Palazzo Terzi a Bergamo: la dimora barocca per eccellenza

Adagiata sullo sperone occidentale di Bergamo alta, la dimora barocca più bella di Bergamo fu eretta fra l’inizio del Sei e il Settecento da un ramo dei nobili Terzi – originaria della Val Cavallina -, senz’altro la più europea della nobiltà bergamasca, sia per l’antichità e i personaggi della sua storia sia per le alleanze che la congiungono alla più alta aristocrazia .

Giovanni Milgliara, Palazzo Terzi da via S. Giacomo (Racc. Gaffuri). Posto tra il Liceo Classico e via Donizetti, il Palazzo si integra, con mirabile sintonia, nel gioco di luci e ombre che caratterizza il versante meridionale della Bergamo antica

Una dimora importante per le pagine di storia che racchiude, per la nobiltà che rappresenta, per la struttura architettonica, per i materiali impiegati, per la notorietà degli artisti che hanno contribuito alla sua realizzazione e per la personalità dei padroni di casa che nei secoli hanno avuto non poca influenza nella vita cittadina.

Il Palazzo veniva un tempo scelto per accogliere re e principi in visita a Bergamo, sottolineando il rango che questo edificio rivestiva nella considerazione delle autorità pubbliche.
Ospitò, tra gli altri, molte famiglie illustri del Settecento e ben due imperatori austroungarici: all’inizio del 1816 Francesco I d’Austria, reduce da Milano dove si era recato nel dicembre precedente per essere incoronato Re. Volle fermarsi a Bergamo per visitare la città. Una ventina d’anni dopo, nel 1838, prese quartiere Ferdinando I con la moglie Anna Maria Carolina. Ma, come vedremo, non solo.

LA FAMIGLIA: UNA STORIA ILLUSTRE

In Val Cavallina i Terzi possedevano i castelli di Terzo, di Berzo, di Grone e di Monasterolo e sembrerebbe che ancor prima dell’anno Mille avessero dimora anche a Bergamo, dove presto divennero tra i reggitori del Comune.

Di appartenenza Ghibellina, la famiglia fu fedele al Sacro Romano Impero sino alla sua dissoluzione e la loro presenza in Val Cavallina, importante snodo fra Italia e Germania, garantì agli imperiali un passaggio sicuro, specie in seguito alla restaurazione del Sacro Romano Impero nel 962.

Al repentino consolidamento del potere dei Terzi corrispose tuttavia l’inizio di una lotta intestina tra i vari membri della famiglia, che a lungo andare si smembrò in due fazioni – gli “Allongi” da un lato e I “Loteri” dall’altro –, sino alla diaspora che li spinse non solo in altre città italiane (Brescia, Verona, Vicenza e Venezia, Gorizia, Fiume, Piacenza, Parma e Reggio, Bologna, Firenze, Iesi, Pesaro, Napoli) ma anche Oltralpe (Austria, Boemia e Ungheria).

La discordia terminò nel 1248 con la firma di un solenne trattato di pace che sancì le rispettive aree di influenza. In seguito, uno dei due gruppi acquistò terreni e case sul Colle Aureo, sul quale fu edificato l’attuale Palazzo.

Nonostante gli scontri che segnarono duramente la famiglia, i Terzi continuarono ad emergere in vari ambiti: dalle Prelature alle Armi, dalle Lettere alle Arti. Dal XII secolo molti membri si distinsero per meriti militari fino ad assumere il controllo di vari feudi; fra questi, Gherardo fu podestà di Cremona e Guido fu Vicario Imperiale e Capitano generale di Federico II.

Una delle personalità più illustri della famiglia fu Ottobono, che fu Condottiero di Gian Galeazzo Visconti, tenne la Signoria di Parma, Piacenza e Reggio acquisendo i titoli di Conte di Reggio e Marchese di Borgo S. Donnino, prima di essere assassinato a tradimento nel 1409.

Alcuni membri della famiglia Terzi seguirono invece la carriera ecclesiastica: Alberto e Adelongo furono canonici nel 1217, Alberto fu eletto Vescovo di Bergamo nel 1242, Giroldo divenne arciprete a Clusone nel 1272 e Giovanni partecipò al Concilio di Trento.

Giuseppe Terzi partì invece con Napoleone per la campagna di Russia e fondò l’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo.

IL PALAZZO

La costruzione del palazzo rientra a pieno titolo nel clima di affermazione sociale che caratterizza il Cinque e il Seicento, quando, sull’onda di una generale fortuna su scala europea delle casate nobiliari, l’aristocrazia locale si dotava di residenze degne dell’importante ruolo acquisito. Così fece un ramo dei Terzi, quando, a testimonianza del rango sociale raggiunto, si stabilì in città, luogo ideale dove intraprendere la realizzazione di un palazzo di rappresentanza.

Archivio Wells

Precedentemente la famiglia abitava vicino alla chiesa di S. Pancrazio, dove ancora vi sono delle case con affreschi di soggetto veneziano molto deteriorati dal tempo.

In realtà, l’aspetto esterno non è appariscente ed anche la collocazione urbanistica non è centrale: l’esiguità dello spazio edificabile, compreso fra il parco di Palazzo Recuperati e la sommità dello scosceso pendio meridionale del Colle, comportò la ricerca di soluzioni logistiche che richiesero quasi un secolo – fra acquisizioni, ampliamenti e modifiche – per conferire una forma compiuta al palazzo.

Il vicolo che conduce a Palazzo provenendo dall’antico Mercato del pesce

Nonostante la ristrettezza del sito i Terzi poterono così realizzare anche il bel giardino distribuito su vari livelli, ed ampliare lo spazio antistante l’ingresso del palazzo che,  costruito sopra un’area precedentemente demolita, riuscì a inserirsi nello spazio tra il parco di Palazzo Recuperati e, sul lato opposto, al limite del dirupo che definisce Città Alta.

Le preesistenti costruzioni rinascimentali sono infatti parzialmente inglobate negli ampliamenti sei settecenteschi e addirittura nei sotterranei del palazzo sono ancora visibili resti dei precedenti edifici medioevali, come è tipico negli edifici di Città Alta.

Il Palazzo prima dei recenti restauri

La prima fase della costruzione coincise con le nozze fra il marchese Luigi Terzi e la giovanissima Paola Roncalli (1631), quando furono eretti la facciata e l’ala meridionale.

Palazzo Terzi, 1910

La seconda fase, preceduta da una serie di acquisizioni immobiliari corrispondenti alla parte settentrionale dell’edificio, ebbe inizio un secolo dopo in occasione del matrimonio fra il marchese Gerolamo Terzi e Giulia Alessandri (1747), sorella del noto architetto Filippo, che intervenne sull’edificio ridisegnandone il prospetto a valle, rendendo simmetrici i due corpi di fabbrica nord e sud e valorizzando gli elementi tardorinascimentali inseriti nel Seicento.

Fronte settentrionale

L’esposizione a mezzogiorno e la posizione dominante sopra la pianura, consentì di proiettare la costruzione verso il grande spazio antistante utilizzando il fianco della collina per terrazze e giardini pensili. Anche la disposizione degli ambienti interni venne condizionata dalle grandi vedute verso il piano: una componente fondamentale dell’intera struttura.

Il Palazzo ripreso dalla Casa dell’Arciprete

Di sottile pregio ambientale, la minuscola piazzetta antistante l’ingresso – in origine un vicolo largo non più di quattro metri – fu ampliata dall’Alessandri, mediante l’asportazione di una porzione del terrapieno di proprietà del Conte Ricuperati, la cui area è tuttora distinguibile grazie ad un perimetro in pietra inserito nella pavimentazione.

La piazzetta antistante il Palazzo, in una foto d’epoca (Archivio Wells)

 

Dal cortile, si intravede la muraglia che delimita il terrapieno di proprietà del Conte Ricuperati, con al centro la nicchia che racchiude la statua allegorica dell’Architettura, eseguita da Giovanni Antonio Sanz

Per alleggerire la muraglia di contenimento di fronte all’ingresso è stata creata una nicchia a grotta che racchiude la statua allegorica dell’Architettura (eseguita, come altre opere plastiche all’esterno del palazzo, dal poliedrico Giovanni Antonio Sanz), sovrastata da due puttini che simboleggiano la Primavera e l’Estate, rimandando visivamente al prospetto settentrionale del palazzo, dove le statue dell’Autunno e dell’Inverno campeggiano sul balcone sostenuto dal bel portale.

Piazzetta Terzi con la nicchia a grotta che racchiude la statua allegorica dell’Architettura, sovrastata dallo stemma di famiglia e da due puttini che simboleggiano la Primavera e l’Estate,(Archivio Wells)

 

Una doppia fascia marcapiano che corre lungo tutta la facciata mette in evidenza il piano nobile, collegato al pianterreno dal portale d’ingresso ed ornato dal terrazzo sormontato dallo stemma e da due putti raffiguranti l’Autunno e l’Inverno, posti in posizione perfettamente simmetrica rispetto alle statue dell’Estate e della Primavera collocate in piazzetta

 

Dettaglio delle statue dell’Autunno e dell’Inverno sul balcone della facciata settentrionale del Palazzo

Per differenziare ulteriormente i vari piani l’Alessandri usò la decorazione delle finestre: semplici e prive di motivi ornamentali al pianterreno e all’ultimo; con timpani lineari al secondo; con timpani spezzati completi di statue rappresentanti imperatori romani al piano nobile.

Nel Palazzo permane l’ombra del giovane Stendhal (1783-1842), al secolo Marie Henry Beyle, che vi soggiornò in qualità di sottotenente di cavalleria dell’esercito napoleonico.

Nella finzione, un soldato napoleonico nella Sala degli specchi

Sulla facciata settentrionale, accanto al portale, una targa marmorea recita:

“Incantevole e superba bellezza” mirò Henry Beyle nei luoghi di questa città ov’ebbe dimora nei giorni pratili dal 2 maggio al 24 giugno 1801 il giovin Stendal gli amori di Zelinda e Lindoro qui volgendo nell’idioma natio con l’ardente cuore ch’ei volle dire italiano.

Oltre un secolo dopo, in una tiepida giornata di primavera Hermann Hesse (1887-1962) approdò casualmente nella piazzetta, dopo aver ammirato le meraviglie di Piazza Vecchia e dell’attigua Piazza Duomo.

La descrisse come “uno degli angoli più belli d’Italia, una delle molte piccole sorprese e gioie per le quali vale la pena di viaggiare”. Sbirciando attraverso il portone del palazzo scorse il cortile “con piante e una lanterna oltre il quale due grandi statue e un’elegante balaustra si stagliavano nitidi, in un’atmosfera trasognata, evocando, in quell’angolo stretto tra I muri, il presagio dell’infinita lontananza e vastità dell’aere sopra la pianura del Po”.

La vista sul cortile terrazzo affacciato sulla pianura continua ad estasiare gli avventori, filtrato dal porticato attribuito all’Alessandri, composto da sei colonne binate che creano tre archi paralleli, dove al centro spicca l’inconfondibile lanterna che illumina l’androne nelle ore serali.

Sul cortile-terrazzo che domina la pianura è aperto un atrio colonnato realizzato dall’Alessandri (Ph Mario Rota)

La terrazza, racchiusa tra le due ali del palazzo, termina con una splendida balaustra sormontata dalle due aeree sculture – realizzate da Sanz – della Pittura e della Scultura, che richiamano la statua dell’Architettura nella piazzetta chiudendo il cerchio simbolico-decorativo.

Le statue della Pittura e della Scultura nel cortile del Palazzo

La visuale è rivolta alla vasta e indefinita pianura e sul giardino del palazzo che digrada su via S. Giacomo accogliendo una bella fontana con Sauro.

Lo stupore suscitato dalla geniale soluzione dell’Alessandri, fa dimenticare l’asimmetria dell’androne rispetto al cortile ed anche quella delle finestre dei preesistenti ambienti sotterranei, non in asse con quelle del prospetto.

Scorcio sull’androne del Palazzo

 

Lo scalone, lungo il quale si trovano ancora i candelabri settecenteschi, è decorato da numerosi affreschi che ne allargano le dimensioni con grandi prospettive di palazzi classicheggianti collocati in campi ariosi, mentre la volta presenta un affresco con un allegoria mitologica dipinto da Vincenzo Orelli e dal figlio Giuseppe, quest’ultimo autore di un grande affresco collocato nell’ala opposta del palazzo, quella attualmente abitata dai proprietari, dedicato ad “Apollo e le sue Muse”. Altre decorazioni si trovano nelle camere sottostanti, così come la preziosità di alcuni arredi aumenta la suggestione dei locali.

Gli artisti di Palazzo Terzi

Il palazzo è la risultanza dell’ingegno e dell’abilità di una formidabile équipe di architetti e di artisti scelti, sensibili e attenti all’evoluzione del gusto architettonico e pittorico dell’epoca, e benché l’ala sinistra del palazzo, tuttora abitata, racchiuda affreschi suggestivi, gli ambienti più interessanti sono situati nell’ala destra, dove troviamo le ricche decorazioni realizzate tra il 1640 e il 1664 da Giovan Battista Tiepolo, Cristoforo Storer (un pittore di Costanza formatosi presso la bottega milanese di Ercole Procaccini il giovane, e che in seguito Luigi Terzi sostenne per i lavori presso la basilica di S. Maria Maggiore), il pittore comasco Gian Giacomo Barbelli (autore anche degli affreschi di Palazzo Moroni in città Alta), Carpoforo Tencalla (un artista piuttosto inconsueto a giudicare dai dipinti), il bergamasco Domenico Ghislandi (padre di Frà Galgario), che interviene negli ambienti di Palazzo Terzi all’indomani dell’impresa in Palazzo Moroni (dove egli tornerà a lavorare sui ponteggi con il suo primo maestro, il cremasco Gian Giacomo Barbelli) sfoderando un’audacia nuova e personale, come si evince in particolare nel Salone d’onore.

Il Salone d’onore

Al grande salone di ricevimento, situato nel corpo centrale del palazzo e disposto su due piani, si accede direttamente dal portico passando attraverso un piccolo locale, un tempo forse destinato a portineria o a vestibolo, il cui soffitto presenta alcune riquadrature in stile barocco.

Il visitatore viene accolto in uno degli ambienti di maggior pregio – contraddistinto naturalmente da un fastoso barocco – attorno al quale ruotano le altre sale.

Salone d’onore

Quasi sicuramente l’inizio delle decorazioni porta la data del 1640; esse vennero affidate a Gian Giacomo Barbelli, che libero da ogni direttiva architettonica lavorò affidandosi alla sua fantasia, avvalendosi del quadraturista Domenico Ghislandi per la curiosa impostazione scenografica della volta.

Dettaglio del soffitto del salone principale di Palazzo Terzi, opera di Gian Giacomo Barbelli e Domenico Ghislandi per le quadrature. Qui per la prima volta Ghislandi inventa una quadratura nella quale a mutare è l’idea stessa di spazio. Non più statico e ripiegato su se stesso entro i limiti fisici dell’architettura, ma uno spazio che attraverso le aperture illusioniste fa affiorare brani “del grande paesaggio” esterno, di un Creato vastissimo di cui si colgono alcuni passaggi, alcuni frammenti

Tra i curiosi pilastri rastremati a calice si aprono, negli angoli della volta, quattro finestre vere e quattro finte, alle quali si affacciano delle mezze figure a grandezza naturale, probabilmente personaggi della famiglia vissuti negli anni del restauro. Nell’ “Olimpo”, effigiato da Gian Giacomo Barbelli nella volta, le figure sono gettate en plain air con la stessa freschezza e lievità con cui poi le ritrae in azione nei quattro riquadri che lo incorniciano: “Minerva che con Marte guida le truppe”, “Orfeo che incanta gli animali”, “Giuseppe che guida le Furie” ed una “Flora con cornucopia”.

Alcune figure simboliche sedute, fiancheggiano ogni riquadro e due di queste sono riprese, in atteggiamento simile, dall’abile stuccatore che innalza fino all’impostazione della volta il maestoso camino, la cui realizzazione è probabilmente anteriore ai due quadri che lo affiancano.

 

Questi due dipinti, come gli altri che ornano le pareti del locale, sono stati eseguiti da Cristoforo Storer e raffigurano “Jefte vittorioso incontra la figlia” e “Ammone ucciso per comando di Assalonne”.

I soggetti degli altri dipinti sono: “Davide presenta a Saul la testa di Golia” e, sulla parete di fronte al camino, il grande “Convito di Assuero” che porta la firma e la data del 1657.

Sopra le porte vi sono altre tele eseguite probabilmente da Giovanni Cotta, un amico dello Storer.

L’ imponente camino di marmo, addossato alla parete maggiore, celebra la potenza e l’eccellenza della famiglia, come testimoniano i leoni laterali di sostegno e soprattutto lo stemma araldico collocato al centro del frontone curvilineo appoggiato alla cappa.

Dipinto dei Grande Salone di Palazzo Terzi

Quanto alla paternità dell’opera, attraversata da racemi a girale e da diversi motivi naturalistici, per la generosità del disegno e la carnosità delle forme presenta significative affinità stilistiche con le opere degli stuccatori luganesi Sala, attivi in quegli anni nei principali cantieri cittadini (seguiti anche dai Terzi, come quello della MIA).

La luce che irrompe dalle finestre aperte sulla pianura non fa che esaltare gli stucchi e le decorazioni.

(Ph D. Rizzo)

 

 

Dal Salone di ricevimento, una porta sulla sinistra conduce alla Sala da pranzo, anch’essa affrescata dal Barbelli, sempre con la collaborazione del Ghislandi per le riquadrature e gli effetti prospettici nei quali è inserita una balconata. L’affresco principale rappresenta l’origine della “Via Lattea”, mentre quattro graziosi puttini sul cornicione reggono i simboli di Giove.

Tornati nel Salone si passa nelle sale di destra: una sequenza mirabile di decorazioni, di ornamenti e di tappezzerie di rara eleganza e raffinatezza, dove si avvicendarono frescanti, stuccatori, indoratori ed ebanisti, offrendo prove di eccellenza nell’accostare materiali diversi.

I plafoni conservano gli affreschi del Seicento, mentre le pareti sono state rivestite nel secolo successivo di damasco, di soprarizzo e di specchi. I pavimenti, realizzati con legni policromi, sono stati disegnati dal Caniana. Le porte, gli infissi e le finestre sono decorate con intagli dorati. E’ una sequenza di motivi che sorprende e che si conclude nel Salottino degli Specchi, il primo locale che lo Storer decorò appena arrivato a Bergamo.

Salotto degli Specchi

Le singolarità di palazzo Terzi non finiscono qui. E’ tra queste pareti che si cela appunto il celebre salotto degli specchi, considerato da Mario Praz  “uno dei luoghi di specchi più incantati del mondo”.

Sala degli Specchi

La sala offre al visitatore i medaglioni secenteschi affrescati dallo Storer raffiguranti l’ “Astronomia misurante I segni dello zodiaco” al centro, i Quattro elementi ai lati e, tra l’uno e l’altro, sopra agli angoli delle pareti, quattro ovali presentano le “Quattro parti della Terra”.

 

 

Dettaglio

Nel primo Settecento, all’ambiente si aggiunse un elegante gioco di specchi, spiccatamente barocco, che riflettendosi l’un l’altro ne modificano le dimensioni rendendo l’illusione di una maggior ampiezza. Gli specchi coprirono però anche le quadrature originali di Domenico Ghislandi.

Gli arredi raffinati si accompagnano a preziosi decorazioni e tessuti damascati, e, ad esaltare il tutto, I preziosi pavimenti a tarsie policrome realizzate con legni rari su disegno del Caniana. La decorazione presenta una doppia fascia stellata che racchiude il rosone centrale e alcuni motivi a grata. Negli angoli fanno bella mostra corbeilles di fiori e nella strombatura della finestra una gabbia di uccellini. Non contento di questi disegni, che danno al pavimento in legno quasi la caratteristica di un tappeto, il Caniana ha voluto arricchire i riquadri dello zoccolo con gioco di putti dipinti in tonalità monocromatica su fondo dorato.

L’insieme, ovvero l’abbinamento degli affreschi dello Storer sul plafone, gli specchi con le decorazioni barocche in legno dorato e il pavimento finemente intarsiato, danno luogo ad un ambiente raffinato: un “salottino” raccolto ma al tempo stesso non oppressivo; colorato, ma senza che i disegni incombano e disturbino l’armonia degli accostamenti.

Ed è dovuto al successo di queste decorazioni che i Terzi commissionarono allo Storer gli affreschi della Sala Rossa ed il medaglione della camera da letto di rappresentanza.

Scorcio sulla camera da letto di rappresentanza

Procediamo nella visita passando alla Sala del Soprarizzo, così nominata per via della tappezzeria che ricopre le pareti.

Sala del Soprarizzo

La Sala del Soprarizzo in una splendida fotografia appartenente ad Archivio Wells

Tra il Salone e il Salottino si trova la “Del Soprarizzo”, così nominata per via del tipo di tappezzeria sulle pareti.

Sala del Soprarizzo

La volta di questo locale è decorata dal ticinese Carpoforo Tencalla. Il dipinto del plafone ha un’impostazione abbastanza insolita. Le figure non si trovano al centro dello spazio decorato, bensì in un angolo, raggruppate e avvolte da nuvole, mentre nella volta, che si presenta come illuminata di rosa dalle prime luci dell’alba, appare l’ “Aurora” nel suo splendore, come soggetto principale di tutta la composizione. Il fregio che raccorda l’affresco con le pareti è stato eseguito quando queste sono state rivestite in soprarizzo e lo si nota dalla fascia architettonica, diversa da quella del Salone. Predominano i colori rosa e grigio chiaro in diverse sfumature, mentre le ghirlande di fiori hanno tonalità più vivaci. Queste decorazioni sono attribuibili al ticinese Giuseppe Antonio Orelli.

Sul soffitto campeggia l’Aurora che scaccia il Sonno, un affresco in stile barocchetto del pittore ticinese Carpoforo Tencalla.

Anche qui, il pregevole pavimento settecentesco in legno intarsiato.

A partire dalla seconda metà del Ottocento il palazzo diventò la sede di riunioni e conversazioni che favorirono l’Indipendenza d’Italia durante il Risorgimento. Proprio in un’intercapedine di questa sala fu nascosta, al ritorno degli Austriaci, la bandiera Nazionale, protagonista delle Cinque giornate e della Caduta di Milano, a lungo cercata dagli austriaci ed oggi conservata presso il Museo Storico allestito in Rocca. La bandiera era stata consegnata nel 1862 all’allora Sindaco della città dalla marchesa Maria Terzi Caumont de la Force, vedova del marchese Luigi, amico e collaboratore di Gabriele Camozzi, con il quale fondò la Guardia Nazionale.

Il Carretto siciliano garibaldino, nel cortile di Casa Terzi

Sala Rossa

La Sala Rossa è così nominata per la tappezzeria di damasco rosso vermiglio.

Sala Rossa

Presenta nel soffitto affreschi eseguiti nel 1655-57 da Cristoforo Storer, coadiuvato dal Ghislandi per le splendide quadrature delle quattro scene allegoriche raffiguranti uomini possenti e donne sinuose. Al centro della volta si trova l’Olimpo.

Gli arredi risalgono invece al Settecento: le specchiere, la consolle dei Fantoni, porte stuccate. Vi sono inoltre pregevoli vasi Ming con montatura in bronzo.

Sala del Tiepolo

Una delle più note e conosciute del palazzo, contornata da dei preziosi stucchi dorati, la sala conserva al centro del soffitto un affresco attribuito al Tiepolo.

L’affresco del Tiepolo nella sala omonima

Salottino della Musica

In stile rococò invece si trova il Salottino della Musica, dalle pareti molto irregolari ma sapientemente mimetizzate dalle decorazioni realizzate dai fratelli ticinesi Camuzio.

La Sala della Musica con al centro un’opera realizzata in occasione di un allestimento

Oltre a queste di maggior pregio, vi sono altre stanze in stile veneziano, così di moda nel XVIII secolo. Tra queste una curiosa saletta adibita a giardino d’inverno, abbellita con carta da parati dipinta a mano dal conte Suardo.

Giardino d’Inverno

 

Una rara ripresa del Conte Suardo, a cavallo per le vie della città

Seguendo la moda neoclassica che si diffuse nella Bergamasca con il nome degli architetti Simone Elia, Pollack, Giacomo Bianconi ed altri, alcuni discendenti della famiglia Terzi pensarono di trasformare tutto l’edificio eliminando la sua impostazione barocca per conferirgli una caratteristica in stile impero. Fortunatamente ciò non avvenne.

Labirinti e maschere mortuarie a Palazzo Terzi

E’ noto che nel ventre di Città Alta si nasconda un dedalo di percorsi, che si snodano tra pareti rocciose, stalagmiti e stalattiti: un groviglio inquietante di cunicoli, gallerie, buchi, caverne. Ma nella Bergamo antica sono ancora molti i luoghi inesplorati. Basterebbe inoltrarsi nel sottosuolo di alcune dimore storiche, se i proprietari lo consentissero, per fare scoperte mozzafiato.

Nel sontuoso – e a quanto pare misterioso – Palazzo Terzi, sono stati rinvenuti curiosi e impressionanti reperti che lasciano presagire segreti rimasti ancora oggi inviolati: negli inaccessibili (al pubblico) sotterranei, che scendono come labirinti piranesiani nel cuore della città, giacciono presenze davvero inquietanti.

Non è facile addentrarsi in questi oscuri meandri. Ad un tratto nella penombra ecco apparire un vecchio armadio. La porta scricchiola. Un rumore sinistro, quasi monito a non violare il segreto, a non andare oltre. Ma la tentazione è fortissima e nessuno può fermarci: ai nostri occhi si presenta una “collezione” inconsueta: venti maschere mortuarie.

Pochi ne sono a conoscenza, ma quelle testimonianze, enigmatiche e angoscianti, sono calchi in gesso realizzati sui volti dei camerieri che prestarono servizio in quella residenza. Camerieri un po’ speciali, evidentemente, forse persone a cui la famiglia era particolarmente legata da vincoli di affetto.

Almeno questa sembra l’unica spiegazione plausibile, se alla servitù era concesso il “privilegio” di rimanere nei ricordi di sempre attraverso una bianca immagine gelosamente custodita nei sotterranei

Tra l’altro, un altro ambiente del palazzo – successivamente modificato – ancora più insolito e lugubre era la stanza interamente decorata a stucco nero, dove venivano esposti i morti di famiglia, in attesa delle esequie (2).

Note

(1) Attraverso un matrimonio Caumont-La Force, i Terzi sono collegati ai più grandi casati francesi: persino Honoré de Balzac (1799-1850) ricorda in uno scritto una ‘marquise de Terzi’. Assai interessante il matrimonio di un Nuse Terzi con la principessa Galitzine che venne a Bergamo accompagnata da un pope ortodosso come cappellano. Dai Galitzine si risale a parentele con le più importanti famiglie russe e con grandi scrittori come Aleksandr Serghiejevic Puskin (1799-1837) e Lev Nikolajevic Tolstoj (1828-1910).

(2) Emanuele Roncalli: “I misteri di Bergamo”, Burgo Editore, Bergamo, 1995

Fonti
-Palazzo Terzi, di Graziano Paolo Vavassori
-Ferrante, “Palazzi nobili di Bergamo”

Lo splendore barocco di Palazzo Moroni

Al n°12 di Via Porta Dipinta si apre il portale d’ingresso di Palazzo Moroni, che, con la sua facciata sobria e quasi severa, non lascia presagire le decorazioni degli ambienti interni, considerate una delle espressioni più significative dell’arte barocca in Bergamo.

Atrio di Palazzo Moroni stampa di dipinto, opera di Giovanni Migliara

Il palazzo è sorto intorno alla metà del Seicento per volontà di Francesco Moroni, nato nel 1606 nel cuore di Città Alta, dove mezzo secolo prima i Moroni si erano trasferiti da Albino, luogo d’origine di questa nobile famiglia, le cui memorie risalgono al XIV secolo.

I Moroni divennero una delle più prestigiose famiglie lombarde grazie alla vivace attività nel mondo dell’architettura civile e militare e dell’ingegneria, e si distinsero per le innate capacità tecniche ed intellettuali di alcuni loro illustri rappresentanti.

A partire dal 1600 il nome dei Moroni si legò soprattutto alla coltivazione del gelso – indispensabile per la formazione dei bozzoli dei bachi da seta – e al conseguente ruolo di primo piano assunto nella fornitura di materia prima per il ramo tessile.

Questa pianta appartiene alla storia della famiglia anche per un’altra curiosa ragione: il gelso infatti è chiamato in latino morus e in bergamasco murù, parole che ricordano per il loro suono il nome della famiglia. Per questo motivo la pianta di gelso compare sullo stemma Moroni già nel Quattrocento; ad essa si aggiunse nel 1783 l’aquila imperiale, che rappresenta il titolo di conte e cavaliere conferito ad Antonio Moroni dal Duca di Sassonia Weimar (1).

Lo stemma dei Moroni

Le fortune di Francesco, il matrimonio con Lucrezia Roncalli da Chignolo nel 1631 e i numerosi figli che ne seguirono, lo indussero alla costruzione del Palazzo sul terreno di “Porta Penta”, l’attuale Porta Dipinta, vendutogli dalla famiglia dei conti Pesenti, poi estinta.

Nelle sale del Palazzo ritroviamo il ritratto di Antonio Moroni (1764-1802), ciambellano, conte e cavaliere del Duca Carlo Augusto di Sassonia-Weimer. Si deve  alla volontà di quest’ultimo il conferimento del titolo nobiliare alla famiglia Moroni

La Fabbrica di Porta Penta

I lavori della grandiosa “fabbrica di Porta Penta”, durati dal 1636 al 1666, furono eseguiti da Battista della Giovanna, un impresario bravo ma non particolarmente illustre, che probabilmente non si curò di stilare o conservare un vero e proprio progetto poiché la struttura del Palazzo non prevedeva particolari soluzioni architettoniche: di fatto l’edificio, disegnato non per essere guardato dall’esterno, si distingue soprattutto per la fantasia e la professionalità degli artisti che lo hanno internamente abbellito nel corso del tempo.

Al momento della sua costruzione infatti, la vista sulla città bassa era ostacolata dal dirimpettaio Palazzo Marenzi, acquistato dai Moroni nel 1878 per poi essere demolito, creando l’ampia panoramica sulla pianura.

La vista dal Palazzo

Per questo motivo il portale d’ingresso è in posizione asimmetrica rispetto alla facciata, che unita alla dimensione non eccessiva del Palazzo – insolita per le abitudini del tempo – e alla sobrietà dell’impostazione, non anticipa la monumentalità e la ricchezza decorativa degli spazi interni.

Palazzo Moroni, via Porta Dipinta

L’ingresso a Palazzo rivela comunque splendidi scorci e innumerevoli suggestioni, culminanti nella prospettiva progettata da Lorenzo Redi, che trova il suo punto di fuga nella nicchia a grotta in cui troneggia una statua di Nettuno, posta al centro di una massiccia parete in bugnato.

La prospettiva progettata da Lorenzo Redi con la statua di Nettuno sullo sfondo

 

La statua di Nettuno nel cortile di Palazzo Moroni

La massicciata è coronata da una balaustra in pietra, ornata da anfore, che delimita il primo terrazzo dei giardini, di impianto seicentesco, aperto sul parco come un autentico polmone verde che si allunga sino ai piedi del Colle di Sant’Eufemia.

La balconata sormontata da suggestive anfore in pietra

Sotto la volta dell’androne, fino alla prima meta dell’Ottocento vi era dipinta una bilancia con due piatti in perfetto equilibrio; su uno di essi v’era una costruzione e sull’altro un mucchio di denari ed  accanto un’iscrizione : “Aequa lance librandum” (“si deve agire con i piatti della bilancia in equilibrio”), come a dire che non si deve costruire una casa se non si ha denaro a sufficienza per terminarla: una massima che sottolinea l’operosità e la saggezza della famiglia Moroni.

L’ingresso a Palazzo

Il disegno può essere considerato anche la premessa a ciò che si trova nello Scalone d’Onore – cui si accede a destra dell’androne d’ingresso -, dove il meraviglioso mondo affrescato dal fecondo pittore cremasco Gian Giacomo Barbelli (1604-1656) appare con le sue imprevedibili soluzioni spaziali che formano sulle pareti e sui soffitti visioni lontane di ampio respiro. 

Lo scenografico scalone a due rampe introduce a un mondo sorprendente, densamente decorato, fitto di prospettive e balaustre, squarci di cielo aperti nei soffitti, statue ed ornamenti che ne dilatano gli spazi in ogni direzione. Pareti e plafoni sono popolati di figure esuberanti di vita con scene di richiamo letterario, simboli retorici e statue

Il programma iconografico di questo ambiente, reso spazioso dalle decorazioni, è un’evidente celebrazione delle virtù dei Moroni. Sulle pareti, nove figure allegoriche rappresentano le qualità di questa famiglia, degna di essere ricordata nei secoli: l’Antichità, la Nobiltà, la Santità, il Valore, la Fortuna, la Ricchezza, la Dignità, l’Onore e la Sapienza: tutte inserite in riquadri dipinti da Giovan Battista Azzola.

Scalone d’Onore

Disposte dalla prima alla seconda rampa di scale, fra fregi, pilastri e scorci di architettura dorica, le nove statue bronzate presentano sul basamento il motto che le contraddistingue.

Il meraviglioso soffitto e il fregio ospitano invece i principali episodi della Favola di Amore e Psiche, narrata da Apuleio nelle Metamorfosi. Un’affascinante storia d’amore, ma anche di riscatto: come Psiche riesce ad ottenere dopo una serie di prove l’immortalità, così i Moroni celebrano la propria ascesa sociale, raggiunta con fatica grazie alle numerose abilità e alla forte determinazione.

L’affresco del soffitto dello Scalone d’Onore, affrescato dal Barbelli, è diviso in tre parti: in una viene illustrato l’innamoramento di Venere e Cupido; in un’altra Venere ordina la morte di Psiche e nell’ultima Cupido lancia a Psiche gli strali dell’Amore

 

Veduta sullo Scalone d’Onore

 

Tra lo Scalone d’Onore e le Sale della Gerusalemme Liberata merita una sosta il piano di mezzo, con alle pareti e al soffitto i capolavori affrescati da Gian Giacomo Barbelli

Il Mezzanino

Lo Scalone conduce al mezzanino, quindi al piano nobile.
Delicatamente affrescato alla fine del Settecento da Paolo Vincenzo Bonomini, il mezzanino è, nonostante la sua funzione di servizio, un ambiente di grande eleganza, testimonianza del gusto e dell’amore per il bello della famiglia Moroni. Particolarmente raffinato è un piccolo ambiente voltato a botte e interamente affrescato, sulle cui pareti è raffigurata un’illusionistica balconata, decorata da putti e vasi di fiori, affacciata su un verdeggiante paesaggio. Un vero capolavoro di finzione prospettica, che dona allo spazio luminosità e atmosfera.

La sala da pranzo affrescata da Vincenzo Bonomini al piano ammezzato; il locale si collega tramite un corridoio alle cucine

 

Affresco di Vincenzo Bonomini nel piano ammezzato di Palazzo Moroni

 

Dettaglio

Le grandi Sale del piano nobile

Il piano nobile del Palazzo può essere suddiviso in due settori, da un lato le maestose sale di rappresentanza e, dall’altro, quello più intimo e privato: un insieme luminoso e scevro da pesantezza, grazie alla levità dei delicati stucchi veneziani sulle pareti e al seminato veneziano per la pavimentazione, introdotti nel XIX secolo per adattare gli ambienti alla moda del tempo.

Insieme agli affreschi che decorano la splendida teoria delle sale del piano nobile, si ammirano gli arredi e le preziose collezioni d’arte acquisite nei secoli dalla famiglia Moroni, tuttora proprietaria del palazzo. Degna di nota è la quadreria costituita da un nucleo significativo di dipinti del Rinascimento lombardo, tra cui spiccano tre ritratti di Giovan Battista Moroni (1523-1578): il Cavaliere in rosa, celebre capolavoro dell’artista, il raffinato Ritratto di Isotta Brembati e il Ritratto di donna anziana seduta, opera più matura di grande intensità. A questo primo nucleo appartengono inoltre una Maddalena penitente del Giampietrino, allievo e seguace di Leonardo da Vinci, e un Ritratto di famiglia del bergamasco Andrea Previtali.

Dettaglio dell’opera di Andrea Previtali conservata presso la collezione Moroni, Si evincono le influenze della pittura di Lorenzo Lotto, la cui fiducia e stima nei confronti di Previtali sono testimoniate anche dall’incarico che gli conferì, vista la sua assenza da Bergamo a partire dal 1525, di soprintendere alla profilatura dei suoi disegni per le tarsie del coro di S. Maria Maggiore nella Città Alta

La presenza dei ritratti a figura intera eseguiti dal Moroni non confonda però il lettore: il pittore non è direttamente imparentato con la famiglia ma appartiene alla discendenza dei Sereni (detti “Mori”), di cui capostipite fu Moro Moroni.

G. B. Moroni, “Il Cavaliere in rosa” e il  “Ritratto di Isotta Brembati” (1552-53 c.), nella Sala d’Ercole. Il celeberrimo Cavaliere in rosa è il ritratto in piedi di Gian Gerolamo Grumelli, esponente della potente famiglia schierata con la Spagna, allora ventiquattrenne, cavaliere dello Speron d’Oro e laureato in legge a Padova. Un sontuoso dipinto, dalla finissima fattura del prezioso costume spagnolesco tutto in rosso lacca vibrante di lumeggiature. Qualità pittoriche che esaltano seta e dettagli tattili, dalle scarpette alle calze alte fino al ginocchio, alle pieghe delle brache imbottite su cui Moroni ha saputo “ricamare” decorazioni quasi in filigrana, al farsetto, al leggero colletto bianco. L’impostazione della figura, con la mano sull’elsa della spada, riprende schemi del Tiziano in ritratti della corte di Spagna. Per alcuni è un anticipo del Velázquez” (Goffredo Silvestri, La RepubblicaArte.it)

Più consistente è la sezione ottocentesca, costituita principalmente da paesaggi, molti dei quali opera di Pietro Ronzoni, ma anche da bellissimi ritratti di Cesare Tallone e Giuseppe Sogni. Non mancano infine testimonianze della pittura barocca, come i paesaggi di Pietro Roncelli o le stravaganti bambocciate di Enrico Albricci.

Dipinto di Cesare Tallone nella Sala Gialla

Eccezionali sono le due console settecentesche della Sala da ballo, i cui piani sono costituiti da mosaici provenienti da Villa Adriana a Tivoli; particolarmente interessanti sono inoltre i mobili provenienti dalle botteghe illustri dei Caniana, dei Fantoni e del milanese Giuseppe Maggiolini.

Molto ricca è la collezione di ceramiche, che raccoglie oggetti realizzati da alcune tra le principali manifatture europee attive tra Sette e Ottocento, tra cui Meissen, Wedgwood, Sèvres e Capodimonte, e opere provenienti dal lontano Oriente, unico custode per secoli del segreto della porcellana.

Scultura di bambina che legge, della Scuola del Canova, nella Sala Gialla (Ph Lucia Rota Nodari)

Gli affreschi del Barbelli nelle grandi Sale del piano nobile

I suggestivi ambienti costituiti dalle grandi Sale di Palazzo Moroni conservano un meraviglioso ciclo di affreschi ispirato alle Metamorfosi di Ovidio, realizzato dal 1649 al 1654 da Gian Giacomo Barbelli, qui coadiuvato dai quadraturisti Giovan Battista Azzola e, nella Sala della Caduta dei Giganti, da Domenico Ghislandi, padre del celebre fra’ Galgario.

Dalla Sala dell’Età dell’Oro, custode dei capolavori della quadreria, si accede all’illusionistica Sala della Caduta dei Giganti e alla curiosa Sala dell’Apoteosi di Ercole, in un susseguirsi di meraviglie, ricche prospettive e squarci di cielo nel soffitto.

Gli antichi miti, tanto cari ai pittori del Seicento, lasciano il posto nella grande Sala da Ballo alle gesta degli eroi della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso.

Suggeriti dal committente Francesco Moroni, i soggetti degli affreschi, sia nelle grandi Sale del piano nobile così come nell’ambiente dello Scalone, ebbero come ispiratore ed interprete il contemporaneo padre Donato Calvi, priore del vicino convento di Sant’Agostino. Preziosa testimonianza del programma iconografico della dimora è un libretto, scritto e pubblicato dall’erudito nel 1655, intitolato Le Misteriose Pitture di Palazzo Moroni, nel quale sono descritte e spiegate con precisione e dovizia di dettagli le decorazioni degli ambienti di rappresentanza (2).

§§§

Nella Sala dell’Apoteosi di Ercole, l’eroe mitologico è su una quadriga dorata; con una mano impugna una clava e nell’altra le redini dei destrieri al galoppo. Gli fanno da contorno sulle nubi Giove, Giunone, Mercurio e Pan.

L’Apoteosi di Ercole, nella sala omonima

 

Sala dell’Apoteosi di Ercole

 

Sala dell’Apoteosi di Ercole

Nella Sala dell’Età dell’Oro (o Sala delle Stagioni), si nota subito l’imponenza di Saturno circondato da putti al centro del plafone, mentre nelle aperture della quadratura, sotto forma di personaggi femminili seduti su basamenti, quattro illustrazioni simboleggiano l’Allegrezza, la Semplicità, l’Abbondanza e la Pace, doti suggerite dai committenti. Sotto di essi vi sono le relative storie, mentre per le pareti, l’Azzola ha usato la medesima tecnica mostrata al Palazzo Terzi, con colori ricorrenti nelle varie rappresentazioni che abbiano un nesso logico.

Nella Sala dell’Età dell’Oro (o delle Stagioni), Il Trionfo dell’Età dell’Oro, fantastica opera di Gian Giacomo Barbelli e dal quadraturista Giovan Battista Azzola. Saturno il dio del tempo e dell’agricoltura si ritrova circondato dalle rappresentazioni della pace, allegrezza e semplicità

Nella Sala della Caduta dei Giganti, decorata dal Barbelli con quadrature di Domenico Ghislandi, ciò che colpisce di più il visitatore è l’immagine dei Colossi che, fulminati da Giove, cadono verso il suolo con gli stessi macigni che si erano portati come armi. Il disegno plastico dei grandi corpi che cadono e l’insieme della composizione regalano un effetto suggestivo, tanto da accentuare l’azione di gravità terrestre e dare l’impressione di un autentico precipitare.

“Il Trionfo di Giove sui Ciclopi” si trova nel soffitto della Sala dei Giganti del Palazzo. Capolavoro seicentesco del pittore cremasco Gian Giacomo Barbelli

Il Salone, dedicato a Torquato Tasso e alla sua “Gerusalemme liberata” è il più ricco di decorazioni. Il soffitto, affrescato in modo da conferire all’ambiente l’illusione di una maggior altezza, raffigura l’atto in cui il Padre Eterno comanda all’Arcangelo Gabriele di informare Goffredo della missione che dovrà compiere in Terra Santa; e quello in cui l’Arcangelo informa Goffredo e un gruppo di angioletti che circonda l’Onnipotente, il quale appare fiducioso di quanto le truppe cristiane si apprestano a compiere.

Il Salone dedicato alla “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso

Il plafone è solo l’inizio di un “racconto”, che continua sulle pareti secondo una stretta concatenazione di eventi-rappresentazioni.

Il Salone dedicato alla “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso

 

Il Salone dedicato alla “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso

 

Il Salone dedicato alla “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso

 

Il Salone dedicato alla “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso. Completano questa magnifica stanza quattro stemmi celebrativi posti agli angoli, dove è raffigurata la pianta del gelso nelle varie fasi dalla crescita: la più importante fonte di ricchezza per la famiglia Moroni

Donato Calvi ha perfettamente eseguito il proprio progetto iconografico, esteso anche ad altre figure allegoriche che commentano la sequenza di disegni. Come le otto statue bronzate dipinte lungo i lati del salone. Quattro sono figure di donna e rappresentano la Fede, la Bravura, la Fatica e la Vittoria. Le altre hanno un aspetto virile e sono dedicate al Consiglio, allo Zelo, al Disprezzo ed al Giubilo.

“Magnanima menzogna, or quando è il vero sì bello, che si possa a te preporre?” (T. Tasso, ‘Gerusalemme Liberata’). Dettaglio di affresco seicentesco del pittore Gian Giacomo Barbelli nella Sala della Gerusalemme Liberata del piano nobile di Palazzo Moroni di  Bergamo

 

Dettaglio di affresco seicentesco del pittore Gian Giacomo Barbelli nella Sala della Gerusalemme Liberata del piano nobile di Palazzo Moroni di  Bergamo

 

Dettaglio di affresco seicentesco del pittore Gian Giacomo Barbelli nella Sala della Gerusalemme Liberata del piano nobile di Palazzo Moroni di  Bergamo

Ai contemporanei può sembrare troppo “pieno” un simile ambiente, ma  colmare le pareti equivaleva a mostrare tutta la propria ricchezza e nobiltà ed anche la simbologia delle immagini rappresentava un ottimo mezzo per raggiungere tale scopo.

Il settore privato del Palazzo: le sale ottocentesche

Nelle sale ottocentesche, che costituivano la residenza privata della famiglia, affreschi dai colori delicati riproducono sapientemente bassorilievi con la tecnica del trompe l’oeil, mentre colori sgargianti e soggetti fantasiosi ricostruiscono mondi classici o l’illusione di paesaggi esotici, come nella Sala Turca o nel Salottino Cinese.

Sala Rosa

Fatti decorare dal conte Antonio Moroni intorno al 1835, questi ambienti – la parte più abitata del palazzo – mantengono l’impronta del passato conservando gli accostamenti e le scelte originarie: negli arredi scelti con gusto, nei preziosi dipinti, nelle tappezzerie, nei soprammobili di autentico antiquariato, nelle specchiere antiche, nei lampadari, nei tappeti, negli ornamenti floreali. Ne risulta un susseguirsi di immagini suggestive e raffinate, sempre allineate ad un’efficace impostazione cromatica.

Sala Rosa

Di queste numerose stanze, restano più di altre impresse le Sale Gialla, Turca e Cinese, dove l’elemento determinante diviene l’arredo e lo stile particolare che le contraddistingue.

La Sala Gialla ha il soffitto a volta decorato con festoni dorati, medaglioni e riquadri con figure policrome di donna rappresentanti il teatro, la musica, la pittura e le arti in genere. Al centro del plafone, figure di fauni e di donne su fondo turchese, che richiama il colore dei riquadri posti all’altezza della cornice perimetrale. Vi è poi una fascia intermedia in chiaroscuro decorata con figure e scene di vario genere.

Sala Gialla, nel piano nobile di Palazzo Moroni

 

Nella Sala Gialla del piano nobile di Palazzo Moroni, posto tra due preziosi vasi Cinesi del ‘700 si ammiria un interessante dipinto ottocentesco del pittore paesaggista tedesco Julius Lange, espressione del naturalismo romantico. Il dipinto fu acquistato dalla famiglia Moroni presso l’Accademia di Brera

 

Sala Gialla

 

Scorcio della Sala Gialla, uno dei luoghi più suggestivi e ricchi di opere d’arte di Palazzo Moroni

Nella piccola ma esemplare Sala Cinese, i medaglioni del plafone sono raccordati da riquadri irregolari che attenuano l’andamento curvo del soffitto; prevalgono i colori celeste e rosso cupo che supportano la decorazione di un paesaggio dipinto con un insolito effetto avvolgente nella parte alta delle pareti. Ai mobili francesi laccati si aggiunge un camino marmoreo su cui spicca una specchiera di rara eleganza. Una seconda saletta ha il plafone decorato sui toni dell’azzurro e del verde intenso con riquadri decorati con ornamenti di fantasia la cui leggerezza attribuisce slancio ed ariosità alle esigue dimensioni del locale. La tappezzeria rosa mette in risalto la preziosità degli arredi.

Sala Cinese

 

Sala Cinese

 

Sala Cinese

Più semplice, dal punto di vista cromatico, la camera da letto con plafone a volta affrescato da una serie di motivi a chiaroscuro ripetuti nella fascia perimetrale sottostante, che si alterna alla tappezzeria damascata grigio-perla. Il letto è sovrastato da un baldacchino drappeggiato.

Palazzo Moroni, le stanze private: la camera da letto

La stanza da bagno, a stucco lucido, conserva invece una vasca in marmo costituita da un unico blocco, la cui realizzazione risale ai primi dell’Ottocento.

Ciliegina sulla torta è la balconata che scorre esternamente lungo il lato verso corte e conduce agli inattesi Giardini, che costituiscono il parco privato più grande di Bergamo alta, un autentico polmone verde nel cuore della città murata, dove i terrazzamenti arrivano a lambire i muraglioni della Rocca.

I Giardini all’Italiana

Sono composti da quattro generose terrazze di impianto seicentesco – impostate lungo la forte pendenza del colle di Sant’Eufemia -, e da un’area vasta, detta “ortaglia”, in parte terrazzata, frutto di annessioni ottocentesche e destinata a colture produttive.

Protetto sul lato verso la corte interna da una balaustra in pietra decorata con vasi scolpiti, il primo terrazzamento è caratterizzato da un parterre formale tipico dei Giardini all’Italiana.

Proseguendo oltre il parterre, un vano passante precede la scalinata racchiusa tra due mura di contenimento che conduce al secondo livello, con scorci sul paesaggio circostante. Qui si possono osservare un grande esemplare di biancospino, sulla destra, collezioni di iris e rose a destra e sinistra.

 

In asse con il primo terrazzamento, un’elegante scalinata adornata alla sommità da statue di putti e vasi scolpiti collega il secondo e il terzo terrazzamento. A destra e sinistra della scalinata si trovano due bordi misti di erbacee perenni.

Il terzo terrazzamento è dominato da un grande esemplare di olmo ed è caratterizzato dalla presenza di sei tassi, potati in forma, e da una collezione di piante acquatiche autoctone.

Sulla sinistra, dei gradini irregolari in pietra conducono all’ultimo livello dei giardini sino alla torretta di San Benedetto, eretta dai veneziani alla metà del Quattrocento e definita: “il pensatoio del Conte” confinante con le proprietà della Rocca.

La torretta di San Benedetto, un tempo utilizzata dai conti Moroni come sala di lettura

Il Parco

A monte del sistema dei terrazzamenti si apre la vasta area del parco, che confina ad ovest con il complesso monumentale della Rocca e che è tuttora caratterizzato da esemplari arborei produttivi come i gelsi, simbolo della famiglia Moroni, i ciliegi e i fichi. Questo luogo è attualmente dedicato a progetti di nuove piantumazioni e ad eventi stagionali con grande affluenza di pubblico.

Veduta del parco, sullo sfondo la Rocca di Bergamo Alta. Negli ultimi anni sono state sviluppate, con progetti localizzati, iniziative volte ad incrementare le collezioni botaniche e a offrire maggiore visibilità ai giardini formali e all’”ortaglia” di Palazzo Moroni: in particolare dal 2015 l’adesione al Chelsea Fringe Festival, nel 2016 con “Sopra e sotto Nettuno”, nel 2017 con “Tracciamento” in collaborazione con L’Orto botanico di Bergamo e la rete degli Orti botanici della Lombardia

Ed infine una curiosità: al pianterreno di Palazzo Moroni sono conservati alcuni affreschi “strappati” dalle pareti del demolito Palazzo Olmo. Tra questi la bellissima Madonna con Bambino e Santi, opera quattrocentesca di artista ignoto.

 

Note

(1) La storia del casato Moroni risale al 1334 e al suo capostipite Sereno Moroni. Un primo ramo si distaccò nel 1390 con Peccino Moroni, un secondo ramo, nato nel 1419 con Marco, diede origine all’attuale dinastia. Dal 1500 al 1850, i Moroni si distinsero per le loro innate capacità tecniche ed intellettuali, espresse tra gli altri dall’architetto Francesco, dall’umanista e storico Antonio, dall’umanista e scienziato Pietro, nonché gli ingegneri Andrea e Bertolasio. Quest’ultimo completò il campanile di S. Maria Maggiore, fu l’autore di un ponte sull’Adda e, su incarico del Senato veneziano, di un ponte sull’Adige.

(2) Cfr. Il testo edito a Bergamo nel 1655: “Le Misteriose pitture di Palazzo Moroni spiegate dall’Ansioso Accademico Donato Calvi Vice Principe dell’Accademia degli Eccitati all’Illustrissimo Sig. Francesco Moroni”.

La Casa di Arlecchino sulla Via Mercatorum: mille e un motivo per visitare Oneta

Reportage fotografico di Maurizio Scalvini

DALLA VIA MERCATORUM ALLA CASA DI ARLECCHINO 

Percorrendo la provinciale della Valle Brembana e superato il paese di San Giovanni Bianco,  la strada che si immette in Val Taleggio si dirige verso un grumo di vecchi edifici dove – si dice – sia la casa di Arlecchino, la celebre maschera della Commedia dell’Arte naturalizzata bergamasca (o meglio, brembana).

Adagiato ai piedi del monte Concervo, il borgo di Oneta si staglia a baluardo della Via Mercatorum sul percorso che conduce a Cornello dei Tasso. Sopra, la frazioncina di Brembella e a sinistra di Oneta, sulla  collinetta boscosa è il campanile della chiesa di Sentino

Vi si arriva in automobile, prendendo una breve deviazione dal sesto tornante della strada che sale a Pianca.

Oneta (indicata in basso a destra) e il suo circondario, adagiato ai piedi dei Monti Concervo e Venturosa (disegno di Stefano Torriani). Imboccata la strada per la Val Taleggio, dopo poche centinaia di metri si svolta a destra per Oneta

Oppure, la si raggiunge a piedi o in bicicletta immettendosi nella pista ciclopedonale della Valle Brembana,  a nord di San Giovanni Bianco, finchè dopo un centinaio di metri non si incontra  un pannello indicativo.

Percorrendo la ciclovia della Valle Brembana, superata la galleria e il centro abitato di San Giovanni Bianco, sulla sinistra si imbocca la Via Mercatorum (segnalata)

Con un sovrappasso, si scavalca la ciclabile per immettersi sull’importante svincolo della storica Via Mercatorum, sul percorso che da Oneta condurrà a Cornello dei Tasso.

Il piccolo borgo di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco, collocato lungo un importante svincolo della Via Mercatorum, che da Oneta conduce al borgo di Cornello dei Tasso, importante sede di mercato e sosta nel medioevo

Raggiunta la piazzetta centrale del  minuscolo borgo di Oneta, ecco quella che dall’Ottocento è detta “Casa di Arlecchino”, una solida dimora signorile in pietra a vista, alla quale si accede mediante una suggestiva gradinata.

La Casa di Arlecchino a Oneta in un disegno di Luigi Angelini (1916)

La dimora si staglia a baluardo dell’antica Via Mercatorum, che le corre a fianco.

La “Casa di Arlecchino” a Oneta (di proprietà del Comune di San Giovanni Bianco), nel Palazzo che fu dei nobili Grataroli, si staglia a baluardo dell’antica Via Mercatorum, una vera e propria mulattiera, visibile a destra dell’immagine

Il palazzo, di origine medioevale, aveva probabilmente una funzione di difesa del borgo collocato lungo la Via Mercatorum, una mulattiera lastricata che durante il medioevo collegava Bergamo alla Valtellina salendo dalla bassa Valle Seriana ed immettendosi nella Valle Brembana percorrendo le poco agevoli Vie Alte, prima che alla fine del Cinquecento la Serenissima  realizzasse sul fondovalle il più comodo tracciato della “Priula”, che collegava direttamente il capoluogo alla Valtellina attraverso il passo S. Marco.

La Via Mercatorum, strada d’accesso per Oneta, lungo la quale transitavano e facevano tappa i mercanti che da Bergamo e dalla pianura risalivano le valli, diretti verso i Grigioni e il nord-Europa. Ogni giorno vi transitavano anche contadini, artieri, funzionari, persone di ogni grado e ceto sociale, ed è possibile che siano passate di qui  anche le tante compagnie di attori della Commedia dell’Arte, nel loro viaggio verso i teatri delle corti francesi

La posizione strategica, la struttura delle pareti esterne e la pianta dell’edificio, lasciano intendere che originariamente fosse una casa fortificata; tanto che sulla parete destra del salone interno è ancora visibile una fessura verticale,  testimoniante la presenza di una torre di avvistamento affacciata sullo storica via di transito.

La “Casa di Arlecchino”, la casa “veneta” della Valle Brembana, appartenuta al casato dei Grataroli, che vantava grandi ricchezze acquisite a Venezia, di cui portarono anche il gusto architettonico ravvisabile nei bei portali a tutto sesto, nelle finestre archiacute in pietra lavorata e nell’arco trilobato che addolciscono la facciata principale, dettagli che han fatto del palazzo l’unico esempio di architettura veneta in Valle Brembana

Le origini del Palazzo signorile invece risalgono Quattrocento, quando fu  ristrutturato e ampliato per essere terminato nel Seicento con l’aggiunta della cucina. I proprietari del palazzo erano i membri della nobile famiglia Grataroli, una potente casata locale il cui cognome è storicamente diffuso in Valle Brembana e in Valtellina.

I GRATAROLI

Già nel XIV secolo i Grataroli occupavano posti di rilievo a S. Giovanni Bianco (1) e alternandosi con i Boselli, altro nobile casato sangiovannese, non lasciarono scoperte neppure le cariche religiose. Con i vicini Tasso del Cornello (quelli che daranno veste d’impresa ai servizi postali in Italia ed in Europa), convengevano poi reciproche intese di nozze e scambio di beni dotali.

Di pari passo anche le mire espansionistiche dei Grataroli andarono ben oltre gli ambiti della valle e già alla fine del Quattrocento la loro residenza a Bergamo non era più solo occasionale (soprattutto se consideriamo che già nel 1286 in città risiedeva un Ottobonus de Gratarolis de Honeta): li ritroviamo in via Pignolo (nel cui borgo si stanziano anche i Tasso), strada d’accesso alla città alta, colonizzata nel Cinquecento da borghesi che si erano arricchiti principalmente grazie al commercio dei panni di lana e delle sete, in prevalenza nuovi ricchi sollevati dalle attività mercantili e nobili residenti entro le mura, che non trovavano spazi per edificare nuovi edifici con giardino.

Bergamo era la prima piazza dove mettere a profitto le loro risorse, e pur non disdegnando l’esercizio della mercatura che li aveva resi fiorenti, furono medici, giuristi, avvocati e notai.

Palazzo Grataroli, in via Pignolo a Bergamo, fatta costruire nel 1515 dal medico Pellegrino Grataroli, originario di San Giovanni Bianco (morto di peste nel 1528), padre del medico Guglielmo, nato nel 1516, autore nel 1561 della prima guida che affrontò il tema del viaggio proponendo ai viaggiatori un corretto stile di vita che, se osservato, doveva essere utile a prevenire malattie ed incidenti. Sospettato dall’Inquisizione per i suoi viaggi, le frequentazioni, i manoscritti di alchimia e di scienze naturali che andava raccogliendo, dovette abbandonare la città e trasferirsi a Basilea, dove viene nominato decano della facoltà di medicina, dove mantiene stretti legami con Calvino e dove muore nel 1568. Il palazzo è la fusione di due distinti edifici di cui il primo, salendo da Città Bassa e indicato al civico 72; alla progettazione del palazzo dovette intervenire l’architetto Isabello. Il salone fu la sede del Circolo artistico, fondato dai Grataroli e frequentato da personaggi illustri

Ovviamente l’ambizione dei Grataroli di Oneta non poteva ignorare Venezia – che allora era ai vertici del panorama culturale ed economico europeo -, dove li ritroviamo dal Quattrocento ascritti al patriziato locale e dove ressero per ben due volte il segretariato dogale (2).

Considerate queste vicende, possiamo perciò immaginare quanto lo status sociale dei Grataroli presupponesse la presenza a Venezia di ben più di un servo condotto a loro seguito, la cui storia si intreccia strettamente con l’esodo dei bergamaschi in laguna.

Ormai lontani dal paese natio, i Grataroli avevano nobilitato il palazzo, dove probabilmente tornavano per la villeggiatura, quasi ad ostentare concretamente il potere acquisito.

Oneta, palazzo Grataroli. Finestra con arco trilobato nella facciata principale, di chiara impronta veneziana

 

Oneta, palazzo Grataroli. Finestra archiacuta in pietra lavorata, sormontata dall’affresco di un Angelo

LA CAMERA PICTA

I Grataroli fecero decorare la casa con pregevoli affreschi, visibili ancor oggi entrando nel grande salone: la “Camera Picta”. Gli affreschi, anonimi e databili alla seconda metà del XV secolo, testimoniano l’ascesa della famiglia attraverso l’intercessione dei santi guaritori legati alla devozione popolare e con la rappresentazione di un torneo cavalleresco dove i Grataroli, che si distinguono per la presenza di una gratarola (una grattugia) disegnata sul loro scudo, sconfiggono i nemici dimostrando il loro potere alle famiglie nobiliari della Valle, raffigurate negli stemmi che contornano la scena.

La Camera Picta di Casa Grataroli è dunque un esempio unico in Val Brembana per la vivace dialettica sacro-profana che enfatizza l’autorità dei padroni di casa.

La Camera Picta di palazzo Grataroli. Gli affreschi della Camera Picta nella Casa di Arlecchino, tutti risalenti al tardo Quattrocento, vennero rimossi attorno al 1939 dal parroco di S. Giovanni Bianco, Don Davide Brighenti, che provvide a farli restaurare. Dal 2002, a seguito del restauro della casa, gli affreschi sono ritornati in sede a ricomporre il fascino originario che li consacrò più di cinque secoli fa

Lasciandosi guidare dall’ordine che si snoda in senso orario appena oltre l’ingresso principale, il ciclo compositivo si apre con il più autorevole affresco tra quelli religiosi: Cristo sul sepolcro tra Maria e Giovanni.

A sinistra il Cristo sul sepolcro tra Maria e Giovanni; a destra, il Martirio di San Simonino, precedentemente depositato presso il Museo Diocesano di Bergamo. In onore di San Giovanni Evangelista si chiamavano Giovanni, Gioan, Zan, molti giovani del posto, in omaggio ai santi patroni delle rispettive parrocchie d’appartenenza: quegli stessi costretti ad emigrare a Venezia a causa delle scarse risorse della valle. Il nome di Giovanni è associato a particolari funzioni apotropaiche o a chiari indici semantici; la Chiesa cattolica, sovrapponendosi ai riti pagani, lo calendarizza in prossimità dei due solstizi

 

Cristo sul sepolcro tra Maria e Giovanni; il Martirio di San Simonino

Nella rappresentazione del torneo cavalleresco, i Grataroli sconfiggono i nemici dimostrando il loro potere ai maggiori casati della Valle (dai Boselli ai Tasso e dai Torriani ai Rota..), raffigurati nei medaglioni dei fregi decorativi che contornano la scena nella cornice superiore delle pareti. Non è azzardato supporre che in questa camera si celebrasse l’assise del potere locale, che vedeva appunto al vertice i Grataroli.

Il torneo cavalleresco (“Giostra in campo aperto”) mostra un preciso riferimento riguardo i proprietari dell’edificio nella “gratarola” (grattugia) raffigurata sulla bardatura del cavallo che sorregge il cavaliere vincitore. L’affresco è particolarmente significativo per la non comune estensione (quasi cinque metri) nonchè per il realismo e l’immediatezza dei gesti e delle figure colte nel vivo della zuffa cavalleresca

 

La “gratarola” affrescata sulla bardatura del cavallo che sorregge il cavaliere vincitore

 

Giostra in campo aperto

 

Gli armigeri: a sinistra il Guerriero di Casa Grataroli con la gratarola affrescata sullo scudo. A destra un anonimo Guerriero con elmo, che indossa una schermatura meno coriacea, con gli schinieri che tratteggiano esili incroci di losanghe su cui, a posteriori, un Arlecchino avrebbe potuto idealmente sovrapporre la trama del suo costume. Al suo fianco, uno sbiadito galletto gli dà le spalle, vigilando col piglio di chi debba scendere in campo da un momento all’altro per difendere il motto sapienzale affrescato sopra la finestra: “lo galo non canta senza rason ma li homeni….senza rasna”, volendo probabilmente scoraggiare ogni irragionevole intemperanza e con ciò richiamando il personaggio di Arlecchino

 

Il pannello illustrativo dei due armigeri

 

Con il suo canto il gallo scandiva non solo il succedersi dei giorni ma anche i termini per chi volesse redimersi da false contraddizioni: un sigillo un po’ criptato della  personalità di Arlecchino? Anche Callot, per dare vivacità ai balli degli Zanni ripropose nelle sue incisioni gli inchini, gli assalti e le ardite ritrosie di goliardici galli in baruffa. Inoltre, già in epoca romana era sua l’esclusiva rappresentanza di quelle terre d’oltralpe che ad Arlecchino non dispiacevano per essergli state più volte prodighe di lauti guadagni

 

I santi taumaturghi: San Sebastiano e Sant’Antonio abate, rispettivamente protettori contro le pestilenze e l’herpes zoster. L’immagine isolata del leone “addomesticato” potrebbe simboleggiare il grado di inserimento dei Grataroli nelle strutture della Serenissima. I due Santi (insieme a S. Rocco), venivano invocati anche dalla comunità dei Bergamaschi immigrati a Venezia

 

Il pannello illustrativo di San Sebastiano e Sant’Antonio abate

Nella Camera Picta i Grataroli provano a loro modo a bilanciare diverse ed opposte tendenze, soppesando istanze di ragion pratica con usanze pagane e credenze religiose.

E come in una scena teatrale è sacra l’idea di autorappresentarsi per quello che si è e si vorrebbe essere, senza sfuggire a quello che la storia e gli altri diranno di noi.

SOTTILI LEGAMI TRA I GRATAROLI E GLI ZANNI

Ma tra i Grataroli che approdarono a Venezia, alcuni si dedicarono anche ad attività più comuni, come quell’Angelo Grataroli, che con la moglie Balsarina Tassis gestiva all’inizio del Cinquecento l’osteria “alla Campana” in Rialto, uno straordinario crogiolo di eccentrche diversità, la cui gestione fu bergamasca per più di un tentennio costituendo un punto di ritrovo per gli immigrati bergamaschi: lo apprendiamo da Marin Sanudo, il famoso cronista veneto che ne era proprietario (sua figlia Bianca aveva sposato Angelo Gratarol, forse nipote dell’ostessa Balsarina). Teniamolo bene a mente.

BERGAMASCHI A VENEZIA

Fra Quattro e Cinquecento molti abitanti delle varie città del dominio veneto di terraferma si trasferirono nella ricca Venezia, dove godevano dello stato di cittadini de intus, che permetteva loro di commerciare, di aprire bottega, di esercitare le professioni liberali e di avere accesso alle Arti: erano in prevalenza bergamaschi, che a Venezia formavano una comunità molto numerosa, i componenti dell’Arte della seta e quelli dell’Arte della lana, e molti garzoni bergamaschi erano iscritti in particolare alle Arti “vittuarie”, cioè legate al cibo).

Appena sopra la contrada di Oneta, il leone di San Marco apposto sul porticato laterale della chiesa di Sentino (frazione di San Giovanni Bianco), suggella il prestigio raggiunto a Venezia dalla famiglia Benzoni, particolarmente attiva nella Compagnia dei Corrieri Veneti e nel fiorente commercio della seta. L’epigrafe (1476) fu dettata da Pietro Benzoni, un fornaio titolare di un’arca funeraria nella chiesa di S. Paolo a Venezia e ricco benefattore della comunità d’origine, a dimostrazione che l’iniziativa imprenditoriale non mancava a nessuno

Del loro lavoro la città non poteva fare a meno, tanto più che avevano messo a frutto l’atavica solidarietà montanara, costituendo in laguna efficienti compagnie di lavoro e di mutua assistenza che contribuivano a garantire ai committenti risultati sicuri e soddisfacenti. Si trattava dunque di una comunità coesa ed ben organizzata, attaccata alle proprie radici e alla propria identità.

SERVITORI E FACCHINI

Dalle valli bergamasche arrivavano anche numerosi servitori e facchini addetti al trasporto di merci pesanti (tra questi i brentatori che trasportano vino) e, dal XV secolo in poi, erano tutti e solo bergamaschi gli scaricatori (bastagi) che gestivano il movimento delle merci alla Dogana di mare.

I bastagi, una quarantina alla fine del Quattrocento, sotto la supervisione di officiali nominati dai Savi della mercanzia gestivano tutte le operazioni che si svolgevano in quell’area: scaricavano le merci dalle navi, le pesavano, controllavano i colli e calcolavano l’ammontare dei dazi dovuti.

Ben retribuiti, essi godevano della fiducia delle autorità e da queste ottenevano che l’ingresso nel loro consorzio fosse riservato solo a parenti e compaesani.

Facchino da “Degli habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo” di Cesare Vecellio (1521-1601(, stampato a Venezia nel 1589 presso Damian Zenero

DA FACCHINO A ZANNI

Come nasce Zanni, la trasposizione teatrale del facchino bergamasco inurbato a Venezia?

I numerosi valligiani brembani che si inurbavano un po’ da sprovveduti nella raffinata e opulenta Venezia erano abbastanza goffi e non c’è da stupirsi che fossero presi in giro.

Le caratteristiche che li accomunavano, entrarono a far parte della nascente letteratura popolare della laguna, dando pretesto ai motivi caricaturali ripresi nei canovacci della Commedia dell’Arte, con la tipica figura del servitore bergamasco tuttofare – rozza, sguaiata, tonta e dalla parlata rude, aspra e cadenzata – che si afferma sulla scena nel Cinquecento.

Come attori sembravano favoriti perché sapevano condire di briosità tanto i ritmi di lavoro quanto le pause di ristoro e le feste rituali ed inoltre la versatilità pressoché insostituibile del loro linguaggio ben si prestava alla comicità.

Nasce così il tipo comico dello Zanni, versione veneta del nome Gianni, vezzeggiato in Zani, molto diffuso tra i contadini del lombardo-veneto da dove venivano la maggior parte dei servitori dei nobili e dei ricchi mercanti veneziani.

Locandina nella Casa di Arlecchino a Oneta di San Giovanni Bianco. Nel Cinquecento si afferma sulla scena teatrale il tipo comico del servo bergamasco ridicolo e buffone, con il suo dialetto ostico e la sua parlata ricca di doppi sensi. Afflitto da fame insaziabile lo Zanni è campione del bere e del mangiare, impersona i bisogni fisiologici, gli appetiti sessuali, contrapposto alla vecchiaia del Magnifico, ricco e gretto mercante di cui è servitore. E chi è Zani, se non il tipico contadino brembano, costretto dalla miseria e dalle carestie ad emigrare nella città lagunare (di cui Bergamo è suddita dal 1428), in cerca di lavoro e di fortuna?

 L’OSTERIA “ALLA CAMPANA” IN RIALTO, DI ANGELO GRATAROLI DI ONETA

Marin Sanudo ci fa sapere che nell’Osteria “alla Campana” in Rialto, gestita dal brembano Grataroli con la moglie Balsarina Tassis (poi rimasta vedova), si davano convegno le Compagnie della Calza, formate da giovani patrizi che organizzavano feste, spettacoli di piazza e cerimonie ufficiali della Serenissima, dove i facchini bergamaschi che lavorano a Venezia trasportano e facevano muovere i cavalli di legno, gli animali fantastici, gli apparati scenici, partecipado, a volte, alla messa in scena con balli e canti.

Ed è forse questa loro attività che li lega alla maschera, perchè in quelle occasioni si promuovevano anche recite di commedie alla villanesca e alla bergamasca (poi divenute un vero e proprio genere teatrale, non più patrimonio esclusivo dei bergamaschi), con attori che si facevano apprezzare nell’interpretazione buffonesca dei facchini bergamaschi, al centro della satira popolare (3).

Punto di ritrovo per la comunità dei bergamaschi erano le osterie gestite dai compaesani, come quella all’insegna della Campana, a Rialto (dove i mercanti bergamaschi e veneziani acquistavano le merci pregiate provenienti da tutto il Mediterraneo), condotta per molti anni dalla vedova di Angelo Grataroli. Un’incisione di Giovanni Ambrogio Brambilla (1583) ritrae una “generosa” Balsarina, intenta a dirigere la cucina per il pasto de Zan Trippù (nel suo abito da facchino brembano) quando prese moglie. Il gioco scenico mette a fuoco quella perspicace  femminile che più tardi suggerirà a Goldoni la fortunata trama de “La Locandiera” dove un’ostessa di polso tiene le strette redini del comando dopo che Goldoni ha nobilitato la figura della donna nel teatro

Troviamo quindi un’altra connessione, questa volta reale e concreta, tra i Grataroli e Zanni, il padre putativo di Arlecchino, personaggio dal quale Tristano Martinelli attinge largamente nella Francia del Cinquecento, dove dà forma alla celebre maschera.

DA ZANNI AD ARLECCHINO

Zanni in Francia assume un nuovo nome e si arricchisce nella personalità attraverso la maschera di Arlecchino, che tuttavia ne mantiene i caratteri e le radici.

Harlequin. Incisione francese sec. XVII, nella Casa di Arlecchino a Oneta di San Giovanni Bianco. Come osservato qui, la maschera di Arlecchino è nata dal mantovano Tristano Martinelli che ha operato una sorta di “fusione” tra la maschera dell’Hellequin francese (prendendo il nome a prestito da saghe leggendarie) e quella dello Zanni bergamasco

E se Arlecchino se ne va per conto suo in giro per l’Europa, a Venezia conserva il codice genetico, che prevede l’uso del Bergamasco, “in parte per la rustica assonanza con le origini del tipo e in parte per l’effetto comico di chi s’arrabattava a districarne i suoni con l’ausilio di una vivace mimica espressiva” (4).

La prima stanza del museo, dedicata alla maschera di Arlecchino, a Oneta di San Giovanni Bianco. Non possiamo negare intraprendenza, la tenacia e l’affiatamento solidale dei Bergamaschi, che sognano di poter restare per sempre a Venezia…senza però dover lavorare: non è questa la molla, l’intuizione scenica che farà la fortuna di Arlecchino in tutto il mondo?

Del resto, quando Martinelli approda in Francia, il personaggio di Zanni era già stato ampiamente sdoganato da attori come Alberto Naselli (Ferrara 1543-1585), uno dei primi capocomici della Commedia dell’Arte, di molta fortuna e vasta notorietà, che incontriamo per la prima volta come Zan Ganassa (un’intrigante declinazione di Zanni, scaturita dalla volontà di “dare spasso” e far smascellare – sganassare – dalle risa) nella primavera del 1568 alla corte del duca di Mantova, divenendo famoso presso le corti di Francia e Spagna dove Naselli sfruttò abilmente le caratteristiche emergenti dello zanni bergamasco, che aveva dalla sua il fascino della novità, cui si aprivano varchi altrimenti inaccessibili.

Affermato mediatore tra gli umori di piazza e le raffinatezze di corte, Zan Ganassa danzava alla bergamasca e parlava il “bergamasco internazionale” degli Zanni i servitori bergamaschi che allora affollavano la città lagunare, di cui esisteva una florida letteratura, riecheggiante l’eloquio brembano, a partire dallo spassoso lamento di Alberto Ganassa sopra la morte di un pidocchio, “di lingua bergamasca ridotta nella italiana toscana”, raccolto da Cesare Rao nelle sue “argute e facete lettere” (Brescia, 1584).

Il Museo della Casa di Arlecchino conserva una selezione di maschere dei personaggi della Commedia dell’Arte. Restaurata tra la fine degli anni ’80 e ’90, la casa è stata oggetto di un’accurata operazione di recupero storico-museale che avvalora la tradizione brembana della maschera. Attualmente è gestita dalla cooperativa OTER-OrobieTourism

Sia lo Zanni del ferrarese Alberto Naselli e sia l’Arlecchino creato dall’attore mantovano Tristano Martinelli appartengono al mondo degli “Zani”, diventando famose in tutta Europa.

Del resto lo stesso Goldoni, esaltando l’utilizzo del dialetto e fissando i caratteri delle maschere principali, induce Arlecchino e Brighella ad adottare definitivamente la lingua ufficiale della capitale della Repubblica: il dialetto veneziano, scrivendo: “Le Pantalon a toujours été Vénitien, le Docteur a toujours été Bolonnois, le Brighella et Arlequin ont toujours été Bergamasques”: l’assenza di documenti che possano comprovare la validità del rapporto tra Bergamo e Arlecchino non può quindi invalidare il perdurare di una tradizione indiscussa e consolidata, avvalorata persino dall’autorità di Goldoni (5).

I MALINTESI RIGUARDO ALBERTO NASELLI IN ARTE ZAN GANASSA…CON SORPRESA

Una radicata tradizione, riferita nell’Ottocento da Ignazio Cantù (non si sa bene sulla scorta di quale fonte), vuole che nella casa di Oneta sia vissuto per qualche tempo il ferrarese Naselli/Zan Ganassa, a lungo creduto erroneamente l’ideatore della maschera di Arlecchino nonchè nativo di Bergamo (e c’è chi lo crede tuttora se dobbiamo dar conto persino di una tesi di laurea, recentemente consultata dalla scrivente), dando luogo all’ipotesi secondo la quale egli sarebbe vissuto nel palazzo di Oneta.

Il termine “ganassa” del resto – afferma Eliseo Locatelli – è così bergamasco da aver tratto a lungo in inganno molti studiosi e critici che lo hanno ritenuto il vero cognome di Zanni, anche perchè nei paesi di Valle Brembana c’era davvero chi rispondeva all’appellativo anagrafico di Ganassa (6).

La vicenda che legherebbe Naselli ad Oneta però riguarda la sua definitiva uscita di scena seguita alla brillante permanenza in Spagna, che Naselli abbandona senza un motivo apparente nel 1584 – all’età di 42 anni – per tornarsene ricco e famoso in Italia, dove se ne perdono immediatamente le tracce.

Una voce lo vorrebbe rifugiato in terra bergamasca nella patria degli Zanni, sotto la protezione di qualche signorotto locale che ne avrebbe custodito l’anonimato: un’ipotesi che non escluderebbe la candidatura della casa di Oneta, nei pressi della quale – udite, udite – tra le insenature dei boschi sovrastanti si trova la località di Nasèi, il cui toponimo potrebbe appunto tradire la sopravvenuta agnazione (legame di parentela in linea maschile, tra i discendenti maschi dello stesso padre) dei Naselli.

Un caso, una coincidenza?

Resta il fatto che i ricercatori non sono riusciti a trovare a Ferrara nessun atto di morte o di successione che lo riguardasse (7).

Carica di queste memorie e di queste considerazioni, la Casa di Arlecchino, pur non potendo rivendicare la naturalità anagrafica della maschera bergamasca, si pone a crocevia di un lungo processo di sedimentazione dei presupposti ambientali e culturali che ne animarono il personaggio, rendendolo protagonista nei teatri di piazza e di corte.

L’UOMO SELVATICO NELLA CASA DI ONETA: UNA NON CASUALE MATRICE ANTROPOLOGICA

Sopra le scale d’ingresso del palazzo, nella sua collocazione originaria attira la nostra attenzione la curiosa figura affrescata di un uomo rude e vestito di pelli che brandisce un bastone, minacciando di prendere a randellate eventuali malintenzionati.

Si tratta probabilmente dell’opera di un buon pittore locale della fine del Cinquecento (quindi coeva o leggermente posteriore rispetto agli affreschi della Camera Picta), il cui originale è oggi custodito all’interno del palazzo, nella cucina.

L’affresco dell’Uomo Selvatico, posto all’ingresso del palazzo. La funzione attribuitagli era quella di sorvegliare, proteggere e difendere i padroni di casa

Gli studiosi lo fanno risalire all’Homo Selvadego, un mito di retaggio celtico, le cui radici sono riconducibili alla preistoria indoeuropea; una figura ancestrale diffusa in entrambi i versanti delle comunità alpine (compresa la montagna bergamasca), la cui immagine veniva talvolta raffigurata all’interno o all’esterno delle case, a scopo apotropaico o intimidatorio (anche Bartolomeo Colleoni aveva il suo “selvatico” presso il castello a Malpaga).

Il Selvatico raffigurato ad Oneta (un esempio unico nella Bergamasca),  potrebbe anche tramandarci le sembianze di un proprietario della casa, fattosi raffigurare con i tratti del selvatico per simboleggiare il suo attaccamento alla cultura alpina.

L’espressione del volto lascia trapelare una forte intensità di sguardo. Capelli e barba sono irsuti e rossicci ed anche il corpo è avvolto da un manto villoso. In basso si intravede un paesaggio rurale, mentre in alto, l’intenso blu del cielo è attraversato da bande di nuvole corrugate, quasi a voler disegnare inquietanti visioni oniriche e a dare conferma dell’ammonizione dell’homo selvadego scritta in un cartiglio nella parte superiore della rappresentazione: “Chi no è de chortesia, non intrighi in casa mia. Se ge venes un poltron, ghe darò del mio baston”.

Ad Oneta il Selvatico sembra pretendere l’osservanza della “chortesia”, una vera e propria adesione alle regole ferree di quel torneo “cortese” che sancì la supremazia dei padroni di casa. Secondo l’uso del tempo, non era poi un’idea inconsueta e strana quella che il Selvatico, come custode dell’autorità dei Grataroli, presiedesse ad eventi augurali e a cerimonie di consacrazione del potere dinastico

Essendo il palazzo situato lungo la trafficata Via Mercatorum, era opportuno che i viandanti fossero ammoniti a non bussare alla porta senza una valida ragione: quale migliore immagine di quella dell’uomo selvatico per tenere lontani gl’importuni e i seccatori? E chi meglio di lui, che aveva confidenza con la magia, poteva salvaguardare la casa dagl’influssi maligni? (8).

La Via Mercatorum dalla Camera Picta, con il portico d’ingresso della chiesa

 

L’affresco originale dell’Homo Selvadego, conservato nella cucina della Casa di Arlecchino

 

Particolare dell’Uomo Selvatico nella Casa di Arlecchino a Oneta.

Nella Bergamasca, dove è chiamata òm di bosch, la figura dell’Homo Selvadego è testimoniata da centinaia di leggende raccolte in tempi diversi a Cirano di Gandino, a Cà San Marco, a Santa Brigida, a Gromo, a Selvino e in Val Taleggio.

L’uomo selvatico è una metafora della natura, della vegetazione che nasce e che muore, degli animali che vanno in letargo e si risvegliano. La sua presenza è da ricondurre nelle grotte e negli anfratti inaccessibili, in luoghi isolati di montagna come il bosco. Parlava in rima ed amava i proverbi e conosceva i segreti della natura: era un esperto pastore e un maestro dell’arte casearia (quella che più di altre permetteva di sopravvivere nei territori più aspri ed isolati); era depositario di conoscenze antiche per la conservazione dei cibi e delle carni, il ricorso alle erbe medicinali, l’apicoltura, il taglio dei boschi, la produzione delle carbonaie, l’estrazione dei minerali e la forgiatura dei metalli.

Nelle rappresentazioni più antiche, il Selvatico è spesso raffigurato anche con corna di animali: i mandriani che frequentavano i pascoli di Mezzoldo, di Cà San Marco e della Val Gerola, narravano la leggenda del Gigiàt, l’uomo dei boschi, in un tempo in cui vi era pacifica convivenza fra il selvatico e il civile. Il passo che separa la Val Brembana dalla Valtellina è tuttora detto Pass de l’Umì (9)

Fu associato a una figura terribile a cui ricondurre le paure, ma fu anche simbolo dell’armonia uomo-natura collocandosi tra l’umano, il selvaggio e il divino. L’Homo Selvadego può essere ricondotto ad alcuni archetipi come il dio Pan, uomo-capro divinità dei pastori e delle greggi; i Satiri, esseri mitologici dalle gambe caprine, coperti di pelo e abitatori dei boschi; il dio Silvano, dio dei boschi, delle campagna e degli armenti; Ercole, eroe dalla grande forza considerato custode e difensore di case e città.

Con l’affermarsi del cristianesimo le divinità della natura furono rilette alla luce delle nuove esigenze culturali e pedagogiche. Alcuni soggetti religiosi furono associati agli ambienti silvestri e nella mentalità popolare mantennero i caratteri dell’Homo Selvadego, creando una confusa sovrapposizione di poteri e ruoli.

Basti pensare alle figure degli eremiti come Sant’ Antonio abate o Sant’ Onofrio spesso rappresentati coperti di pelle di animali oppure irsuti, che ben si adattavano ad essere confusi con l’Homo Selvadego per il tipo di vita che conducevano.

A Santa Brigida esiste un’altra raffigurazione del Selvatico, datato 1478, che veste i panni di S. Onofrio provato da 70 anni di vita nel deserto, opera dei Baschenis di Averara. Quindi anche da noi, attraverso la pittura si è diffusa la simbologia dell’Uomo Selvatico nel delicato equilibrio che corre tra fede e paganesimo, tra scienza e credenze, tra mito e storia

Di nuovo a firma dei Baschenis l’Uomo Selvatico è presente a Sacco di Cosio Valtellino, in Val Gerola, dove non esita a presentarsi: “Ego sonto un homo salvadego per natura chi me offende ge fo pagura”, e tutto intorno sparge massime di saggezza popolare come quella che ad Oneta caratterizza il canto del gallo.

Egli appare accanto al tema devozionale della Pietà, che vede  raffigurati San Giovanni Evangelista e Sant’Antonio abate nella classica iconografia di rustico eremita che verrà ripetuta anche a Oneta.

Già nel 1464 Batestinus e Simon Baschenis avevano firmato a Sacco, all’imbocco della Val Gerola la camera picta di Casa Vaninetti dove accanto  compare la figura del Selvatico

Anche altri santi furono associati all’Homo Selvadego, come San Cristoforo, santo diffuso e venerato nelle vallate alpine, abitante dei boschi, generalmente dipinto sulle facciate delle chiese a protezione dei viaggiatori, come ad Oneta, dove lo vediamo raffigurato sul porticato della chiesa del Carmine, fatta costruire intorno al 1473 dalla famiglia Grataroli: un omone grande e grosso che guada i fiumi con Gesù Bambino sulle spalle, posto a protezione dei viandanti della Via Mercatorum.

Ad Oneta il Selvatico assume così i toni rassicuranti del Santo, a sostegno dei vivi che dovevano affrontare viaggi lunghi e pericolosi.

L’affresco di San Cristoforo sulla parete della chiesa di Oneta

Del mito dell’uomo selvatico in Bergamasca, chiamato pagano perché verosimilmente legato ad antichi culti precristiani, cogliamo solo qualche debole frammento sopravvissuto a un occultamento, ad una cancellazione avvenuta molto tempo fa e ferocemente perseguita dall’uomo civile, che l’ha demonizzato espropriandolo giorno dopo giorno del suo territorio.

Ed è proprio in questo vasto processo di emarginazione che si è ravvisato un rapporto tra il Sevatico e la figura dell’ Arlecchino delle origini – caratterizzato da una goffa e istintiva animalità – entrambi ridicolizzati e irrisi per i loro aspetti grotteschi: le strane foglie che tappezzano l’abito del primo Arlecchino (quello di Tristano Martinelli), secondo Dario Fo “le ha l’uomo selvaticus, l’uomo della foresta, che era un’altra maschera soprattutto di tutta l’Europa centrale. Allora niente a che vedere con il discorso dell’Arlecchino con le toppe, questo viene molto più tardi..” (10).

Antica maschera arlecchinesca. Parigi, Grand-Opéra. Se nell’Arlecchino di oggi possiano svelare l’impronta originaria dello Zanni, questi è a sua volta debitore delle riminiscenze inferiche del Selvatico, le cui connessioni antropologiche con la maschera di Arlecchino sono parte di un lungo processo, frutto di continui e molteplici contributi

In effetti, ”il batocio ligneo che gli pende al fianco richiamerebbe il bastone del selvatico, l’abito versicolore rimanderebbe ai riti pagani del risveglio primaverile della natura feconda: chi apriva la processione nei campi si adornava di strisce di stoffa di vari colori onde propiziare lo sbocciare dei fiori (11), allo stesso modo con cui il Selvatico strepitava nei roghi marzolini  per i germogli di primavera.

I roghi marzolini?

Nelle economie rurali i roghi di fine inverno coincidevano con il bisogno di bruciare le sterpaglie accumulate; la cenere avrebbe fertilizzato i campi da cui, al tiepido sole di primavera, sarebbero spuntati i primi fili d’erba.

Ma prima di spegnersi i fuochi disegnavano nell’aria le forme più strane e tutti ne traevano auspici che concordavano o meno con sopite credenze pagane. Le impressioni più strane restavano comunque un segreto che ognuno custodiva con la speranza o il terrore che si avverasse.

Quando i roghi vennero  inquadrati in forme di costumanza sociale, anche per arginare possibili devianze malefiche questi passarono dai campi alle piazze dove, nei ritmi incalzanti del carnevale, le fiamme presero ad avvolgere fantocci di paglia e stracci (simboleggianti il Selvatico/òm di bosch), che dovevano rappresentare i mali dell’inverno: un allettante invito a scrollarsi di dosso malaugurati sortilegi (e propiziare l’avvento primaverile come promessa di abbondanti raccolti), che al ritmo di balli infuocati sarebbero stati inghiottiti dalle fiamme che anticipavano l’imminente digiuno quaresimale.

A Bergamo, nelle manifestazioni popolari e propiziatorie di Mezza Quaresima la figura dell’òm di bosch è tuttora presente nel rogo sacrificale della Vecchia, mentre un tempo, nella piazzetta del Delfino veniva bruciato il fantoccio del pòer Piéro

I roghi, passati ormai alle piazze, sono preceduti dalla lettura del bando con cui il Selvatico-Arlecchino bacchetta tutto quello che di volta in volta non va per il verso giusto.

A San Giovanni Bianco, la sopravvissuta ritualità del Selvatico culmina con il Rogo di Arlecchino, celebrato la sera del Martedì Grasso, ultimo giorno di carnevale

ALLARGANDO LO SGUARDO D’INTORNO 

Se la Casa di Arlecchino è il principale investimento di attrazione turistica di Oneta, basta allargare lo sguardo per scoprire che le potenzialità del borgo vanno ben oltre.

La porzione affrescata sopra San Cristoforo

Guardiamoci intorno: lo splendido borgo, formato da un grumo di case accoglie il visitatore in un’atmosfera d’altri tempi, con le vie porticate sulle quali si affacciano portali in pietra e ballatoi in legno rusticamente intagliati.

La piazzetta di Oneta, sulla quale si affaccia la Casa di Arlecchino a ridosso della quale, fino a pochi anni fa,  abitava più di una famiglia Zani, col cognome bene in vista sulla porta d’ingresso

 

Il lato di palazzo Grataroli (Casa di Arlecchino), collocato lungo il viottolo selciato della Via Mercatorum. Il piano terra del palazzo ospita una suggestiva Taverna-Osteria

La chiesa del Carmine, fatta costruire dai Grataroli e intitolata inizialmente alla Natività di Maria, con il suo grande e già osservato San Cristoforo, posto a protezione dei viandanti della Via Mercatorum.

La chiesa e il portico affrescati di Oneta, accanto alla Casa di Arlecchino

Stretta tra le viuzze e i selciati pietrosi, la piccola chiesa custodisce due tele di Carlo Ceresa (XVII secolo) e pregevoli affreschi eseguiti dai pittori erranti della Val Brembana, divenuti famosi in tutta Europa.

Interno della chiesa del Carmine, un edificio quattrocentesco che ha mantenuto, malgrado successive trasformazioni, buona parte delle strutture originarie, come la torre campanaria

 

Affresco del XV secolo nella chiesa di Oneta – Ph. Tarcisio Bottani

 

Carlo Ceresa, “Madonna del Carmelo” nella chiesa di Oneta – Ph. Polo Culturale Mercatorum e Priula

 

Carlo Ceresa, “Natività della Vergine” nella chiesa di Oneta – Ph. Polo Culturale Mercatorum e Priula

Sotto alla Casa di Arlecchino vi è poi una Taverna, che invita il visitatore a deliziarsi con prodotti locali di altissima qualità: provare per credere.

I portici di Palazzo Grataroli, oggi “Taverna di Arlecchino”

LA VALLE BREMBANA, UNA VALLE APERTA ALLE INFLUENZE EUROPEE 

La visita al borgo offre innumerevoli possibilità in uno scenario insolito e ricco di bellezze tutte ancora da scoprire, offrendo suggestivi spunti anche dal punto di vista escursionistico proprio grazie alla sua felice collocazione lungo la Via Mercatorum,  dove transitavano i mercanti che risalivano le valli verso i Grigioni e il Nord Europa, prima che venisse realizzata la Strada Priula.

Palazzo Grataroli (Casa di Arlecchino) e uno scorcio dell’antica Via Mercatorum, il cui declino cominciò al termine del XVI secolo quando la Repubblica di Venezia costruì la via Priula per questioni militari e per migliorare i propri commerci con la Valtellina. La via Mercatorum però non fu mai totalmente abbandonata, tanto che ancora oggi sono percorribili lunghi tratti di questa strada, a volte addirittura inglobati nella viabilità ordinaria

 

Sulle pareti esterne della “Casa di Arlecchino” un leone sorregge la “gratarola”

Lungo questa strada, percorribile da carovane di muli, i viandanti potevano trovare ospitalità e ristoro nelle stazioni che si trovavano presso Trafficanti, Serina, Cornello (luogo di mercato), Piazza Brembana, Averara e il valico di S. Marco.

La Via Mercatorum, un’articolata rete di sentieri che si sviluppavano in quota, già attivi ai tempi dell’impero Romano e meglio delineati nel medioevo, collegava Bergamo alla Valtellina salendo dalla bassa Val Seriana: da Monte di Nese la vecchia cavalcatoria (percorribile solo con le cavalcature o a piedi) raggiungeva la Valle Brembana passando per Selvino, Serina e Dossena (in cui era presente la prima pieve della Valle che ebbe il ruolo di chiesa battesimale per tutto il territorio brembano) e da lì raggiungeva Cornello, sede dell’unico mercato della media Valle Brembana fino alla prima metà del XV secolo.  A partire dal Cinquecento iniziò la sua decadenza, causata dalla costruzione della Strada Priula, il nuovo asse viario da Bergamo alla Valtellina, costruita a partire dal 1592

Dopo aver percorso suggestive borgate, una volta raggiunta Oneta il tracciato prosegue, ben conservato, verso Cornello dei Tasso, in età medioevale sede di un importante mercato (testimoniato dal percorso porticato) e luogo di passaggio obbligato in quanto cerniera fra la bassa Valle Brembana, e la valle ‘Oltre la Goggia’.

L’edificio porticato che s’incontra uscendo da Oneta in direzione Cornello dei Tasso, lungo la Mercatorum

 

La Via Mercatorum ad Oneta, sulla strada per Cornello dei Tasso, raggiungibile tramite una bellissima passeggiata di 30/50′. L’itinerario, lungo il quale è possibile rifornirsi di acqua potabile, è  percorribile anche in mountain bike

Lungo il facile tragitto, prevalentemente pianeggiante, si attraversano prati e boschi d’incanto, ruscelli e cappelle, fino a che il sentiero selciato, oltrepassato  un ponticello raggiunge il culmine del dosso sul quale sorge la piccola chiesa di Sant’Anna – posta a circa metà percorso – in contrada Piazzalina.

Le ampie praterie che anticipano la contrada Piazzalina

 

La piccola chiesa di S. Anna in contrada Piazzalina, a circa 20 minuta da Oneta

Dalla chiesa di Sant’Anna il percorso prosegue in discesa, attraversa la Valle dei Mulini e giunge al borgo di Cornello dei Tasso.

A una trentina di minuti da Oneta, dalla Valle dei Mulini spunta il campanile della chiesa di Cornello dei Tasso, il borgo che ha dato i natali alla celebre famiglia a cui si deve l’organizzazione del servizio postale moderno e dalla quale discende il poeta Torquato Tasso

 

La via acciottolata diretta al borgo di Cornello dei Tasso

Una volta raggiunto il borgo di Cornello è possibile seguire un nuovo itinerario che si snoda lungo le contrade legate alla famiglia Tasso (e non solo), o proseguire lungo la Via Mercatorum verso i passi e le antiche dogane venete, che pongono questa valle come punto di riferimento per tutti gli antichi commerci e scambi culturali dell’Italia con il resto d’Europa: potrete così  immaginare, volendo, anche le carovane delle compagnie comiche itineranti della Commedia dell’Arte.

Sono davvero tanti i borghi, le cascine, le chiesette, i grumi di case e le contrade che questi luoghi verdissimi e silenziosi offrono al visitatore desideroso di armonizzarsi con un contesto dove il tempo pare essersi fermato: le bellezze di Oneta e dei suoi dintorni, ricchi di preziose valenze storiche, paesaggistiche e naturalistiche, valgono ben più di una visita ed è sicuro che ne rimarrete contagiati.

CULTURA E TURISMO 

La Casa conserva una selezione di maschere dei personaggi della commedia dell’arte e ospita, dal 2015, un teatro stabile di burattini della Compagnia del Riccio, in cui sono messe in scena brevi storie in occasione delle visite guidate delle scolaresche e di eventi particolari. Funge da palcoscenico naturale per numerose rappresentazioni legate al festival teatrale tematico dal titolo “Le Vie della Commedia”, che si svolge ogni anno, da Luglio ad Agosto, nell’intento di riscoprire e consolidare le vere potenzialità artistiche e storiche della  Valle. E’ inoltre in procinto di ospitare la preziosa tradizione Ottocentesca e Novecentesca dei Burattini Artigianali della Valle Brembana, in collaborazione con l’Università di Bergamo, la Fondazione Benedetto Ravasio dei Burattini storici bergamaschi ed altri enti di ricerca e documentazione.

Il Museo è inoltre sede di laboratori didattici e di visite guidate (riconducibili a diversi itinerari, ad esempio verso il borgo di Cornello o Dossena), seguendo la Via Mercatorum. Laboratori e visite guidate sono organizzati dal Polo Culturale “Mercatorum e Priula / vie di migranti, artisti, dei Tasso e di Arlecchino”, nato nel 2015 da una convenzione firmata dai Comuni brembani di Camerata Cornello, San Giovanni Bianco e Dossena per valorizzare i beni artistici, architettonici, storici, ambientali del territorio.

Note

(1) Secondo le fonti dell’Archivio Storico di Bergamo, nel 1310 è console a San Giovanni Bianco Guglielmo de Gratarolis e nel 1313 si conferma nello stesso ruolo un tale Pasino de Gratarolis (Eliseo Locatelli, Arlecchino che parla bergamasco. Ed. Corponove, Bergamo, 2016).

(2) Gli annali della Serenissima registrano nel 1640 Gerolamo Grataroli come segretario del doge Francesco Erizzo ed altrettanto sarà nel 1691 per Pietro Antonio Grataroli, nominato segretario del doge Francesco Morosini (Eliseo Locatelli, Op. cit.).

(3) Il Cinquecento e l’età veneta.

(4) Eliseo locatelli, Ibidem.

(5) Il teatro comico

(6) Per gli atti dell’archivio parrocchiale di Serina, “Ganassa” era il vero cognome; per altri era semplicemente un soprannome (come Buratinus e Maschera – degni di altrettanti etimi zanneschi – estrapolati da T. Salvetti dalle carte del notaio sangiovannese Giovan Francesco Raspis, della prima metà del Cinquecento (Eliseo Locatelli, Op. cit.).

(7) Eliseo locatelli, Ibidem.

(8) Umberto Zanetti, Il mito dell’Uomo Selvatico nella montagna bergamasca.

(9) Umberto Zanetti, Ibidem.

(10) A cura di Rosanna Brusegan, Premessa di Dario Fo, in “La scienza del teatro – Omaggio a Dario Fo e Franca Rame” – Atti della Giornata di Studi (Università di Verona, 16 maggio 2011). Bulzoni Editore, 2013.

(11) Umberto Zanetti, Ibidem.

Bibliografia e sitografia

Tarcisio Salvetti San Giovanni Bianco e le sue contrade Ferrari Editore

Felice Riceputi, Storia della Valle Brembana. Dalle origini al XIX secolo, Corponove, Bergamo, 2011.

Eliseo Locatelli, Arlecchino che parla bergamasco. Ed. Corponove, Bergamo, 2016.

Umberto Zanetti, Il mito dell’Uomo Selvatico nella montagna bergamasca.

A cura di Maria Mencaroni Zoppetti et al., Il Cinquecento – Bergamo e l’età veneta. Sestante Edizioni, Bergamo, 2012.

Villa Pesenti-Agliardi a Sombreno e il giardino: dal progetto del Pollak all’impianto romantico

Procedendo dal lungo rettifilo che da Fontana conduce a Sombreno, ultimo lembo agreste a occidente dei colli, al centro del solco del Brembo, il visitatore è accolto dall’alta e fitta massa arborea del parco di Villa Agliardi, posta ai piedi della collina: un’emergenza monumentale e paesaggistica d’eccezione che si staglia al margine opposto del compatto nucleo storico.

Gli alti fusti del parco di Villa Agliardi proiettati contro la collina del Santuario, fungono da contrappunto alla minuscola trama del compatto nucleo medioevale

La villa è celata discretamente da una quinta di edifici e per vederla bisogna imboccare un’antica diramazione – via Agliardi – che dai margini occidentali del tessuto storico si dirige fra gli ultimi lembi edilizi e il fitto bosco.

Via Agliardi (Ph Maurizio Scalvini)

 

Via Agliardi. L’austero prospetto nord corrispondente all’ingresso di rappresentanza, con l’ampio portone centrale (Ph Maurizio Scalvini)

La strada si allarga in un piazzale ombroso delimitato, da un lato da una fontana  incorniciata da due scale curve che invitano a salire verso la collina e, dall’altro, dal lungo ed austero prospetto nord della villa, che come una fiera e ritrosa fanciulla di campagna si mostrerà alle spalle.

Il domestico Recalcati, davanti al portone della villa. Oltre la fontana sono visibili  la vecchia  torre e il Santuario, aggrappati alla collina

Di fronte al viottolo che immette alla villa, su un grande portone campeggia una targa metallica che introduce ad un bellissimo esempio di dimora padronale del ‘600 costruito dalla famiglia Moroni (proprietaria dell’adiacente Filanda) ed acquistato dal conte Pietro Pesenti (1771-1826 ), che lo adibì a casa del fattore.

La fattoria di proprietà Agliardi, rimasta tale sino agli anni Novanta quando è cessata l’attività agricola a Sombreno (Ph Maurizio Scalvini)

Pietro Pesenti, il committente della villa che andremo a visitare, era l’ultimo rampollo maschio di uno dei due rami in cui s’era divisa nel ‘600 l’importante famiglia di drappieri. I Pesenti già all’inizio del ‘400 dalla culla natale di Gerosa in Vall’Imagna si erano insediati in Bergamo e Sombreno, dove nel corso del tempo avevano aumentato i propri possedimenti. A soli 22 anni Pietro aveva ereditato tutti i beni paterni ed entusiasta degli avvenimenti storici che in quegli anni stavano profondamente mutando l’Europa, partecipò attivamente alla vita politica bergamasca ritrovandosi a ricoprire, tra il febbraio e l’aprile del 1798, la carica di Presidente dell’Amministrazione del Dipartimento del Serio, la maggior carica politica locale.

Bortolo Fumagalli (1781-1863) opp. Jean-François Bosio (1764-1827), Ritratto del conte Pietro Pesenti, committente del progetto di Villa Pesenti-Agliardi. “Figura di patriota cisalpino che nella breve storia della repubblica Bergamasca, presto incorporata nella Cisalpina, ebbe importanti cariche, partecipando attivamente con la generosa irruenza della sua giovinezza al grande rinnovamento sperato, e sfociato invece poi nel terribile bagno di sangue causato dallo sfolgorante trionfo di Napoleone. Comandante generale delle milizie della Guardia Nazionale di Bergamo Pietro Pesenti fu tre anni dopo Presidente dell’Amministrazione del Dipartimento del Serio, e partecipò ai Comizi di Lione; imprigionato e saccheggiato con il ritorno degli Austro-Russi, fu poi perseguitato con la Restaurazione del ‘15. Le delusioni e i dolori lasciarono profonde tracce nella sua psiche che, minata, provocò la prematura morte nel 1826″ (“Storia d’un giardino. 200 anni tra immagini sognate e immagini reali” – Bozza per lo studio del giardino della villa Agliardi già Pesenti in Sombreno in base alla documentezione iconografica dell’archivio Agliardi)

Fu proprio in quel 1798 che il cittadino Pietro Pesenti,  sull’onda del successo politico commissionò (1) all’architetto austriaco Leopold Pollak (Vienna 1751 – Milano 1806), insigne architetto operoso in Lombardia nella stagione neoclassica, la ristrutturazione in chiave moderna della Villa di famiglia, per trasformarla in luogo d’incontro per i politici del tempo. Pesenti gli espose una serie di richieste che questi doveva rispettare e gli commissionò anche l’invenzione ex-novo del giardino. E soprattutto il giardino, secondo l’uso dell’epoca, avrebbe dovuto essere concepito come manifesto delle idee politiche del committente.

La dimora, un’edificio di impianto seicentesco con impianto a L, aveva un nucleo antico costituito da una torre medioevale facente parte dell’antico sistema difensivo di Breno che comprendeva (oltre al castello situato in cima alla collina, in luogo dell’attuale Santuario) anche una seconda torre, collocata  in quella che è oggi la piazza. Quando nel 1473 i Pesenti si insediarono a Breno probabilmente acquistarono le due torri, ampliandole e trasformandole in abitazioni. La torre della piazza è infatti inglobata in un edificio di più vaste dimensioni.

Pianta del piano terreno di Villa Pesenti-Agliardi. I muri antichi sono disegnati in nero e le costruzioni nuove in rosso. La torre medioevale si sviluppava su due piani ed era completata da un corpo più basso.  La L era composta dall’attuale ala occidentale e dal corpo centrale (avente porticato a colonne binate). Inoltre, il muro interno alla corte dell’ala a mattina risulta anteriore al 1798 ed è probabilmente un residuo delle parti rustiche che furono demolite nel 1795

Della torre medioevale si trova traccia nell’angolo nord ovest della villa, dove possiamo individuarla grazie alla presenza di pietre piuttosto grandi e ben squadrate che la differenziano dal resto dell’edificio, che è in acciottolato, mattoni e materiale vario.

Il prospetto settentrionale di Villa Agliardi (Ph Maurizio Scalvini)

Perchè il Pollak (che talvolta si firmava Pollach e che taluni chiamano Pollack,  allievo e discepolo del Piermarini, con cui collaborò per Villa Belgiojoso a Milano), aveva accettato la proposta di risistemare una residenza di campagna, in un luogo così periferico rispetto alla capitale lombarda e per di più da riprogettare su una precedente costruzione? Lui, che si era conquistato grande fama con la progettazione di rilevanti edifici pubblici, firmando a  Bergamo il teatro Sociale.

Caduto il dominio austriaco nel 1796 e considerata la sfortunata vicenda austriaca in Lombardia ai primi anni dell’Ottocento, le sue origini non rappresentavano un incoraggiante biglietto da visita per la nuova classe dirigente; l’occasione fornitagli dal conte Pesenti  gli offriva la possibilità di riscattarsi attraverso un innovativo progetto di  reinterpretazione in chiave neoclassica di una preesistente dimora secentesca non separabile dal notevole parco.  E dal momento che l’ammodernamento della casa era vincolato dagli schemi di una costruzione preesistente, fu soprattutto sul giardino che egli concentrò il proprio estro creativo.

Un giardino che, probabilmente a causa dei costi eccessivi, venne ultimato solo in alcune parti, assolutamente insufficienti a darci conto dell’insieme come era stato concepito nel progetto, ma che è possibile descrivere sulla base dei disegni incorniciati nella villa (2).

Viottolo che dall’Azienda Agliardi conduce all’ingresso di sevizio di Villa Pesenti-Agliardi  (Ph Maurizio Scalvini)

Dalla fattoria, percorso un breve viottolo si entra in un atrio, non molto vasto e illuminato da tre arcate orientate a sud verso il giardino. Il cancello si trova proprio di fronte.

In corrispondenza dell’ala occidentale della casa, appare l’ingegnosa sistemazione della via a fondo cieco con la monumentale quinta scenografica di fronte alla quale si apre l’ingresso di tutti i giorni. In prospettiva, la fattoria e, sopra, il Santuario (Ph Maurizio Scalvini)

 

Di fronte alla “quinta scenografica” a tre arcate vi è l’ingresso di servizio, in corrispondenza dell’ala ovest della villa (Ph Maurizio Scalvini)

 

La veduta dall’ingresso, con uno scorcio sull’ala est ed alcuni edifici di servizio; in lontananza il Tempietto del Silenzio, posto tra il muro di cinta e la collina (Ph Maurizio Scalvini)

Come detto, all’arrivo del Pollak la villa presentava un impianto seicentesco impostato ad L, costituito dal corpo mediano e dall’ala occidentale. Tale impianto conteneva già le premesse dell’attuale planimetria, che dal nucleo centrale preesistente si è dilatata articolandosi simmetricamente ad U, secondo i canoni di un evidente schema neoclassico.

Al pian terreno del corpo mediano venne ricavato un grande vestibolo porticato (oggi coperto da vetrate) e venne conservato il sovrastante salone; nell’ala occidentale venne  invece innestato un monumentale scalone a due rampe. E’ invece praticamente tutta nuova l’ala orientale, così come i corpi più bassi che prolungano le ali.

La facciata del corpo centrale verso la corte (di chiaro richiamo all’architettura piermariniana) presenta un avancorpo a lieve risalto che sorreggono il balcone; sopra, il piano nobile è impreziosito da lesene binate con capitelli ionici che reggono un’architrave. Le ampie aperture invitano ad uscire e a godere pienamente del giardino

 

L’imponente salone centrale dalla volta barocca al primo piano, un ambiente rettangolare di m 5,30 x 10,70. Benché non vi siano notizie certe riguardo l’edificazione della dimora seicentesca, gli affreschi che decorano la volta, realizzati intorno al 1676 da Domenico Ghislandi, provano che l’edificio a L risultava completato entro questa data

 

Salone centrale al primo piano, con la volta decorata intorno al 1676 da Domenico Ghislandi (padre del più celebre Vittore, alias Fra’Galgario), pittore di vedute e di quadrature che affrescò numerosi palazzi bergamaschi

 

UTILE E BELLO 

In ognuno dei  prospetti delle ali l’architetto austriaco inserì una nicchia, con coronamento a timpano, contenente una statua sormontata da un riquadro entro il quale campeggia un’iscrizione, un elemento di reminiscenza cinquecentesco-palladiana (3).

Le due statue in facciata, rappresentanti l’Ospitalità e l’Agricoltura, sono due elementi importanti per comprendere l’idea ispiratrice di tutto il giardino, concepito come luogo in cui utile e bello si fondono (una delle idee portanti dei giardini paesaggistici inglesi che Pollak  aveva assimilato grazie ai numerosi contatti avuti con il suo committente milanese Belgiojoso). Il tema  è simboleggiato dallo stesso progetto della villa che prevedeva otto “suite” per ospiti, poi non realizzate.

La Statua dell’Ospitalità, dello scultore Gelpi, sulla facciata della villa, tema progettuale insieme a quello dell’agricoltura, felicemente interpretato da Pollak. L’ospitalità è vestita con un’elegante tunica ricoperta da un leggero mantello; una mano regge la cornucopia dell’abbondanza da cui un putto raccoglie grappoli d’uva; l’altra mano compie in segno d’offerta e d’invito. Il tema dell’Ospitalità è evidenziato dalle scritte latine in facciata: “A nessuno è chiusa la casa del padrone, a tutti coloro che vengono una mano amica porge tutto ciò che vi è dentro”

 

La Statua dell’Agricoltura, scolpita da Gelpi, sulla facciata della villa. Di nuovo una figura femminile, ma vestita “alla contadina”, con un vestito corto che lascia scoperte le caviglie e i piedi scalzi. Tiene in mano gli attrezzi del lavoro agricolo, una vanga e un falcetto, e un fascio di spighe; un putto al suo fianco gioca con una zappa. “Qui crescono vigorosi gli alberi, l’acero rosseggia, il giardino dà frutti. Perché indugiare allora? Cerere offre tutti i suoi doni” (Ph Maurizio Scalvini)

 

GLI AFFRESCHI E LE DECORAZIONI

Alcuni aspetti riguardanti l’intervento sulla villa – affreschi e decorazioni – si relazionano, dialogano, con il progetto del giardino, dando vita a un tutto organico in cui il dentro e il fuori si richiamano a vicenda.

Le decorazioni ad affresco furono realizzate da Vincenzo Bonomini (1756-1839) nei primi anni dell’Ottocento (salone centrale al primo piano ed altre sale al piano terreno), mentre le decorazioni a stucco vennero affidate ad un certo Bossi .

Gli affreschi e le decorazioni al piano terreno

Le tre sale poste al piano terreno sono riccamente decorate e nascondono numerosi significati simbolico-politici, riconducibili a quelle idee politiche di Pesenti che si ritrovano citate anche nel giardino.

Il tema della prima sala è quello della pace e della guerra: al centro della volta è affrescato il riposo del guerriero, tema che manifesta l’ideale di un governo illuminato (la Repubblica raffigurata nella terza sala, evidente riferimento alla Repubblica Francese), capace di garantire ai propri cittadini la serenità proveniente dalla pace e, al contempo, la forza e la solidità portata dalle armi.

Nel tema del riposo del guerriero, affrescato al centro della volta della prima sala,“un armato riposa con la testa reclinata sullo scudo e due colombe (pace) dibattono con la deterrente medusa (guerra) effigiata sullo scudo”  (Ginevra Agliardi, cit. in bibliografia)

Sempre legati alla simbologia della pace e della guerra sono i decori a stucco, sia in questa sala che in quella accanto, dove alle pareti compaiono anche alcune stampe rappresentanti diversi momenti della vita di Napoleone.

Al centro della volta della terza sala (quella che doveva essere già al tempo sala da pranzo) Vincenzo Bonomini affrescò la Repubblica con in mano un fascio consolare, con chiaro riferimento alla Repubblica Romana e, in quel momento storico, alla Repubblica Francese.

L’allusione alla Repubblica Francese ritorna nelle decorazioni dell’obelisco (di fronte all’ingresso principale), punto di riferimento simbolico e spaziale del giardino.

Nella terza sala al piano terreno, Vincenzo Bonomini, soffitto con affresco raffigurante “La Repubblica”, evidente riferimento alla Repubblica Francese. La sala è ornata da finissime composizioni decorative del pittore

Sulle pareti è simbolicamente rappresentato il mondo. All’interno di piccole ghirlande sono posti quattro animali che rappresentano i quattro continenti: il cervo rappresenta l’Europa, il cavallo le Americhe, il leone l’Africa e l’elefante l’Asia, ad indicare che la Repubblica come istituzione politica domina sui quattro continenti del mondo.

I temi del riposo del guerriero, del significato politico di Napoleone e della Repubblica, cari al committente, si ritrovano citati anche nel giardino.

 

Gli affreschi e le decorazioni al primo piano

Le decorazioni più importanti e significative sono comunque al piano superiore, al quale si giunge attraverso un imponente scalone a due rampe, che si imbocca a sinistra del vestibolo.

Pollak stesso disegnò gli sgabelli e i tavoli dello scalone, oltre alle sedie che ancora oggi arredano l’atrio

Alle pareti del salone centrale del primo piano (quello già osservato con la volta affrescata dal Ghislandi) compaiono quattro vedute affrescate con perizia da Vincenzo Bonomini, di analogo interesse per il rapporto con il giardino.

Il salone centrale dalla volta barocca al primo piano, con alle pareti quattro paesaggi affrescati da Vincenzo Bonomini,  Le “lesene” sono decorate con verdure e frutti (carote, asparagi, pere, ciliege, aglio, cipolle) dipinte dal pittore Pontiroli e tutte lumate con oro zecchino: un chiaro riferimento al giardino di Pollak, in cui frutti ed ortaggi sono considerati veri e propri ornamenti, allo stesso livello dei fiori. Questi stessi ortaggi si ritrovano, coltivati, nelle quattro grandi aiuole rettangolari che accompagnano tutto il viale di tigli

Tema di tali vedute è il  paesaggio raffigurante rovine classiche, elementi che Pollak aveva disegnato nel progetto per il giardino: una veduta raffigura le terme (che non vennero realizzate) ed un un’altra la casa dell’ortolano (realizzata), elementi che riprendono  i due temi di fondo del progetto pollackiano: l’Ospitalità e l’Agricoltura:

“Così, in un ambiente immaginario ma con vivo richiamo all’essenza del paesaggio reale, egli raffigurò due significativi elementi del progetto del giardino: uno – la casa dell’ortolano – reale ed agricolo, l’altro – le terme, destinate al piacere del vivere in villa – solo ideato dal Pollach e mai realizzato” (4).

Vincenzo Bonomini. Affresco raffigurante un paesaggio con rovine classiche e un edificio termale. Il grande affreschista bergamasco era stato chiamato del Pesenti e dal Pollak per decorare la maggior parte della villa

 

Vincenzo Bonomini. Affresco raffigurante un paesaggio con rovine classiche e la “casa del giardiniere”

In alcuni locali adiacenti il salone centrale, spiccano per la loro particolarità  alcune pareti rivestite da papier peints francesi, carte da parati decorate a tempera, i cui colori nonostante il passare del tempo hanno mantenuto una straordinaria vivacità.

Una piccola saletta, adibita a locale di studio, presenta un più realistico diorama di Parigi, ove sono chiaramente riconoscibili alcuni fra i maggiori monumenti della città: quasi una sua sintesi, in termini di pre-moderna simultaneità. Idee proiettate nello spirito enciclopedico ed universalistico di quel periodo (Perogalli, cit.).

Tappezzeria francese disegnata a tempera su carta raffigurante una caccia al cervo in un fitto bosco

 

IL PROGETTO DEL GIARDINO

Si è già detto dell’idea ispiratrice di tutto il giardino, concepito come luogo in cui utile e bello si fondono, dove l’utilità della campagna, con i suoi frutti, si concilia al bello per il diletto dell’anfitrione e dei suoi ospiti.

La Val Breno in un dipinto databile al 1690 ca. Il dipinto è un documento molto significativo della parcellizzazione sul finire del ‘600 delle coltivazioni agricole della val Breno, un territorio già allora intensamente coltivato. L’allevamento del baco da seta cessò completamente nei primi anni Cinquanta

Come anticipato qui, “L’origine montanara di molti abitanti della zona, Pesenti compresi, spiega la gelosa cura dedicata per secoli alla terra. Si intuisce un rapporto non solo fisico ma anche ‘ideologico’ col giardino, amato, ma forse anche temuto dagli stessi proprietari come antagonista dei terreni coltivati (e quindi passato alla nuova destinazione con un’iniziale cautela ed attenzione al rapporto con la campagna circostante.) Da qui la cautela, quasi avara, con cui i campi venivano destinati al nuovo ruolo di giardino. È quindi pensabile che il binomio “agricoltura / ospitalità” che ha ispirato il Pollack ed il suo committente Pietro Pesenti non abbia soltanto uno stimolo culturale nello spirito bucolico settecentesco, ma proprio un concetto d’utilità e di rispetto della campagna, in una visione nuova, neoclassica, dell’ortus clausus, che riscatta questo ‘spreco’ di terreno agricolo” (5).

Nelle intenzioni del Pollack e del suo committente, il giardino doveva perciò essere in parte destinato alla produzione agricola ed inoltre, semplificando, “arredato” come un vero e proprio luogo di soggiorno estivo nel quale i motivi ornamentali si sarebbero alternati ad una serie di sorprese.

Il terreno destinato alla produzione agricola occupava più di un terzo del giardino e prevedeva la creazione di strutture finalizzate a coltivazioni  improntate al principio pratico ma anche filosofico-politico, dell’utilità.

Da un lato, strutture finalizzate  alla coltivazione di prodotti utili per la casa, ossia fiori, frutti, uva e ortaggi, con un Giardino a fiori all’olandese; diversi Potager (orti); una Casa rustica per abitazione dell’Ortolano; una Fruttiera con vasca nel mezzo; una Vigna d’Alcatico.

Dall’altro, era prevista la creazione di una Agrumera e di una Filanda (un elemento originale del giardino di Villa Pesenti-Agliardi), destinata alla produzione della seta: prodotti di elevato valore commerciale forse destinati ad un mercato esterno. La Filanda ben si accordava alla situazione agraria del territorio bergamasco nel Settecento, in cui la maggior ricchezza era rappresentata dalla seta e dove il gelso aveva tolto al vino il primato produttivo.

Dal giornale delle spese per la fabbrica di Breno dal 1793 al 1819, apprendiamo che nell’inverno del 1815 la filanda acquistata dal Moroni il 7 luglio 1814 (corrispondente al mapp. 71 della planimetria risalente al primo decennio del 1800) era stata demolita (insieme alla “casa contigua in facciata alla tinera”) “per poter usare il materiale per la costruzione del casino dell’ortolano ultimato nel mese di luglio-agosto” (l’esistente casa del giardiniere nel giardino della villa progettato da L. Pollak).  In quel 1815, in luogo della filanda fu costruita la tinaia. 

“Il progetto originale fu modificato non realizzando la retrostante filanda prevista. Tale modifica è da ritenersi dovuta all’evoluzione delle filande, proprio in quel periodo, che da artigianali diventano industriali” (Gian Paolo Agliardi, cit.).

Leopold Pollack. Progetto per il giardino di villa Pesenti (1798). Particolare: l’agrumera e la piazza semi-ottagonale. Penna e acquerello, Sombreno, Collezione Pesenti-Agliardi.

 

Leopold Pollack. Agrumera nel giardino di villa Pesenti (1798). Penna e acquerello, Sombreno, Collezione Pesenti-Agliardi. Alle serre destinate allo studio della botanica (che stavano prendendo piede in Lombardia) Pesenti preferì la più tradizionale e redditizia coltivazione degli agrumi. L’Agrumera, con i suoi 300 metri quadrati occupava una vasta superficie.

 

Il giardino verso la limoniera non ancora realizzata nel 1867 ca.

 

Leopold Pollack. Progetto per il giardino di villa Pesenti (1798). Particolare: la casa dell’ortolano, la filanda, i potager (grandi riquadri disposti di fronte alla casa dell’Ortolano), la grotta e il balcone. Il semi-ottagono è destinato ad accogliere le piante di agrumi in estate. Penna e acquerello, Sombreno, Collezione Pesenti-Agliardi. La filanda, era posta sul retro della casa dell’Ortolano in diretta comunicazione con i campi da cui proveniva la foglia del gelso. Le sue dimensioni erano probabilmente proporzionate alle esigenze locali e contava ventiquattro bacinelle (una filanda industriale all’inizio del Novecento era costituita da sessantaquattro bacinelle)

 

La casa rustica per l’ortolano, in fondo al giardino, novembre 2004

Pollak collocò poi il frutteto e aiuole ornamentali di verdura (potager) nel cuore del giardino, quegli stessi ortaggi richiamati negli affreschi del salone centrale della villa.

Leopold Pollack. Progetto per il giardino di villa Pesenti (1798). Particolare: il viale dei tigli, i potager, il Tempio del Silenzio, il giardino all’olandese e la fontana della Najade.  Penna e acquerello, Sombreno, Collezione Pesenti-Agliardi

 

Leopold Pollack. Progetto per il giardino di villa Pesenti (1798). Particolare: la piazza dei pini, la Torre dei Venti, il frutteto, la meridiana e i bagni. Penna e acquerello, Sombreno, Collezione Pesenti-Agliardi

Dai disegni conservati nella villa emerge come la  progettazione del giardino fosse meticolosamente estesa fino al più minuto dettaglio costruttivo, comprendendo un numero straordinario di elementi  architettonici e naturalistici, intesi forse a “recuperare, concentrandola, l’esperienza delle grandi ville romane, proiettata però nello spirito enciclopedico ed universalistico  del proprio tempo” (Perogalli, cit.).

Vengono infatti recuperati elementi archeologici, egiziani e classici (obelisco, templi, terme), romantici (per alcuni cenni che rievocano l’architettura castellana, rustica), speleologici (con la formazione di una grotta), esotici (con aiuole realizzate con fiori olandesi, l’agrumeria, «qualche pianta pregevole forestiera»); industriali (con una filanda munita di 24 fornelli), scientifici (per la possibilità di misurare il tempo attraverso un orologio solare) ed inoltre motivi simbolici e celebrativi quali un Monumento della Libertà in Italia, un Tempio della Pace ed uno del Silenzio (quest’ultimo realizzato), riservando alcuni margini all’iniziativa del committente.

A evidenziare l’originalità del progetto per Villa Pesenti-Agliardi rispetto ad altri progetti del Pollak  (Montecchio e Riva di Chieri) basterebbero la filanda, l’edificio dei bagni, la piazza dei pini a cima, la sala a verde con piante “forestiere” e la torre del belvedere.

 

UNA VISIONE D’INSIEME

Il terreno destinato a giardino si sviluppava in modo irregolare e disarmonico a sud-est della casa; l’architetto doveva quindi sottrarre la disarmonia agli occhi del visitatore.

Leopold Pollack. Progetto per il giardino di villa Pesenti (1798). Particolare: la corte, delimitata dalla villa, dalle scuderie (fabbricate nel 1793 prima dell’arrivo del Pollak) e dalle rimesse per le carrozze, è occupata da un grande spazio cubico (parterre) che si dilata nel vicino spazio composto da una rotonda a prato, con un obelisco al centro.Tutto attorno una siepe di carpini e una corona di tigli creano giochi di chiaroscuro e isolano questo spazio geometrico dal resto del giardino. Penna e acquerello, Sombreno, Collezione Pesenti-Agliardi

In asse con la casa, disegnò lo spazio regolare della corte, dividendola visivamente dal resto del giardino.

Il giardino venne disegnato sulla base di un ideale triangolo equilatero avente per vertici le tre piazze: oltre a quella circolare (Obelisco), quella semipoligonale a nord-est (cui avrebbe dovuto corrispondere il portico fra i due tempietti) e quella ottagonale (la “Fruttiera”) a meridione. 

Leopold Pollack. Progetto per il giardino di villa Pesenti (1798). Penna e acquerello, Sombreno, Collezione Pesenti-Agliardi. Gli spazi sono concepiti secondo forti equilibri geometrici, all’interno dei quali gli elementi naturalistici rappresentano il tessuto connettivo. Ma diversamente da quanto avviene nella tradizione italiana, le forme geometriche sono costituite da elementi agricoli e produttivi (utili), ossia reinterpretate in chiave illuministica e moderna. Ed è probabilmente in questo che consiste l’originalità del giardino di Sombreno: nel tentativo di unire ed intrecciare i due stili opposti, quello geometrico e quello paesaggistico

All’interno della composizione la rotonda dell’obelisco svolge quindi  l’essenziale funzione di snodo e di congiunzione tra la corte ed il giardino e diviene il punto di riferimento non solo spaziale (la sua punta è visibile da tutto il giardino) ma anche simbolico-politico con l’allusione alla Repubblica, tema già espresso nell’affresco del Bonomini al centro della volta della terza sala al piano terreno.

Punto di riferimento spaziale e simbolico del giardino, l’obelisco è un monumento innalzato come “pietra tombale” dell’Ancien Regime e inneggiante alla Repubblica Cisalpina. Si noti l’allusione alla Repubblica nella decorazione (i quattro fasci agli angoli della base e che sorreggono la cima) e nell’iscrizione incisa sui lati (INCIPIENTI REGIMINI AUREO MONUMENTUM – FINIENTI REGIMINI DURO SAXUM – POSUIT ANNO 1800 – PETRUS PESENTI)

Per ovviare al rischio di un eccessivo affastellamento delle costruzioni architettoniche, Pollak dispose tutti gli edifici (la lunga serra, la casa dell’ortolano con la filanda retrostante, la grotta, l’edificio delle terme, il “Tempio della Pace” e il “Tempio del Silenzio”) lungo il perimetro del giardino, con il vantaggio, da un lato, di sfruttare al massimo l’estensione interna dello spazio a sua disposizione e, dall’altro, di catturare l’attenzione del visitatore celando nello stesso tempo parti del muro di cinta.

Il giardino e la fontana della ninfa, novembre 2004

Com’era uso nei giardini inglesi, le macchie di vegetazione completavano la mimetizzazione del muro, in modo che il visitatore non avesse la sensazione di trovarsi in un luogo limitato. Dove sorge il Tempio del Silenzio, una fitta e irregolare parete di carpini invita lo sguardo a spaziare verso l’ampio anfiteatro della collina coltivata a vite, oltre la quale l’occhio è attirato dalla torre posta a metà della salita acciottolata che conduce al Santuario. 

Il giardino verso il Tempietto nel 1895 ca., Anche dopo la realizzazione del nuovo giardino romantico, persiste una continuità nel dialogo tra giardino e ambiente circostante, assunto come parte virtuale del disegno

Bisognava anche cercare di estendere lo spazio del giardino all’esterno dei confini della proprietà e adottò alcuni accorgimenti per dilatare illusionisticamente la percezione dello spazio.

Collocò la vite a nord, nei pressi del muro di cinta, così da suscitare la sensazione di continuità tra la vite del giardino e quella coltivata sul pendio della retrostante collina, dominata dal profilo del Santuario.  La dimensione virtuale del giardino era l’intero paesaggio circostante con cui il Pollak seppe sapientemente rapportare il giardino reale.

Leopold Pollack. Progetto per il giardino di villa Pesenti (1798). Particolare: il Tempio della Pace, il viale di Castagni d’India, il gioco del Tisco e l’anfiteatro della vigna, un’altra area fortemente geometrica ma composta da elementi naturalistici. Penna e acquerello, Sombreno, Collezione Pesenti-Agliardi

 

Leopold Pollack. Vigna con Pergolo nel Mezzo per il giardino di villa Pesenti (1798). Penna e acquerello, Sombreno, Collezione Pesenti-Agliardi

 

La villa nel 1901 ca. con vista sul Santuario

Verso la pianura, creò due aperture nel muro di cinta, grazie alle quali si poteva allungare lo sguardo sulla campagna circostante e collocò sull’angolo estremo del giardino una Torre o Belvedere da cui osservare tutta l’estensione del giardino e la campagna circostante.

1965. Veduta aerea del borfo di Sombreno, con a destra la villa

 

Leopold Pollack. Torre de Venti o Belvedere nel giardino di villa Pesenti (1798). Penna e acquerello, Sombreno, Collezione Pesenti-Agliardi

 

GLI ALLINEAMENTI PROSPETTICI E IL GIOCO DEI RIFERIMENTI SIMBOLICI

Come rilevato da Ginevra Agliardi, una fitta rete di sottilissime linee rosse tracciate sulla planimentria, evidenzia un gioco di quinte, cannocchiali ottici e prospettive entro le quali Pollak  ha allineato un gioco di riferimenti simbolici,   allusivi a quei temi cari al commitente espressi anche nelle sale della villa.

Leopold Pollack. Progetto per il giardino di villa Pesenti (1798). Penna e acquerello, Sombreno, Collezione Pesenti-Agliardi

Un asse parte dall’ingresso principale, attraversa l’obelisco e termina nel Tempio della Pace. “Torna qui il riferimento a quel ‘aureo regime nascente’ portatore di Pace, simboleggiato nella villa, come già accennato, dal ‘guerriero a riposo'”.

L’Ara collocata tra l’obelisco e il tempio si riferisce probabilmente “ai ringraziamenti che gli antichi offrivano per le vittorie”.

Vi è poi un lungo cannocchiale prospettico che dalla rotonda dell’obelisco  permette di scorgere un Vaso cinerario. Tale sottolineatura “conferma l’ipotesi di un significato simbolico che lega i due monumenti. Si tratta forse un riferimento a coloro che persero la vita per la conquista della libertà politica”.

Infine, Ginevra Agliardi ha scoperto “che il Tempio della Pace posto all’estremità dell’asse principale, appare idealmente congiunto al Tempio del Silenzio posto all’estremità dell’asse secondaria”.

“L’esattezza delle linee che si possono tracciare sulla planimetria e il triangolo che ha come vertici i due templi e il centro della corte e come lati i due viali, confermano la non casualità dei riferimenti: pace e silenzio dopo la guerra contro l’oppressore”.

 

DAL GIARDINO OTTOCENTESCO AD OGGI

Pietro Pesenti morì giovane lasciando la villa in eredità alla nipote, Marianna Pesenti che sposò il Conte Paolo Agliardi (6). Dopo la morte d Marianna, suo figlio, Conte Giovanni Battista Agliardi,  ne divenne proprietario e negli anni 1875-1880 trasformò l’incompiuto giardino in  chiave romantica all’inglese con l’uso di molte essenze di pregio, di cui talune esotiche. 

Il ricco corredo fotografico della famiglia Agliardi offre un’idea del giardino prima e dopo l’impianto romantico, nonchè validi indizi riguardo la datazione delle piante superstiti più importanti.

La mappa catastale di Sombreno del 1812 dimostra che del giardino vi era solo l’Obelisco alla Libertà e relativa rotonda. Il Tempietto del Silenzio venne ultimato da Marianna Pesenti Agliardi nel 1838

Sullo sfondo mutevole del giardino è poi piacevole vedere l’intrecciarsi di “episodi di vita e di amore familiare” che abbracciano sei generazioni. Qui fu scattata la fotografia di Maria Montessori che, divenuta la fotografia ufficiale della Dottoressa, fu stampata sulle vecchie banconote da 1.000 lire. Vi venne ospitato anche Papa Giovanni XXIII quando ancora era Patriarca di Venezia.

 

Come giustamente sottolineato da Gian Paolo Agliardi, il giardino neoclassico, anche se non realizzato per intero ha lasciato una profonda traccia per la sua forte carica progettuale, condizionando felicemente anche l’evoluzione del giardino romantico. Traccia che è riaffiorata nel tempo con la morte di alcune piante ultracentenarie e che, tra l’altro, ha contribuito a mantenere  quel “dialogo” tra il giardino e il paesaggio collinare, che è stato uno dei temi di fondo del progetto del Pollak.

Vista aerea di Sombreno, con il parco di Villa Pesenti-Agliardi (1993)

 

Prima del giardino romantico

La famiglia Agliardi nel giardino di Sombreno, 1867 ca.

Nell’autunno 1867, probabilmente in occasione del compleanno del figlio minore Gian Battista fu realizzato un bel sevizio fotografico divenuto un importante documento della fase che precede l’impianto romantico, di cui possiamo cogliere alcuni dei tanti aspetti.

La famiglia Agliardi nella loggia della villa di Sombreno, 1867 ca.

Ad esempio, la parte antistante la casa dell’ortolano era a frutteto ed orto, la limoniera non era stata ancora realizzata e la rotonda attorno all’obelisco era completamente circondata da piante, probabilmente ippocastani, molto più alte e ravvicinate rispetto a quelle progettate dal Pollak.

1867 ca. – Ospiti attorno all’obelisco

 

1868 ca. – Caffè al Tempietto con la famiglia riunita. Dietro il Tempietto compare un muro altissimo sovrastato da un cumulo di coppi, probabilmente quanto restava dell’incompiuta limoniera, prima dei successivi riattamenti della serra fredda, ghiacciaia e montagnetta, che allora non c’era

 

Il giardino romantico

Appassionato di fiori e di piante, Giovanni Battista Agliardi dimostrò la sua competenza attraverso una scelta qualificata di essenze di pregio, di cui talune esotiche (soprattutto conifere), secondo la moda del tempo: cedri, cipressi, Chamaecypearis, sequoie, tassi..

Una delle gigantesche sequoie (Sequopiadendron giganteum), dalla cima tronca ma con un fusto poderoso, nel giardino della villa (2002) – (foto Marco Mazzoleni)

Ci si chiede se dalla grande amicizia di Giovanni Battista con casa Piazzoni – che il quel periodo avrebbe impiantato il bellissimo Parco poi divenuto Marenzi in via Pignolo -, possono essere derivate  influenze culturali e forse progettuali.

Parco Marenzi verso la fine dell’Ottocento

E’ comunque possibile datare l’impianto del nuovo giardino grazie agli acquerelli di Gio. Madone, del 1883, dove si nota la giovane età dei Cedri e delle Sequoie. La crescita, talvolta imponente, di alcuni alberi ha prodotto effetti nell’evoluzione dei rapporti spaziali del giardino e quindi anche nel modo di vederlo e di fruirlo, così com’è tipico del giardino romantico.

G.B. Madone. L’obelisco, 1883

 

L’obelisco, 1885 ca.

 

Giardinieri nella rotonda davanti alla villa, 1893-94 ca.

 

G.B. Madone. La villa vista dal giardino, 1883 ca.

 

Giovanni Battista Agliardi con il giardiniere Massimiliano, 1890 ca.

 

La villa verso est; a sin. la sequoia wellintonia, 1966 ca.

Altre foto del 1906 documentano l’evolvere del giardino romantico, che con la creazione di grandi quinte verdi, specialmente di conifere, si estraniava sempre più dall’ambiente circostante e quindi dal disegno pollakiano.

Giovanni Battista Agliardi con Piero e Alessio Moroni, 1893-94 ca.

 

Il giardino verso il tempietto, 1966 ca.

Nel frattempo, le due palme in facciata vennero abbattute perchè non piacevano già più alla generazione successiva, come si apprende dalla corrispondenza del 1916 tra Giovanni Battista Agliardi al fronte e le sue sorelle.

La facciata della villa (1900 ca.)

Nel corso del tempo, alcune delle piante superstiti dell’impianto ottocentesco si sono forgiate assumendo sempre più il carattere di “monumento verde”.

Tra i pregevoli esemplari di carpine bianco, uno forma sette poderose ramificazioni già a pochi metri dal suolo, tanto da somigliare ad un candelabro. Elemento di base dell’arte del giardino, il carpine bianco è spesso presente nei parchi storici ed anche nei roccoli.

Uno dei carpini bianchi monumentali (Carpinus betulus) la cui forma a candelabro è stata condizionata dalle ripetute potature che ne hanno orientato la crescita. Il tronco è eccezionalmente contorto e le costolature sono particolarmente pronunciate; l’aspetto scultoreo è un indice di vetustà (immagine pubblicata ne “I grandi Alberi. Monumenti vegetali della terra bergamasca”. A cura di Gabriele Rinaldi. Provincia di Bergamo, Grafo, 2006)

Su una collinetta, in un luogo isolato, vi è un magnifico cedro dell’Himalaya  facente parte dell’originario impianto romantico.

Un cedrus deodara nel giardino della villa (immagine pubblicata ne “I grandi Alberi. Monumenti vegetali della terra bergamasca”. A cura di Gabriele Rinaldi. Provincia di Bergamo, Grafo, 2006)

Oggi, a distanza di circa centoquarant’anni dall’impianto ottocentesco, gli alberi più antichi e prestigiosi del giardino condividono il ruolo di protagonisti con quei piccoli e grandi monumenti scaturiti dal progetto originario di Leopoldo Pollak.

 

Note

(1) La scritta A.R.C. I (che sta per anno primo respublicae cisalpinae) presente su un’iscrizione riportata su una “rovina architettonica” della planimetria del progetto di Pollak (ICNOGRAFIA VILLAE DICTA PRE’ A PIETRO PESENTI BERGAMI CIVES AD COMODITATEM ET SOLATIVM HOSPITVM AVCTAE ET CON ORTIS AMPLIATAE A.R.C I) suggerisce che “Il progetto venne steso da Pollach tra il gennaio e il maggio del 1798 e cioè tra l’inizio dell’anno riportato su quasi tutte le tavole e lo scadere del primo anno della Repubblica Cisalpina” (Ginevra Agliardi, Il progetto di Leopoldo Pollach per il giardino di villa Pesenti-Agliardi a Sombreno, cit. in bibliografia).

(2) Il progetto di Pollak, quasi totalmente integro, è composto da ventinove tavole acquerellate conservate nella villa di Sombreno e così suddivise: una pianta generale della villa e del giardino, venti disegni relativi agli edifici e alle vedute del giardino, tre piante, tre prospetti e due sezioni della villa (Ginevra Agliardi, Il progetto di Leopoldo Pollach per il giardino di villa Pesenti-Agliardi a Sombreno, cit. in bibliografia). Di questo progetto esistono poi vari studi che esaminano anche le correlazioni con altri giardini dall’epoca.

(3) Reminiscenze cinquecentesche non erano assenti dall’architettura di Pollak; un esempio, in ambiente bergamasco, può essere la facciata di palazzo Agosti-Grumelli che Pollak progettò nel 1797 a Bergamo.

(4) “Storia d’un giardino. 200 anni tra immagini sognate e immagini reali” – Bozza per lo studio del giardino della villa Agliardi già Pesenti in Sombreno in base alla documentezione iconografica dell’archivio Agliardi. Inoltre: “I quattro grandi paesaggi entro riquadro a sviluppo verticale sulle pareti maggiori sono una pagina altissima pur nell’inusitato rispetto dogmatico, nuova e irripetuta nello svolgimento poetico bonominiano, e danno un’altra volta la misura delle sue possibilità nel genere specifico. La luce particolare che sublima le potenzialità timbriche del colore in natura, le architetture a spinta verticale, allisciate, l’assoluto silenzio nell’aria sterile e il memento mori tra l’elegiaco e il sentenzioso dell’elemento rovina grandiosa e tenace sembrano segnare un momento di pensamenti più drammatici per l’esuberante Bonomini” (R. MANGILI, Vincenzo Bonomini…, p. 73).

(5) Sombreno. Storia d’un giardino

(6) Dopo la prematura scomparsa nel 1826 di Pietro Pesenti e quasi un ventennio d’abbandono della villa e parco in parte incompiuti, attorno al 1840 pervennero per divisione a Marianna Pesenti Agliardi (sposò nel 1822 il conte Paolo di Bonifacio Agliardi). E’ all’ultimogenito, il Senatore Giovanni Battista (1827+1896), a cui si  attribuisce l’attuale impianto del giardino (Sombreno. Storia d’un giardino, cit).

Bibliografia

Ginevra Agliardi, Il progetto di Leopoldo Pollach per il giardino di villa Pesenti-Agliardi a Sombreno. Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2001-2002.

Carlo Perogalli. Villa Pesenti, Agliardi a Paladina, Sombreno (Bergamo). Estratto dall’«Archivio storico lombardo» serie IX – volume VII – 1968 Milano Società Storica Lombarda, 1969.

Roberto Ferrante, Paolo Da Re, Ville Patrizie Bergamasche, Bergamo, Grafica e Arte Bergamo, 1983, pp. 45-51.

Gian Paolo Agliardi, Vita di un giardino e nel giardino. In: I grandi Alberi. Monumenti vegetali della terra bergamasca. A cura di Gabriele Rinaldi. Provincia di Bergamo, Grafo, 2006, p. 131