Gli abitanti di Clanezzo la chiamavano la “Fucina del Diavolo” per via dei bagliori infernali sprigionati dalla fucina annerita dalla fuliggine e per il tonfo cupo del martello che colpiva ritmicamente il metallo, che venne utilizzato anche per forgiare armi destinate alla Repubblica di Venezia.
Più recentemente la fucina era tenuta attiva da numerosi “maestri” artigiani che si dedicavano alla produzione di attrezzi agricoli come vanghe, pale ed altro ancora.
fino a qualche decennio fa capitava ancora di sentir rimbombare nella valle il ritmato rumore del maglio. Il signor Giuseppe Personeni, ultimo magliaro, ogni tanto tornava, per passione, nei luoghi dove aveva trascorso una vita e dove aveva sapientemente lavorato il ferro, dando alla luce gli ormai ultimi attrezzi di una lunga e proficua serie.
Mastro Personeni portò avanti l’attività fino alla metà degli anni ’80 e della sua fucina è rimasta testimonianza nel film datato 1965 “E venne un uomo”, dedicato alla vita di Papa Giovanni XXIII, del famoso regista bergamasco Ermanno Olmi che qui girò alcune scene, probabilmente affascinato dalla bellezza e dalla “integrità storica” del luogo, rimasto quasi inalterato nei secoli.
Grazie alle riprese di questo film, ma anche grazie ad alcune foto d’epoca, possiamo ancora oggi fare un tuffo nel passato e vedere come si lavorava nella fucina di Clanezzo nel cuore degli anni Sessanta (1).
Anche se oggi non c’è più il rumore del maglio e le grandi ruote sono a pezzi, la suggestione del luogo è immutata, benché sia estremamente pericoloso anche solo avvicinarsi all’edificio, ormai cadente e pericolante.
Quando il maglio ancora era in funzione, all’ultima curva del sentiero l’incanto veniva rotto dallo stridore delle mole e dal cupo battito del maglio: un rumore antico, interrotto dal battito sonoro di un martello sull’incudine.
L’ultimo ostacolo, il fiume, veniva superato su un secolare passaggio elastico, incerto, dall’aria provvisoria: quattro cavi d’acciaio, sui quali erano gettate piccole assi, la metà delle quali rotte o addirittura mancanti.
Effettuato il pericolante passaggio, al rumore che aveva segnalato la presenza dell’officina si aggiungeva quello delle acque impiegate per muovere le grandi ruote, sistemate sul lato lungo della costruzione. L’acqua dell’Imagna, guidata da canaletti e scivoli, veniva adoperata dall’officina e restituita al fiume, poco più avanti.
L’interno sembrava la fucina di Vulcano: stretto, piccolo, basso e nero l’ingresso. Poi, una stanza adibita a magazzino e poi ancora il camerone e cioè la fucina, dove trionfava il nero del carbone accumulatosi da sempre. Alta fino al soffitto, con un lucernario e due alte finestrelle, invasa da ogni sorta di macchine, con un ballatoio che percorreva tre lati della costruzione.
I raggi del sole che penetrano dalle aperture scoprivano angoli che avevano dell’incredibile e particolari della meccanica senza età, che sembravano nati con il ferro, come se fra quelle pietre il tempo non fosse passato e l’acqua fosse il solo motore possibile.
Ogni macchina riceveva energia dall’acqua attraverso due grandi ruote a pale, una collegata ai ruotismi delle mole e di una sega circolare, la seconda ad un enorme maglio.
Un terzo impianto idrico con un complicato quanto semplice principio a sifone forniva un violento soffio d’aria per alimentare la forgia, che in antico serviva anche per fondere i materiali ferrosi provenienti da Valnegra.
Il pezzo forte era senz’altro il maglio, che la leggenda fa risalire a tempi lontanissimi. Si componeva di un forte albero di grosso fusto, lungo circa due metri, che a un terzo della lunghezza portava un anello “claudicante” con due perni che la Bibbia descrive fedelmente chiamandolo “boga”.
Nella parte anteriore il blocco di ferro, dalla caratteristica forma a testa d’asino, che batteva su un piedistallo anch’esso in ferro. Dietro il maglio terminava in una rastrematura che in posizione di riposo appoggiava su delle sporgenze metalliche infisse in un grosso albero posto trasversalmente, direttamente collegato con la ruota ad acqua. Quando questo secondo albero cominciava a ruotare le sporgenze sollevavano la testa del maglio lasciandola poi sfuggire. A seconda della quantità d’acqua che veniva rovesciata sulle pale della ruota si determinava la velocità di battuta del maglio, non la potenza, che era sempre uguale.
Il cupo e rapido battito del pesante maglio era un suono caratteristico e inimitabile. Ad ogni colpo le vecchie pietre vibravano (2).
IL MAGLIO OGGI
Se fino a qualche decennio fa, il maglio e i suoi dintorni erano caratterizzati dalla presenza di manufatti che evidenziavano l’utilizzo continuo della fucina, dopo la cessazione delle attività si sono verificati deterioramenti e atti vandalici, sia alle attrezzature che all’edificio stesso.
Oggi, come mostrato dalle immagini, il caseggiato che per secoli ha ospitato il maglio di Clanezzo è completamente rovinato e abbandonato: tutti i precedenti tentativi di preservare questa importante realtà storica sono stati inefficaci; il comune non può intervenire perché l’immobile è di proprietà privata e un recupero pare improbabile. Immutata è invece la suggestione del luogo.
LE ORIGINI DEL MAGLIO
L’edificio del maglio, con le sue grosse pietre squadrate ha un’origine molto antica, risalente al XIII secolo: la fucina infatti era stata impiantata in una costruzione precedentemente utilizzata come mulino, come si evince da un un documento del 1296, redatto nel periodo in cui il latifondo di Clanezzo era appannaggio del vescovo di Bergamo (3).
La lavorazione del ferro ebbe invece inizio nel 1548 ad opera di Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna, come si evince da un documento rivenuto presso l’Archivio di Stato di Bergamo (4), nel quale si legge che l’edificio necessitava già di tante cure manutentive.
A quei tempi il proprietario del maglio era Gian Giacomo Buscoloni, figlio di quel Bernardino, originario di Almenno, che nel 1539 aveva acquistato la tenuta di Clanezzo dall’Istituto della Pietà (quest’ultimo, l’aveva venduta per le gravi difficoltà economiche causate dalle guerre del Cinquecento). Gian Giacomo subentrava al padre nella conduzione degli affari e con ogni probabilità si districava bene in quanto riuscì ad acquistare nuove terre nel circondario. Egli, il 28 giugno del 1551 aveva ottenuto con decreto ducale il privilegio dell’esenzione dal dazio per la condotta del ferro crudo, di rottami, scaglie e carboni. I dazi per il ferro infatti erano così alti che molti abbandonavano la professione, ed essendo la montagna molto povera, dovevano lasciare le terre ed emigrare nel Milanese (5) .
CARLO CAMOZZI, PRODUTTORE DI CANNONI
Ma fu nel Settecento che dalla fucina di Clanezzo uscirono armi in gran quantità, che venivano trasportate a Venezia per essere utilizzate per la difesa di terra e per armare le navi della flotta. Oltre alle armi, la fucina produceva anche molto ferro lavorato.
A produrre le armi per conto di Venezia era Carlo Camozzi di Bordogna (6), figlio di quel Marco che nel 1701 aveva preso in affitto, dal conte Leopardo Martinengo da Barco, la tenuta di Clanezzo, compresi il castello, il porto e l’edificio della fucina, cui era tenuto a provvedere, ad esclusione dei muri e del tetto.
Nel 1711 Carlo, da tempo instradato dalla sua famiglia nell’arte della lavorazione del ferro, aveva rilevato dal padre la gestione della fucina di Clanezzo e di quella di Strozza, avviando nel 1712 una fabbrica di cannoni a Lizzone, presso la Ventolosa di Villa d’Almè: numerosi atti notarili pubblicati nel libro di Diego e Osvaldo Gimondi (7), attestano che per decenni, nella fucina di Lizzone vennero fabbricati numerosi cannoni e rispettive munizioni per conto di Venezia – impegnata in quel periodo nella guerra contro il “nemico turco” -, e che nei periodi di scarsa produzione, Carlo Camozzi era autorizzato a fabbricare armi anche per il Ducato di Milano (8).
Data la cospicua ed eccellente produzione, alla fonderia della Ventolosa (9) si attribuì una forte rilevanza militare, ma d’altro canto non mancano testimonianze che attestano una vivace attività anche presso il maglio di Clanezzo, dove, se dobbiamo credere alle parole di G. Rosa, la produzione di cannoni e di proiettili era iniziata nel 1706 (10), ed era ancora in atto nel 1749, nel periodo in cui anche la fabbrica di armi di Gromo produceva spade e altre armi da punta e taglio, come risulta dalle relazioni inviate a Venezia dai Rettori (11).
Anche l’abate G. Battista Angelini, nativo di Strozza, dove risiedette nel periodo dell’attività svolta dal Camozzi, nella sua celebre opera “Bergamo descritta a mosaico”, descrisse in versi la fucina di Clanezzo. Dalla sua opera apprendiamo che la fucina produceva molto ferro che, in verghe, piastre e cerchi veniva venduto alla fiera di Almenno, e che la fabbricazione di armi era molto fruttuosa, considerati i continui venti di guerra che spazzavano la Repubblica.
Dalla fucina uscivano palle da bombarde, colubrine e cannoni (12), di cui l’Angelini descrive i passaggi che della fusione portano allo stampaggio e alla successiva prova del fuoco.
Prima di essere venduti, i pezzi venivano collaudati sul posto, quindi per la valle spesso si udivano i rimbombi prodotti dagli scoppi: “Di palle da bombarde, e colubrine/Si fa qui sotto ‘l getto, e ‘l getto de cannoni”. Solo uno dei tanti operai rimase vittima durante questi esperimenti (13).
OLTRE ALLE ARMI, LA PIETRA FOCAIA
Nel territorio di Ubiale, polo di monte dell’attuale comune di Ubiale Clanezzo, si cavava tra l’altro una pietra utilizzata come focaia, che battendola faceva spruzzi e faville. Veniva venduta alla fiera a caro prezzo, perché era pregevole e si poteva paragonare alla pietra di Calcedonia: nelle case serviva da “accendino”, ma era molto usata anche in ambito militare perché perfetta per l’archibugio, un antenato del fucile con il quale si procedeva allo sparo con l’ausilio di un acciarino composto da un pezzo d’acciaio e da una pietra focaia (14).
Una pietra simile, era il quarzo estratto ad Ubiale fino agli anni Sessanta, che doveva trovarsi nei pressi della vecchia cava in località Coste, ora ricoperta da una fitta vegetazione (la tramoggia è ancora visibile lungo la strada che porta ai ponti di Sedrina).
DOVE SI TROVA L’EDIFICIO DEL MAGLIO
Il maglio non è facile da scoprire. Si trova sotto l’antico Castello di Clanezzo, in una stretta valletta là dove l’Imagna disegna un’ansa. Vi si accede seguendo il sentiero che conduce alla Centrale elettrica, svoltando però a sinistra anziché proseguire la discesa. Ed è sulla riva sinistra del torrente che, quando gli alberi sono spogli, si può scorgere un grosso caseggiato solitario: è l’antichissima fucina di Clanezzo.
Per raggiungerla bisogna costeggiare parte del muro di cinta del Castello e proseguire per la chiesa e via S Gottardo, da dove, svoltando a sinistra per via Marconi, si incontra un lungo ed antico edificio adibito ad abitazioni.
Oltrepassato il caseggiato si svolta nuovamente a sinistra per via della Centrale: qui la strada lascia il posto ad una sterrata, attrezzata con guardrail, che scende fino alla valletta dell’Imagna e che consente di avvistare in lontananza la dismessa Centrale elettrica di Clanezzo.
Mantenendosi sulla sponda sinistra del torrente, in parte scavato tra le falde della roccia, in pochi minuti si arriva alla vecchia Centrale, da tempo in disuso, e costeggiando il muro di cinta dell’edificio si raggiunge il punto di captazione dell’acqua dell’antico canale che indirizzava le acque del torrente Imagna alla grande fucina del ferro.
Per vedere quel che ne rimane, arrivati al cancello della centrale anziché proseguire in discesa si procede a sinistra su uno stretto sentiero e in pochi minuti si arriva alla costruzione, in completo abbandono: ormai ridotto ad un edificio decadente e quasi diroccato, col tempo verrà invaso dalla vegetazione. La prudenza consiglia a chiunque volesse recarsi sul posto di tenersi a debita distanza dall’edificio, che racchiude fra le sue mura la bellezza di oltre sette secoli di storia.
Note
(1) La documentazione fotografica conservata dal “Museo delle Storie di Bergamo nell’Archivio Fotografico Sestini”, abbraccia invece un arco di tempo che va dal 1960 al 2000. La collezione è stata resa possibile soprattutto grazie alle fotografie di grandi artisti e fotoreporter contemporanei come Pepi Merisio (1931-2021), Pier Achille Terzi, detto Tito (1936-2010), ed altri. Nei loro scatti, questi grandi fotografi sono riusciti a catturare suggestive pagine di storia, che altrimenti sarebbero andate perdute.
(2) Per la descrizione dell’itinerario e della fucina, Paolo Impellizzeri e Marco Antonio Solari per il Giornale di Bergamo del 5 novembre 1967.
(3) Un documento del 1296 riporta che un certo “Cagniginus de clenezio de brembilla” pagava già allora al vescovo di Bergamo, Giovanni di Scanzo, un fitto per poter condurre ad una casa vicina all’Imagna acqua “…sufficintem tribus rotis molendinorum”, cioè sufficiente per azionare tre ruote da molino (Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000).
(4) Cinzia Gamba, Stefania Mauri, Tesi di Laurea dal titolo: I magli nella Bergamasca: L’esempio di Clanezzo. Anno accademico 1995/96. Contiene notizie dettagliate sul maglio di Clanezzo e sulla lavorazione del ferro nella bergamasca. Presso l’Archivio di Stato di Bergamo gli architetti Cinzia Gamba e Stefania Mauri hanno trovato un documento riguardante la disputa sorta tra il proprietario del luogo (il Buscoloni) e il Magistrum Alexandrum Venturini di Villa d’Ogna, magliaro, redatto dal notaio A. Rescanzi in data 23 novembre 1548. Il Venturini chiedeva la riduzione delle spese di affitto quantificate in duecento lire imperiali, perché aveva dovuto sostenere le spese di manutenzione dell’edificio (U. Gamba, op. cit.).
(5) Dalle relazioni dei rettori veneti emerge che il ferro della Val Brembilla veniva portato nel Milanese, facendo diminuire guadagni, lavoro e numero delle maestranze: la popolazione si trasferiva quindi in altri stati per procurarsi il vitto. Alla metà del ‘700, la concorrenza delle miniere scoperte nel Milanese e nel Piemontese aveva procurato un grave danno alla debole economia locale. Vent’anni dopo il prodotto del ferro non è più abbondante, non per deficienza di vene, ma per il costo dell’estrazione. Nel 1787 il capitano e vice podestà Bartolomeo Mora sollecita il Senato affinché ridia vitalità alla produzione di ferro nei forni, i quali sono chiusi o lavorano al minimo; fa presente che per far funzionare un forno (escavazione, trasporto, carbone e fusione), lavorano circa 300 persone e in una fucina al massimo 8, perciò non si deve favorire l’importazione di ferro, ma bisogna farlo produrre nella valle (U. Gamba, op. cit.).
(6) Originaria di Bordogna, in alta Valle Brembana, la famiglia Camozzi si occupava da tempo di metallurgia e fu una delle ultime ad operare con grande risonanza sul territorio brembano. Tale famiglia nel XVII secolo ramifica la sua discendenza in Valle Imagna, precisamente a Strozza, trasferendosi in seguito a Clanezzo, dove nel 1701 Marco Camozzi, con i figli Carlo e Gabriele, prende in affitto dal conte Leopardo Martinengo da Barco, per nove anni, la tenuta di Clanezzo, risiedendo probabilmente nel palazzo (il suddetto contratto di locazione sarà ripetuto con Carlo Camozzi nel 1724). Nel 1702, Marco gestisce, oltre la fucina di Clenezzo, anche quella di Strozza (Diego e Osvaldo Gimondi, “Villa d’Almè – dal Settecento al secondo dopoguerra”. Ferrari Editrice, Clusone, 1998, pagg. 31 e segg.).
(7) Nel corso del secolo la Serenissima, alla necessità di armamenti nuovi da impiegarsi contro i turchi, non trovando adeguata risposta dalle fonderie bresciane che affrontavano un momento di grave crisi, induce i governanti veneti a rivolgersi a Carlo Camozzi, il quale nel 1712 propone alla Serenissima la creazione di un nuovo impianto di forni e uno schema di contratto attraverso il quale si impegna a consegnare, annualmente, per dodici anni, quaranta cannoni di diverso calibro e rispettive munizioni. Nel giugno del 1712 Carlo avvia la sua fabbrica di cannoni, trasferendo la sua dimora a Lizzone. Si legge nel testo che “Il ritrovamento di un ingente numero di documenti notarili ci testimonia senza alcun dubbio che, contrariamente a quanto sino ad oggi affermato…il loco della Fondaria de canoni del signor Carlo Camozzi, era “posta di là dal Brembo Comune d’Almenno Santo Salvatore distretto di Bergamo. Si tratta di quella fascia di terreno sulla sinistra del fiume chiamata Lizzo, o Lizzone che, proprio con l’installazione della fabbrica di cannoni prese il nome di Fonderia….”, dove Carlo trasferì la propria dimora e dove risulta abitare ancora nel 1735. Egli, prima di dedicarsi alla produzione di cannoni, era stato occupato in qualità di maestro presso la fonderia di Tiburzio Bailo (D. e O. Gimondi, op. cit.) a Sarezzo, in Val Trompia (BS), il primo fornitore nazionale di cannoni in ferro e rispettivi proiettili per il naviglio della Repubblica di Venezia, “per la quale produsse più di 470 cannoni tra il 1689 ed il 1702” (…) “Venezia trovò un nuovo fornitore in Carlo Camozzi dopo un tentativo fallito di realizzare i cannoni in ferro direttamente nel proprio Arsenale (1718-1719)”. Carlo Camozzi “creò una nuova industria a Clanezzo nel bergamasco, attiva dal 1722 ai primi anni Quaranta del Settecento” (Cannone veneziano da 40 libbre (sottili)). Le alterne vicende belliche alternate ad anni di lunghe tregue, segnarono il declino del Bailo, che alla ripresa delle ostilità turche si trovarono nell’impossibilità di fornire i cannoni, in quanto i fabbricati erano andati in rovina, i forni smantellati e la Serenissima non intendeva finanziare un ripristino oneroso. Il momento fu propizio al Camozzi, che nel 1712 decise di mettersi in proprio, proponendo a Venezia la costruzione di un forno nella zona pianeggiante fra Clanezzo e Oltre Brembo (come era chiamata la località Fonderia fino al 1884). I cannoni del Camozzi erano in ferro fuso ed avevano il notevole vantaggio di avere un costo inferiore a quelli di bronzo. Nel 1714, dopo il collaudo favorevole dei primi esemplari, Venezia ordinò quaranta cannoni all’anno per dodici anni a cui fecero seguito negli anni successivi altre commesse per centinaia di pezzi per una quantità totale di oltre 1900 cannoni di vario calibro (da Villa d’Almè informa. Notiziario del Comune di Villa d’Almè. Anno 3. Giugno 2021. N. 6).
(8) Ciò avvenne anche nel 1727, dopo che Venezia raggiunse una certa stabilità in terraferma e dopo la sconfitta di Morea, con la quale i Turchi non rappresentavano più una minaccia sul mare (D. e O. Gimondi, op. cit.).
(9) Un atto notarile, in cui si allude ad una “compagnia vecchia della fonderia”, fa intendere che nel 1730 nella proprietà siano intervenuti dei cambiamenti e cioè che sia cambiata la ragione sociale (anche se un documento relativo a una deliberazione del governo veneziano in cui vengono ordinati duecento cannoni di ferro in Bergamasca, lascia intendere che nel 1736 i Camozzi risultano essere i “Partitanti” della nuova “ditta”). Negli anni seguenti le notizie sono sempre più rare. La fabbrica dei cannoni alla Ventolosa era ancora in piena attività nel 1742. Non è dato di sapere quando La fonderia finì di adempiere alle sue originarie funzioni. “Il Belotti afferma che il grande impianto dove si producevano i cannoni per Venezia, successivamente non ebbe fortuna e rimase quasi inattivo, riducendosi alla semplice produzione di falci”. Dei Camozzi, come si apprende da una Ducale del 1736, “conosciamo la nuova destinazione: Bergamo. Carlo, lasciata l’incombenza ai figli che erano divenuti a loro volta ‘maestri’ della fonderia, morì, cosa che non possiamo confermare, verso il 1767”. “Con la fine della produzione dei cannoni presso la fonderia del Lizzone, l’industria metallurgica andò segnando il passo, trascinando con sé anche quella mineraria che, grazie appunto alla fonderia, per oltre mezzo secolo, aveva permesso la sopravvivenza di molte miniere della valle” (D. e O. Gimondi, op. Cit.). Altrove si legge che gli ordini si esaurirono nel 1743, quando Venezia non era più minacciata dal pericolo turco (da Villa d’Almè informa, op. cit.).
(10) G. Rosa, Notizie statistiche della Provincia di Bergamo in ordine storico., pag. 133. Tip. Pagnoncelli 1858 Bergamo. Nel testo si legge che la Serenissima “…soccorse alla decadenza di nostra metallurgia, aprendo nel 1605 una fonderia di cannoni e di proiettili a Brescia, nel 1706 altra simile a Ventolosa e Clanezzo presso Bergamo e di proprietà Camozzi, nel 1776 un’altra a Castro presso Lovere”. Ma da quanto osservato sinora, in base agli atti notarili consultati dali fratelli Gimondi (op. cit.), per la Ventolosa la produzione dei cannoni si avvia dal giugno del 1712. Altrove si legge invece che Carlo Camozzi “creò una nuova industria a Clanezzo nel bergamasco, attiva dal 1722 ai primi anni Quaranta del Settecento” (Cannone veneziano da 40 libbre (sottili)).
(11) Il Lanfranchi” (Giacinto Lanfranchi, “I cannoni di Bergamo hanno allontanato il turco dall’Europa”. Atti dell’Ateneo (in), vol. XXX, anno 1957/59) scrive che ‘Venezia, nel 1721, al 22 giugno, ordina “al Camozzi mortai da 40 che non erano urgenti perché solo il 22 febbraio dell’anno seguente, inviò a Clanezzo, i disegni dei letti per montarli” e che “Dopo questa fornitura, la fonderia ebbe parecchi mesi di arresto con grave danno per il Camozzi obbligato a tenere la maestranza inoperosa”. E’ di questo periodo (1721) “il riconoscimento, a motivo della bontà delle armi prodotte a Lizzone, che Venezia concesse al Camozzi, il diritto di collaudare i suoi pezzi sul posto” (D. e O. Gimondi, op. Cit.). Umberto Gamba cita invece le relazioni dei rettori veneti Alvise Contarini e Nicolò Erizzo. Nella relazione del rettore veneto Alvise Contarini II, del 10 giugno 1749 si legge che nel territorio della provincia, oltre alle altre fucine, vi è la fabbrica di armi di Gromo che “….produce spade et altre armi da punta e taglio militari e la fondaria dell’artiglieria situata in Claneso…”, mentre Nella relazione del rettore veneto Nicolò Erizzo, del 20 dicembre 1754, è scritto che nel territorio vi sono 45 fucine e 9 forni nella valle di Scalve e Brembana e 28 nella Valle Seriana, in più la fonderia delle artiglierie che esiste in “Clenezzo” (Istituto di Storia Economica dell’Università di Trieste, Relazione dei Rettori veneti in terraferma XII Podesteria e Capitanato di Bergamo, Vol. XII, 1978, rispettivamente pag. 685 e pag. 718. In U. Gamba, op. Cit.)
(12) Le bombarde, già conosciute dal 1300 e diffusesi nel 1400, erano formate da due tubi di ferro coassiali, uno grosso che conteneva il proiettile, in genere una palla di pietra, e l’altro più stretto, dove veniva messa la carica. Modificato in seguito il disegno e perfezionato il funzionamento, nel XV secolo presero il nome di cannoni. Le colubrine comparvero più tardi. Lunghe e strette, all’inizio si portavano a mano, in seguito vennero montate su di un affusto. Avevano questo nome, perché le prime prodotte rappresentavano sull’altorilievo di volata un sepente (colubro). Anch’esse in seguito vennero sostituite dai cannoni, più efficienti e potenti (U. Gamba, op. cit.).
(13) Vincenzo Marchetti (a cura), “Angelini Giovanni Battista erudito bergamasco del Settecento”. Quaderni del centro documentazione beni culturali IV, Ferrari Grafiche, Clusone 1991, pagg. 95 e 96.
(14) V. Marchetti o.c. pagg. 96 e 97.
Riferimenti principali
Umberto Gamba, “Ubiale Clanezzo. Storia di una comunità”. Ferrari Editrice, Anno 2000.
D. e O. Gimondi, “Villa d’Almè – dal Settecento al secondo dopoguerra”. Ferrari Editrice, Clusone, 1998, pagg. 31 e segg.
Nota alle immagini
Le fotografie relative al reportage realizzato da Pepi Merisio negli anni 1965/’66, sono di proprietà dell’Ente AESS (Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione Lombardia), che ne conserva le copie digitali.
Le fotografie recenti, relative agli anni 2018 e 2024, sono realizzate da Maurizio Scalvini.
Fin dal XIII secolo il comune di Bergamo aveva costruito il suo dominio sul “contado”, ma nel 1331, nel momento in cui appare ormai forte la supremazia della città sul suo territorio, Bergamo accetta di sottomettersi a un signore, il re Giovanni di Boemia, perdendo la propria autonomia. Da quel momento Bergamo sarà sempre sottoposta a un dominio esterno: visconteo fino al primo quarto del XV secolo, e quindi veneziano, con le brevi parentesi della signoria malatestiana agli inizi del XV secolo e del governo spagnolo-francese subito dopo la sconfitta veneziana di Agnadello nel 1509.
Nel corso delle guerre per la supremazia regionale, perdurate per buona parte della prima metà del Quattrocento tra i maggiori Stati regionali dell’area italiana (Repubblica di Venezia, Ducato di Milano, Repubblica di Firenze, Stato Pontificio e Regno di Napoli), Bergamo è una pedina nel gioco diplomatico e militare tra il Ducato di Milano (che, all’apice della sua potenza, la possiede dal 1332) e la Repubblica di Venezia, che, intenzionata ad espandersi nell’entroterra lombardo, muove contro Milano per raggiungerne il definitivo controllo.
Sarà solo con la pace di Lodi, raggiunta nel 1454, che verrà sancita quella “politica dell’equilibrio” fortemente voluta dalla Repubblica di Firenze sotto Lorenzo de’ Medici, per porre una sorta di bilanciamento fra i vari ducati, regni e repubbliche della penisola. Ma con la morte di questi nel 1492 quell’equilibrio instabile andrà in frantumi, creando le condizioni per l’invasione straniera che dagli inizi del Cinquecento vedrà la penisola percorsa in lungo e in largo dagli eserciti Francesi, Spagnoli e Imperiali, decisi a spartirsi parte dei territori italiani e a porre fine alla crescente potenza della città lagunare, tale da sembrare l’unica in grado di unificare il nord sotto un’unica insegna.
Le guerre si estingueranno solo con la pace di Cateau Cambrésis (1559) e con la rinuncia alla politica espansionistica della Repubblica di Venezia, che da questo momento s’impegnerà a garantire la sicurezza dello Stato di Terraferma attraverso un un piano unitario di fortificazioni per la progettazione della difesa, all’interno del quale la Bergamasca rappresenta la punta più avanzata ad occidente.
LE CONTESE FRA MILANO E VENEZIA
Agli inizi del Quattrocento il Ducato di Milano aveva toccato la sua massima estensione e l’area della pianura Padana, compresa buona parte della Lombardia, era quasi interamente soggetta al dominio di Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano dal 1385.
In risposta alla minacciosa espansione dei Visconti, la Repubblica di Venezia, che per secoli aveva rivolto l’interesse verso il Mediterraneo e l’Oriente, aveva da tempo iniziato ad espandersi notevolmente anche nell’entroterra, dove andava raggiungendo la massima espansione (1).
Nel 1425, alleatasi allo Stato fiorentino entrava a far parte di una lega antiviscontea, concentrando il suo interesse sull’intero entroterra lombardo, alla bisogna ricorrendo a compagnie di ventura e mercenari, fra i quali giocò un ruolo importante il condottiero Bartolomeo Colleoni (1400-1476), l’eroe rinascimentale nato a Solza, nell’Isola Bergamasca, proveniente dalla nobiltà rurale.
La dominazione viscontea su Bergamo fu minata a più riprese: nel giugno 1408 entrò in città Pandolfo Malatesta, in precedenza condottiero al servizio dei signori di Milano e da qualche tempo avventuriero in proprio nella Lombardia dilaniata dalla guerra interna ai Visconti. Malatesta iniziò la sua signoria largheggiando in esenzioni e privilegi, ma nel 1414 il capitano di ventura Francesco Bussone detto il Carmagnola, per ordine del nuovo Duca Filippo Maria assediò la città obbligando alla resa le milizie del Malatesta chiuse nella Cittadella. La ripresa viscontea con Filippo Maria riportò quindi Bergamo in mano milanese (luglio-agosto 1419).
Il conflitto tra Venezia e Milano scoppiò nel 1426 e il mese di dicembre (prima pace di Ferrara) fissò il passaggio alla Serenissima di Bergamo, Brescia e Cremona. La guerra riprese nel marzo 1427, quando la Val Calepio venne occupata dalle forze milanesi. In ottobre, con la vittoria veneziana di Maclodio (nei pressi del fiume Oglio), la guerra poteva dirsi ormai conclusa.
Il guelfismo resisteva nel contado e soprattutto nelle valli, teatro di sanguinosi scontri e repressioni da parte viscontea, tanto che agli inizi di ottobre, le valli Brembana Superiore, tutta la valle Seriana Inferiore e alcuni comuni (Scanzo, Rosciate, Calepio) si diedero spontaneamente a Venezia ottenendone in cambio generosi privilegi ed esenzioni fiscali. In dicembre le truppe veneziane occuparono anche la Val Gandino, Trescore e la Val San Martino, giungendo sino alle mura di Bergamo.
Il 19 aprile 1428 si giunse ad una nuova, definitiva pace di Ferrara (conclusa tra Francesco Foscari e Filippo Maria Visconti), che lasciò ai milanesi la Gera d’Adda, Caravaggio e Treviglio, sottraendo definitivamente Bergamo ai milanesi e sancendo una volontà già espressa di passare a Venezia: e a Venezia, dopo un periodo incerto iniziale, Bergamo rimarrà legata fino alla caduta della Repubblica, coincidente con l’avvento della Dominazione Francese (Trattato di Campoformio, 1797), costituendo l’estremo confine occidentale della Terraferma veneziana.
Avvenne così il passaggio della città al dominio della Serenissima: l’8 maggio 1428 entrarono in Bergamo tre nobili veneziani con la carica di provveditori straordinari per prendere possesso della città in nome della Repubblica. Si trattava di Paolo Correr, Andrea Giuliano e Giovanni Contarini. Il 4 luglio, otto ambasciatori bergamaschi “superbissimamente vestiti” e accompagnati da un grandissimo numero di gentiluomini si recarono a Venezia per prestare giuramento di fedeltà alla presenza del Doge.
Milano continuava tuttavia a mantenere i contatti con i ghibellini bergamaschi, insidiando a più riprese il potere veneziano sulla città e il suo territorio: il Duca di Milano Filippo Maria Visconti non tardò a scatenare contro Venezia il suo esercito, comandato dal Piccinino, e nel 1432, presso Lecco, l’esercito veneziano, comandato dal Gattamelata, subì una grave sconfitta, con la cattura dei procuratori veneziani Venier e Corner, che avevano comandato l’attacco. Nell’esercito veneziano militava da quell’anno il trentatreenne capitano Bartolomeo Colleoni, che si era già distinto su molti campi di battaglia in tutta Italia e che presto divenne il grande difensore della città.
Nel territorio la guerra continuò con alterne fortune e per lunghi periodi Bergamo fu assediata dalle incursioni milanesi, che nel tentativo di riassoggettare la città, non risparmiarono nemmeno i borghi: nel novembre del 1437 l’esercito milanese del Piccinino, al servizio di Filippo Maria Visconti, si schierò sotto le mura, dove le difese approntate da Bartolomeo Colleoni impedirono la presa della città. Penetrò allora in Borgo Pignolo, devastandolo in gran parte, e depredando Borgo Palazzo e Borgo Santa Caterina nel settembre del 1438. Bergamo oppose resistenza sino a quando le milizie milanesi, ormai sfinite, spostarono i conflitti in Valcamonica e Valtellina. Il cruento assedio è ricordato da un affresco del Romanino conservato nel castello di Malpaga.
Le famiglie ghibelline della città brigavano per ricondurre Bergamo al dominio visconteo; non poche vennero esiliate in alcune delle città appartenenti al territorio veneto, da dove tuttavia continuavano ad ordire trame a favore dei Visconti, tanto che anche dopo la conclusione della pace alcuni membri della famiglia Suardi continuarono ad essere banditi dal territorio bergamasco e i loro beni confiscati.
Noto è l’episodio narrato da un’anonima fonte quattrocentesca e riportato dal Belotti, del complotto ordito da molti “bergamaschi amici del Duca”, che avevano racimolato soldi per corrompere il conestabile posto alla guardia di Porta San Lorenzo: nottetempo sarebbero vi sarebbero entrati, aiutati dalle milizie di Pietro Visconti e da un manipolo di Brembillesi. Ma il tradimento fu sventato e denunciato da tal Becharino da Pratta, un modestissimo caporale a servizio del conestabile (forse di origine friulana) e il traditore fu impiccato. Viscontei e ghibellini si vendicarono distruggendo case, torri e vigneti fuori dalle mura, e a Becharino da Pratta fu dedicato un passaggio in via San Lorenzo, comunicante con la via Boccola.
Il rapporto tra la città e le valli continuò ad essere conflittuale, ed è esemplare la punizione inflitta agli abitanti della Val Brembilla che, da sempre ghibellini e sostenitori dei Visconti, dovettero seguire la via dell’esilio, disperdendosi nella pianura; le loro terre rese sterili, tutte le loro case date alle fiamme, mentre in città si mozzavano torri gentilizie e tagliavano unghie all’artiglio ghibellino.
Bisognava giungere alla pace di Lodi, firmata nell’aprile del 1454, per stipulare una forma di pacifica convivenza tra i maggiori stati dell’area italiana, ponendo fine a trent’anni di lotte tra Venezia e Milano.
Francesco Sforza riconobbe il confine veneziano sul tracciato del Fosso Bergamasco, a ridosso di Milano, dove rimase pressoché invariato per secoli.
Il nuovo assetto politico-istituzionale regalò all’Italia cinquant’anni di pace ed insieme il definitivo dominio veneziano sul territorio di Bergamo, divenuta il naturale antemurale occidentale della Repubblica lagunare, decisa ormai a volgere il suo dominio verso la terraferma e servendosi soprattutto dell’opera del genio militare di Bartolomeo Colleoni.
Con la nuova posizione geopolitica di Bergamo, le gravitazioni, le direttrici di movimento, i contatti di ordine politico, sociale, economico, culturale, si rivolsero essenzialmente verso Venezia, con tutti gli effetti sulla vita così come sul costruito della città: è questo infatti il periodo in cui si concreta la distinzione in senso storico-politico di una “Lombardia orientale” che, se si considerano i territori di Bergamo e di Brescia (due città dal destino assai simile), può dirsi anche “Lombardia veneta” (3).
Ben presto l’Italia verrà coinvolta da nuovi eventi politici e da nuove guerre: le orrende Guerre d’Italia, che segneranno per il Cinquecento l’inizio del dominio peninsulare delle grandi monarchie europee (Francia, Spagna e Impero), decretando una serie di annate tragiche per tutto lo Stato di Terraferma veneziana, all’interno del quale anche Bergamo diverrà campo di lotta e di passaggio.
COME VENEZIA GOVERNA BERGAMO E IL SUO TERRITORIO
La Repubblica di Venezia eredita una struttura amministrativa organizzata durante i decenni precedenti dai Visconti e cercherà di modificarla il meno possibile. Il territorio bergamasco, dopo il 1428 è divenuto terra di frontiera verso il resto della Lombardia, con una capitale, Venezia, assai lontana e disposta a concedere anche larghe autonomie. Bergamo diviene una delle cosiddette “podestarie maggiori” della terraferma veneta, nella quale la città lagunare invia propri rappresentanti (i Rettori), scelti tra il patriziato veneziano e chiamati ad amministrare la giustizia, a difendere il territorio e a governarlo fiscalmente.
I Rettori, la cui carica dura 16 mesi, possono essere sostituiti od affiancati da cancellieri e segretari, coadiuvati da un Prevveditore, da un Camerlengo che amministra l’uffcio fiscale, dai due Collegi (Maggiore e Minore) e dal Castellano che comanda la Cappella (castello di San Vigilio).
Il podestà si insedia insieme al suo seguito nel Palazzo Podestatis nell’attuale Piazza Vecchia, mentre il capitano risiede in Cittadella insieme alla guarnigione; al loro insediamento si accompagna fra quattro e Cinquecento la definizione delle piazze su cui si affacciano le loro sedi e cioè rispettivamente Piazza Vecchia e Piazza Nuova (attuale piazza Lorenzo Mascheroni), quest’ultima realizzata a ridosso della Cittadella.
Il podestà (detto anche pretore) presiede al controllo della città e riveste un ruolo prevalentemente giudiziario e civile. Ha come collaboratori un vicario, un giudice del maleficio, un giudice della ragione, un cancelliere, un conestabile, due commilitoni.
Il capitano (o prefetto), consolida la Cittadella a partire dal 1433: vi trovavano posto i magazzini per le armi e le scorte di viveri. Egli presiede al governo della provincia e ha funzione di controllo fiscale e militare; ha la libertà e l’arbitrio di aprire e chiudere le porte della città, sovrintende alla custodia e al governo di tutti i soldati, cavalieri e fanti.
A fronte della garanzia del mantenimento del controllo militare e degli obblighi fiscali della Città suddita, a differenza dei Visconti Venezia si dimostra più liberale e rispettosa, evitando di giungere ad una contrapposizione netta con i poteri locali ormai consolidati, i quali, anche grazie al prestigio ottenuto durante l’assedio milanese, rivendicano la loro presenza in consiglio ed il godere dei pubblici uffici come privilegi esclusivi.
Al Consiglio Comunale hanno quindi accesso esclusivamente membri del ceto dirigente bergamasco, costituito, da un lato, da una consolidata aristocrazia locale che egemonizza la vita cittadina per mezzo di Iegami matrimoniali contratti tra nobili o alta borghesia, detenendo una consistente proprietà distribuita nelle campagne (4), e, dall’altro, da un’emergente classe borghese (mercanti, giuristi e notai), riguardata come spina dorsale della città e alleata naturale di Venezia, dove un potere oligarchico centrale basa le sue fortune sui commerci e sulla mercatura.
Lascia sopravvivere le antiche libertà comunali, mantiene la suddivisione in vicinie, rispetta le abitudini locali, tollera la libertà religiosa – legata ad una concezione laica dello stato -, impone ai suoi Rettori una presenza discreta e porta avanti un’amministrazione oculata e saggia, dettata da una fiorente economia che le permette di contare sulla fedeltà dei propri cittadini.
Anche al Vescovo locale (il cui nominativo è suggerito da Venezia), così come a tutto il clero regolare e secolare (circa 400 unità), è chiesto di fornire un sostegno concreto all’operato dei Rettori, per mantenere il controllo sulla città e sul territorio.
E’ su tali premesse che la ‘Dominante’ organizza la sua presenza politico-militare, inaugurando un duraturo rapporto con un territorio pieno di grandi risorse ed avviato verso un sostenuto sviluppo, anche se assolutamente Iontano dalle vie commerciali e destinato a restare sotto la sua ombra.
Il Consiglio Comunale (o Magnifica Comunità) è composto dal Consiglio Maggiore e dal Consiglio Minore, detto degli Anziani e chiamato anche Bina, cui hanno accesso esclusivamente membri del ceto dirigente bergamasco. Ad ogni seduta deve essere presente almeno uno dei due Rettori veneziani o loro vicari.
Al Consiglio minore spetta il compito di vigilare sull’operato dei Collegi (Collegio Maggiore, con 72 membri e Collegio Minore, con 12 membri), cioè le deputazioni alle quali, sempre più frequentemente a partire proprio dal Cinquecento, vengono demandate molte delle funzioni amministrative della città, come la cura delle vie di comunicazione, la vigilanza sul mercato locale e l’istruzione.
Tra le principali deputazioni vi sono il Collegio alla Milizia, che deve farsi carico dell’approvvigionamento e alloggiamento delle truppe di passaggio; i Deputati delle Affittanze, che gestiscono le proprietà comunali e i relativi incanti; il Collegio delle Acque, che si occupa della manutenzione della rete idrica della città e dell’affitto dell’acqua delle seriole; il Collegio alla Sanità, cui spetta la tutela della salute pubblica; il Collegio delle Biade, attivo in situazioni di crisi alimentare, deputato all’approvvigionamento granario.
Il territorio che Venezia ha assoggettato tra il 1427 e il 1428 è ben demarcato da confini naturali: a nord con la Valtellina, dominio della repubblica delle Tre Leghe a partire dal 1512, mentre ad ovest il confine bergamasco è definito dal corso del fiume Adda, che separa la Repubblica di Venezia dal Ducato di Milano. A sud il confine con Milano è dato dal cosiddetto “Fosso bergamasco”, che lascia ai milanesi Treviglio e il territorio della Gera d’Adda. A est, infine, il fiume l’Oglio e il lago d’Iseo segnano la separazione dal territorio di Brescia, anch’esso divenuto parte della Repubblica di Venezia.
Il territorio viene ripartito in pianura, montagna e valli ed ulteriormente suddiviso in 14 Quadre, all’interno delle quali ogni singolo Comune si governa autonomamente, pur essendo legato alla città. Ogni Quadra è governata da un Vicario (nominato dal Consiglio Maggiore della città), che riveste anche le funzioni di giudice civile, mentre ogni Comune è guidato da un Console, eletto annualmente dai cittadini. Il congresso generale dei Comuni si svolge in città, nel Palazzo della Ragione.
Nel territorio vi sono inoltre alcune Podesterie separate: Romano e Martinengo, che dipendono da Brescia, e Lovere e Cologno che dipendono da Bergamo.
Al grande programma di pacificazione e di stabilizzazione perseguito in Bergamo, corrisponde un’abile e lungimirante politica condotta da Venezia nel suo territorio. Le esenzioni da imposte e le autonomie eccezionali concesse dal Quattrocento – e a più riprese – alle martoriate valli e specialmente Seriana, Brembana e Scalve, sottendono lo scopo di garantire a Venezia l’assoluta fedeltà di queste terre (che rifioriranno in breve volgere di tempo), sia per poter potenziare e tutelare i percorsi commerciali senza dover sottostare alle dogane imperiali e sia per garantirsi una copertura della fortezza di Bergamo, avamposto incuneato nello Stato di Milano e perciò difficile da difendere se non viene sostenuto da un entroterra, di per sé pressoché inaccessibile per un eventuale esercito assalitore, popolato di gente fidata. Non minore peso rivestono gli argomenti economici basati sul fiorente artigianato locale, soprattutto seriano, e l’abbondante produzione di armi da taglio e, più tardi, di armi da fuoco.
LA VITA ECONOMICA
Ristabilita la pace tra le potenze e le fazioni a metà Quattrocento, Bergamo e il suo territorio poterono finalmente prosperare e rafforzare la propria condizione economica, anche grazie al buongoverno che tenne conto del pluralismo istituzionale e garantì l’autonomia precedentemente acquisita. Era il primo tempo di una dominazione che si mostrava attenta ai problemi della città e delIe ValIi, in procinto di riscattarsi dalle drammatiche condizioni di devastazione e miseria che avevano improntato per quasi un secolo il corso della dominazione viscontea (1332-1428), seguita nel Cinquecento dalle invasioni straniere e dalle ricorrenti carestie.
A fronte della povertà endemica delle Valli, dovuta soprattutto alla sterilità e improduttività del territorio, e da sempre terre di emigrazione (note le compagnie dei Bergamaschi a Venezia o a Genova dal XIV secolo), Bergamo riuscì a sostenere un forte sviluppo attraverso la lavorazione della lana (a Bergamo prodotta e commerciata già dal Duecento, mentre la seta farà capolino nel secolo successivo), l’estrazione e la lavorazione del ferro (industria di antichissima origine, data la presenza nel territorio di numerose miniere) e la relativa produzione di manufatti (che contempla anche quella preziosa delle armi bianche di Gromo), nonché la fabbricazione di pietre coti per affilare lame e la produzione casearia.
La stessa città di Bergamo era caratterizzata dall’essere da tempo un noto e fiorente centro commerciale e finanziario, tradizionalmente legato alla pianura lombarda: una “piazza” la cui vocazione mercantile trovava la massima espressione fisica nella Fiera che dal IX secolo si teneva ogni anno nel mese di agosto sul Prato di Sant’Alessandro, tra i borghi di San Leonardo e Sant’Antonio.
Il modello concreto di saggezza pubblica e capacità governativa espresso dopo la pace di Lodi, alimentò tra le operose genti orobiche un sentimento di unificazione e di comune sentire, e, ai primissimi del Cinquecento, malgrado le guerre che vedevano la penisola teatro di sanguinose dispute tra Francesi ed Aragonesi e nonostante la stessa città fosse stata invasa e saccheggiata, Bergamo poté godere di condizioni economico-sociali piuttosto favorevoli. Più tardi, lo sviluppo di infrastrutture commerciali e manifatturiere consentì di muoversi ed esportare forza lavoro in un orizzonte geografico più ampio – e, attraverso la nuova Strada Priula (1592 e il 1593), ormai europeo – e di stringere rapporti con il centro Europa in settori fondamentali quali la lana, la seta e il commercio delle ferrarezze.
IL CINQUECENTO: LE GUERRE D’ITALIA
Dopo il lungo periodo di prosperità economica che aveva contrassegnato gli ultimi decenni del XV secolo e i primi anni di quello seguente, l’Italia venne coinvolta da nuovi eventi politici e da nuove guerre: le orrende Guerre d’Italia, che segnarono l’inizio del dominio peninsulare delle grandi monarchie europee (Francia, Spagna e Sacro Romano Impero), decretando una serie di annate tragiche per tutta lo Stato di Terraferma veneziana, all’interno del quale anche Bergamo era divenuta campo di lotta e di passaggio.
Terminata la “politica dell’equilibrio” tra gli stati italiani con la morte di Lorenzo de’ Medici (1492), le tensioni a lungo represse portarono presto l’Italia ad essere dilaniata dall’invasione dei maggiori potentati europei.
Mentre Venezia proseguiva la sua politica espansiva nell’entroterra verso la Romagna, il Trentino e la Lombardia, raggiungendo l’apice della sua potenza, Ludovico Sforza “il Moro”, signore di Milano (1452-1508), la guardava con astio, come guardava con astio anche gli altri principati italiani: dalla medicea Firenze, centro rinascimentale per antonomasia, all’aragonese Napoli, florida sul piano economico ma retta da una dinastia mal vista sia dalla popolazione che dalla stessa nobiltà locale.
Al centro si stagliava lo Stato Pontificio, retto da Alessandro VI (1431-1503), con la sua corte papale celebre per mecenatismo e sviluppo artistico ma discutibile sul piano religioso e spirituale, tanto che lo stesso pontefice era giunto persino a concepire la creazione di uno stato centro-settentrionale da porre nelle mani di suo figlio, il celeberrimo Cesare Borgia.
A provocare l’invasione da parte straniera fu Ludovico il Moro, che animato da rivalità verso le altre casate italiane e dalla volontà di diventare il centro dell’equilibrio italiano, fidando troppo in se stesso invitò il re di Francia, Carlo VIII (1470-1498), a scendere in Italia per occupare il Regno di Napoli, sul quale il monarca sosteneva di vantare diritti feudali dovuti al precedente dominio angioino.
Seppur costretto ad una rapida ritirata da una lega degli stati italiani (1495), l’invasione di Carlo VIII diede inizio al ciclo di guerre che avrebbero devastato la penisola nel trentennio successivo, stravolgendo nell’arco di un decennio la geografia politica italiana a favore delle ingerenze straniere.
Ludovico il Moro fu travolto dall’esercito di Luigi XII (1462-1515), cugino del re di Francia Carlo VIII, e il Ducato di Milano annesso alla corona francese.
Lo stesso sovrano, alleatosi con gli aragonesi spagnoli abbatté il Regno di Napoli (1501); tuttavia i territori meridionali passarono alla corona di spagnola in seguito a una breve guerra fra le due potenze (1501-1503).
La Repubblica fiorentina (5) così come i Ducati di Savoia, Ferrara, Mantova, iniziarono a dipendere dallo “straniero” per conservare la propria autonomia, poggiandosi ora alla Francia di Luigi XII, ora all’Impero di Massimiliano I (1459-1519, Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1493 alla morte), mentre da anni la Repubblica di Genova era di fatto un protettorato della corona francese.
Nello Stato Pontificio, Cesare Borgia (1475-1507), approfittando della crisi in atto e dell’appoggio paterno aveva creato il suo personale ducato a scapito degli stessi territori pontifici, occupando le città di Rimini, Forlì, Cesena, Imola, Fano e Pesaro (1501-1503), e alla cui espansione pose termine la morte del padre e l’ascesa al soglio pontificio di Giulio II (1443-1513), nemico giurato dei Borgia.
L’ESPANSIONE DI VENEZIA E IL SCONTRO CON PAPA GIULIO II
Solo uno stato in Italia non aveva subito alcun danno, anzi, aveva visto crescere la propria potenza: Venezia, la quale nel corso dei vari conflitti ne aveva approfittato per estendere la propria influenza in Italia: nel 1499 si era schierata al fianco di Luigi XII, contribuendo all’abbattimento della signoria sforzesca su Milano e ricavando in cambio la città di Cremona e il controllo sull’area dell’Adda (la Gera d’Adda). Successivamente, nel 1503, aveva appoggiato le pretese spagnole sul sud, ricavando la conferma del controllo sui porti pugliesi di Otranto, Brindisi, Barletta, Monopoli e Gallipoli (strategicamente vitali per i traffici marittimi veneziani all’interno del proprio “golfo”), ottenuti con la breve restaurazione aragonese (1496). Padrona indiscussa dell’Adriatico, dominatrice assoluta del nord-est, Venezia aveva raggiunto l’apice della propria espansione. La Repubblica sembrava l’unica potenza italiana in grado di unificare il nord sotto un’unica insegna.
La crescente potenza della città lagunare destava preoccupazione sia agli altri stati italiani che alle potenze straniere presenti nella penisola, ma soprattutto a papa Giulio II, appena asceso al soglio pontificio: a preoccupare il pontefice era la dichiarata volontà della Repubblica di espandersi verso la Romagna.
Con la caduta di Cesare Borgia e il crollo dei suoi possedimenti romagnoli (1503), Giulio II aveva dato inizio a una politica volta a ricostituire e rafforzare l’antico Stato della Chiesa, in particolar modo quei territori umbri, emiliani e romagnoli che, seppur parte integrante del patrimonio di San Pietro, da secoli erano soggetti a signorie e a tendenze autonomistiche; alla fine del 1503 il papa iniziava la sua campagna di conquista militare recuperando Perugia e, soprattutto, Bologna, strappata alla signoria dei Bentivoglio. L’obiettivo era quello di rendere Roma l’ago della bilancia della politica italiana, ma prima bisognava fare i conti con l’altra “candidata”, Venezia, la quale aveva posto lo sguardo sulle città appartenute al Borgia con l’intenzione di aumentare la propria influenza in quel settore, dove già controllava da tempo Cervia e Ravenna.
Tra il 1503 e il 1504 iniziarono i primi contrasti tra le due parti; Venezia aveva annesso le città di Rimini e Faenza, Giulio II occupava Pesaro. Le tensioni sfociarono nel momento in cui il papa prendeva possesso di Cesena e Imola; il nocciolo del problema stava nel fatto che la Serenissima aveva preso possesso dei contadi delle rispettive città (e una città, privata delle campagne circostanti, è soggetta a grosse difficoltà). Giulio II reagì con durezza all’azione veneziana, pretendendo non solo la restituzione dei contadi, ma anche delle altre città romagnole; al netto rifiuto, il pontefice iniziò allora una serie di trattative con le potenze straniere al fine di creare una lega contro la città di San Marco.
VERSO LA FORMAZIONE DELLA LEGA DI CAMBRAI CONTRO VENEZIA
Le trattative avviate dal papa contro Venezia coinvolgevano gran parte degli stati italiani ma anche le principali potenze europee. Tutti avevano dei conti da regolare con lo Stato marciano; il re di Francia guardava alle città lombarde della Serenissima (Bergamo, Brescia, Cremona, Crema…), con la volontà di ripristinare la grandezza dell’antico Ducato milanese (nodo essenziale di ogni tipo di dominio: economico, militare e politico); a sua volta l’Imperatore Massimiliano I rivendicava Veneto, Istria e Friuli quali possedimenti dell’Impero; il monarca di Spagna Ferdinando II d’Aragona rivoleva i porti pugliesi, mentre il Regno d’Ungheria non nascondeva le mire sulla Dalmazia; il Ducato di Ferrara ambiva al Polesine, quello di Mantova ad Asola, quello di Savoia guardava a Cipro, Firenze non digeriva l’appoggio veneziano alla ribelle Pisa; lo Stato Pontificio rivoleva l’intera Romagna (agognata da Giulio II per ristabilire un’unità statale): ognuno aveva un motivo d’astio o rivalsa nei confronti della potente Repubblica.
Tuttavia Venezia poteva contare sulla potenza del suo esercito e, cosa non da poco, sulle varie discordie che regnavano fra i suoi nemici, specialmente fra l’Impero e la Francia.
A Cambrai, nel Dicembre del 1508, fu stipulata la lega anti-veneziana; vi aderirono Giulio II, Luigi XII di Francia, Massimiliano, la Spagna e i ducati di Mantova, Ferrara e Urbino.
Resasi conto del pericolo, la Serenissima tentò in extremis una riconciliazione col papa, offrendo concessioni in Romagna e ricevendo non solo un netto rifiuto, ma anche l’interdetto papale. Era l’inizio del conflitto: Venezia sfidava l’Europa.
E fu la guerra, una guerra che portò la Lombardia ad essere invasa da truppe francesi e spagnole, con la ricomparsa dei ghibellini in città a fomentare le divisioni cittadine: con la pesantissima sconfitta subita da Venezia ad Agnadello nel cremonese (1509), ad opera dei Francesi di Luigi XII ed ottenuta con la complicità dei ghibellini, Venezia si arrese al re di Francia.
LE CONSEGUENZE DELLA DISFATTA DI AGNADELLO
La “rotta della Ghiaradadda” fu un colpo terribile per Venezia. Le potenze della lega di Cambrai approfittarono della crisi veneziana per agire; le truppe pontificie conquistarono le terre romagnole, inclusa Ravenna, mentre nel sud la Spagna si riprendeva i porti pugliesi; il duca di Ferrara occupava il Polesine e Rovigo. Quanto a Luigi XII, questi annetteva al Ducato di Milano le città di Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, Peschiera e la Gera d’Adda. Mentre Verona, Padova e Vicenza si ribellavano dandosi a Massimiliano I.
Dunque Luigi XII annetteva al Ducato di Milano le città di Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, Peschiera e la Gera d’Adda.
Nonostante tutto, Venezia sarebbe stata in grado di riprendersi; approfittando della lentezza delle forze imperiali, della seguente riappacificazione con Giulio II (1510) e dell’appoggio delle campagne venete, ostili all’occupazione imperiale, la Serenissima diede avvio alla riconquista dei territori perduti: già alla fine dello stesso anno, il Veneto era quasi stato recuperato.
La guerra sarebbe proseguita sino al 1516, con numerosi cambiamenti di alleanze e fronti; la Serenissima avrebbe fatto fronte alla Francia alleandosi al Papato, all’Impero e alla Spagna (Lega Santa, 1511) per poi cambiare clamorosamente schieramento (1513) e affiancare Luigi XII prima Francesco I poi. I nemici di Agnadello avrebbero trionfato assieme a Marignano nel 1516, la battaglia che permise alla Francia di riprendersi Milano, precedentemente perduta, e a Venezia di recuperare il grosso dei territori.
Era comunque l’inizio della fine: dopo il ridimensionamento seguito alle guerre d’Italia, la giornata di Agnadello avrebbe rappresentato per la Serenissima la data spartiacque fra il culmine della sua potenza e l’inizio del suo lento declino, declassandola inesorabilmente tra le potenze di secondo piano, per lasciare il posto alle grandi monarchie straniere, nuove regine della politica internazionale. Ciò significava per Venezia accantonare l’atteggiamento aggressivo per adottare una politica difensiva e di contenimento.
La successiva guerra della lega di Cognac, una delle otto guerre d’Italia, fu combattuta tra il 1526 e il 1530 tra gli Asburgo di Carlo V e Francesco I di Francia, chiudendosi con il definitivo dominio degli Asburgo sull’Italia, delle cui sorti Carlo V divenne unico e incontrastato arbitro. Le ostilità tra Francesi ed Impero furono sedate soprattutto dal minaccioso incalzare dei turchi, ormai prossimi ad attaccare i possedimenti asburgici nel centro Europa, quindi costringendo Carlo V a firmare un accordo con i Francesi.
Nel timore di un’eccessiva egemonia asburgica, gli stati italiani si erano uniti nella Lega di Cognac a fianco della Francia, e dove i maggiori interessi in gioco erano soprattutto quelli del papa e della Repubblica di Venezia. E’ a questo periodo che risale la decisione di fortificare Bergamo, per la quale la perdita definitiva dell’area cremonese e della Gera d’Adda configurava la posizione di un avamposto sospeso su un vuoto strategico, stretta com’era su due lati dei confini a lei prossimi dell’avversato Stato milanese nelle mani della Spagna, al culmine della sua potenza, e, sull’altro lato, da montagne impercorribili: la città verrà fortificata solo trent’anni dopo, quando Venezia deciderà di approntare strutture difensive moderne in tutto il territorio di Terraferma.
Prima che la guerra fra la Francia e gli Asburgo entrasse nel vivo, nel maggio del 1527 dodicimila Lanzichenecchi, soldati imperiali, per la maggior parte mercenari tedeschi di fede luterana, rimasti senza paga e poi senza comandante, avevano deciso di penetrare in Italia compiendo il terribile Sacco di Roma: essi attraversarono e devastarono pure la Bergamasca, portandovi carestia, peste (1528-29) e 150-200 morti al giorno, mentre si diffondevano febbri tifoidee e mal francese.
Le incertezze della situazione avevano provocato paure collettive e agitazioni religiose, e la già instabile situazione economica , aveva subito un tracollo.
Nel quadro mutevole degli assetti geopolitici generati dalle Guerre d’Italia, tra il 1509 e il 1529 Bergamo era passata due volte sotto il dominio francese e per ben sette sotto quello degli Asburgo ed altrettante volte, sottolinea Maironi da Ponte, “fu ripresa dai Veneziani o s’arrese spontaneamente ai medesimi”. Ma in tutte queste terribili traversie, “lo spirito nazionale non venne mai meno a favor della Repubblica” (di Venezia).
Ritornata ai Veneziani nel 1512, poi di nuovo ripresa dai Francesi nel 1513, nel mese di giugno Bergamo era stata invasa dagli Spagnoli, che con crudeli prepotenze, furti, stupri ed incendi, avevano imposto la loro autorità su tutto l’entroterra, incendiando anche il Palazzo della Ragione; due anni dopo era stata occupata dalle soldatesche dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo ed infine, nell’agosto del 1516, era ritornata definitivamente in possesso della Serenissima con la pace di Noyon (con la quale Venezia manteneva anche Brescia e Crema): una severa lezione che dava avvio, per Venezia, all’epoca del mantenimento con tutte le armi possibili.
Mentre Bergamo ne usciva stremata, dopo essere stata vessata da Francesi, Spagnoli, Svizzeri, Tedeschi e dai Veneziani stessi, che andavano imponendo pesanti balzelli riparatori, si concludeva una delle fasi più convulse della storia cittadina.
Per porre definitivamente fine delle Guerre d’Italia, e principalmente ai conflitti tra Francia e gli Asburgo, si dovette attendere il 1559 con la pace di Cateau-Cambrésis, che dopo Milano attribuiva agli Spagnoli NapoIi, Sicilia e Sardegna, dando inizio al primato Asburgico in Europa e nella penisola Italiana (6), primato che perdurerà sino al 1713.
L’ormai stremata Venezia ribadiva la scelta, già espressa da tempo, di una politica di neutralità, rinunciando per sempre all’iniziativa politica in Italia e rifondandosi come repubblica saggia prudente, virtuosa, rispettosa dei propri come degli altrui diritti. Non poteva più quindi affidare la sua difesa a eserciti in marcia nelle campagne, ma a truppe stanziali.
Nel frattempo, dopo l’abdicazione di Carlo V (1556), l’Impero comprendente Spagna e Austria si era smembrato in due potenze (in Spagna il figlio di Carlo V, Filippo, in Austria il fratello Ferdinando), coniugate ed alleate ma ciascuna con mire politiche proprie. In particolare la Spagna doveva assicurare il collegamento tra i due nuclei che formavano in Europa i domini di Filippo II, penisola iberica e Fiandre. E poiché questa strada non poteva passare nei territori della Francia, eterna nemica, né lungo l’Oceano e la Manica, infestati dalle navi inglesi, rimaneva libero il solo passaggio attraverso Genova, Milanese, Alpi, proprio ai confini con le terre della Serenissima e con Bergamo. La Francia, che con la morte di Enrico II era precipitata in una lunghissima crisi dinastica e nelle trentennali guerre di religione, ormai non era più in grado dì contrapporsi ulteriormente alla Spagna e di frenarne le ambizioni.
Terminate le Guerre d’Italia, Venezia si trovava dunque circondata per terra in una morsa temibile, che le precludeva ogni ulteriore espansione: a ovest la Spagna insediata nel Ducato di Milano e a nord l’Impero Asburgico, mentre per mare, oltre che essere continuamente sfidata dal sostegno asburgico alla pirateria degli Uscocchi (7), che avevano le loro basi in Dalmazia, si trovava a fronteggiare l’espansionismo dell’Impero Ottomano nei Balcani (da cui la grande fortezza di confine di Palmanova (8)) e nel Mediterraneo orientale, dove, malgrado la leggendaria vittoria di Lepanto nel 1571, perderà Cipro.
Inoltre, Turchi e Spagnoli erano i campioni di due sistemi in cui religione e potere politico si legittimavano a vicenda: due sistemi monolitici, accentratori e intolleranti, all’interno e all’esterno. Il Re Cattolico, in particolare, avrebbe potuto trovare nel ruolo così rapidamente e volentieri assunto di paladino della religione, mille pretesti per una politica di invadenza e, perché no, di aggressione. Ben decisa a non lasciar penetrare l’Inquisizione nei propri domini, per rimanere “terra di libertà’, l’unica terra di libertà in Europa accanto all’Olanda, Venezia doveva, come l’Olanda, essere pronta a difendere i propri confini palmo a palmo, senza esitazioni e senza badare a sacrifici: il vero utilizzo delle Mura sarà proprio nella loro capacità di dissuadere gli Spagnoli o chi per essi da ogni velleità aggressiva.
Avviatasi la decadenza militare e marittima, la Serenissima non poteva che rinunciare alla politica espansionistica e cercare di mantenere i territori acquisiti attrezzandosi anche in ordine alla difesa. E fu qui che lo Stato di Terraferma assunse un peso decisivo, diventando oggetto di un piano unitario di fortificazione che coinvolse i punti nevralgici per il commercio marittimo e terrestre e all’interno del quale la Bergamasca costituiva l’avamposto più occidentale, incuneato fra territori nemici.
IL RUOLO STRATEGICO DI BERGAMO E L’IDEA DI FORTIFICARLA
Se da una parte, la continua avanzata dei Turchi minacciava seriamente gli interessi marittimi e commerciali veneziani nel Levante, dall’altra, la scoperta di nuove rotte navali verso le Americhe e verso le Indie con la circumnavigazione dell’Africa, aveva spostato il baricentro economico dal bacino del Mediterraneo all’Oceano Atlantico ad esclusivo vantaggio della corona spagnola, decretando per Venezia il declino dei commerci marittimi per la fine del monopolio esercitato fino a quel momento sul commercio del pepe e delle spezie (9) ed imponendo, di conseguenza, una sempre maggiore attenzione ai commerci che avvenivano verso il centro d’Europa.
Alla perdita di competitività commerciale si accompagnerà sempre più la scarsa propensione degli uomini d’affari veneziani a viaggiare (accaparrando le merci attraverso i mercanti, anche bergamaschi) e a dirottare i propri capitali verso investimenti fondiari nell’entroterra.
Dopo la pace di Chateau Cambrésis, l’opportunità di aumentare le difese del territorio di Bergamo, unico varco nell’accerchiamento territoriale messo in atto dagli Spagnoli, doveva quindi costituire un deterrente a scala territoriale e nel contempo fungere da presidio di un territorio strategicamente importante anche dal punto di vista economico, perché il suo territorio consentiva, attraverso i passi delle Api Orobie, uno sbocco commerciale nel cuore stesso dell’Europa e la possibilità di mantenere sul mercato prezzi ancora altamente competitivi, aggirando inoltre ad oriente i territori soggetti ai fortissimi dazi commerciali imposti dagli Spagnoli, di stanza nel Ducato di Milano.
Ma la scelta riguardante il miglior modo di organizzare l’assetto difensivo bergamasco giunse dopo un lungo e complesso dibattito, dove i pareri di rettori, capi di guerra, tecnici e rappresentati politici furono spesso portatori di opinioni divergenti sul da farsi.
Incaricato dal Senato Veneto (1559) di individuare un luogo adatto alla fortificazione lungo il confine occidentale della Repubblica, il Governatore Generale delle milizie di terraferma, conte Sforza Pallavicino, individuata come idonea la porzione di Bergamo posta sui colli, sia per la facilità di fortificazione secondo le nuove regole dell’arte della guerra e sia per la posizione strategica, propose ed ottenne (1561) di costruire una fortezza in pietra bastionata continua, limitata per estensione alla sola città sul colle senza comprendere i borghi, la parte più viva e produttiva delle città, ed incontrando con ciò lo sfavore degli stessi bergamaschi e di alcuni esperti consultati a suo tempo da Venezia. Lo Sforza escluse anche l’ipotesi di abbracciare la malconcia Cappella con il recinto delle mura, ponendosi in forte contrasto con altri esperti di ingegneria militare del tempo, come l’Orologi, che ne prese decisamente le distanze nella sua circostanziata relazione dell’8 novembre 1561.
Per contro, nel territorio si individuarono delle località ubicate in posizioni strategiche, da utilizzare per la difesa, sia sul confine meridionale ed occidentale, minacciati dalla presenza spagnola, e sia lungo quello settentrionale, unico sbocco verso i Grigioni (serbatoi di truppe mercenarie donde all’occorrenza potevano giungere soccorsi in caso di assalti degli Spagnoli) e l’Europa centrale (nuovo sbocco commerciale per Venezia): sul confine meridionale, segnato dal Fosso Bergamasco, vennero individuate le località di Brembate, Cividate, Cologno, Spirano, Martinengo e Romano, le due ultime considerate il granaio della bergamasca; sul versante occidentale, lungo il corso del fiume Adda, Calolzio, Cisano e Villa d’Adda; all’estremo nord nella Valle Brembana, arteria delicatissima che collegava alla Valtellina e ai Grigioni Svizzeri, Almenno, Zogno (monte Ubione), Piazza (attuale Piazza Brembana) (12) e, naturalmente, il Passo di S. Marco, porta aperta verso i Grigioni.
Dopo una serie di tentennamenti e cambi di direzione, la costruzione delle nuove ed imponenti Mura urbane, a partire dal 1561, sancì per Bergamo la funzione strategica che il potere centrale aveva assegnato alla città orobica, in linea con gli orientamenti del dominio veneziano nel costituire un sistema difensivo imperniato sulle città-capoluogo, posto al centro di una seconda ”cerchia” di difesa fatta di luoghi fortificati, muniti di uomini e di risorse, distribuiti sia in città che nel territorio annesso (13).
Oltre ai fini già ricordati, v’erano propositi altrettanto importanti che inducevano Venezia a voler fortificare Bergamo alta, che a causa del cattivo stato delle mura medioevali era sottoposta a continui saccheggi e si trovava in perenne stato di insicurezza.
Vi era poi l’esigenza di esercitare un rigido controllo sociale ed economico su una città la cui crescente ricchezza era legata anche, e non marginalmente, a consolidati traffici (spesso illegali) con lo Stato di Milano, favoriti dal cattivo stato delle vecchie mura (14).
Nonostante infatti le restrizioni imposte dal governo veneziano, il rapporto tra Bergamo e Milano, che si era consolidato in quasi un secolo di dominio visconteo, si manteneva vitale: Bergamo continuava a mantenere un forte senso di identità, e a considerare se stessa come “centro”, mal adattandosi alla condizione di subalternità a Venezia.
Queste manifestazioni di autonomia, radicate in un’economia mercantile vitale e in espansione qual era quella di Bergamo, non potevano non preoccupare Venezia e certamente ebbero un certo peso nella decisione di trasformare Bergamo in città-fortezza, nonostante autorevoli pareri contrari (15).
Note
(1) Nel 1409 la Repubblica di Venezia aveva ottenuto da parte di re Ladislao d’Ungheria tutti i diritti sulla Dalmazia; nel 1410 conquistava gran parte dell’odierna regione italiana del Veneto e dieci anni più tardi assoggettava il Friuli, arrivando a comprendere il territorio di quella che era stata la X regione augustea della penisola italica (Venetia et Histria). Nel corso del secolo raggiungerà la sua massima espansione.
(2) Alberto Fumagalli, Bergamo. Origini e vicende storiche del centro antico. 1981, Rusconi Libri S.p.A., Immagini, Milano.
(3) Lelio Pagani, Bergamo. Lineamenti e dinamiche della città. Edizioni Sestante, 2000, Bergamo.
(4) I nobili, chiamati gentiluomini e col tempo cavalieri, nel caso siano iscritti all’estimo e risiedano in città, sono chiamati anche cittadini, status comprovato da una apposita patente (Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso. In: “Bergamo verso l’Unesco – Terra di San Marco. Da frontiera di pietra a ‘paesaggi vivi’ di pace”. Grafica & Arte, 2016).
(5) Crisi dovuta al primo crollo della signoria medicea (1494), alla breve esperienza del governo di Savonarola (1494-1498) e alla ribellione di Pisa, alla quale il governo fiorentino non riusciva a porre rimedio.
(6) La Francia rinunciò alle proprie pretese sui domini Italiani degli Asburgo di Spagna (Napoli, Sicilia, Sardegna, Milano) e sui feudi Imperiali in Italia, dipendenti formalmente dagli Asburgo d’Austria. Questo quadro muterà in parte con le guerre di successione del Settecento, quando l’Austria prenderà il possesso di Milano e insedierà rami cadetti della sua casata negli altri feudi dell’Italia imperiale (mentre il mezzogiorno andrà ad un ramo cadetto dei Borbone di Spagna). Si passerà così, nel quadro della dominazione asburgica, da un primato Spagnolo ad uno Austriaco, cui l’Italia porrà fine solo durante il Risorgimento.
(7) Gli Uscocchi erano una popolazione costituita esclusivamente da cristiani cattolici, originalmente e prevalentemente dei Balcani riversatisi sulle coste del Mare Adriatico per sfuggire all’avanzata dei Turchi. Inizialmente famosi per le loro operazioni di feroce guerriglia contro i turchi, risolsero poi di dedicarsi alla pirateria: dal loro quartier generale a Segna, presso Quarnaro, organizzarono veloci spedizioni di saccheggio sia contro le rotte turche che contro la Repubblica di Venezia.
(8) Nel 1449 i Turchi erano già penetrati fino al fiume Livenza, nel Dogado (nucleo centrale e nativo della Repubblica di S. Marco), inducendo più tardi Venezia a presidiare convenientemente il confine orientale, impiantando sull’Isonzo una grande fortezza di confine a Palma (Palmanova).
(9) Le navi portoghesi trasportavano dalla lontana Insulindia (isole asiatiche sud-orientali, della Sonda, Molucche e Filippine) grosse partite di spezie attraverso gli oceani, che poi la Spagna instradava (insieme a grandi quantità di oro e argento americano) nell’ampio e ricchissimo mercato centro europeo attraverso il porto di Anversa (divenuta nel Cinquecento crocevia dei traffici verso l’Europa centro-settentrionale) e i grandi corsi fluviali navigabili. Dal canto loro, i mercanti veneziani venivano riforniti di spezie attraverso le piste carovaniere che facevano capo agli empori levantini (Alessandria d’Egitto, Damiata, S. Giovanni d’Acri, Tiro, Beirut), da dove, attraverso un percorso via mare di cui Famagosta rappresentava la prima tappa, raggiungevano il porto e i magazzini di Venezia. A questo punto si trattava di introdurre le preziose spezie nel cuore dell’Europa eludendo i pesanti balzelli imperiali imposti lungo tutta la barriera alpina, dalla Carinzia al Tirolo, di dominio Asburgico, e dal Ticino alla valle dell’Adda, di dominio Spagnolo. Questo unico canale era rappresentato dal territorio bergamasco (Alberto Fumagalli, Bergamo. Origini e vicende storiche del centro antico, Cit.).
(10) Fondazione Bergamo nella Storia, Il Cinquecento – Bergamo e l’età veneta. Sestante Edizioni, Bergamo, 2012.
(11) Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso, Cit.
(12) Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso, Cit.
(13) Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso, Cit.
(14) Fra gli innumerevoli documenti che riferiscono al contrabbando attraverso la frontiera milanese, la relazione (1532) del podestà C. Priuli, attribuisce al cattivo stato di manutenzione delle vecchie mura medioevali, il favorire di un grosso contrabbando di lana spagnola proveniente da Vercelli e introdotta a Bergamo attraverso l’area milanese e Treviglio (Walter Barbero, “Bergamo”. Electa Editrice, Milano, 1985).
(15) Nella relazione del 7 luglio 1570 il Capitano uscente di Bergamo P. Pizzamano insiste sulla maggiore utilità di munire con forti la pianura nei pressi del confine (Walter Barbero, “Bergamo”, Cit.).
Alcuni riferimenti
Nicolò dal Grande, Agnadello o “la rotta della Ghiaradadda”.
Renato Ferlinghetti, Gian Maria Labaa, Monica Resmini, Le Mura da antica fortezza a icona urbana. Bolis Edizioni, 2016.
Fondazione Bergamo nella Storia, Il Cinquecento – Bergamo e l’età veneta. Sestante Edizioni, Bergamo, 2012.
Centro Studi Valle Imagna: Antonio Martinelli, Bergamo. Itinerari nella storia della città e del suo territorio dalle origini al ventesimo secolo. Grafica Monti, Bergamo, 2014.
Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso. In: “Bergamo verso l’Unesco – Terra di San Marco. Da frontiera di pietra a ‘paesaggi vivi’ di pace”. Grafica & Arte, 2016
Alberto Fumagalli, Bergamo. Origini e vicende storiche del centro antico. 1981, Rusconi Libri S.p.A., Immagini, Milano.
Andreina Franco Loiri Locatelli, “La città sotto assedio!”. Bergamo Scomparsa (BergamoSera).
Mariana Frigeni, Il condottiero. Vita, battaglie e avventure di Bartolomeo Colleoni. Longanesi, 1985.
Bergamo, nella sua storia, aveva subito invasioni, assalti e distruzioni da parte di ogni esercito che passava nelle vicinanze e per questo motivo i cittadini stessi avevano invocato la Serenissima di rinforzare le sue difese, incontrando i propositi di Venezia di rendere sicuri i suoi confini di terra, verso gli ingombranti vicini Spagnoli.
Incaricato dal Senato veneto di costruire la fortezza di Bergamo, il generale Sforza Pallavicino dedicò grande attenzione a quest’opera, da cui dipendeva la sicurezza dell’intera città.
Mentre verso sud‐est, sopraelevata e dominante vi era la trecentesca Rocca, rinforzata dai Veneziani (con l’arsenale principale, un sito per la riparazione delle armi, una polveriera e la scuola dei Bombardieri), in centro ma verso nord‐ovest sorgeva la Cittadella, sede della Capitaneria con truppe ed arsenale.
Attorno a tutto il perimetro esterno delle mura, la “fossa” (oggi un gran bel circuito verde) per giri di ronda, spesso fornita di controscarpa di copertura ed eventuali postazioni e piazze di difesa avanzata.
Verso sud ed esterna alle mura, una difesa avanzata dominante la pianura a protezione del retrostante bastione di San Giacomo, denominata Fortino di San Domenico, costituito da una piattaforma dal perimetro di 376 mt, oggi completamente irriconoscibile a causa degli alti alberi circostanti.
Pur essendo considerato scarsamente difendibile, il capitano da Lezze nel 1596 giudicava che se fosse stato occupato dal nemico, questi avrebbe potuto farvi “saltare la mina” provocando una profonda voragine “come di cisterna secreta formata de sassi e coperta con un volto di muro che sarebbe la morte di quelli che vi si ritrovassero sopra”.
Verso nord, ancor più sopraelevato (490 mt s.l.m. contro un’altezza media delle mura di 350 mt), il ben munito Castello di San Vigilio collegato al Forte di S. Marco, una “fortezza nella fortezza” posta nel settore nord-occidentale del circuito delle Mura, frutto di lavori grandiosi particolarmente attenti a contenere l’eventualità di un assalto proveniente dai colli, dal momento che, come la storia insegnava, mantenere il possesso del Castello era di primaria importanza per la sicurezza della città, così come il versante della collina di San Vigilio rimaneva il settore più esposto all’assalto del tiro nemico.
La parte settentrionale delle Mura cinquecentesche compresa tra la porta di Sant’Alessandro a sud e quella di San Lorenzo a nord (sicuramente la parte più bella e meno conosciuta del circuito murario), venne quindi concepita come centro dell’organizzazione difensiva di tutto l’apparato logistico-militare.
Venivano quindi completamente abbandonati gli antichi resti di fortificazioni viscontee sul Monte Bastia, ancor più di poco sovrastante la “Cappella” (20 mt), ma distante 520 mt.
IL FORTE DI S. MARCO SUPERIORE: IL VERO CUORE DELL’INTERA FORTEZZA
Con il compito di proteggere il Castello da eventuali assalti esterni provenienti dal settore più vulnerabile dei colli, il Forte Superiore comprendeva una serie di strutture sotterranee articolate in modo tale da poter assicurare una pronta difesa della zona in caso di emergenza.
La chiave di volta del suo apparato era la piazza S. San Marco, il quartier generale dell’organizzazione difensiva dell’intera fortezza, ben nascosta e protetta all’interno dei tre possenti baluardi, di cui, come vedremo, conosciamo l’aspetto grazie alle esplorazioni del gruppo speleologico delle Nottole, impegnato anni or sono nei rilievi dei sotterranei celati dalle mura, svolgendovi anche visite guidate.
La piazza, che dava riparo ai soldati e ai corpi di guardia e custodiva nei depositi il materiale bellico, era collegata, mediante camminamenti e strade coperte, a tutti i baluardi circostanti, costituendo il punto di partenza e di arrivo delle gallerie che correvano verso le cannoniere e le sortite, e di cui una conduceva all’esterno della fortezza tramite il varco “segreto” della Porta del Soccorso: la quinta delle porte della cinta bastionata veneziana, la più piccola, anonima e ben mimetizzata fra la boscaglia dei colli, tuttora esistente ma celata all’interno di una proprietà privata e sbarrata da un portone sempre chiuso.
A differenza delle Mura, di proprietà comunale, la Porta del Soccorso, compreso tutto il Forte di S. Marco e le interessantissime strutture sotterranee, furono acquistati da privati dal 1812 – negli anni della dominazione francese – insieme al Castello, poi rientrato in possesso del Comune di Bergamo. Il passaggio a proprietà privata del Forte, lo mantiene per gran parte tuttora “altro” rispetto alla città.
La Porta del Soccorso era considerata l’ultima via di fuga in caso di assedio disperato e sarebbe stata utilizzata per dare aiuto (da qui il nome di soccorso) al Castello di S. Vigilio: le truppe concentrate nella piazza del forte avrebbero fatto irruzione all’esterno utilizzando la porta celata dentro la muraglia, così da sorprendere gli assedianti.
Il suo utilizzo era previsto anche per controllare il territorio intorno al Forte o per azioni di disturbo oltre la fossa: la sua pur modesta dimensione consentiva infatti l’uscita di un gran numero di armati e cavalleggeri con a seguito macchine da guerra.
All’importante ruolo che questo settore doveva svolgere per la difesa della città si aggiungeva un secondo corridoio, una “strada coperta” di collegamento tra la Porta del Soccorso al Castello di San Vigilio, che correva a cielo aperto lungo la costa del colle ma ben protetta dal tiro del fuoco nemico grazie ad una doppia cortina di mura e da un argine in terra.
Questa strada coperta includeva lungo il percorso due piazze capaci di diversi pezzi di artiglieria fissi e mobili, una posta a metà del percorso e rivolta verso S. Gottardo, l’altra a fianco della porta del Castello e rivolta verso il Monte Corno, con postazioni cannoniere.
In questo modo il presidio sul colle avrebbe potuto ricevere aiuto ed essere rifornito di viveri e munizioni senza che il nemico potesse osservare quello che stava accadendo ed impedire il passaggio. Di questo manufatto oggi non resta traccia perché è stata demolita dai Francesi nel 1796.
NEL FORTEDI S. MARCO, FRA UN BALUARDO E L’ALTRO
Oggi interamente inaccessibile in quanto proprietà privata, l’intera area occupata dal Forte di S. Marco è ancora ben identificabile lungo il settore di nord-ovest delle mura veneziane (il più scosceso), dove si articola in un vasto recinto suddiviso in due parti: il Forte di S. Marco Superiore, che chiude la fortezza a nord-ovest rivolto verso il colle di San Vigilio, e il Forte di S. Marco Inferiore, che si sviluppa verso est, rivolto verso la Valverde e Castagneta.
Abbracciava dunque una vasta area, quasi interamente riservata agli edifici militari, intorno alla quale, esternamente e quasi interamente correva la fossa completa di controscarpa di copertura, predisposta sia per un percorso di ronda che per difese esterne.
Entrambi i settori del Forte, quello inferiore e quello superiore, erano infatti dotati di un quartiere per l’alloggio dei soldati e di unapolveriera, disposte a monte e a valle del muraglione di Colle Aperto, che digradando sul pendio dell’omonima valletta permise di allargare una strada al servizio delle parti del forte.
Mentre il Forte Inferiore costituiva la parte che meno avrebbe risentito di un possibile attacco, la porzione bastionata del Forte Superiore, formata dall’insieme dei baluardi di San Gottardo, San Vigilio e Pallavicino assumeva particolare importanza perché, secondo i costruttori, erano quelli che avrebbero dovuto sopportare il maggior peso di fuoco da parte di un assediante che si fosse appostato sul colle di San Vigilio, nel Castello oppure sui colli vicini. Per questo motivo qui il muro è alto e compatto, protendendo sul lato a monte veri e propri speroni fondati sulla pietra viva che non avrebbero dovuto offrire appigli agli attaccanti.
Posti in immediata successione i tre bastioni del Forte Superiore si configurano come la porzione più tormentata della cerchia, quasi del tutto priva delle cortine di collegamento che altrove dividono un baluardo dall’altro: una soluzione che tra l’altro risolveva, oltre alla necessità di difesa da ipotetici tiri provenienti dalla “Cappella”, anche il problema dell’adattamento alla conformazione orografica – la più scoscesa dei colli -, con dislivelli particolarmente marcati tra un baluardo e l’altro.
IL FORTE SUPERIORE: DALLA PORTA S. ALESSANDRO ALLA PORTA DEL SOCCORSO
Il Forte Superiore si sviluppa a partire dalla Porta Sant’Alessandro (custodita nel 1565 da una compagnia di “settanta fanti elettissimi”), da dove si dipartono in successione i poderosi baluardi di San Gottardo, conosciuto anche come piattaforma e fiancheggiato dal tracciato iniziale della funicolare, San Vigilio, con la funicolare che prosegue il viaggio ai suoi piedi, e Pallavicino, che, strettamente affiancati lungo gli scoscesi pendii del colle, sembrano sostenersi tra loro nel contrastare eventuali attacchi sferrati dall’alto.
I cannoni con cui la guarnigione avrebbe colpito tutto lo spazio antistante erano alloggiati dentro cannoniere e casematte, profondamente incuneate nel vivo dei terrapieni e raggiungibili solo con corridoi sotterranei.
Tutte le parti sotterranee delle mura veneziane – corridoi, strade coperte, cannoniere -, sono state esplorate, studiate e rese in parte accessibili dal lavoro prezioso del Gruppo Speleologico bergamasco “Le Nottole”. Preziosi anche i contributi dati dagli “Amici delle Mura di Bergamo” per la manutenzione e la valorizzazione di un’opera che appartiene alla nostra città e che è assolutamente unica nel suo genere.
Dopo il breve tratto di Cortina di Porta S. Alessandro, che tagliò definitivamente l’antica strada romana tra Casnida (Castagneta) e Borgo Canale (l’altro lato chiuso dà sul baluardo di Valverde), prende inizio il Baluardo S. Gottardo, che si inerpica lungo il marcato declivio del tracciato della funicolare per San Vigilio, dove le difficoltà di costruzione furono brillantemente superate grazie a notevolissimi riporti di materiale e dove le costruzioni ottocentesche hanno reso il tratto poco leggibile.
Nel fianco sud si aprivano e si possono ancora ben leggere nella possente e regolare tessitura del muro di chiusura due cannoniere e due troniere a difesa dell’attigua porta Porta S. Alessandro.
Allo sperone, posto su di angolo unicamente ottuso di quasi 120°, fa seguito la faccia ovest del baluardo, che attualmente fiancheggiata dalla funicolare è estremamente ardita, mentre in questo tratto la pur solida struttura muraria appare più minuta.
L’orecchione nord (lo smusso tondo dell’angolo tra faccia e fianco del bastione) è molto allungato, come fosse uno sperone proteso verso il colle sovrastante.
Il baluardo di S. Gottardo termina con il fianco ritirato nord, molto ridotto, che era munito di due cannoniere, di due troniere e di una sortita.
Gli edifici ottocenteschi hanno molto alterato anche l’intera zona alla sommità del baluardo, dove il cavaliere doveva presentarsi a gradoni, lungo i quali avrebbero potuto piazzarsi dei pezzi d’artiglieria rivolti verso il colle sovrastante.
Sull’orecchione nord vi sono i resti consunti di una lapide dedicata allo Sforza Pallavicino, che fortemente volle questa costruzione. Alcuni affermano che sotto questa lapide terminasse il giro di ronda (all’arrivo della quale suonava una campanella) e poiché, riportava il segno di 3 armidel generale, questo avrebbe dato il nome alla strada che inizia sotto Porta S. Alessandro: via Tre Armi appunto.
Segue il Baluardo San Vigilio, il cui progetto fu particolarmente sofferto e controverso per l’assillante timore di una presa nemica del Castello, che avrebbe dato agli assedianti la possibilità di battere con le artiglierie gran parte della fortezza.
Alla Faccia sud leggermente rientrante dalla visuale del Castello, segue lo sperone, che è la punta più a ovest di tutta la fortezza; su di essa svetta una torretta di guardia, l’unica garitta ancora esistente delle trentadue che un tempo si alternavano ad intervalli regolari su tutti gli speroni dislocati lungo il percorso delle mura. La torretta ha le due finestrelle di osservazione orientate verso Borgo Canale e S. Vigilio.
La faccia nord del Baluardo di S. Vigilio rappresentava la massima opposizione all’omonimo Castello e, forse per la fretta posta nella sua costruzione, non dispone del classico redondone; per la sua difesa avrebbe dovuto essere costruito un sovrastante cavaliere, ma si decise forse che sarebbe bastato quello sovrastante il baluardo successivo.
Tramite un orecchione la faccia nord si raccorda al ben fatto e particolarmente basso fianco ritirato nord, in cui sono annidate una sortita e due troniere (aperture praticate nelle mura per le bocche da fuoco) con un’ampia sala di manovra (atta anche al ricovero dei pezzi) collegata direttamente con la piazza di S. Marco.
Giungiamo ora al Baluardo Pallavicino, un manufatto estremamente importante perché affianca la strategica Porta del Soccorso.
Quest’ultima è infatti collocata nel punto di unione fra le parti superiore e inferiore del Forte di S. Marco.
Il baluardo prende ovviamente il nome dal generale Sforza Pallavicino, colui che curò in particolare questo tratto ma che non vide la conclusione di tutto il perimetro poiché morì nel 1585 dopo aver dato le ultime indicazioni per la zona della Fara. Proseguì il lavoro Giulio Savorgnano che aveva in precedenza molto criticato l’intero progetto.
Il nome del generale è legato al baluardo che si spinge verso l’alto (un “puntone” unico, che raccorda direttamente la faccia nord con la faccia ovest del baluardo di S. Gottardo), quasi una sfida contro ogni assalto tanto da essere privo di orecchioni come quello, altrettanto ardito, di Valverde.
Presenta una parte interna notevolmente complessa, percossa da cinque camminamenti, con tre camere di manovra.
La cannoniera posta nella faccia ovest serviva per la protezione del baluardo antecedente e cioè quello di S. Vigilio e aveva la particolarità di essere parzialmente esterna alle mura, all’interno della fossa. Lavori in epoche recenti hanno modificato la struttura di questo sotterraneo.
Sempre nella faccia ovest, una sortita con casamatta per la difesa della fossa e che serviva probabilmente da uscita ed inizio della “via coperta” verso il Castello di S. Vigilio, sul suo lato nord.
Allo sperone ovest segue la faccia nord, fondata su un affioramento di roccia; il redondone non è ben conservato, ma percorrendo la via Sotto le Mura di S. Alessandro i cittadini possono oggi toccare con mano la muraglia alla base, essendo uno dei pochissimi posti non recintati o chiusi da barriere e cancellate.
Al successivo sperone est fa seguito il fianco est munito di due cannoniere con casamatta posteriore (e probabilmente due postazioni superiori), una troniera con bocca da fuoco a cielo aperto (l’unica ad essersi conservata lungo il perimetro della cinta bastionata) e una sortita a difesa della Porta del Soccorso.
Dalla ampia sala di manovra del fianco est diparte un passaggio con camini di aereazione, presenti in tutte le cannoniere ipogee, che porta alla casamatta della faccia ovest.
IL FORTE INFERIORE: DALLA PORTA DEL SOCCORSO ALLA PORTA DI SAN LORENZO
Dalla Porta del Soccorso, inserita nella relativa Cortina di Porta, continuando in senso orario prende inizio la porzione inferiore del Forte di San Marco, che si sviluppa a ventaglio fino alla Porta di S. Lorenzo, composto rispettivamente dall’insieme dei baluardi Castagneta, S. Petro e Val Verde.
Il Baluardo di Castagneta impiantato sull’ultimo rialzo del contrafforte Leidi controllava il rilievo del Pianone e la strada sottostante da una parte e, dall’altra, a protezione della porta e del colle di S. Vigilio. La piazza del baluardo doveva essere divisa a settori ma la struttura è oggigiorno completamente alterata.
Il baluardo presenta ad est un fianco particolarmente esteso e un angolo di spalla singolarmente ottuso. Nel fianco ritirato ovest (ben protetto dall’orecchione ovest) si trovano 2 cannoniere ed una troniera a difesa della Porta del Soccorso.
Nella faccia occidentale (in origine leggermente più bassa), la cresta della muraglia conserva traccia dell’andamento originario adente di sega, che doveva rendere più agevole il defilamento nei confronti del nemico su questo terreno molto accidentato e particolarmente esposto. Tale profilo, unico in tutto il perimetro, fu infatti corretto in un tempo successivo; vi era la piazza per una troniera, mentre alla base un muretto rinforzato delimitava la fossa.
Lo Sperone del baluardo di Castagneta è il punto più a nord della fortificazione.
Sulla faccia est era disposta la vasta piazza per una troniera che doveva avere un ampio angolo di copertura; alla sua base è infelicemente addossata un’abitazione privata con giardino e piscina.
Sul fianco est si affaccia oggi il Giardino Botanico, era munito di due cannoniere ed una sortita per sostenere la difesa del baluardo successivo, importantissimo per la presenza del passaggio dei uno dei soli due acquedotti della città.
Il raccordo con il Baluardo di S. Pietro, posto a metà del Forte Inferiore, avviene tramite la breve Cortina di Castagneta (che il da Lezze chiamava cortina di squinzo, e dove si trovavano la piazza di una troniera e una sortita). Tecnicamente definito “piattaforma” perché dotato di un solo fianco, ha la particolarità di non avere un orecchione completamente rotondo e di terminare con uno sperone.
Sia nel baluardo di S. Pietro (che si sviluppa per 150 metri coprendo un dislivello di circa 10 metri) che in quello altrettanto scosceso di Valverde, il muro, concepito essenzialmente come congiunzione di due sistemi forti, si snoda parallelamente all’andamento altimetrico del terreno e limitato alla sola scarpa per ridurre l’esposizione all’artiglieria su questo lato nord naturalmente difeso dalla forte pendenza del colle. ln realtà la piattaforma, che parrebbe una semplice interruzione della cortina, risulta invece una macchina predisposta di un ingegnoso apparato difensivo, purtroppo amputato nel1908 con l’apertura della strada tra la città e Castagneta (attuale via Beltrami): l’unica grave lacerazione inferta al circuito significò anche la perdita di un elemento particolarmente raro, quello delle tre cannoniere affiancate nel baluardo occidentale.
I cedimenti della muraglia hanno portato alla chiusura di quella via Roccolino, che ricalca presumibilmente l’antico tracciato collegante borgo Canale con Castagneta citato dalle fonti. Poiché il condotto dell’Acquedotto dei Vasi è contenuto nel muro che definisce la via a monte, nella suggestiva via Roccolino si sono rinvenuti tratti di acquedotto.
Il baluardo deriva il suo nome dalla chiesetta poco distante, costruita posteriormente, nel 1629; ma secondo alcuni deriverebbe da quella omonima abbattuta nei pressi di S. Giovanni.
Il fianco ritirato est del baluardo di S. Pietro dispone di due cannoniere (trasformate recentemente in sala bruciatori), due troniere e una sortita, atte a servire anche la lunga faccia nord del baluardo di Valverde.
Il Forte Inferiore termina con il Baluardo di Valverde (originariamente di “Colaperto”), che si sviluppa per 221 metri lungo una complessa orografia che ne fa la parte più bassa di tutto il perimetro, con un’altezza media di circa 9 mt.
Ha una fossa con controscarpa ben conservate ma non ha sortite ed è l’unico che non presenta orecchioni ma solo facce e fianchi.
Al suo interno e, poco distante, all’esterno, furono nel tempo ricavate due cave di arenaria.
La faccia nord, rivolta verso la valle del Roccolino e Valtesse, era percorsa da una strada interna (ora Sforza Pallavicino) e disponeva di due cannoniere e di 4 troniere, anche se nel 1596, non aveva ancora il parapetto; alle sue spalle vi era una casamatta di presidio.
Dallo sperone nord si diparte la faccia est, dalla pendenza così accentuata da fare di questo lato l’unico esempio conservato di fossa terrazzata: una serie di muri disposti ortogonalmente a scarpa e controscarpa suddivide lo spazio in piazzuole successive per impedire i guasti delle acque alle opere murarie.
Dato il dislivello di circa 4 mt, posteriormente furono ricavati tredici gradoni atti a ricevere altrettanti pezzi d’artiglieria battenti la valle sottostante.
La faccia est del baluardo presenta alcuni pezzi marmorei ricavati da edifici presumibilmente d’epoca romana.
Superato lo Sperone est, che era munito anch’esso di garitta, si diparte il fianco sud il cui dislivello (3 metri) permise di ricavare otto gradoni con relativo spazio di manovra per piazzare altrettanti cannoni a difesa della porta.
Segue infine la Cortina della Porta San Lorenzo, che legata all’antica porta veneziana taglia la parte alta della Valverde, comprendendola nel Forte Inferiore.
Nel lungo corso della storia di Bergamo, con i suoi 496 metri di altitudine il colle su cui è sorto il Castello di S. Vigilio ha sempre costituito il luogo privilegiato di avvistamento per la difesa della città. Data l’ampiezza della visuale, dalla sua sommità era possibile controllare una vastissima porzione di territorio, dall’imbocco delle valli principali – Brembana e Seriana – all’antica Val Breno e l’intera spianata di Almenno, per arrivare alla pianura e ai centri posti all’imbocco della Val San Martino. La posizione preminente del colle, cardine del sistema orografico dei colli nel territorio cittadino, permetteva di osservare i movimenti dei nemici decidendo le opportune contromisure, ed è quindi probabile che sin dall’occupazione romana vi sorgesse una torre di avvistamento.
La sua posizione eminente rispetto alla città antica, ne fa il punto privilegiato da cui osservarne il lato migliore, che si offre ai nostri sguardi attraverso il tondo profilo del colle di San Giovanni.
Avvenente protagonista delle nostre scorribande fotografiche, il colle su cui oggi sorge il Seminario era alquanto vulnerabile, essendo le sue difese particolarmente esposte ad eventuali assalti provenienti dal Castello di S. Vigilio.
Se infatti la parte sud-orientale di Città Alta era ben protetta dall’altura di S. Eufemia (dal Trecento non casualmente occupata da una rocca), aprire una breccia nelle fortificazioni che cingevano il colle di S. Giovanni era più facile che altrove: come avvenne nel IX secolo, quando nel corso delle le lotte che dilaniavano l’Italia, dal “Castellum” gli assalitori capeggiati da Arnolfo di Carinzia devastarono le mura, e, conquistata la città, distrussero il fortilizio.
Fu così impartita a Bergamo una grande lezione, e cioè quella dell’importanza strategica del forte sul colle, che troppo distante per essere incluso nella cerchia delle mura urbane, verrà potenziato a più riprese nel corso dei secoli.
Gran parte della storia del Castello risulta quindi fortemente condizionata da questa circostanza, che in ogni periodo storico ne ha fatto il punto privilegiato da cui partire per assalire la città. Per questo motivo, di pari passo con le grandi trasformazioni del nucleo urbano ed ogni volta che si poneva mano alle fortificazioni della città, questa fortificazione è sempre stata oggetto di particolare scrupolo e attenzione, per quanti erano incaricati della difesa di Bergamo.
Il Castello, posto a capocroce della dorsale maestra, in riferimento alla direttrice nord-sud manteneva un perfetto controllo, spaziando da Sudorno (m 432 slm) al monte Casnida (Castagneta) per arrivare all’intestatura del Pianone (m 378 slm).
Ma lo stesso non poteva dirsi per la sovrastante altura della Bastia che, seppur più alta di 22 m rispetto alla sommità di S. Vigilio ma da esso distante di appena 300 passi, poteva costituire un serio pericolo per lo stesso Castello: per questo motivo la Bastia è sempre stata oggetto di opportune attenzioni in ordine alla difesa della città.
Purtroppo, nonostante l’abbondanza delle fonti, non è semplice ricostruire con certezza l’evoluzione storica del fortilizio – primo e vero manufatto realizzato sul colle -, in quanto non esiste un’indagine approfondita che ne chiarisca le continue trasformazioni, i rinnovamenti e le vicissitudini che lo hanno visto protagonista.
Alcuni documenti attestano la presenza di un “Castellum Bergomense” sul Colle di San Vigilio nel 538 d.C. ai tempi di Giustiniano; lo stesso ricordato dal Mazzi già nel 395 d.C. Il Castellum è citato anche nell’894 d.C. in un documento rilasciato dal figlio di Carlo Magno, Arnolfo di Carinzia.
Denominato anche ‘Cappella’ per la presenza in loco nel IX secolo di un piccolo insediamento di monaci, il Castellum viene individuato dal Comune di Bergamo a partire dal 1167, come essenziale per la difesa della città. Ampliato e completato dai Visconti nel 1336, subisce modifiche e rinforzi durante e dopo la costruzione delle Mura veneziane, quando si distingue per i suoi quattro torrioni circolari perimetrali con cortina di pietra a blocchi, costruiti verso la fine del Quattrocento nel quadro dei lavori di ristrutturazione e ampliamento della Cappella, disposti dalla Repubblica Veneta: da quel momento l’edificio costituirà un apparato difensivo sufficientemente sicuro.
E sarà in epoca Veneta che l’assillante timore di un attacco proveniente dalle colline di ponente porterà non solo a un continuo rimodellamento del Castello, ma anche a condizionare fortemente la costruzione della porzione settentrionale delle mura – sicuramente la più bella e meno conosciuta –, che da Porta San Lorenzo a Porta S. Alessandro andrà a costituire il cosiddetto “Forte di San Marco” (m 423 s.l.m.), frutto di lavori grandiosi, particolarmente attenti a contenere un eventuale assalto dal colle di San Vigilio, dalla Bastia e dall’attiguo monte Corno.
Ed è soprattutto con questo sguardo che dobbiamo osservare oggi la “Cappella”, parte integrante (seppur disgiunta) dalla cinta bastionata: la fortezza inizia qui e da qui si spiega. Non sorprende dunque che dall’inizio della costruzione delle Mura veneziane fino a tutto il Seicento, il Castello di S. Vigilio sia stato continuamente oggetto di adattamenti in rapporto a tutto l’imponente apparato difensivo posto sul fronte di ponente del Colle di Bergamo.
Per la posizione privilegiata, per la ricca e documentata vicenda storica che forma una trama di forte significato, per le preesistenze e le strutture presenti, il Colle di S. Vigilio è quindi identificato, come pochi altri luoghi di frangia, quale reale perno del divenire e dell’esistenza stessa della città di Bergamo.
LE ORIGINI ALTO MEDIOEVALI DEL CASTELLO
Sappiamo che nella zona si era insediata una piccola comunità ecclesiastica, che vi aveva costruito una chiesuola intitolata a Santa Maria Maddalena, particolarmente venerata in Provenza e per tale motivo forse sorta durante l’occupazione carolingia del IX secolo. Le dimensioni del luogo sacro erano tuttavia molto ridotte, tanto che questo non veniva identificato come santuario o chiesa, ma con l’appellativo di “Capella”: uno dei nomi con cui è nota la località sin dall’altomedioevo.
L’altro nome era “Castellum”, e a conferma del ruolo strategico rivestito da questo luogo, l’appellativo si lega all’assalto alla città da parte di Arnolfo avvenuto nell’894 nel corso delle dispute tra Berengario e Guido da Spoleto per il possesso della corona d’Italia dopo la deposizione, avvenuta nell’ottobre del 887, di Carlo il Grosso, ultimo imperatore della dinastia carolingia: l’assalto di Arnolfo, figlio di Carlomanno di Baviera, è la prima notizia di una fortificazione militare sul colle di S. Vigilio.
In quell’anno, chiamato in suo sostegno da Berengario del Friuli, Arnolfo scese in Italia. La città di Bergamo e il suo conte Ambrogio si mantennero fedeli al marchese Guido da Spoleto, rivale di Berengario. La città ribelle fu quindi posta sotto assedio dalle truppe tedesche.
L’assalto investi dapprima proprio il “Bergomense Castello”, che fu difeso strenuamente dal chierico veronese Gotefrido, ma i difensori furono sopraffatti e questi giustiziato.
Proprio dal castello conquistato Arnolfo diresse l’assalto alla città e aperto un varco nelle mura, diroccate e sbrecciate in più parti (scrive il Mazzi: “battute in mille maniere da questo lato”, e cioè verso il colle di S. Giovanni), Bergamo fu saccheggiata, smantellata la cinta della mura e la Cittadella Alessandrina devastata con la sua Basilica.
Come riportato dal Mazzi (1), dopo queste distruzioni compare la prima notizia dell’esistenza del Castello, dal quale il 1 febbraio 894 Arnolfo emise il diploma con cui donava i beni confiscati al chierico Gotefrido (che tanto ostinatamente aveva resistito) alla Cattedrale di S. Vincenzo, che si era mantenuta fedele alla corona di Berengario mentre il vescovo e i canonici di S. Alessandro avevano aderito al suo antagonista.
Il conte Ambrogio fu impiccato davanti a una porta della città (l’unica città ad opporre resistenza, fidando nella sua firmissima munitione), mentre il vescovo Adalberto fu fatto prigioniero.
Nel corso delle lotte, il Castello in cui Arnolfo si era barricato e che tanto filo da torcere aveva dato agli oppositori, venne distrutto.
Il termine “Castellum” restò comunque in uso per due secoli e mezzo come riferimento topografico (come citato in un documento del 1032), presto affiancato dalla denominazione di “Cappella” con riferimento esplicito alla cappella di S. Maria Maddalena, proprietaria delle terre su cui sorgeva il diruto Castello: in un atto del 1112 si trova infatti “in Monte ipsius Civitatis ubi diritur ad Capellam”.
Successivamente l’appellativo di “Cappella” prevalse nella documentazione e l’edificio divenne elemento iconografico dominante nella rappresentazione della città. Chiaramente visibile nel disegno quattrocentesco conservato presso la Biblioteca di Mantova.
IL CASTELLO IN EPOCA COMUNALE
L’esperienza traumatica dell’assalto subito da parte di Arnolfo, rimase di certo ben presente ai Bergamaschi tanto che nel XII secolo, durante le contese tra la nascente Lega Lombarda e l’imperatore di Germania Federico I di Svevia detto il Barbarossa (calato in Italia con un potente esercito), ogni città coinvolta (oltre a Bergamo, Brescia, Mantova, Cremona e successivamente Milano) provvide a rinforzare le proprie difese.
Bergamo ampliò la cinta muraria ricostruendo le parti rovinate e poi, riconoscendogli un ruolo strategico nel sistema difensivo, mise mano al fortilizio sul colle.
Non è dato di sapere come fosse il Castello prima della sua distruzione, ma di certo il nuovo manufatto superava il precedente per dimensioni e dava maggiori garanzie per la difesa di Bergamo: è infatti del 1167 il rialzamento del recinto e del mastio (hedificatum est castrum et turris), la torre eretta a ribadire il ruolo strategico del fortilizio, e da questo momento la Cappella diviene simbolo della libertà comunale della città. Al centro della piazza d’armi troneggiava così la riedificata “turris” coperta, circondata da un “castrum”, termine che designava il muro merlato. Si ebbe inoltre cura che la fortezza fosse vigilata da una conveniente guarnigione e da custodi.
Per realizzare la nuova fortezza il Comune dovette espropriare alla chiesetta di S. Maria Maddalena quel terreno che da oltre due secoli era passato di sua proprietà, cedendole in cambio un altro appezzamento di terra all’Acqua Morta, sopra Astino.
I lavori di fortificazione alterarono lo stato dei luoghi, come testimonia nel 1160 un lascito del prevosto Lanfranco Rivola alla chiesa di S. Maria Maddalena, per l’edificazione di una nuova cisterna.
Proprio in questo periodo, la denominazione di “Castellum”, per indicare il fortilizio di S. Vigilio, iniziò ad essere sostituita da quella di “Cappella” (in un atto del 1175 il colle di S. Vigilio è denominato monte della Cappella), che rimase poi sino al termine della dominazione veneta.
DAL COMUNE AI VISCONTI
E nel 1229 la denominazione di Cappella si era addirittura estesa al riedificato fortilizio: un atto attesta infatti la chiesa di Santa Maria della Cappella che sorgeva presso il castello della Cappella.
Dallo statuto del 1248 si evince che la città intende prestare una maggior cura alla manutenzione del fortilizio, dotandolo anche di un guardiano: nel giuramento del Podestà Giovanni Brolo, troviamo che aveva l’obbligo di fare custodire la Cappella da “buoni e leali cittadini” che avessero un patrimonio di almeno 100 lire imperiali e che la “turris cappelle” fosse tenuta in ordine in modo che i custodi vi potessero salire e starvi di guardia.
Per la difesa della città il comune prestò quindi al fortilizio un’attenzione particolare, non permettendo che andasse in rovina; ed altrettanto fecero i vari signori che dominarono di Bergamo, che lo vedevano non solo come uno strumento per atterrire i propri oppositori ma anche come un mezzo per controllare la popolazione.
Infatti, quando nel 1331, terminata l’età comunale venne conferito il potere signorile sulla città di Bergamo a Giovanni di Boemia, si stabilì la costruzione della Rocca sul colle S. Eufemia e la fornitura per la Cappella di vettovaglie e provviste per almeno sei mesi.
Passata in un lampo la meteora del re boemo, nel settembre 1332 Azzone Visconti, duca di Milano, si impadronì di Bergamo e tre anni dopo, nel 1345, il suo successore Luchino Visconti si dedicò al rafforzamento della Cappella e al restauro delle mura della città (2).
Lo stralcio di un’iscrizione (“Hos condi fecit muros”), ora dispersa, ricordava dei lavori di restauro e delle migliorie fatti eseguire nel 1345 dall’allora incaricato podestà e capitano Negro da Pirovano, che eresse muri provvisti di merli e feritoie che formavano un circuito lungo circa 186 metri.
La descrizione prosegue indicando l’ingresso al fortilizio che si affacciava verso la città, a oriente, e precisando che la chiesuola di S. Maria Maddalena rimaneva all’esterno dell’apparato murario, ma ad una quota inferiore per non ostacolare la difesa.
Nel periodo signorile la Cappella, nome con cui ormai usualmente era indicato il forte, venne sempre fornita di una guarnigione, che più che alla difesa della città era ormai espressamente dedicata al suo controllo: essa ormai non rappresentava più il propugnacolo della libertà cittadina, ma uno strumento di soggezione.
IL MONS MILIONUS DIVIENE COLLE DELLA BASTIA
Quando nel 1373 le Valli e in particolare quella di S. Martino, si ribellarono a Barnabò Visconti, nel rinsaldare le difese bergamasche suo figlio Ambrogio edificò sul Mons Milionus una bastia (o bastita), una fortificazione campale in muratura, completata con recinto merlato, la cui fossa fu terminata il 2 maggio di quello stesso anno.
Dominando la parte occidentale, la bastia controllava anche visivamente lo sbocco delle valli ribelli, comunicando con altre postazioni viscontee – le fortezze di Mapello e Carvico e più tardi di Sombreno, rimaste fedeli ai Visconti – mediante segnali di fumo o luci notturne.
Da quel momento il Mons Milionus assunse il nome di “Bastia” (che ancor’oggi pronunciamo con l’accento sulla “a”) e annoverata tra le fortezze della città venne fornita di un regolare presidio, che sappiamo ancora esistente nel 1407. Quando poi, scalzando Barnabò, il nipote Giangaleazzo Visconti prese il potere, il castellano della Bastia, Antonio de Mussi di Crema, si affrettò a consegnarla al nuovo signore.
Su questo colle alla fine del Cinquecento il da Lezze vide ancora le fondamenta di una torre, nel mezzo della quale si trovava una cisterna, con un’altra lì accanto.
All’inizio del Quattrocento, sotto il caotico governo di Giovanni Maria Visconti, la Cappella, unitamente alla Rocca e alla Cittadella era difesa dal ghibellino Giovanni Suardi. Con il consenso del duca di Milano questi consegnò Bergamo nelle mani di Pandolfo Malatesta (riservandosi però il controllo della Cappella e del vicino colle della Bastia, già attrezzato di difese), il quale rimase fino al 1419 allorché il nuovo duca, Filippo Maria Visconti, affidò al Carmagnola l’incarico di riconquistare la città.
Il condottiero del duca comprese ben presto che se voleva conseguire un rapido successo militare doveva innanzi tutto conquistare la Cappella, cosa che fece rapidamente corrompendo il Guastafamiglia, che l’aveva in custodia. Fu uno dei momenti sanguinosi della contesa tra Milano e Venezia (3).
Già nel 1432 sotto i Veneziani, tra le fortezze cittadine in cui erano gli stipendiati la Bastia non è più nominata. Ma non per questo incute meno timore, tanto che tutte le nuove opere realizzate attorno al forte della Cappella saranno dettate dalla presenza del sovrastante colle della Bastia. Per quest’ultimo furono anche predisposti vari progetti per rendere più ardua la comunicazione tra i due colli e per farvi nuove fortificazioni. Si prese anche in considerazione la possibilità di abbassarne la cima, perché in caso di attacco il nemico avrebbe potuto piazzarvi dei cannoni con cui colpire i difensori del castello. Ma quest’opzione venne accantonata, lasciando intatto l’adiacente paesaggio collinare.
IL DOMINIO VENEZIANO
Nel 1428 Bergamo entrò a far parte della Serenissima, che pose da subito un presidio nella Cappella (nel 1429 vi era castellano Benedetto della Stoppa), individuata come cardine difensivo della città.
Alcune opere di rafforzamento verranno intraprese dalla Repubblica Veneta solo dal 1482 conferendo alla struttura un ruolo di primissimo piano nella gestione della città, ma già qualche anno prima dell’edificazione dei quattro torrioni, lo studioso veneziano Marin Sanudo, in visita a Bergamo nel 1483, afferma che “Chi à la Capella èsignor di Bergamo”.
Intanto, nel 1433 si diede ordine di riparare i danni che erano stati inflitti dal Carmagnola. Forse in quel tempo si provvide anche ad ampliare il recinto verso est per includervi la cappella di S. Maria Maddalena e per creare i nuovi alloggi per la guarnigione. Nonostante il forte fosse malconcio, il luogo era inespugnabile. Presentava la cappella di S. Maria Maddalena, un pozzo per le munizioni, una porta con saracinesche.
Fu però solo verso la fine del secolo che i Veneziani, ormai saldamente insediati in Bergamo, ordinarono (1482) l’adeguamento del forte della Cappella, ripartendo la spesa tra la città, il territorio e la camera fiscale. E sarà con i Veneziani che la Cappella muterà la sua denominazione in Castello di S. Vigilio.
Negli anni 1485-87 si procedette al rifacimento del torrione vecchio, alla sistemazione delle fosse e di altre parti (4) e soprattutto alla costruzione dei quattro torrioni tondi angolari (di Castagneta, Belvedere, torrione detto Ponte e torrione di S. Vigilio) che, collegati tra loro da un muraglione di cinta di forma poligonale, andarono a delimitare la fortificazione: un muraglione della lunghezza totale di 189 metri, dotato di merli e feritoie e munito di cannoniere, oltre che da un fossato di protezione. La antica torre centrale assunse quindi la funzione di mastio del castello.
La pregevolissima ed alta scarpa verrà invece addossata al corpo cilindrico delle torri solo circa 100 anni dopo, verso la fine del Cinquecento (quando si penserà ad un tale accorgimento anche attorno alle mura cittadine) per adattare la fortezza alle nuove tecniche di difesa imposte dall’impiego sempre più massiccio dell’artiglieria.
I lavori di ampliamento si conclusero inserendo nel lato rivolto ad est, quello che guarda la città, un solenne ingresso monumentale realizzato in forme rinascimentali, spostato, con la realizzazione del recinto basso, dalla coalizione antiliberista dopo la fine del secolo.
Dell’opera architettonica rimangono alcuni schizzi effettuati del pittore bergamasco Giuseppe Rudelli, che ci permettono di conoscerne la forma costruttiva. Dalla lettura dei disegni, Luigi Angelini attribuì l’opera all’architetto bergamasco Mauro Codussi che, a quel tempo, stava lavorando alla facciata di S. Zaccaria dove adottò il motivo delle lesene binate reggenti l’arco, motivo che poi ritroviamo nel frontone dell’ingresso della Cappella, unitamente all’elemento tipico dello stile codussiano di quel periodo, ossia il coronamento ad arco del portale e le due curve laterali più basse.
IL FORTE AL TEMPO DELLE GUERRE D’ITALIA
I primissimi anni del Cinquecento furono tragici sia per Bergamo che per tutta la terraferma veneta di cui ora la città faceva parte. In seguito alla formazione della lega di Cambrai contro Venezia (1508) si succedettero una serie di eventi che portarono a vedere la Lombardia invasa da truppe francesi e spagnole: il castello parteciperà alla sorte della città e verrà impiegato quale rifugio per tentare la resistenza.
Quando nel 1509 le truppe coalizzate di Francia, Impero e Papato sconfissero nel cremonese ad Agnadello l’esercito Veneziano, questo fu costretto ad arretrare fin quasi alla laguna: per l’unica volta nella sua storia Venezia si preparò ad un assedio. Bergamo venne occupata da Carlo d’Amboise e solo la Cappella, in cui si era ritirato il provveditore veneto, resistette per un giorno al tiro delle artiglierie per poi arrendersi, tradita per denaro da un connestabile bresciano.
Dopo tre anni di occupazione da parte dei Francesi (e cioè dal 1509 al 1512), Venezia tentò la riconquista della città assediando la Cappella, dove i Francesi, insieme ad alcuni ostaggi bergamaschi, si erano rifugiati capeggiati da un guascone, tale Odet de Caucens.
Dapprima il de Caucens si limitava a tirare qualche colpo di bombarda sulla città, radendo anche al suolo la chiesa di S. Vigilio i cui resti furono poi spianati per la posa della prima pietra della nuova chiesa, avvenuta il 10 maggio 1517.
Ma l’assedio si protrasse e gli assediati iniziarono a fare delle sortite, sino a che il monte S. Vigilio non risultò tutto bruciato e devastato. Il de Caucens infatti sotto gli occhi dei provveditori veneti e delle loro compagnie, aveva ardito uscire dal forte e distruggere le case limitrofe, facendo bottino e forzando gli abitanti a portare legnami presso il forte, dove edificò un bastione in terra di fronte al dominante colle della Bastia e addirittura procedendo a realizzare delle riparazioni urgenti di cui il forte necessitava.
Fu forse durante questo assedio che i difensori, e cioè gli Spagnoli, realizzarono, partendo probabilmente dal lato est, fra Città Alta e la Cappella, lo scavo di un cunicolo di contromina (e cioè destinato a contrastare gli attacchi “di mina”), per giungere sotto le mura del forte e demolirle con l’uso di esplosivo.
La galleria, scavata completamente in roccia ed accessibile, tramite un profondo pozzetto, dal torrione di Castagneta (da cui si dirama verso nord ovest e sud est), è stata ritrovata durante le esplorazioni del G.S.B. le Nottole negli anni ’70 partendo da una leggenda che voleva il fortilizio collegato tramite un passaggio segreto sotterraneo a Città Alta, da utilizzare per portare aiuti al castello o, per contro, permettere una fuga sicura ai militari in caso di assedio. Si può invece ipotizzare che il collegamento sotterraneo fra castello e Città Alta non sia mai esistito e sia sempre stato confuso con la strada coperta, opera di collegamento ma a cielo aperto.
Quindi dopo quattro mesi d’assedio il 28 ottobre del 1512 il de Caucens si arrese a onorevoli patti.
Venezia tenne Bergamo per poco, infatti nel giugno del 1513 vi giunsero nuovamente le truppe spagnole, che in quell’occasione incendiano il Palazzo della Ragione. Il provveditore veneto Bartolomeo Mosto e il castellano Carlo Miani con cento fanti si rinchiusero a loro volta nella Cappella, ma gli Spagnoli, dopo un blando assedio iniziale in settembre, avendo ricevuto rinforzi (2000 uomini ed artiglierie) iniziarono dei seri lavori d’assedio battendo il forte con le artiglierie e scavando gallerie di mina, obbligando quindi l’8 ottobre i veneziani alla resa, fatta salva la vita.
A sorpresa, nel 1515 gli Spagnoli abbandonarono Bergamo lasciando solo un presidio formato da 40 fanti, con cinque pezzi d’artiglieria.
A nulla valsero le trattative di resa da parte dei Veneziani, che al comando del provveditore Giorgio Vallaresso, avevano ricevuto l’ordine di riprendere il forte e spianarlo al suolo. Furono quindi posti cento schioppettieri ad impedire l’accesso di viveri e munizioni e fu tentato un colpo di mano che tuttavia fallì. Data la circostanza, i Veneziani si trovarono a dover ingaggiare per la riuscita dell’impresa proprio colui che anni prima era stato protagonista di una simile vicenda, ossia il francese Odet de Caucens.
Il 7 gennaio 1516 da Milano giunse un corpo di Guasconi a dare man forte agli assedianti, e alla testa di 400 guasconi e sette cannoni tornò in Bergamo Odet de Caucens, che da assediato divenne assediante.
Questi, che aveva tenuto in scacco i nemici per oltre quattro mesi dalle cortine della Cappella, ben ne conosceva i punti deboli, e disposta l’artiglieria prese ad asserragliarla col fuoco dei cannoni posti sul monte Corno, procurando una grande breccia nelle cortine del forte che dopo quattro mesi di assedio, il 21 gennaio 1516 convinse gli Spagnoli ad arrendersi.
IL FORTE DELLA CAPPELLA TRA XVI E XVIII SECOLO
Col tempo, anche se i danni prodotti dalle artiglierie del de Caucens furono in qualche modo riparati, cominciarono a giungere da più parti proposte di radere al suolo la malridotta Cappella, quasi dimenticata e ritenuta pericolosa per la città (5).
I drammatici avvenimenti costituirono comunque le premesse che alla metà del secolo portarono il governo veneziano ad elaborare un piano di fortificazione dell’intero territorio del dominio ed in particolare di Bergamo, dove nel 1561 si diede avvio alla costruzione delle Mura che racchiudono ancor’oggi Città Alta.
Tuttavia, nonostante le preoccupazioni espresse in alcune relazioni di capitani e podestà succedutisi in città, non furono proposte soluzioni utili al potenziamento del Castello, che, sebbene costituisse il punto debole delle costruende Mura, almeno inizialmente non venne considerato all’interno di una più ampia visione (6).
La questione fu dibattuta a lungo tra coloro che erano favorevoli ad un suo rafforzamento e coloro che, ritenendolo inutile se non pericoloso, ne consigliavano l’abbattimento insieme al dirupamento del terreno circostante. Il nodo controverso divideva i tecnici in due fazioni:
da un lato i sostenitori del rafforzamento del Forte di S. Marco di cui era portavoce il Governatore Generale Sforza Pallavicino, che incaricato a sovrintendere la costruzione delle Mura considerava la Cappella ininfluente nella difesa della cinta bastionata che stava prendendo corpo sul terreno (7).
Dall’altro, vi erano coloro che spingevano affinché la Cappella non andasse nuovamente perduta in quanto rappresentava il punto debole verso la nuova opera difensiva in costruzione, che potrebbe “eser battuta et offesa da due monti….”(8): la Bastia e il monte Corno.
Per la Cappella lo Sforza pensava semplicemente al rafforzamento del fronte verso la Bastia e all’ammodernamento del Castello con un baluardo. Intenzione irrealizzabile, perché la ristrettezza della piazza (140 passi) mal s’adattava ad un presidio efficiente e soprattutto a un’ordinata azione di uomini e pezzi in caso di operazione. Osserva G.M. Labaa che forse la determinazione di non trasformare in corpo reale la piazza del Castello poteva sottendere il disegno tattico di evitare, in caso di perdita, che la fortificazione potesse accogliere sufficiente artiglieria da sfondare il fronte della lunga muraglia del Forte di S. Marco.
Tuttavia la straordinaria posizione che la identificava come impareggiabile cavaliere con visualità di azione a 360°, pur nella difficoltà obiettiva di assicurarne la difesa rendeva restii a sacrificarla (9).
Che questo fosse un problema vitale e aperto risulta dal fatto che già nel 1565 si provvide a studiare il rimodellamento di tutto il territorio tra la Fortezza (le Mura) ed il Castello al fine di togliere di mezzo ogni possibile pianoro che potesse accogliere l’artiglieria di un ipotetico assediante (10).
A questo scopo si stanziarono 12 mila ducati e si fece in modo che in andamento rimanesse solo una stretta strada di soccorso e d’approvvigionamento del Castello, che a questa data era presidiato da soli 40 fanti (11).
La mancanza di fianchi adeguati sminuiva indubbiamente la validità della Cappella: le cannoniere erano infatti ricavate nei vetusti torrioni cilndrici del Castello medioevale con evidenti difficoltà di brandeggio e di operatività complessiva di fuoco e di fiancheggiamento. Quanto si sarebbe potuto fare in barbetta era poi limitato dall’esiguità della piazza.
Da qui le ragioni che fecero orientare non verso interventi sul nucleo ma verso l’approntamento di opere esterne ed avanzate, che però vennero realizzate solo tra la fine del Cinquecento e il secondo decennio del Seicento.
Le preoccupazioni maggiori venivano sempre dai colli vicini, Corno e Bastia, dai quali il fortilizio, facilmente raggiungibile tramite il dolce declivio del terreno, poteva essere battuto; i terreni verso la Cappella non erano sufficientemente scoscesi per contrastare l’avvicinamento del nemico.
LA RISTRUTTURAZIONE DEL CASTELLO NEGLI ANNI 1585-1595
Intanto, verso l’ultimo decennio del Cinquecento il Senato Veneziano deliberava per l’inizio dei lavori di ammodernamento del fortilizio, che entro il 1595 era completamente ristrutturato sotto la direzione del capitano Nicolò Michiel e dell’ing. Bonomi (12).
Del Bonomi il lavoro più pregevole fu sicuramente la costruzione della scarpa addossata al corpo cilindrico delle torri, accorgimento difensivo poco prima attuato sulle mura cittadine, per difenderle dagli attacchi portati con le mine.
Sono infatti notevoli le differenze tra il paramento murario della scarpa e la cortina dei torrioni, dovute alla differente funzione delle due parti murarie: la scarpa doveva reggere l’urto e le principali offese degli assedianti, doveva sostenere il maggior onere dei carichi dei terrapieni e poteva, per la sua posizione, essere facilmente sbrecciata dalle mine; il muro verticale doveva sopportare carichi di gran lunga inferiori servendo solo di sostegno per la merlatura sulla quale solitamente si appoggiavano le travi della copertura.
Nel corso dei lavori, vennero demoliti alcune casupole e il residuo dell’antica torre centrale (il maschio medioevale che era già stata fatta abbassare dal Pallavicino per renderla meno esposta ai tiri di artiglieria), per ottenere uno spazio di manovra maggiore sulla piazza superiore del Castello, ora ampliata (40×70 metri ca.) e capace di ospitare fino a 500 soldati e 10 pezzi di artiglieria.
Per ampliare il fortilizio verso est, la cortina rivolta verso la città fu demolita nel tratto compreso tra i due torrioni e sostituita da due cortine perpendicolari a quella abbattuta (e cioè edificate sul lato settentrionale e meridionale), collegate fra di loro da una cortina a “coda di rondine”, al centro della quale venne costruito il nuovo ingresso al castello. Da questa parte i muri erano di esiguo spessore, ben diversi da quelli assai più robusti e massicci rivolti verso le alture circostanti.
Da tali lavori si ricavò una nuova piazza chiamata “inferiore” per distinguerla da quella sopraelevata, di dimensioni assai maggiori – con la quale era collegata tramite una scala in pietra di 4 passi veneziani (1 passo = m 1,738) -, entro la quale furono costruite una polveriera e una chiesetta (forse per sostituire quella dedicata a S. Maria Maddalena, demolita nel 1567 e i cui resti potrebbero essere stati inglobati nella Casa del Custode con i lavori di ampliamento?); sulla sinistra, il deposito delle munizioni, degli archibugi, degli attrezzi e, dietro, gli alloggiamenti per i soldati disposti in doppia fila.
Negli alloggi dimorava il contingente militare che variava a seconda dei periodi storici e delle crisi politiche. Una piccola comunità il cui compito principale era l’esercitazione oltre al rondamento diurno e notturno, nella fossa intorno al Castello e a controllo del territorio.
Venne inoltre edificata la Casa del Castellano (costruita solo nel 1593 ed oggi sede l’associazione Castrum Capelle, a sinistra della scalinata principale) e la Casa del Capitano, chiamata del Pittore (ubicata sulla destra).
In mezzo alla piazza superiore venne eretta un’antenna su cui nei giorni festivi veniva issata l’insegna di San Marco. Sotto questa antenna venne realizzata una vasta cisterna per assicurare il rifornimento idrico, alimentata da una sorgente e dalla raccolta delle acque piovane.
Un’altra cisterna fu realizzata di fronte alla Casa del Castellano.
Tutt’ intorno venne scavata una fossa profonda quattro passi, controllata da due corpi di guardia sul lato nord e sud e dotata di una controscarpa che, erosa e continuamente dalle piogge, richiederà continui interventi. I lavori eseguiti erano costati sino a quel momento 34.000 ducati.
Altri lavori di rafforzamento del forte furono realizzati all’inizio del Seicento seguendo le proposte di Francesco Berlendis e di Marco Antonio Negrisoli.
LA PROSECUZIONE DEI LAVORI: LE STRUTTURE ESTERNE ED AVANZATE PER LA DIFESA VERSO IL MONTE BASTIA
Riguardo le perplessità relative all’effettiva inespugnabilità del Castello dovuta alla presenza dei colli vicini (Corno e Bastia), tra i progetti presentati nel 1585 il Bonomi aveva proposto quattro bassi baluardi attorno al vecchio Castello, uno dei quali era un puntone che si protendeva fra la Bastia e il Corno, soluzione onerosissima (80 mila ducati) e di scarsa fattibilità; il Malverda si era limitato ad un puntone verso il monte Corno utilizzando le vecchie torri del Castello per il fiancheggiamento, oltre a potenziare al massimo il collegamento con la città, soluzione meno onerosa (25 mila ducati) ma di scarsa efficacia; Paolo Emilio Scotto aveva proposto una soluzione costituita da una tenaglia che dal vecchio Castello si rivolgeva verso la Bastia e il Corno e la realizzazione di una strada coperta che occupasse tutto il dosso che s’interpone fra la fortezza e il Castello. Tale strada non avrebbe dovuto essere un semplice percorso protetto, ma consistere in cortine terrapienate e forte scarpamento dei pendii esterni. L’ipotesi della tenaglia venne quantificata in 35 mila scudi. La soluzione fu avvertita come la migliore e più o meno secondo quest’ultima ipotesi ci si mosse.
La costruzione della strada coperta tra la città e la Cappella iniziò nel 1607 ma solo tra il 1613 e il 1616 i lavori, diretti dall’ing. Marcello Alessandri, si poterono considerare conclusi. La strada, una sorta di trincea con argini in terra (rivestiti da parapetti in pietra nel nel 1623), che dal muro di controscarpa che affiancava la fossa correva lungo la costa del colle, costituiva un collegamento sicuro tra il Forte di S. Marco e la Cappella, utile a portare rifornimenti e aiuti in caso di necessità.
La strada coperta era protetta, a metà del percorso, da una piccola piazza per posizionare i cannoni sul lato sud (verso S. Gottardo) e da un’altra piazza sul lato nord, verso il Monte Corno.
L’intero passaggio, che aveva una larghezza di 18 passi ed era costato la considerevole cifra di 41.000 ducati, verrà smantellato e completamente cancellato da Napoleone Buonaparte.
Di pari passo con le modifiche relative al Forte di San Marco, la difesa esterna del Castello venne definitivamente completata tra il 1621 e il 1623 su progetto degli ingegneri Tensini ed Alessandri, mediante la costruzione, oltre la controscarpa della fossa, della tenaglietta di nord-ovest (due grandi speroni , rivolti verso il monte Corno ed il monte Bastia, posti a protezione del torrione più occidentale) e dei due baluardetti di sud-ovest e di sud- est, realizzati per migliorare la difesa dei due sottoposti torrioni: il primo, denominato baluardo Moncenigo, è un puntone verso la chiesa di S. Vigilio, il secondo è posto a protezione del primo torrione, detto di S. Vigilio.
Infine, i terreni circostanti vennero dirupati per rendere meno agevole l’avvicinamento del nemico.
Con il 1623 si concludevano le operazioni di fortificazione della città di Bergamo da parte di Venezia. Ma servivano altre risorse economiche e per averle si ribadiva nuovamente che in questo luogo si giocava per Venezia “Ia conservazione di questa Città e di tutta Bergamasca”: in particolare, bisognava rendere ancor più aspro il declivio davanti alla “fòrvese” attraverso un ennesimo intervento di modellamento della sella fra il Castello e l‘altura del Colle, che restava facilmente accessibile al nemico (14): un appassionante e “classico” problema tattico-strategico (tale da entrar nella trattatistica), per la cui soluzione vennero chiamati i migliori ingegni nell’arte del fortificare d‘Italia.
Affinché niente fosse anteposto al superiore bisogno di sicurezza, le plurimillenarie forme della natura vennero modificate ancor più radicalmente, artificializzando e caricando di nuovi valori una parte importante del Colle di Bergamo, esaltandone il senso di dominanza: si scavarono fosse, si tolsero boschi, vigne ed alberi isolati e si asportarono persino i muretti dei terrazzamenti, rimodellando tutt’attorno al Castello il profilo delle alture, delle selle e dei crinali, lasciando percepire da lontano persino il corridoio che correva lungo la strada coperta.
Il luogo tutt’intorno al Castello mutava ma la sommità del colle non perdeva i suoi valori semantici di spartiacque fra le vigne e le aree boscate che si succedono a ponente e l’artificialità del costruito a levante, con la città serrata nella smagliante cinta bastionata.
Sino alla fine della presenza Veneta a Bergamo, il forte non subì l’assalto di alcun avversario.
DOPO VENEZIA
Il 25 dicembre 1796 i francesi di Napoleone I entrano in Bergamo ed è la fine della dominazione veneta. I francesi si fanno consegnare dal capitano veneto Ottolini il Castello, temendo un tentativo di controffensiva di Venezia proprio da quella postazione; ed è forse per questo motivo che, l’anno successivo, viene distrutta la strada coperta costruita circa duecento anni prima, decretando per il Castello la perdita definitiva dell’importanza strategica che lo aveva contraddistinto fino ad allora.
Il fortilizio perde importanza per le ormai mutate strategie militari e dal 1803 il Ministero della Guerra indice alcune aste per la vendita o affitto a privati dei terreni facenti parte della ex fortezza (15), che in questo periodo viene anche utilizzata come magazzino militare.
Le campagne napoleoniche richiedevano ingenti finanziamenti e, venute meno le ragioni militari, furono vendute numerose parti della fortezza cittadina. Tra queste, oltre al Castello, il Forte di San Marco che da allora è di proprietà privata, compresa la Porta del Soccorso e le interessantissime strutture sotterranee.
Occupata Bergamo nel 1815, gli Austriaci intrapresero una politica di smantellamento delle principali strutture militari presenti in città; nel 1829 furono infatti demolite alcune parti del castello, tra cui la polveriera e la monumentale porta d’ ingresso entrambe attribuite al Codussi.
In precedenza, nel gennaio del 1825 avevano messo all’asta gli spazi dell’intero perimetro delle mura. Per buona fortuna l’operazione fu bloccata dal podestà di Bergamo Rocco Cedrelli il quale riuscì ad aggiudicarsi (la somma sborsata fu di 6.050 lire) tutte le aree, divenute poi la splendida passeggiata che è uno degli aspetti più affascinanti dell’antica città.
Alla fine dell’Ottocento, con la cessata strategia difensiva, si assiste al progressivo inurbamento del Colle con la costruzione di residenze e case di villeggiatura sul suo versante più soleggiato.
Questo a seguito della crescente attrazione delle zone collinari a luogo di villeggiatura e ristoro.
A partire dai primi anni del Novecento, e nell’arco di tutto il secolo, si assiste sempre più alla riconversione dei cascinali meglio esposti al sole in ville e villette in stile liberty e la progressiva sostituzione del verde rurale in giardini, anche con essenze estranee all’areale tipico e/o con essenze esotiche.
Del 1912 è la costruzione della funicolare di collegamento tra Città Alta e S. Vigilio, che copre una distanza di 621 metri con un dislivello pari a 91 metri.
Le mappe catastali rilevate negli anni successivi non riportano trasformazioni evidenti e gli edifici si manterranno pressoché inalterati fino ad oggi, tranne l’edificio settentrionale soggetto ad una demolizione parziale.
Nel 1934 buona parete del sedime dell’antico forte fu ceduto alla famiglia Soregaroli, che trasformò la Casa del Castellano in un caffé-ristorante; i camerieri servivano clienti ai tavolini allineati all’ombra del tigli sulla sommità. Il proprietario, Pierino Soregaroli vi profuse molte energie fisiche ed economiche per riadattare la scalinata e sistemare i camminamenti del malconcio castello. Nel corso degli anni ’80, a causa del progressivo stato di degrado dell’edificio il ristorante ha cessato la sua attività.
Nel 1957 il Comune di Bergamo ritorna in possesso del castello e dei terreni a nord dello stesso, acquistandoli da privati ed a partire dal 1960 vengono avviati i lavori di restauro del fortilizio, su progetto dell’architetto Pippo Pinetti.
I lavori si conclusero alla fine di agosto del 1961, quando la piazza superiore venne riaperta al pubblico (16).
Anche la funicolare di San Vigilio, che funzionò fino al 1976, venne ripristinata nel 1991, quando si conclusero i lavori di restauro. Un’ulteriore restauro è stato approntato in tempi recenti ed è stato completato nel 2004.
Il recupero ha dato la possibilità di far riemergere dal colle le parti superstiti di questa struttura, restituendo alla luce agli antichi torrioni, disboscando la vegetazione spontanea e trasformando le cortine nelle terrazze panoramiche di un giardino pubblico.
Per concludere con le parole di G.M. Labaa, oggi possiamo identificare il Castello di San Vigilio come un “segno formale di grande significato e strumento interpretativo di sedimentazione storica e di tecnica difensiva”. Lo si evince “dalle strutture murarie e dagli spazi ricchi di portato castellologico riferibili sia all’impianto visconteo che a quello veneziano, per arrivare cronologicamente fin oltre la soglia del secolo XIX, all’epoca del definitivo disarmo strutturale dell’impianto voluto da Napoleone” (17).
Ed oggi come allora, il Castello continua a costituire uno dei più precisi riferimenti — e non solo visuale — di quel contesto variegato che è Bergamo.
NOTE
(1) Angelo Mazzi, Il Castello e la Bastia di Bergamo, Ist. It. d’Arti Grafiche, 1913.
(2) Secondo il Mazzi (Il Castello e la Bastia di Bergamo, cit.) ai tempi del rafforzamento della Cappella sotto il governo di Luchino Visconti (1345) non si provvide solo ad un semplice restauro ma i lavori dovettero essere ben più sostanziali, comprendendo la costruzione dei quattro torrioni circolari posti agli angoli delle cortine coronate dalla merlatura. Questi, secondo Luigi Angelini, per la loro forma e struttura, sarebbero invece stati edificati dai veneziani verso la fine del XV secolo nel quadro dei lavori di potenziamento della fortezza.
(3) Nel 1419 il duca Filippo Maria Visconti, intenzionato a riannettere Bergamo al Ducato di Milano affidò al Carmagnola il compito di cacciare il Malatesta da Bergamo. Carmagnola, compreso da subito l’importanza strategica del fortilizio della Cappella, il 24 luglio ne acquisì il controllo, corrompendo con denaro il castellano, Antonio Guastafamiglia. Non appena occupata la Cappella, le truppe del Carmagnola da lì iniziarono ad attaccare incessantemente la città, che fu presto ridotta alla resa ed obbligata a tornare sotto il dominio visconteo.
(4) Questi lavori sono documentati dalle ducali venete sino al 1490. Per il rifacimento e la sistemazione del torrione vecchio, delle fosse ed altre parti, furono spesi 1000 ducati della camera fiscale. Nel 1487 sono documentate opere realizzate sotto la direzione dell’ingegnere militare Venturino Moroni.
(5) Nella Relazione del podestà Costantino Priuli, 8 novembre 1553: “… Vi è la Capela qual è parte ruinata, et per mia opinion se doveria ruinar del tuto, in tuto quela è fuora di la Cità poco spacio.”
(6) Al sopralluogo alle fortificazioni, eseguito a cavallo fra gli anni venti e trenta del Cinquecento dal comandante delle truppe Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, segue un progetto per il loro rafforzamento con alcuni bastioni, ma non v’è accenno alcuno al castello di S. Vigilio (Cfr. G. Colmuto Zanella, “La fortificazione di Bergamo promossa da Francesco Maria della Rovere” in “1588 – 1988 le mura di Bergamo”, nota 52 pag. 295). Nella Relazione del podestà Costantino Priuli, 8 novembre 1553: “… Vi è la Capela qual è parte ruinata, et per mia opinion se doveria ruinar del tuto, in tuto quela è fuora di la Cità poco spacio”.
(7) Cfr. E. Fornoni, “Le fortificazioni di Bergamo sotto la Repubblica Veneta” alle pagg. 108 e 109.
(8) Dalla Relazione inviata al Senato dal podestà Francesco Venier nel novembre 1561, tre mesi dopo l’inizio dei lavori della Fortezza.
(9) G.M. Labaa, Il Castello, in: “Progetto – Il Colle di Bergamo”. Pierluigi Lubrina Editore (anno non indicato).
(10) Nel 1565 il capitano Donato relaziona sui lavori di modifica ai terreni compresi fra la Cappella ed il Forte di San Marco per la rimozione di alcune piazze che potevano diventare utili al nemico per collocare l’artiglieria e, secondo lo stesso capitano, era questo il punto di maggior pericolo per la fortezza in costruzione (Cfr. relazione 17 del capitano Lorenzo Donato, 31 dicembre 1565, in “Relazioni dei rettori veneti ….”). Dopo i lavori doveva rimanere solo una strada stretta per raggiungere il castello.
(11) Cronicamente modesta rimarrà sempre, invece, la guarnigione: il 18 settembre 1585 il capitano Michele Foscarini lamenta che a custodia della Cappella vi siano solo 35 fanti, parte dei quali devono fare anche servizio di ronda in città e ravvisa in ciò un grandissimo pericolo in ordine alla sicurezza generale della Piazza (G. M. Labaa, cit.): “La milizia stipendiata posta alla custodia della fortezza di Bergamo è di trecentodieci soldati, sotto la caricha del governatore et de sei capitanij….. Il quinto [capitano] è posto alla custodia della rocchetta detta la Capella con 35 fanti, parte de quali convengono a servire a rondare et fare le sentinelle dentro alla Città, per esser il numero de soldati così ristretto, che non può suplire ai necesari bisogni, di maniera che la Capella resta con soli 25 huomini, parte de quali alle volte anco si trovano inutili per esservi degl’ammalati, et inclusovi il tamburo, ragazzo et bombardieri et perciò viene ad essere pocco sicuramente guardata, il che a me pare di nottabilissimo disordine per gl’accidenti che potessero occorrere.” In “Relazioni dei rettori veneti in terraferma – Podestaria e capitanato di Bergamo”. Nella relazione sono riportati anche i quattro diversi progetti di modifica per il rafforzamento della Cappella, fatti pervenire alle istituzioni Venete.
(12) La data della fine dei lavori è documentata con la relazione del capitano Giovanni Guerini.
(13) Da Archivio Comune di Bergamo 1900, faldone 883, Biblioteca Civica A. Mai.
(14) Anche la tenaglia verso il Corno, non essendo sufficientemente incamiciata franava continuamente per le piogge, mentre la strada coperta, ancora nel 1702 (Cfr. relazione del capitano Andrea Badoer del 1702 in “Relazioni dei rettori veneti in terraferma – Podestaria e capitanato di Bergamo”), non aveva più i parapetti, dei quali rimanevano “le vestigia”, ed era ormai così stretta da non permettere il passaggio di un cannone.
(15) Da Archivio del Dipartimento del Serio, faldone 1071 (piazzeforti Bergamo), Archivio di Stato di Bergamo.
(16) Da archivio del Comune di Bergamo: atto di compravendita del 6 giugno 1957. Progetto di restauro a cura dell’arch. Pinetti.
(17) G.M. Labaa, Il Castello, cit.
Alcuni riferimenti
G.M. Labaa, Il Castello, in: “Progetto – Il Colle di Bergamo”. Pierluigi Lubrina Editore (anno non indicato).
Mario Locatelli, “Il castello di S. Vigilio (La Cappella)”, Castelli della Bergamasca 2, Il Conventino, Bergamo.
Emanuela Gregis, “Complesso museale presso il Castello di San Vigilio a Bergamo”. Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura e Società. Corso di Laurea in Architettura. A.A. 2009-2010.
Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012, cm 21×28, pp. 244.
Monica Resmini, Le Mura: immagini e realtà. In “Le mura. Da antica fortezza a icona urbana”, di Renato Ferlinghetti, Gian Maria Labaa, Monica Resmini. Bolis Editore, 2016.
“I sotterranei del Castello di San Vigilio – Bergamo”, a cura del Gruppo Speleologico Bergamasco Le Nottole.
Angelo Mazzi, Il Castello e la Bastia di Bergamo, 1913.
LA ROCCA, IL PRIMO DEPOSITO E FABBRICA DELLA POLVERE NERA
Agli inizi del Cinquecento la Bergamasca aveva avuto varie occasioni per far conoscenza con la forza distruttrice della polvere da sparo e delle armi da fuoco. Come nel 1509, quando le forze della Lega di Cambrai – nata allo scopo di annichilire per sempre l’espansionismo di Venezia – avevano invaso, conquistato e devastato un paese dopo l’altro.
Nel 1514 fu però la volta della città, quando le truppe spagnole assalirono da Sant’Agostino la Rocca, presidiata dai Veneziani, costringendo i difensori alla resa.
Nel corso degli eventi bellici il Castello di San Vigilio vide confermata la sua rilevante posizione strategica e fu al centro di aspri scontri, mentre la Rocca, che soprattutto dopo la costruzione delle nuove mura andò perdendo importanza nella difesa della città , finì con l’essere relegata a funzioni di magazzino e di arsenale della fortezza, attrezzandosi per la riparazione dei mezzi di trasporto e dei pezzi di artiglieria.
Con i Veneziani, la grande torre d’ingresso della Rocca era stata convertita a polveriera.
Nonostante il pericolo derivante dall’essere a diretto contatto con le abitazioni, vi si fabbricava la polvere per i cannoni e per gli archibugi, ma in misura molto modesta in quanto le macine per tritare e ridurre in polvere salnitro, zolfo e carbone, necessari per la miscela esplosiva, erano azionate con i cavalli o a mano.
A ridosso della cortina orientale del mastio interno i Veneziani avevano costruito gli alloggiamenti (poi ridotti in altezza e trasformati nel 1975 in museo) e istituito la scuola dei bombardieri , per il cui addestramento funzionò con fasi alterne un tiro al bersaglio grazie al quale, peraltro, venivano consumate ingenti quantità delle già scarse scorte della fortezza.
Anche quando vennero costruiti appositi edifici (le ben note polveriere) per conservare la polvere in tutta sicurezza, il deposito della Rocca non venne rimosso, esponendo la stessa Rocca e una a parte della città alle conseguenze di uno scoppio, che avrebbe potuto essere provocato in qualsiasi momento da un fulmine – data l’eminenza della sua posizione – o da qualche azione criminosa: erano gli anni di notevole tensione con gli Spagnoli e con Milano, fatto che porterà alla decisione di erigere una monumentale fortezza bastionata a protezione della città alta.
Proprio la caduta di un fulmine sul torrione tondo della Rocca ci fornisce la prima testimonianza dell’esistenza in città di un deposito di polvere nera, datata 17 giugno 1511 e riportata nelle “Effemeridi” dall’abate Donato Calvi riprendendo la notizia dall’ “Historia Quadripartita” di Celestino Colleoni: la saetta rovinò quasi del tutto il torrione, danneggiando gravemente il circondario. Quello stesso torrione esplose anche nel 1512.
Come sempre, la munizione era scarsa è vetusta; soprattutto, c’era pochissima polvere e mancava il piombo. Si raccomandava pertanto che, come in altre fortezze, in concomitanza all’erezione delle mura si costruisse lontano dall’abitato un “edifitio da polvere”, che il nemico non avrebbe mai potuto colpire direttamente con il cannone: si tratta delle due polveriere nel forte di S. Marco, che, come vedremo, verranno costruite qualche decennio dopo.
I TEZZONI DEL SALNITRO
L’unico esplosivo disponibile fino alla seconda metà dell’Ottocento fu la polvere da sparo, per fabbricare la quale occorrevano tre ingredienti: lo zolfo, il carbone e il salnitro. Ma mentre i primi due erano facili da procurare, la produzione del salnitro – principale ingrediente della miscela esplosiva, di cui costituiva quasi il 75% – richiedeva un processo lungo e laborioso dal momento che abbondava soprattutto nei luoghi saturati da escrementi animali, ovunque fosse possibile l’azione di speciali batteri nitrificanti. I sali di nitro venivano estratti dal terreno imbevuto di orina e feci mediante una lavatura con acqua; il liquido così ottenuto conteneva il salnitro disciolto che veniva recuperato mediante evaporazione (1).
La parte maggiore della produzione del salnitro avveniva perciò attraverso i cosiddetti “tezzoni”, ampi recinti con il fondo costituito da terra opportunamente scelta e riparati da tettoie, sotto le quali venivano fatte ricoverare le pecore (per ogni tezzone era previsto un gregge di duecento pecore).
A Bergamo il tezzone del salnitro si trovava nel Prato di Sant’Alessandro a fianco della Fiera e a non molta distanza dall’Ospedale Grande di San Marco, ed era stato costruito per ordine di Venezia tra il 1573 e il 1588, istituendo la figura del salnitraio (2), attraverso il quale la Dominante gestiva in regime di monopolio la raccolta del salnitro e la sua raffinazione in nitrato di potassio.
Altre “tezze” in muratura furono istituite in provincia ed entro il 1623 nella Bergamasca se ne potevano contare sino ad otto. La loro attività proseguì per tutto il Settecento, benché, almeno per un certo periodo, una parte venisse importata (3).
Come riferisce Donato Calvi nelle “Effemeridi”, sopra l’ingresso, dominato dal Ieone di San Marco, spiccavano gli stemmi del Doge, del Provveditore alle Artiglierie Giovanni Bondumiero e del capitano Michele Bono, oltre a quelli dei rettori Paolo Contarini e Paolo Loredano.
Il tezzone al Prato di Sant’Alessandro venne abbattuto nel 1820 per far posto al mercato delle granaglie, costruito entro l’anno successivo (4) ed affacciato su piazza Baroni, nell’area adiacente alla Fiera.
Ritroviamo una Fabbrica di Sanitro nella mappa del Catasto storico lombardo-veneto del 1853, appena fuori le muraine, accanto al portello e al convento delle Grazie.
Se in un primo momento la conservazione del salnitro avveniva in Cittadella in un magazzino in disuso, nel 1598 la quantità prodotta era così notevole da far pensare alla costruzione di un deposito affinché la polvere venisse fabbricata localmente anziché mandare il salnitro a Venezia. Ciò avrebbe permesso di fronteggiare le crescenti richieste della fortezza, dove le scorte erano solo la metà del necessario.
LE POLVERIERE VENETE DI COLLE APERTO
Tra il 1580/’81 e il 1582 si provvide dunque a costruire le due polveriere venete all’interno del Forte di S. Marco, al di fuori del tiro dei cannoni e lontane dall’abitato (5).
Una, di proprietà comunale, è adagiata lungo il baluardo di Castagneta, nella parte superiore, chiave della difesa cittadina del Forte. Si trova in via Costantino Beltrami, ai piedi della scaletta che conduce all’Orto Botanico Lorenzo Rota.
Di notevole interesse storico e turistico e in posizione facilmente accessibile, ha sofferto per la modifica della zona dovuta alla presenza della scuola media “T. Tasso.
L’altra, oggi di proprietà della famiglia dei conti Roncalli, fu costruita più in basso, nella valletta tra Colle Aperto e Porta San Lorenzo.
E’ delimitata alle spalle dal poderoso muro del forte superiore, dominando con le sue forme insolite un inconsueto ambiente agreste.
Le pietre furono cavate probabilmente da qualche vena nelle vicinanze, come si usava ai tempi, dal momento che i blocchi di pietra di arenaria della copertura furono con certezza estratti dalla cava posta nelle immediate adiacenze di Porta di San Lorenzo.
Il blocco di base, formato da masselli di pietra di nobile fattura e accurata disposizione, è un elemento non trascurabile nel complesso di architettura bellica e aggiunge preziosità alla costruzione:
“Queste costruzioni sono tra i volumi più belli, inusitati e curiosi dell’opera fortificata. La perfetta loro geometria è evidenziata dal nitore dei semplici volumi e testimonia molto bene quel rigore che nell’architettura militare mai vien meno, neppure in piccoli edifici sussidiari dove sarebbe stato possibile concedersi divagazioni ornamentali” (Gianmaria Labaa, “Le Mura di Bergamo”).
La messa a nudo delle piramidi attuata durante i recenti lavori di restauro (6), ha rivelato lo stato rovinoso della copertura lapidea ed anche l’azione delle acque meteoriche, che avevano sfaldato gran parte dello strato superficiale di copertura.
Mentre la piramide della polveriera inferiore è oggi l’unica a presentarsi ancora completa, in quella della polveriera superiore (la più malconcia e più a lungo trascurata) le infiltrazioni d’acqua hanno invaso la volta con minuscole stalattiti, aggiungendo una nota di romantica decorazione al complesso.
L’aereazione è attivata da fori o finestrelle alte, mentre la luce e l’aria penetrano attraverso due finestre a baionetta di profondo sviluppo, consentito anche dal notevole spessore del muro che alla base è di circa due metri.
Sopra gli ingressi sopravvive ciò che resta dei due stemmi scolpiti in un grosso blocco di arenaria grigia, quasi totalmente disgregati. Essi presentano la data di esecuzione dell’opera e i nomi dei capitani e dei soprintendenti veneti.
§ § §
Nel frattempo si riorganizzava l’intera struttura militare. Per alloggiare le truppe si costruivano quartieri sul versante settentrionale, vicino alle porte (le cosiddette “casermette”, a sud del chiostro maggiore del convento di S. Agostino) o all’interno del forte di San Marco (dove gli alloggiamenti sono ancora individuabili in una parte degli edifici all’inizio di via Beltrami), garantendo ovunque l’immediatezza di un eventuale intervento e un forte presidio nelle località strategicamente più importanti e al contempo sgravando la città dall’onere dell’alloggio.
Il Castello di S. Vigilio veniva ulteriormente rafforzato entro il 1626, ricavando dalle demolizioni una vasta piazza capace di ospitare anche deposito per le polveri, per le munizioni e per gli archibugi nonché gli alloggiamenti per i soldati.
Sopra la controscarpa che circondava il castello correva la strada coperta in cui erano ricavate alcune piazzuole per le cannoniere.
LA TERZA POLVERIERA
Una terza polveriera, di cui non è rimasta traccia, venne costruita all’interno del Castello di San Vigilio, documentata da un disegno di Luigi Deleidi, detto il Nebbia, nell’album di vedute di Bergamo trafugato alcuni anni or sono dalla Biblioteca Civica “Angelo Mai”. Un’opera grandiosa, il cui progetto secondo l’ingegnere Luigi Angelini può essere attribuito al Codussi.
Il deposito si trovava a destra nella piazza bassa del castello prospettante sulla città, dove si innalzava anche una chiesetta; a sinistra c’erano invece il magazzeno delle armi e gli alloggiamenti dei soldati.
Da Lezze precisa che la torretta (piramide) “per conserva della polvere” era coperta di piombo. Il suo impiego doveva essere limitato alle esigenze del presidio militare sul colle, ma nel 1666 il capitano di turno, nel riferire la situazione dei depositi della polvere, fa presente che essa era suddivisa in tre torrette (ossia piramidi), due in città e la terza nella “Cappella” (Castello di S. Vigilio).
Fu demolita molto probabilmente in coincidenza con le notevoli trasformazioni che la “Cappella” subì nell’Ottocento per mano degli Austriaci, che la sguarnirono del tutto abbattendo pure il portale d’ingresso; i disegni eseguiti da Giuseppe Rudelli nel momento della demolizione ne documentano la grandiosità.
I CRONICI RALLENTAMENTI: SI CONTINUA A USARE LA POLVERISTA DELLA ROCCA
Finita la costruzione nel 1582, le due polveriere non furono utilizzate con la dovuta tempestività, probabilmente per il rallentamento del modesto apparato amministrativo-burocratico dell’epoca, dovuto all’alternanza dei rettori inviati da Venezia a Bergamo, lontana dal potere centrale.
Ancora nel 1598, a ben 16 anni dalla fine dei lavori funzionava a malapena una polveriera (completata tre anni prima), dove il capitano Giovanni Querini aveva fatto collocare tutta la polvere che era stata spedita a Bergamo all’inizio del suo mandato, mentre nella seconda mancava ancora la copertura in piombo.
La prima, non era comunque messa meglio, visto che la pioggia filtrava nuovamente a causa della sottile copertura del piombo e il capitano Girolamo Alberti aveva dovuto rimuovere la polvere “bagnata, e in parte ridotta come fango”, facendola asciugare e riportandola in Rocca nonostante il pericolo.
Ancora nel 1599 la polvere (82.126 libre di grossa e 9.226 libre di fine) veniva dunque conservata dentro due torri della Rocca e per la custodia vi erano solo quattro bombardieri, per giunta poveri (quindi corruttibili) e perciò esposti a tramare “ogni scelerità”. Nel 1601 la polvere era ancora in Rocca, ancora esposta al pericolo dei fulmini o a quello di essere presa con un facile colpo di mano, come evidenziato nelle relazioni dei capitani Venier e Trevisan tra la fine del Cinque e l’inizio del Seicento, invitando a portare la polvere in luogo più sicuro.
Si provvedeva pertanto a sistemare la polverista (deposito della polvere) della Rocca insieme alla casa del salnitraio. Si allungava il bersaglio e fuori città (Osio Sotto e Spirano) si costruivano due “tezze” (tettoie) per la conservazione delle terre necessarie alla formazione del salnitro.
LE ESPLOSIONI ALLA ROCCA
La lunga consuetudine fece trascurare le più elementari norme di sicurezza, per cui si finì col dimenticare dentro la Rocca una scorta di esplosivo, che a causa di un fulmine scoppiò: era il 22 settembre 1663 e ne dobbiamo la vivace descrizione a Donato Calvi, testimone oculare dell’evento.
A giudicare dai danni alle abitazioni anche di Borgo San Lorenzo, sul versante opposto del colle, c’è da ritenere che l’esplosivo anziché nella torre rotonda fosse collocato in una torre in posizione più avanzata verso la città. Questa venne diroccata insieme a molte case vicine e si contarono due vittime fra i civili.
Delle antiche esplosioni avvenute in Rocca restano comunque i segni nel torrione – evidenziati da recenti restauri – nei corsi irregolari delle murature, dove si notano i vari tipi di materiali usati. Alle pietre ben squadrate della base si sovrappone nella parte superiore materiale di taglio e di varia composizione, come se si fosse reso necessario chiudere una breccia.
LE DUE POLVERIERE FINALMENTE ATTIVE MA NON DEL TUTTO EFFICACI
Ed ecco finalmente che con il capitano Andrea Paruta nel 1606 la Rocca è sgomberata e tutta la polvere è conservata in una polveriera.
Il problema non è però del tutto risolto: lo spazio disponibile è poco, mentre è indubbiamente molto pericoloso tenere tutto l’esplosivo in un solo luogo. Il capitano ha fatto sistemare anche la seconda polveriera e sei anni più tardi (1612) il capitano Marco Dandolo può annunciare che tutta la polvere (per 2272 barili) è al sicuro nei due depositi; ma si ripresenta il problema della conservazione, sia per l’insufficiente copertura e sia perché i muri non sono del tutto impermeabili, obbligando a far asciugare la polvere al sole.
Per sicurezza, ma forse anche per ridurre l’umidità proveniente dal terreno circostante, il capitano Dandolo fa circondare i due edifici con un alto muro, di modo che nessuno si può più avvicinare, evitando “ogni pericoloso incontro”.
Pur con tutti i difetti, quasi due secoli dopo la costruzione le due polveriere sono ancora utilizzate. Nel 1759 il capitano Francesco Rota fa sapere di aver speso 4025 lire per il loro restauro: ad entrambe le costruzioni vengono tolte le coperture di piombo per rinnovarle, ma sembra che poi non se ne faccia niente.
LA POLVERISTA E I DEPOSITI DELLA POLVERE NEI BORGHI
Mentre, finalmente, dal 1612 pur con qualche problema le due polveriere nel forte di S. Marco potevano contenere tutta la polvere da sparo, per tutto il Cinquecento e parte del Seicento, quando il fabbisogno cresceva di pari passo con lo sviluppo delle armi da fuoco, la produzione rimase concentrata nella “masena da polvere” della Rocca dove, come s’è visto, si fabbricava la polvere per i cannoni e per gli archibugi: in misura modesta, in quanto le macine per tritare e ridurre in polvere componenti necessari erano azionate con i cavalli o a mano.
Nonostante la sua presenza fosse una costante minaccia per la città e nonostante i numerosi solleciti inviati a Venezia a partire dal 1572 (7), la cessazione di questa attività e il suo trasferimento in luogo più isolato, andò incredibilmente per le lunghe.
Le scorte di polvere nella fortezza erano insufficienti e se ne consumava per l’addestramento degli “scolari bombardieri”. Nonostante la scomodità di inviare il salnitro a Venezia e di far venire la polvere da questa città e nonostante salnitro e carbone (componenti essenziali per ottenere la miscela esplosiva, insieme allo zolfo) a Bergamo non mancassero, il progetto di costruire un “edificio da polvere” al piano andò in porto solo nel 1614.
Una fabbrica della polvere ne avrebbe incrementato la produzione – rendendola sufficiente anche per le fortezze vicine -, a costi inferiori rispetto alle vetuste macine della Rocca potendo utilizzare la forza motrice dell’acqua dei canali.
Nel 1623 comunque, la fabbrica presso l’ex convento del Galgario, già degli Umiliati, era già in tutto o in parte funzionante. Qui era possibile sfruttuare come forza motrice le acque del torrente Morla.
La conservazione della polvere avveniva nella vicina torre, quella del Galgario, oggi unica scampata all’abbattimento delle Muraine.
Ma la presenza della polvere non poteva non suscitare allarme tra gli abitanti del borgo, anche in considerazione degli incendi che si erano sviluppati nel 1623 e dieci anni più tardi.
Così, nel 1682, essendo l’edificio ormai malconcio il doge Alvise Contarini dispose la costruzione di un nuovo edificio per la polvere in un sito lontano dell’abitato, “con abondanza di acqua, et capace di lavorare con trenta copie di pestoni”, in modo da aumentare il più possibile la produzione.
Il luogo scelto fu quello nei pressi della cappella del Sant’Jesus, situata dietro il monastero di Santa Maria delle Grazie (su un’area oggi compresa tra le vie Taramelli e Casalino), dove passavano due canali.
Il deposito, in tutto simile alle polveriere dell’alta città, dovette essere costruito con una certa celerità e tre anni più tardi il capitano Giorgio Cocco non risparmiava elogi alla nuova costruzione (“la più bella e ben disposta pianta che in questo genere l’arte havesse potuto inventare”), apportandovi delle migliorie, ampliando l’edificio e collocando il “rafinadore”, in un settore dove non c’era pericolo di incendio.
Sappiamo però dell’incendio del 1702 e dei conseguenti lavori di sistemazione nell’edificio, che fu adibito a fabbrica della polvere per tutto il Settecento tra sistemazioni e rifacimenti vari.
Significativi sono, a questo proposito, i due bei disegni in pianta e in alzato dell’ing. Gio. Antonio Urbani, eseguiti dopo un sopralluogo compiuto nel 1778 per rendersi conto delle condizioni del “pubblico edificio della polveri” che risultava essere piuttosto malandato.
Nel disegno a volo d’uccello è visibile, annesso alla fabbrica, il deposito della polvere, copia delle due polveriere piramidali costruite nel 1582.
Anche se le cento bocche da fuoco dislocate lungo il perimetro delle Mura non spararono mai un solo colpo e con l’arrivo delle truppe francesi in città (1797) l’apparato militare era già quasi del tutto in disuso, la fabbrica della polvere continuò la sua attività anche nel corso dell’Ottocento, come è possibile rilevare dalle planimetrie del 1816 e del 1836 dove è indicato ancora il complesso della “polverista”.
Il caratteristico toponimo di “polverista” sopravviverà anche all’abbattimento dell’edificio, tanto che i più anziani lo ricordano ancora applicato all’area dove sorgeva lo stabilimento Reich, dove verso la fine degli anni 50 e negli anni 60 è sorto il quartiere residenziale compreso tra via Casalino e la via Martiri di Cefalonia.
Anche per i religiosi del monastero di Santa Maria delle Grazie, non lontani dalla fabbrica della polvere e dall’annessa polveriera, tale presenza continuava a suscitare motivato allarme.
Nel 1769, dopo un disastroso scoppio con molte vittime a Brescia causato dalla caduta di un fulmine (e probabilmente anche dopo un disastroso incidente citato da Ferdinando Caccia nel “Trattato scientifico di fortificazione” del 1748), venne deciso di trasferire il pericoloso materiale in una località più isolata.
La scelta cadde sull’ex convento di Santa Maria di Sotto, l’attuale “Conventino”, dove le polveri furono trasportate nonostante la presenza nell’edificio di un centinaio di ragazze ospiti.
In un sopralluogo del 1781 effettuato per ragioni di sicurezza l’ing. Urbani rilevava che oltre ai rischi ai quali erano esposte le ragazze, nella zona esistevano anche diversi cascinali e, non molto lontano, la contrada della Malpensata.
Quattro anni più tardi, per allontanare il pericolo dalle ospiti del Conventino l’Urbani ricevette l’incarico di costruire un deposito della polvere in località isolata e realizzò un progetto che ricalca nelle linee tradizionali le polveriere cinquecentesche: non sappiamo però se l’edificio venne realizzato.
L’ultima traccia di un deposito della polvere in città ce la fornisce la pianta delineata nel 1896 dall’ingegnere Roberto Fuzier. Si tratta di una vera e propria polveriera militare in prossimità del cimitero di San Maurizio, poi inglobato nell’attuale cimitero civico. La polveriera del San Maurizio doveva già esistere un cinquantennio prima ai tempi dei moti del 1848, quando, presidiata dagli Austriaci, venne assaltata dai patrioti bergamaschi. Forse non a caso, nella mappa del Catasto storico lombardo-veneto del 1853, è ancora indicata una Fabbrica di Salnitro, accanto al portello e al convento delle Grazie.
Poco distante alla polveriera del San Maurizio sorgeva fra l’altro la Piazza d’Armi (già presente nella pianta di Bergamo del 1874), posta tra le vie Suardi solcata dalla roggia Serio, Giovanni da Campione, Codussi e Noli affiancata in quel tratto dalla Morla. Era sorto verosimilmente dopo che la Piazza d’Armi presso la stazione ferrioviaria era stata dismessa insieme al “Bersaglio” per far posto al Mercato del Bestiame nel 1865 (8). In particolare, fino al 1920 fu tutta cintata da un alto muro e riservata esclusivamente alle esercitazioni militari’.
Fu proprio in quel periodo che, in previsione della nascita di un nuovo quartiere di duemilacinquecento abitanti, si cominciò a pensare a una piazza d’Armi da realizzare altrove in città.
Ma questa è un’altra storia.
Note
(1) Il salnitro compariva sotto forma di efflorescenze o di aggregati di minutissimi aghi sulle pareti delle stalle, delle cantine e degli ambienti umidi (grotte per esempio); lo si poteva trovare anche nel terreno di varie zone dell’Europa (in particolare Francia e Lombardia), ma abbondava soprattutto nei luoghi saturati da orina e da feci,
(2) La raccolta del salnitro avveniva ad opera del salnitraio e dei suoi lavoranti. L’attività dei “tezzoni” era disciplinata insieme a quella dei salnitrai e dei pastori, ai quali I primi affittavano i pascoli loro assegnati. Per ogni tezzone era previsto un gregge di duecento pecore (ed è curioso sapere che dopo il 1810 nell’ex Mercato dei bovini posto tra le attuali Piazza Cavour e via T. Tasso, si commerciava solo il bestiame fessipede). Il salnitraio e i suoi lavoranti potevano in un qualsiasi momento scavare nelle stalle e nelle cantine per prelevare il terreno ricco di nitrati, ed era fatto divieto non solo di ostacolarli ma anche di intervenire sulla raccolta, spazzolando ad esempio, i muri.
(3) In provincia a partire dal 1576 erano state istituite altre “tezze” in muratura che consentivano una più abbondante produzione di salnitro in sostituzione della raccolta occasionale nelle stalle e nelle cantine: una ad Osio Sotto e l’altra a Spirano, alle quali vent’anni dopo (relazione del capitano Giovanni Da Lezze) si erano aggiunte quelle di Martinengo, Mornico e Terno d’Isola e, pare, una settima per Sarnico. Nella Bergamasca si giunse ad avere fino ad otto “tezzoni”, citati nel 1623, epoca in cui erano tutti piuttosto malconci. Nel 1601 essendo i salnitrai venuti meno all’obbligo di fornire i quantitativi, la ricerca di salnitro avvenne al di fuori dei confini dello Stato (a Trento, nel Genovese, a Chiavenna e a Zurigo nei Grigioni). Dopo aver intrattenuto rapporti con Nova Genovese, il capitano di turno finì con lo stringere un accordo con un mercante d’oltralpe, importando salnitro di ottima qualità, che probabilmente venne fatto arrivare attraverso la Strada Priula.
(4) In poche note trovate nel n. 5 del “Giornale di indizi giudiziari” del 1° febbraio 1821, si informa che in piazza Baroni la fabbrica dei nitri, detto il “Salmister”, veniva trasformata in “pubblica vendita di granaglie al coperto”: “L’impresa di questo lavoro è diggià incominciata, e compiuta che sia noi avremo un’area ancor più vasta adiacente a questo ampio porticato, con casini laterali per uso degli inservienti, e chiuso da tre rastelli di ferro”.
(5) Il via al cantiere venne dato verosimilmente con il podestà Francesco Pesare e portato a termine, ma in modo incompleto con il capitano Vincenzo Nani. In un documento dell’Archivio Albani, custodito alla Biblioteca “A. Mai” vi sono risolutive indicazioni sulla data di inizio. Per la prima polveriera l’appalto dei lavori fu assegnato ad Antonio da Piacenza, per la seconda a Paolo dei Bizioli di Desenzano. Entrambe costarono 2668 ducati.
(6) Il restauro conservativo completo è stato portato a termine sotto la supervisione della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici e del Comune, grazie al prezioso interessamento del Lions Club Bergamo Host (1981) nonchè della Banca Popolare di Bergamo e del Credito Bergamasco (1986).
(7) Uno dei primi a sollecitare il Senato Veneto perché a Bergamo venisse costruita una fabbrica della polvere – come esisteva nelle altre fortezze – fu, nel 1572, il capitano Bartolomeo Vitturi.
(8) La Piazza d’armi nell’area dell’attuale piazzale degli Alpini, luogo di esercitazione militare popolarmente denominato “Campo di Marte”, compare nella mappa Catasto Storico Lombardo Veneto del 1866. In funzione al sito militare, viene costruita la struttura del “Bersaglio” (in corrispondenza dell’attuale via Foro Boario) con il suo lungo corridoio di tiro (che verrà dismesso insieme alla Piazza d’Armi per far posto al Mercato del Bestiame nel 1865 (anche se sulla pianta di Bergamo del 1874 la “Nuova Piazza d’Armi” risulta ancora presente). In precedenza, luogo di esercitazione militare era il Comando di Piazza, costituito da piazza e capannoni, dove nel 1852-54 era nato il Palazzo della Pretura ora Palazzo degli Uffici Comunali).
Riferimento principale
A cura del Lions Club Bergamo Host, Pino Capellini, “Le polveriere venete”. Editrice Cesare Ferrari di Clusone. Tipolitografia Cesare Ferrari. Giugno, 1987.