialettale” si riunì per istituire ufficialmente il Ducato di Piazza Pontida e per l’incoronazione di Rodolfo Paris, primo Duca col nome di Rodolfo ü (uno):
“Dopo un lauto banchetto nella sala addobbata con gli emblemi gioppinori, ecco finalmente l’atteso momento dell’incoronazione: Rodolfo Paris sedeva in posizione centrale mentre una damigella graziosissima, Lina Rota, modello di fanciulla e modella per gli artisti, s’avanzava solennemente con la corona di latta posata sul tagliere (basgèta) della polenta. Nell’atto di alzare la ducal corona, due delle cinque molliche di pane, infilate nelle cinque punte, si staccarono e scivolarono sul tavolo. Qualcuno vide nel fatto un auspicio di dubbio significato e venne ordinato di riattaccarle, ma sotto la corona. Subito lo scultore Cesare Archenti si munì di due fili di ferro e li attaccò alla corona con le due palline lasciandole penzolare nel vuoto. Dopo di che la corona venne posata sul capo di Rodolfo Paris tra i ripetuti brindisi e le ripetute generali acclamazioni.
La corona divenne poi l’emblema ufficiale del Ducato e ancora oggi campeggia sulla testata del “Giopì”, organo ufficiale del Ducato di Piazza Pontida” (2), “sodalizio di cultura, arte, folklore e tradizioni bergamasche”, come recita la denominazione ufficiale.

Una delle più antiche piazze di Bergamo bassa, Piazza Pontida, già Piazza della Legna: il cuore della Bergamo popolare, per tradizione luogo di antiche feste vernacolari. Lo scopo del Ducato era quello di tenere gli animi allegri e conservare il dialetto e le tradizioni bergamasche

Ma nella notte di San Silvestro del 1923, mentre si inaugurava a furor di popolo la Torre dei Caduti, chi proruppe nel grido acclamante che elevò il Paris ai fastigi ducali? Fu forse Alfredo Faino, autore dell’egregia statua della Vittoria che faceva bella mostra di sé sulla torre?

Egli, che più d’ogni altro fremeva per i continui rinvii della cerimonia d’inaugurazione, aveva dovuto farsi promotore della manifestazione spontanea di quella brigata di popolo, incontrando la solidale affettuosa adesione del Paris, che sicuramente conosceva sin dai primi anni del secolo.

Lo scultore Alfredo Faino in posa nel suo studio durante la realizzazione della imponente statua della Vittoria da collocare nella Torre dei Caduti (Archivio fotografico – Fondazione Bergamo nella Storia)

QUANDO LA MÈZA QUARÉSMA SI TENEVA IN PIAZZA PONTIDA

Rodolfo Paris fu fra i più attivi organizzatori di quella festa popolare che un tempo aveva nell’albero della cuccagna la sua principale attrazione e che negli anni goliardici della nascita del Ducato di Piazza Pontida culminò nella riesumazione dell’antica costumanza medioevale del rogo (o rasgamento) della “Vecchia”, in occasione della Mezza Quaresima.

La consuetudine del “rogo della vecchia” in Piazza Pontida era stata preceduta da quella del palo della cuccagna (qui immortalato nel 1936), di cui il Paris era stato tra i più attivi organizzatori. Ecco come “L’Eco di Bergamo” citava una delle prime feste del Ducato: “Ieri sera in piazza Pontida ci sono stati grandi festeggiamenti: trampolini, cuccagne, fuochi artificiali hanno valso a trarre nel popolare rione una folla così densa che dalle 20 alle 21 ogni circolazione è stata resa impossibile e i tram hanno dovuto interrompere il traffico” (Archivio storico-fotografico Domenico Lucchetti)

La “vecchia”, quel fantoccio che nell’antica tradizione popolare comune a mezza Italia e diffusa da Asti a Pordenone, raffigura la quaresima – e quindi il digiuno e l’astinenza -, venne caricata dal Paris, dal Faino e dagli altri adepti del nascente Ducato, di significati satirici e polemici, simboleggiando di volta in volta una “magagna” riguardante la vita cittadina: un fatto di costume, un personaggio, un ente, un’istituzione, un provvedimento o una norma da mettere in ridicolo o da togliere di mezzo.

Al calar della sera si brucia la “Vecchia”, o meglio il cartellone che la simboleggia: sotto le tristi sembianze della Vecchia megera, esposta al ludibrio del popolo, l’artificiere ducale brucia  le “grane” cittadine più resistenti, i problemi cronici, le istituzioni malridotte

Ol rasgamènt, ormai in uso da 95 anni, ha subìto nel tempo alterne fortune: sicuramente in uso nel marzo del 1869 (quando Antonio Tiraboschi scriveva: “A mezza Quaresima as rasga la ègia”), è stato con ogni probabilità reintrodotto nel primo dopoguerra dal Ducato di Piazza Pontida – con una interruzione dal 1940 al 1945 con la soppressione del Ducato -, per poi scomparire già a metà Novecento.

Avviso del 1952 invitante ai festeggiamenti di Piazza Pontida

Solitamente, l’argomento prescelto per l’ignominia del rogo riguarda la vita cittadina e il tema – deciso di anno in anno dal Duca di Piazza Pontida, fra quelli che gli vengono sottoposti dai dieci saggi del “Consiglio della Corona” -, viene opportunamente illustrato nel testamento della “Vecchia”, letto coram populo prima che il fuoco avvampi.

Spettacolo in Piazza Pontida

Come non bastasse l’onta delle fiamme, un’enorme sega viene mossa per tagliare in due la “Vecchia”, una figura enigmatica che in molte tradizioni agrarie è sostituita da un albero, trasparente riferimento fallico che rimanda alla simbologia della fertilità degli antichi riti pagani: un gruppo di contadini si muoveva di casale in casale inscenando l’abbattimento dell’albero, che veniva poi segato. Il tutto si concludeva con la simbolica resurrezione, fra danze e canti, che evocava la cacciata dell’inverno e la ripresa dei lavori agricoli. Ecco perchè si parla di “segare” la vecchia.

L’argomento prescelto per l’ignominia del rogo nel 1924 fu l’annona, la tessera annonaria qui rappresentata da “La Nona”, la vecchia segata e bruciata nel 1924 in Piazza Pontida. Tra le prime “vecchie” condotte al supplizio fra una turba di popolo curiosa e festante, vi fu anche la Pace di Versailles. I cartelloni raffiguranti quelle “vecchie” dai tratti fortemente caricaturali, furono approntati da Alfredo Faino

Oggi il rito del rasgamènt  si tiene di sabato in piazza Matteotti, ma un tempo si teneva di GIOVEDI’:

“La sera del giovedì di mezza Quaresima, per simboleggiare la fine della prima parte di questa, ma anche a scopo di satira su avvenimenti politici o d’interesse cittadino, in Piazza Pontida, per iniziativa e a spese degli esercenti del luogo e dei ‘vassalli’ del così detto ‘Ducato di Piazza Pontida’ (specie di società di individui amanti del ridere, mangiare e bere nonché della poesia dialettale), si allestisce uno spettacolo pirotecnico affatto gratuito, rallegrato da una banda musicale a cui assiste sempre una folla strabocchevole accorrente da ogni punto della città.
Un grande pupazzo rappresentante una vecchia, dopo essere stato portato attraverso le vie della città, viene innalzato, verso sera, sul fondo della piazza, tra un apparato di cartoni dipinti e di pali che reggono molteplici girandole più o meno grandi e più o meno complicate che si accendono successivamente, tra il fragoroso scoppio di altri fuochi d’artificio.

La sfilata dei Carri nel 1941

Alla fine, mentre dalla terrazza del palazzo retrostante trabocca un’abbagliante cascata al magnesio, una simbolica sega luminosa fa rovesciare all’indietro e scomparire tra le fiamme di un cratere, tra scoppi e fischi assordanti, la parte superiore del pupazzo.
Dopo di che la folla si disperde commentando allegramente, mentre si spengono le ultime luci e le ultime note della banda”.

La sfilata dei Carri nell’edizione del 1942

Il fantoccio della “Vecchia” veniva prima segato e poi messo al rogo attraverso uno scoppiettante e chiassoso spettacolo pirotecnico.

Oggi dell’antica usanza non ne resta che il dettato: il “segamento” è solo simbolico (per darne la sensazione il pupazzo è sostituito da un gigantesco cartellone che viene tagliato a metà da una metaforica sega luminosa).
..”nonostante di quando in quando spunti qualche moralista scrupoloso a deprecare tanto sfarzo di fuochi artificiali e tanta sana ilarità popolare, in nome dell’austerità (che gli scimmiottatori anglomani hanno stupidamente tramutato in austerity) e dei tempi calamitosi. «Guardiamoci da chi non sa ridere», diceva Giovanni Banfi”.

La sfilata dei Carri negli anni Cinquanta

Le stesse suggestioni di allora, rivivono in una poesia del primo Duca di Piazza Pontida, Rodolfo Paris (la traduzione nella didascalia seguente):

I giràndole, i fontane,
föch in aria, póm granàcc,
che i se dèrv e i furma grane
de brilàncc bèi facetàcc:
Vrach, zach, tach; pò öna grand lüs
de bengài che i góta arzènt,
che i ris-ciara, che i sberlüs,
e la zét che fà moimènt …
E intramèss a lüs e ciàs,
chèsta Ègia pitürada
la par quase dré a speciàs
per vèss bèla e cincinada,
ma ’n d’ü tràcc la s’ dèrv in dù
e del còrp ghe é fò i moscù.
Dopo chèst, dò o trè bombade,
pò ’n de l’ombra l’ turna töt …
Vià la zét per i contrade,
ol Piassàl l’è quiét, l’è öd:
gloria, onùr, föch e bordèl,
töt a l’ passa, ol bröt e ’l bèl

Piazza Pontida nel 1924: Il rogo della “Nona” avvenuto dopo il “segamento”. Le girandole, le fontane, / fuochi in aria, melegrane, / che si aprono e formano grani / di brillanti ben sfaccettati: / Vrach, zach, tach; poi una grande luce / di bengala che gocciolano argento, / che rischiarano, che risplendono, / e la gente che fa movimento … e così, fra luci e chiasso / questa vecchia dipinta, quasi che stia a specchiarsi / per essere bella e cincischiata, / ma in un tratto si apre in due / e dal corpo le escono i «mosconi» [fuochi d’artificio]. / Dopo questo, due o tre bombardate, / poi nell’ombra torna tutto… / via la gente per le contrade, / il piazzale è quieto e vuoto: / gloria, onore, fuochi e strepiti, / tutto passa, il brutto e il bello (Rodolfo Paris) – (Archivio storico-fotografico Domenico Lucchetti)
Esilarante fu il “segamento” del sole di Giovanni Paneroni, Superastronomo. La sua frase più ricorrente era: “La terra non gira o bestie!”.
Si fermava spesso fuori dai licei per bloccare gli studenti, intrattenendoli con le sue strambe teorie: “Dicono che l’aria ci sostiene. Ma bestiacce! È la salute che ci sostiene. Provate a tirare una rivoltellata nella testa a uno e vedrete se l’aria lo sostiene. Cadrà di certo per terra!”.

Giovanni Paneroni, Superastronomo (Archivio storico-fotografico D. Lucchetti)

Pubblicò persino un giornale con questa testata: “NUOVlSSlMA TREMENDA GEOGRAFIA DI PANERONl”: Copernico e Galileo sbagliarono – La terra è piana infinita ferma – il sole è largo 2 metri colla velocità di 2000 chilometri all’ora gli circola sopra e conservando sempre l’altezza di mille chilometri – Sembra a tutti che levi e tramonti – Questo grande divertente profondo studio costa soltanto lire “una” – Vale dei milioni”.

Venne “segato” sulla pubblica piazza senza pietà.

Il “segamento” di Paneroni in Piazza Pontida (Archivio storico-fotografico D. Lucchetti)

Ma il rogo da molti anni non si tiene più in Piazza Pontida.
A sera sotto i quattrocenteschi portici dei Gentiluomini, a Occidente, e quelli settecenteschi della Gallinazza, a Settentrione – edificati in sostituzione delle baracche di legno dei negozi trecenteschi -, si profilano le ombre delle colonne.

La vita non ferve più come un tempo nell’antica Piazza della Legna.

A notte fonda, quando si è placato il fragore del traffico urbano e la piazza è completamente deserta, potresti forse intravedere due figure evanescenti, Rodolfo Paris, infagottato nel vecchio tabarro, la larga tesa del cappello a fungo calata sulla fronte, e Alfredo Faino, in doppiopetto, la giannetta dal pomello eburneo stretta fra il braccio e il fianco, mentre si recano a salutare Pietro Ruggeri, solo e dimenticato sul piedistallo marmoreo all’angolo delle Ortolane.

 

Riferimenti
Umberto Zanetti, Bergamo d’una volta
Pilade Frattini, Renato Ravanelli, Il Novecento a Bergamo.

* Ringrazio Laura Ceruti per l’originale raffigurante i portici di Piazza Pontida.