Il Fontanone Visconteo – il più grande serbatoio di Città Alta da oltre 700 anni – e la nascita dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti

“Da ragazzino, insieme ai compagni ci infilavamo dentro, facevamo gli speleologi perlustrando le vasche. E’ immensa, passa sotto la basilica di Santa Maria Maggiore, a berla sapeva di pane” (Domenico Lucchetti in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, 28/04/2002)

Il Fontanone, stupendo manufatto a conci bicromi, bianchi e neri, sorge nel 1342 nella vicinia di Antescolis, nel cuore della Città Alta di Bergamo, tra l’abside della basilica di Santa Maria Maggiore e l’antica Cattedrale di San Vincenzo (Duomo dal IX secolo). E’ sormontato dalla mole della ex sede dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, eretto nel 1768

Nei sotterranei dell’ex Ateneo, in piazza Reginaldo Giuliani, si cela un grandioso serbatoio d’acqua, scavato nella viva roccia. E’ quello che chiamiamo “il Fontanone”, realizzato (o forse ripristinato) nel 1342 da Luchino Visconti – che governava Bergamo anche a nome del fratello arcivescovo Giovanni – nel centro politico, religioso e commerciale della città, oggetto in quegli anni di un grande fervore costruttivo.

La piazza, anticamente occupata dal Foro romano e divenuta nel medioevo “platea magna Sancti Vincentii”, ebbe fin dagli albori del Comune soprattutto vocazione commerciale.

La piazzetta antistante il Fontanone nell’incisione di Giuseppe Berlendis (1830). Sovrasta il Fontanone la sede dell’Ateneo. A lato è visibile la Basilica mentre a sinistra fa capolino la lanterna della Chiesa della Carità, indagata da Tosca Rossi in “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”

Il Fontanone si inserì nel centro monumentale urbano, a sottolineare la presenza dei nuovi signori. Vi si trovava una fontana citata come fontana “berlina”, forse perché nei suoi pressi si trovava la berlina, luogo di pena che esponeva al pubblico disprezzo i colpevoli di reati che erano di danno alla cittadinanza. C’era inoltre una struttura porticata, citata in alcuni documenti come “porticus pelipariorum” (portico dei pellicciai), e la cisterna inglobò ovviamente sia la fontana che il “porticus” preesistenti (1) e venne protetta da un riparo (2).

Donato Calvi nelle Effemeridi (Vol. I, pag. 324) dà la notizia di essere il volume d’acqua contenuto di tremila seicento cinquanta carri d’acqua, pari a 43.800 brente bergamasche (1200 mc.)

Capace di circa ventiduemila ettolitri d’acqua (secondo le testimonianze di allora tremilaseicentocinquanta carra, pari a 43.800 brente bergamasche), la cisterna era alimentata dall’antica conduttura dei Vasi proveniente da Castagneta, acquedotto di origine romana che, dopo secoli di abbandono e i danni causati dalle invasioni barbariche, i Visconti avevano provveduto a ripristinare per poter intervenire al meglio sull’impianto urbanistico, con la definizione di alcune piazze del centro storico: Mercato del Fieno, delle Scarpe, delle Biade, della Carne, del Pesce, differenziate per mercanzia allo scopo di agevolare la tassazione.

L’antico acquedotto dei Vasi proveniente da Castagneta, sui colli a nord della città, venne ripristinato in età viscontea rimediando ai danni delle invasioni barbariche, come recita la lapide presente in località Gallina, inserita in un bel tratto di muro medioevale. Il testo ricorda che nel 1339, sotto il podestà Beccaro Beccaris, l’acquedotto fu interamente ripulito (“Sguratum”) fino al Saliente (partitore finale o Castellum acquae), situato nei pressi dell’antica porta medioevale di S. Alessandro, distrutto con l’edificazione delle Mura veneziane

Nelle intenzioni della Signoria Viscontea, che dominò Bergamo dal 1331 e al 1428, la cisterna doveva, per misura di capacità, superare di gran lunga le camere di serbatoio delle altre fonti della città, che era già provvista di tre pozzi pubblici (3) e di 17 fontane vicinali.

La realizzazione della nuova cisterna (Fontanone) non aveva fatto eliminare la fontana di Antescolis unita alla basilica

E ciò non tanto, come asserivano i Visconti, per assicurare il rifornimento idrico ai poveri bergamaschi, quanto piuttosto per garantirlo ai militi viscontei, in quei difficili anni gravati da guerre, carestie e pestilenze, nell’eventualità di un lungo assedio da parte dei nemici.

Il fonte doveva perciò servire solo per attingere acqua: non vi dovevano essere né vasche per lavare, né abbeveratoi per i cavalli. come esistevano presso le fontane del Vagine, del Lantro, della Boccola, del Corno alla Fara, per le quali gli statuti della città, riassunti nel volume del 1727 (coll. VIII, cap. 75-78), imponevano ai guardiani misure di pulizia e di ordine: “custodes teneantur mundare et sgurare lavanderia et lavellos in quibus bibunt equi”.

Cisterna del Fontanone Visconteo. Recenti studi assicurano che prima di versarsi nella cisterna, l’acqua confluiva in una piccola vasca di decantazione posta sul lato occidentale verso la basilica; dalla parte opposta c’era la zona di aspirazione con il pescaggio nella parte inferiore (ora interrato e nascosto)

L’ACQUEDOTTO MAGISTRAE E IL PARTITORE DEL VESCOVADO

Con la costruzione delle Mura veneziane e la conseguente distruzione dell’antico serbatoio del Saliente in Colle Aperto, da cui si diramavano i canali per servire le diverse fontane, il Fontanone venne alimentato dall’Acquedotto Magistrale, il cui condotto prendeva origine dal punto di unione dell’Acquedotto dei Vasi con l’Acquedotto di Sudorno, all’interno del baluardo di S. Alessandro.

Snodandosi all’interno di Città Alta, tramite partitori delle acque e canalizzazioni minori, tale condotto distribuiva acqua alle fontane, cisterne ed utenze private che avevano la concessione per l’estrazione.

Le acque giungevano al Fontanone tramite il “Partitore del Vescovado”, il più importante fra i tre partitori delle acque costruiti lungo l’acquedotto, posizionato al di sotto del giardino della della Curia Vescovile. Da qui si dipartivano le canalizzazioni per alcune utenze interne alla Curia stessa, per la fontana di San Michele dell’Arco, la fontana di Antescolis o di Santa Maria Maggiore, il palazzo della Mia in via Arena, il Fontanone e il partitore successivo di piazza Mercato del Pesce.

Partitore del Vescovado. Provenendo da dietro la Cittadella, l’acquedotto magistrale raggiungeva il Vescovado, da dove un partitore distribuiva l’acqua in più parti della città E’ indicato il canale maggiore e le diramazioni per la fontana di S. Maria Maggiore (Antescolis) per il Fontanone e per la fontana di S. Michele (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole)

GLI ANTICHI CONDOTTI

Fondamentali tra le diramazioni del partitore del Vescovado due canali che passavano in senso longitudinale sotto la basilica di Santa Maria Maggiore. Uno di essi, in parte ancora esistente, attraversava un ambiente ipogeo di forma circolare e con soffitto a volta in cotto, ubicato sotto la sacrestia nuova. Il condotto proseguiva andando quindi ad alimentare la grande cisterna del Fontanone.

A riprova dell’esistenza di un preesistente sistema di canalizzazione, all’interno del suddetto ambiente ipogeo il Gruppo Speleologico Bergamasco Le Nottole ha individuato una struttura muraria più antica fornita di un tubo circolare in bronzo che doveva assicurare l’approvvigionamento idrico al sito. Ciò non deve stupire in quanto strutture come gli acquedotti dovevano seguire determinati percorsi, rispettando quote e livelli.

E’ da ritenere quindi che tra il condotto che assicurava l’acqua alla città romana e medievale, e poi a quella del ‘600, non vi fossero molte differenze, dovendo giocoforza attestarsi su alcune emergenze fondamentali come il colle di S. Giovanni e quello di S. Salvatore.

Vano ipogeo a pianta circolare con soffitto a volta in cotto esistente sotto la sagrestia di Santa Maria Maggiore. Era attraversato dall’acquedotto che, provenendo dal partitore del Vescovado, correva longitudinalmente sotto il pavimento della Basilica per poi alimentare la cisterna del Fontanone Visconteo (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole)

 

L’Acquedotto Magistrale rimase in funzione sino al 1892, quando venne costruito un nuovo impianto che rispondesse alle nuove esigenze, con la costruzione di nuovi lavatoi quello in via della Boccola, in Borgo canale e il lavatoio in via Mario Lupo, in fotografia

LA SIGLA AQ

La presenza dell’antico Acquedotto è segnalata dalla sigla AQ, incisa su un muro a lato del Fontanone, accanto allo scalone posto fra l’Ateneo e Santa Maria Maggiore e vicino a una porticina di legno, antico uschiolo di ispezione.

L’iscrizione AQ incisa su un muro a lato del Fontanone, accanto a una porticina in legno cui accedevano i fontanari per ispezionare la cisterna viscontea

 

La sigla AQ presso il Fontanone

Un tempo questa sigla, insieme alle lettere “A” o “AQM” si notava un po’ ovunque in Città Alta e sui colli, incisa sui muri di alcune case o su appositi cippi di arenaria. Era così che, nel ‘700, gli addetti alla manutenzione e alla pulizia della rete idrica (i cosiddetti “fontanari”) indicavano i punti in cui passavano i tracciati dell’acquedotto, altrimenti impossibili da individuare.

E dal momento che la rete idrica sotterranea si diramava per oltre sei chilometri, si presume che in passato tali sigle fossero numerose. Ancor oggi sopravvivono alcune tracce, ad esempio su un cippo di via Sudorno, su pietre del muro di sostegno in via San Vigilio o lungo il percorso dei Vasi (vie Castagneta, Ramera, Beltrami.

IL CARTIGLIO TRECENTESCO E LE BOCCHE DELL’ANTICA FONTANA

Al di sotto del doppio scalone un arco inquadra le bocche dell’antica fontana e un grande cartiglio trecentesco in marmo grigio, inciso in latino e in caratteri gotici.

L’epigrafe riporta il 1342 come data di edificazione del Fontanone ed oltre a ricordare i fratelli Giovanni e Luchino Visconti, riporta i nomi del podestà cittadino, Gabrio Pozzobonelli, e del tesoriere, Bondirolo de’ Zerbi, milanesi, nonché nomi dei costruttori, Giovanni da Corteregia e Giacomo da Correggio, forse scultori comacini che, all’epoca della costruzione, avevano da poco ultimato, sotto la direzione di Ugo e Giovanni da Campione, la ricca decorazione ornamentale del Battistero, ora affacciato sulla Piazza del Duomo di fronte alla Cattedrale.

Il pregevole cartiglio trecentesco

Il dominio di Luchino e Giovanni Visconti è visualizzato non solo nei nomi ma da tre interessanti riquadri araldici scolpiti nella parte superiore, con a sinistra lo stemma della città con sei strisce, vermiglie e gialle, disposte “a palo”; al centro la targa con l’aquila (pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero) allusiva a Giovanni Arcivescovo di Milano e, alla destra, come emblema del fratello minore Luchino, la raffigurazione in parte consunta di un aquilotto che artiglia un animale (lupo o cinghiale).

Gian Galeazzo Visconti, già vicario imperiale e signore della capitale lombarda, aveva ottenuto il titolo di Duca di Milano l’11 maggio 1395 mediante diploma imperiale da Venceslao di Lussemburgo. Con un secondo documento datato 13 ottobre 1396 i poteri ducali furono estesi a tutti i domini viscontei e nei centri più significativi del ducato. Gian Galeazzo ottenne la patente per inquartare il biscione visconteo con l’Aquila imperiale – pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero – nella nuova bandiera ducale. Il nome dei Visconti deriva infatti dal latino vice comitis, che significa “vice conti”, vice – colui che fa le veci e conti – comites (con-te) indicava colui che stava con qualcuno, cioè con l’imperatore: per i Visconti con l’imperatore del Sacro Romano Impero. La famiglia dei Visconti era quindi colei che in Italia rappresentava l’Impero, tanto da agognare allo status di primi Principi italiani, che a fatica Gian Galeazzo ottenne nel 1402

Nella parte inferiore, i due mascheroni a rilievo e a testa di moro posti a lato della bocchetta sono modellati con gusto secentesco, rivelando l’aggiunta di elementi in epoca molto più tarda.

In alternativa alla bocche dell’antica fontana c’era una bocchetta, ancora visibile sul lato breve che volge verso via Mario Lupo, che tramite una pompa prelevava l’acqua dal serbatoio, presente sino a pochi decenni or sono

Il Fontanone intorno al 1915 e la bocchetta ancora presente sul lato breve che volge verso via Mario Lupo (Raccolta D. Lucchetti)

 

1948: un bambino aziona la pompa per prelevare l’acqua del Fontanone

 

Una delle due finestrelle aperte ai lati più corti della struttura, attraverso la quale è possibile osservare la cisterna. La pompa e la bocchetta verso via Mario Lupo sono ancora presenti

IL PORTICO E LA NASCITA DEL MUSEO LAPIDARIO

La costruzione del Fontanone permise la realizzazione di un sovrastante piazza rettangolare sulla quale fu successivamente costruito un piccolo edificio, che compare nella cosiddetta veduta di Bergamo a volo d’uccello di Alvise Cima, dove è indicato come una minuscola struttura. Il prospetto sud, murato, è provvisto di tre piccole porte; molto probabilmente il fronte nord, non visibile nella rappresentazione, era aperto e scandito da colonne.  Poteva trattarsi o di un deposito di armi in disuso (4).

La freccia indica, di fronte alla chiesa di S. Vincenzo (attuale Duomo) il Fontanone visconteo privo del sopralzo neoclassico del 1768, con il prospetto sud murato e provvisto di tre piccole aperture; si presume che il fronte nord, non visibile nella rappresentazione, fosse aperto e scandito da colonne (4) (Anonimo, Bergamo a volo d’uccello, eseguita verso la fine del XVI secolo e con modifiche apportate entro il 1662, Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo. Foto Dimitri Salvi. Dettaglio)

Nel 1743 il portico esistente sopra il Fontanone fu trasformato in un ambiente destinato ad ospitare la sede del nascente museo lapidario, voluto dalla municipalità per ospitare le lapidi antiche provenienti da materiale di scavo, disperse a Bergamo e nel territorio. Il progetto fu affidato all’architetto veronese Alessandro Pompei. I lavori iniziarono nel 1759 e terminarono nel 1768 con la posa della monumentale scalinata d’ingresso a rampe contrapposte. Non siamo a conoscenza del disegno originario, ma è possibile immaginare una struttura essenziale, presumibilmente un loggiato aperto, dove internamente erano collocate le antiche lapidi.

La divisione in moduli proporzionale al piede veronese del l’edificazione – circa 35 cm – è stata recentemente confermata. Questo ha condizionato negli aspetti metrici tutta la sua successiva funzionalità e modifiche stilistiche (la sequenza lesene-arcate ricalca quella rapporto 1:3 e la larghezza di ciascun pilastro è pari a due piedi).

DALLA LA NASCITA DELL’ATENEO AI GIORNI NOSTRI

Nel 1818 l’Imperial Regia Delegazione Provinciale dispose di dare come sede definitiva dell’ “Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti” il pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone, che venne quindi adattato, ovvero modificato, per divenire un ambiente chiuso.

Ed è appunto in seguito al 1818, che viene eretto, su progetto dell’architetto Raffaello Dalpino, l’attuale costruzione di gusto neoclassico.

L’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, istituito con decreto napoleonico il 25 dicembre 1810, è sorto dall’unificazione di due antichissime accademie: degli Eccitati e degli Arvali. L’Accademia degli Eccitati, fondata nel 1642 da un gruppo di eruditi, tra cui Bonifacio Agliardi, Clemente Rivola e Donato Calvi, ebbe attività prevalentemente letteraria; rinnovata nel 1749 ad opera soprattutto di Pierantonio Serassi e di Mario Lupo. Ebbe tra i suoi soci anche Lorenzo Mascheroni (un “Eccitato”) e Giovanni Maironi da Ponte (un “Arvale”). L’Accademia degli Arvali sorse nel 1769, dietro invito della Repubblica di Venezia, con lo scopo di introdurre sistemi innovativi nell’agricoltura e nell’economia in genere. Gli Arvali erano sacerdoti appartenenti a famiglie patrizie dell’antica Roma dediti al culto di Cerere, dea delle messi. Ecco perché questa accademia si occupava in particolar modo di agricoltura. Dapprima l’istituzione si intitolò Accademia d’Agricoltura o degli Arvali; quindi, a partire dal 1787 fu denominata Accademia Economico-Arvale; ad essa sono legati i nomi della nobiltà terriera bergamasca: Benaglia, Rivola, Tomini-Foresti, Mozzi, Brembati, Secco Suardo, Calepino. Con il decreto napoleonico del 25 dicembre 1810, che tendeva a riformare ed unificare gli istituti culturali, le due istituzioni furono fuse in un solo organismo con il nome di Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Bergamo. L’Ateneo trovò sede provvisoria nell’ex refettorio e in alcune stanze contigue del monastero di Rosate (nel luogo dell’attuale Liceo Classico Sarpi), trovando sede definitiva (1818) nel pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone, per risarcire il debito che la città aveva aperto nei confronti dell’istituzione accademica quando, nel 1796, chiese in prestito 4000 scudi per far fronte alle spese che la Municipalità doveva sostenere per l’alloggiamento delle truppe francesi (Maria Mencaroni Zoppetti).

Scartato il progetto di adattamento e di messa in sicurezza di Carlo Capitanio, architetto responsabile dell’ufficio tecnico della città, furono incaricati gli architetti Gian Francesco Lucchini e Giacomo Bianconi (membri di l’Ateneo che nel frattempo finanziava l’edificio) il cui progetto – oggi perduto – prevedeva la chiusura dei portici con finestre e la realizzazione di due grandi ambienti nelle due campate laterali opposte. Il primo per creare un ampio vestibolo con ingresso secondario e il secondo ad uso ufficio e biblioteca.

La distribuzione spaziale fu mantenuta dall’architetto Raffaello Dalpino (anch’egli socio), al quale dobbiamo un nuovo progetto che è stato realizzato e completato nel 1859.

Il progetto dell’architetto Raffaele Dalpino, 1854

Il progetto di Dalpino è un progetto colto e raffinato, con un sapiente uso degli ordini architettonici e un rigoroso rispetto dei moduli adeguati, nelle proporzioni, al sito e al contesto dato dagli edifici preesistenti (5).
Uno spazio apparentemente semplice e simmetrico che in realtà ha diversificato fortemente le due parti attraverso una diversa caratterizzazione degli arredi, delle funzioni e della disposizione delle lapidi (presenti solo nella parte sinistra). Una perfetta combinazione tra la funzione museale e il ruolo istituzionale della sede dell’Ateneo.

Questa configurazione rimase immutata per circa ottant’anni e cioè fino al 1933 quando l’edificio fu ceduto al locale gruppo fascista Garibaldi; furono poi rimosse le collezioni e sostituiti gli arredi.

L’Ateneo con le aperture ancora tamponate (foto non datata)

L’intensa attività culturale dell’Istituzione aveva cominciato ad essere compromessa quando tra il luglio del 1899 e il gennaio del 1900 la biblioteca e i manoscritti erano stati collocati in deposito presso la Biblioteca Civica A. Mai.

Nel 1905 la Società di Cultura di Bergamo si offrì per accogliere ciò che restava della biblioteca degli scambi con le altre Accademie . Nel 1917 la sede fu concessa al Comune per il Museo del Risorgimento (opere d’arte e libri dell’Ateneo vennero quindi trasferiti nella biblioteca Mai). Quando questo fu poi installato in Rocca, i soci dell’Ateneo non poterono rientrarvi, perché al posto dell’istituzione culturale si insediò un’organizzazione fascista.

La rinascita avvenne dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1952, quando l’Ateneo ottenne una nuova sede, in via Torquato Tasso, dove si trova oggi.

Nel quadro di Luigi Brignoli, datato 1934, la mole Ateneo volutamente non compare: la sala sopra il Fontanone è ritenuta ormai inutile, anche perché nel 1933 è stata modificata. In quell’anno l’Ateneo è stato scelto come locazione della sezione del Partito fascista di Città Alta (proprietà Ateneo di Scienze Lettere e Arti)

 

Luigi Brignoli, L’Ateneo e S. Maria Maggiore, 1934 (proprietà Ateneo di Scienze Lettere e Arti)

Dopo molti anni di inattività, il monumento fu restaurato alla fine del secolo scorso per essere adibito a spazio espositivo per mostre temporanee ed eventi pubblici.

Il progetto di restauro dell’architetto Bruno Cassinelli, 1997

 

Sala interna dell’Ex Ateneo oggi

Va detto che quando ancora era accademia, l’Ateneo, a tutt’oggi molto attivo, per lungo tempo ha rappresentato l’unica istituzione interamente dedicata alla cultura. Basti pensare che la Biblioteca Civica arrivò solo più tardi. La sua istituzione non costituì soltanto un cambiamento di tipo amministrativo, dalla fusione nacque un organismo moderno, adeguato ai tempi nuovi che si preparavano.

A duecento anni dall’intitolazione l’Ateneo continua a parlare di storia, con l’intento di far conoscere ai bergamaschi l’origine della società in cui viviamo, affinché ognuno possa orientarsi in questo mondo e capire quale direzione prendere in futuro.

Note

(1) Andreina Franco-Loiri Locatelli per Bergamosera, rivista on line non più esistente.

(2) G. Petrò fa invece riferimento a un “porticus longa” documentato dagli statuti del 1331. Si tratta di una struttura porticata che funge da parapetto al forte dislivello che si crea tra la strada e la platea magna Sancti Vincentii  (Gianmario Petrò, “Dalla Piazza di San Vincenzo alla Piazza Nuova”. I luoghi delle istituzioni tra l’età comunale e l’inizio della dominazione veneziana attraverso le carte dell’archivio notarile di Bergamo”. Bergamo, Sestante, 2008).

(3) Ronchetti, “Memorie storiche”, 1838 (Vol. V, pag. 83).

(4)The International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, Volume XLVIII-M-2-2023 29th CIPA Symposium “Documenting, Understanding, Preserving Cultural Heritage: Humanities and Digital Technologies for Shaping the Future”, 25–30 June 2023, Florence, Italy. THE PALAZZO DELL’ATENEO IN THE UPPER CITY OF BERGAMO (CITTÀ ALTA): NEW DOCUMENTATION AND CONSERVATION STUDIES. Alessio Cardaci , Antonella Versaci, Pietro Azzola.

(5) G. Colmuto Zanella, 2001  L’elegante e ben inteso Edifizio sopra il fontanone visconteo, in “L’Ateneo dall’età napoleonica all’unità d’Italia”, Edizioni dell’Ateneo, Bergamo, 249-276.

Riferimenti
Renato Ravanelli, “Palazzo dell’Ateneo”, Bergamo: una città e il suo fascino, Grafica e arte, Bergamo, 1977, pagg. da 174 a 175.

Luigi Angelini, “La costruzione trecentesca del Fontanone”, La Rivista di Bergamo già “Gazzetta di Bergamo”, Anno VII, n. 11, Edizioni della Rotonda, Bergamo, Novembre 1956, pagg. da 3 a 4.

“L’elegante e ben inteso edifizio…sopra il Fontanone Visconteo” – Andrea Pasta alla presentazione del nuovo Museo Lapidario, 1775.

The International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, Volume XLVIII-M-2-2023 29th CIPA Symposium “Documenting, Understanding, Preserving Cultural Heritage: Humanities and Digital Technologies for Shaping the Future”, 25–30 June 2023, Florence, Italy. THE PALAZZO DELL’ATENEO IN THE UPPER CITY OF BERGAMO (CITTÀ ALTA): NEW DOCUMENTATION AND CONSERVATION STUDIES. Alessio Cardaci , Antonella Versaci, Pietro Azzola.

L’Eco di Bergamo, 17 giugno 2010. Intervista a Maria Mencaroni Zoppetti. “La passione per la città nasce dalla necessità di capirla”.

La Fontana del Lantro (Latèr), un gioiello sotterraneo ancora “vivo”

La fontana del Lantro è situata in un vano ipogeo esistente sotto la chiesa di S. Lorenzo, all’inizio di via Boccola. È una grandiosa costruzione in pietra squadrata a vista, caratterizzata da ampie volte con archi a tutto sesto in pietra e a sesto
acuto poggianti su una colonna di forma quadrata posta al centro della grande cisterna, rinforzati lungo le linee di crociera da costoloni in pietra. E’ la terza delle fontane di via Boccola

Fra le sorgenti di Città Alta utilizzate sin dai tempi più antichi vi fu sicuramente quella del Lantro, che insieme a quelle della Boccola, del Vagine e del Corno costituì almeno sin dall’epoca romana la base su cui impostare l’intera rete idrica della nostra città; una rete fatta di tubature in mattone (realizzato con laterizio reperibile ai piedi del colle, ad esempio la piana di Petosino), piombo (reperibile in Valle Brembana) e calcare (chiamato impropriamente “marmo”) di Zandobbio.

Quando l’apporto delle sorgenti che sgorgavano in loco si rivelò insufficiente per soddisfare il fabbisogno idrico della popolazione, si passò alla ricerca di alternative a nord del sistema collinare, dove vennero realizzati rispettivamente gli acquedotti dei Vasi e di Sudorno, che restarono in uso fino alla prima metà dell’Ottocento, quando, con l’aumento delle necessità si andarono a sfruttare sorgenti fuori dal Comune.

Non meno antica della Fontana del Vagine, nascosta in un vano ipogeo esistente sotto la chiesa di S. Lorenzo, la Fontana del Lantro, o Latèr, si trova nel versante settentrionale del complesso fortificato di Bergamo Alta, ove sono presenti anche altre acque: le sorgenti della Boccola, del Vagine (entrambe lungo la via Boccola), del Corno (sul lato del Colle di S. Eufemia rivolto a settentrione, ora inglobata in una casa privata in via Alla Fara), delle Noche (in Colle Aperto) e gli acquedotti di Castagneta, nonché di Prato Baglioni

L’ORIGINE DEL NOME

Il documento più antico riguardante la Fontana del Lantro, o Latèr, è una pergamena dell’anno 928, scritta dal vescovo Adalberto (1), che recita “Ex parte civitatis a Laticis Antro, quod vulgo dicitur Lantrum”, da cui si deduce che Il termine con cui la sorgente veniva indicata anticamente era quello di Laticis Antro ossia Antro del Liquido quindi Antro dell’Acqua, lasciando intendere che l’acqua sgorgasse da un piccolo anfratto del terreno scorrendo liberamente lungo il pendio. Tuttavia la forma usata per indicare l’acqua con il termine Laticis induce anche ad avanzare l’ipotesi che tale dicitura potesse in qualche modo essere in relazione al colore bianco (spumeggiante) dell’acqua, dovuto alla pressione all’uscita della cavità: ancor oggi alcune grotte della montagna bergamasca sono chiamate Fiöm lat (Fiume-latte), come quella da cui ha origine il torrente Enna in Val Taleggio. Tale ipotesi sarebbe rafforzata dal fatto che al termine Lantro, già usato anticamente, si aggiunge la forma Latèr che richiama ancora una volta l’immagine del latte.

COME SI PRESENTA

L’ampio vano ipogeo è costituito da due vasche in pietra squadrata a vista: la grande vasca principale, capace di circa 400 metri cubi e con al centro una robusta colonna a sostegno delle volte, e una vasca minore, tangente la prima ma situata in posizione sopraelevata.

La grandiosa struttura, in pietra squadrata a vista è composta da una vasca principale alta 8 metri, lunga 10 metri e larga 8 metri, mentre la vasca minore, a forma di L, è profonda circa un metro e mezzo e larga due metri, occupando tutta la parete sinistra del complesso e parte di quella frontale. Una robusta colonna posta al centro della vasca principale, sostiene ampie volte con archi a tutto sesto e a sesto acuto, rinforzati lungo le linee di crociera da costoloni in pietra

LA FONTANA DELLE ORIGINI

Come doveva essere la fontana delle origini? Certamente l’aspetto del luogo era assai diverso: utilizzata in origine per lo scorrimento delle acque in un canaletto in blocchi di arenaria a cielo aperto, le sue acque scorrevano liberamente lungo la valletta disperdendosi verso Valverde.

Come attestato in un documento del XVII secolo, la sorgente che l’alimentava doveva sgorgare più in alto, nei pressi dell’antica porta-torre medievale di San Lorenzo, ancora rintracciabile a metà dell’omonima via: l’esistenza di una condotta che saliva verso l’alto fu accertata anni or sono dalle “Nottole”, ma ormai non è più esplorabile.

A metà di via San Lorenzo è ancora visibile l’attacco della porta medioevale (abbattuta nel 1829), all’altezza della quale sgorgava la sorgente che alimentava la Fontana del Lantro

 

La porta medievale di San Lorenzo in un disegno di Pietro Ronzoni

LA FONTANA NEL MEDIOEVO

Nel XIII secolo la Fontana entra a far parte della giurisdizione della vicinia di S. Lorenzo, già costituita nel 1263, nel periodo in cui vengono costruite le numerose fontane medioevali di Bergamo: lo statuto del 1248 descrive infatti la fontana come dotata di cisterna, cunicoli, abbeveratoi e lavelli, “assumendo quella caratteristica struttura che si è conservata fino ai giorni
nostri” (2) .

È scritto infatti nello Statuto:
“.. ad abili ed esperti magistrati fu fatto fare in modo che non potesse formarsi
putrefazione e che la stessa potesse versarsi nelle acque o nella cava, o piuttosto, nelle acque del cunicolo dei Lantro; e qui fu fatta apprestare e restaurare una lavanderia ed un abbeveratoio con lavelli di pietra tutto intorno, come erano soliti essere…” (2).

La piccola cavità naturale con la sorgente del Lantro, dietro la chiesa di San Lorenzo. Il cunicolo sfocia al centro del complesso alimentando la vasca minore sopraelevata, realizzata nel XVII secolo (Fotografia M. Glanzer – Archivio G.S.B. le Nottole)

 

Il condotto centrale della sorgente del Lantro è costituito da un cunicolo lungo circa m 40, alto cm 90 e largo cm 60‐70, la cui estremità esce all’esterno della costruzione terminando su alcuni gradini costruiti verso la fine del 1700. L’esplorazione del cunicolo ha consentito di individuare, nei pressi della fessura da cui sgorga la sorgente, una piccola vasca di decantazione dalla quale, attraverso tubi conici in cotto, l’acqua passava in una seconda e più ampia vasca di decantazione. Tra i due manufatti venne creato un sistema di canali deviatori utilizzati per la pulizia delle vasche ad opera dei fontanari. Dalla seconda vasca di decantazione l’acqua tracimava e scorreva nel canale ricoperto da grandi lastre di arenaria sino ad alimentare la vasca superiore (nell’immagine, Pianta e Sezione dei cunicoli di captazione dell’acqua delle sorgenti che alimentano le due cisterne)

In quei tempi l’acqua sgorgava abbondante e soddisfaceva il fabbisogno idrico dell’intera Vicinia di San Lorenzo. L’acqua della cisterna doveva essere attinta rigorosamente con secchi assicurati alla struttura per preservarne la purezza, sotto pena di gravissime sanzioni a “…chicchessia” non si attenesse a queste disposizioni.

LA RICOSTRUZIONE DELLA CHIESA DI SAN LORENZO E LA SCOPERTA DELLA SORGENTE DI S. FRANCESCO 

Originariamente doveva esistere un’unica cisterna che raccoglieva le acque del Lantro; ma nel XVII secolo, l’individuazione della sorgente di San Francesco (così chiamata perché scaturiva dal sottosuolo in prossimità dell’omonimo convento) contribuì – insieme all’erezione della chiesa di San Lorenzo – a stravolgere completamente l’aspetto dell’antica fontana.

La chiesa di S. Lorenzo, innalzata entro il 1600 nell’allora piazza dell’Olmo (attuale via Boccola) per sostituire la primitiva chiesa di San Lorenzo (già esistente nell’VIII secolo), che si trovava più a valle, demolita nel 1561 per far posto all’imponente cinta bastionata veneziana

La captazione della nuova sorgente, dalle acque più abbondanti e più pure di quelle del Lantro, indusse i responsabili a tenere separate le due acque. A tal fine, sotto l’arcone sul lato sinistro della fontana, venne costruita la vasca minore sopraelevata in cui furono fatte confluire le acque della sorgente del Lantro, mentre, per soddisfare le necessità degli abitanti del quartiere nella vasca maggiore vennero convogliate quelle della sorgente di San Francesco, ritenute di migliore qualità.

La vasca maggiore

Le caratteristiche strutturali del canale (cunicolo) inoltre rendevano quasi impossibile che l’acqua della sorgente del Lantro entrasse nella vasca maggiore mentre consentivano a quelle di San Francesco di potersi miscelare con la prima. Documenti secenteschi attestano che la sorgente di San Francesco venne “congiunta” al complesso della Fontana (3).

La vasca maggiore della fontana era alimentata dalla sorgente di San Francesco che tuttora penetra attraverso un condotto posto a sinistra dei complesso, mentre le acque della più antica sorgente del Lantro alimentavano la vasca minore da un condotto che sbocca al centro della parete frontale

 

Il cunicolo di captazione dell’acqua della sorgente di S. Francesco. L’esplorazione del cunicolo ha consentito di notare, a riprova della bontà di queste acque, la mancanza totale di vasche di decantazione e di depositi di calcare

Con la costruzione della chiesa, la sagrestia venne a trovarsi proprio sopra la Fontana del Lantro, distruggendone probabilmente le antiche strutture di superficie.

Il Lantro dopo gli interventi del XVII secolo (Disegno di Luca dell’Olio)

All’interno del complesso venne dunque realizzata la crociera di rinforzo sul soffitto, che sovrasta la vasca maggiore, dove ancora si notano le otto aperture, ora tamponate con mattoni, da cui penzolavano le catene con i secchi in ferro che servivano per attingere l’acqua dall’alto, da impiegare per usi domestici.

La Fontana continuò a svolgere un’importante funzione pubblica per la comunità e, data la grande riserva e la posizione isolata, vi erano consentite alcune operazioni che non erano possibili dentro l’abitato. Come la pulizia dei panni, il lavarvi le pelli per la concia e il prelievo d’acqua per usi non domestici.

L’ANTICO LAVATOIO DI SAN LORENZO E IL LAVATOIO “MODERNO”

Le acque della sorgente del Lantro, dalla vasca minore defluivano verso l’esterno attraverso tubi conici in cotto per alimentare l’abbeveratoio dei cavalli (che troviamo citato in un documento del ‘600) e una grande vasca di pietra, ancora visibile negli anni Trenta, utilizzata come Lavatoio. Tali strutture erano poste tre metri più in basso rispetto alla vasca minore.

Fine Ottocento, Lavatoio di San Lorenzo, con l’antica vasca comune in pietra

La Fontana fornì acqua alla popolazione fino a che, nell’Ottocento, entrò in funzione il nuovo acquedotto municipale, che garantiva un servizio più capillare ed igienico.
Ma il Lantro continuò ad essere utilizzato come Lavatoio, che restò in funzione fino agli anni Trenta, quando, smantellata l’antica vasca comune in pietra, vi furono collocate vasche individuali, alle quali l’acqua giungeva all’acquedotto cittadino.

Il Lavatoio del Lantro (Raccolta Gaffuri)

 

Le vasche in graniglia che, negli anni Trenta hanno sostituito la vasca originale, restando in uso fino al 1950. Il lavatoio aveva il piano di calpestio di circa 3 metri inferiore a quello stradale. I lavatoi erano disposti in doppia fila nel centro e ad una fila addossati alle pareti lunghe. Nel muro a sud v’era un’apertura rettangolare e tre piccole mensole. Nel muro ad est v’era un ampio arco a tutto sesto parzialmente cieco, che adduceva all’antica cisterna della fonte. I lavatoi erano di graniglia, di colore rosso vinato ed erano sette per ogni fila. Le file erano quattro. Le murature perimetrali erano in conci di pietra squadrati, in parte intonacati, ed in parte con faccia a vista a spacco di cava (Fotografia di Gianni Gelmini)

 

Il “nuovo” lavatoio dall’alto in un’immagine d’epoca

 

Lavatoio vecchio e nuovo a confronto

IL RECUPERO DELLA FONTANA

Col mutare delle condizioni di vita dei tempi moderni, anche il Lavatoio cessò di essere usato e negli anni Settanta non si trovò di meglio che approfittare del fatto che la fontana-lavatoio si trovasse molto al di sotto del piano stradale per trasformarla in discarica.

Sommerso da materiali di riporto, cessò di essere presente anche nella memoria di molti.

Nel 1975 l’architetto Angelini propose di liberare l’area e restaurare le strutture antiche per realizzare un campo da gioco per bambini. Ma mentre il lavatoio ancora giace, sepolto da un cumulo di terra, lo spazio antistante l’accesso alla vasca sotterranea è stato liberato e reso agibile grazie all’intervento del Gruppo Speleologico “Le Nottole”, che a partire dal 1992 si è adoperato per recuperare il manufatto, riportandolo allo stato iniziale mediante opere di pulizia e restauro.

Lo spazio antistante l’accesso alla vasca sotterranea, dalla seconda metà del 1900, era stato utilizzato come discarica per materiali inerti, che sono stati rimossi. E’ stata quindi creata una comoda discesa verso la porta di ingresso alla cisterna. Successivamente è stato ripulito l’interno del complesso idrico (vasca superiore ed inferiore) dal fango e materiale vario accumulatosi nel corso degli anni

 

Dove un tempo esisteva un Lavatoio

 

A sinistra, la porticina d’accesso alla Fontana del Lantro

Grazie al lavoro volontario delle “Nottole”, stimolate anche dall’interesse e dalla sensibilità che l’Amministrazione Comunale ha dimostrato per il recupero del complesso, il Lantro, vero gioiello di architettura e di ingegneria idraulica, è stato così riconsegnato alla cittadinanza il giorno 6 giugno 1992.

NOTE

(1) Nel documento, il vescovo Adalberto concede le decime del ricavato di un ampio territorio che si estende dalla sorgente del Lantro fino a Sorisole ed Almenno al prevosto della Cattedrale di S. Alessandro obbligandolo, tra l’altro, a mantenere acceso un cero notte e giorno davanti al corpo di S. Alessandro a suffragio dell’anima sua e dei suoi parenti. Altre citazioni della sorgente del Lantro si trovano in documenti del 1032, del 1042 e del XIII secolo, quando entra a far parte della giurisdizione della vicinia di S. Lorenzo, già costituita nel 1263.

(2) Biblioteca Gavazzeni. Le “Schede del Mercantico”.

(3) Della fontana del Lantro abbiamo due interessanti descrizioni, la prima in un documento del XVII secolo (“Per le usurpazioni dell’acqua delle fontane” in: Acque processi, Civica Biblioteca A. Mai) e la seconda nella relazione del fontanaro Carlo Milani (“Memoria et visione del Acquedotto dentro le Mura…” 1728, Civica Biblioteca A. Mai).
In entrambe le descrizioni è fatto cenno a due sorgenti che alimentano la cisterna, i cui condotti sono tuttora esistenti nell’interno del complesso e in particolare, nella descrizione del documento del XVII secolo, è specificato che la sorgente che ha origine sotto il convento di S. Francesco “è stata congiunta” al complesso della Fontana.
Testo del documento del XVII secolo
“La fontana del Lantro con conserva capacissima, lavatori et guarrator da cavalli, è appresso et acontigua alla chiesa di Santo Lorenzo. Ha origine sotto le cave verso la torre e porta vecchia di Borgo S. Lorenzo con condotti et vasi sotterranei murati; con la suddetta è congiunta un’altra fontana nascente sotto il convento di San Francesco”.
Testo della relazione del Fontanaro Carlo Milani (1728).
“Il vaso del Lantro detto Latter, questo è un recipiente vastosissimo, a celtro, che forma quattro nave, e nel mezzo un pilastro solo ha la cisterna per tutto il terreno del sagrato di San Lorenzo, qui entra una sortiva che nasce sotto la casa Carminati, che ora gode il Sig. Gaetano Pezolo, questa è una sortiva abondantissima e vi si entra con facilità a netarla.
Altra sortiva nasce sotto il convento di San Francesco e qui vi si entra con un poco di difficoltà e l’acqua è migliore dell’altra”.

Riferimento principale

La Fontana del Lantro. In: Biblioteca Gavazzeni. Le “Schede del Mercantico”.

Alla scoperta del tempietto di Santa Croce, nel cuore nascosto della città

Situato in una corte tra la Curia Vescovile e l’angolo sud-occidentale di Santa Maria Maggiore, il sacello quadrilobato di Santa Croce precede la rifondazione di Santa Maria, avvenuta nel 1137

La piccola cappella romanica di Santa Croce, nel cortile della Curia e a ridosso di Santa Maria Maggiore, è posta in un’area densa di significati per la storia della città. Ma trovandosi in un punto “marginale”, almeno dal punto di vista spaziale, si è trovata nelle epoche successive ad avere uno sviluppo autonomo.

Il centro episcopale di Bergamo

Due sono i percorsi che consentono di raggiungerla, ed ognuno di essi offre diverse prospettive ed approcci emozionali. Il punto di vista più defilato è quello che scende da vicolo San  Salvatore, da dove il sacello è visibile poco prima di immettersi in via Arena. Quello ufficiale avviene invece da piazza Rosate tenendo sulla destra il portale settentrionale di Santa Maria Maggiore, da dove una  scalinata metallica conduce al suo cospetto.

L’accesso alla Cappella di Santa Croce da piazza Rosate

Sino a qualche decennio or sono però, vi si arrivava anche da piazza Vecchia passando attraverso la penombra dell’Aula della Curia, oggi preclusa al pubblico passaggio; da lì si usciva alla luce dello spiazzo di Santa Croce ma distratti dalla possente mole di S. Maria: era quello che Luigi Angelini definiva un punto di vista conquistato, sofferto, da “percorso iniziatico”, tuttavia, alquanto suggestivo.

Ma in quei tempi il piano inferiore di Santa Croce era ancora interrato, e così si presentava l’edificio dal 1938, dopo le demolizioni che avevano liberato l’area dalle strutture ottocentesche che lo deturpavano e comprimevano, nascondendolo agli occhi dei visitatori.

Il tempietto di Santa Croce visto dall’area interna della Curia vescovile dopo le demolizioni ed il restauro eseguiti nel 1938, nell’ambito dei lavori per il Piano di Risanamento per Bergamo Alta, coordinati da Luigi Angelini

Prima d’allora dunque, una serie di edifici addossati al tempietto ne impediva la completa fruizione, come attesta l’immagine sottostante.

Il tempietto di Santa Croce dallo stesso punto, come era nel 1934, con i locali addossati

Nel corso dei lavori, l’attuale ingresso da piazza Rosate era stato liberato dalla casa del sacrista, una superfetazione che addossata alla medioevale fontana di Antescholis non lasciava intravvedere Santa Croce.

Piazza Rosate e prospetto sud della basilica di Santa Maria Maggiore. A sinistra dell’immagine la casa del sacrista (Raccolta Gaffuri)

 

Area di Santa Maria Maggiore. La casa del sacrista sopra la fonte medioevale, come si presentava nel 1934, prima dei lavori eseguiti per il Piano di Risanamento

 

Area di Santa Maria Maggiore. La casa del sacrista sopra la fonte medioevale, come si presentava nel 1934

Ora, una scalinata a ventaglio consentiva finalmente l’accesso diretto al sacello nonché una sua trionfale messa in scena.

1938: la sistemazione dopo la demolizione della casetta con la gradinata di accesso al Tempietto di Santa Croce

Sgomberate le strutture contigue, Angelini liberò il tiburio ottagonale e dopo aver individuato una precedente linea di gronda abbassò la “cupoletta” di circa 90 cm, attribuendo la sopraelevazione ad un rifacimento del 1561, come indicherebbe una fonte documentaria peraltro non bene specificata.

Il tempietto di Santa Croce e i locali addossati come erano nel 1934, prima degli interventi di ripristino e restauro

I tetti furono completamente rifatti e nel corso della rimozione di quello superiore furono ritrovati tre frammenti di capitelli che Angelini interpretò come appartenenti a bifore originarie, ma che non volle ricostruire, mantenendo stranamente le finestre rettangolari definite “sgraziate”.

1938: il Tempietto liberato dalle costruzioni ottocentesche e restaurato, visto dalla platea sopra la fontana di Antescholis

Riportò alla luce il tessuto murario in conci calcarei bruni sommariamente sbozzati, ritmato dal coronamento di eleganti archetti pensili raccolti in gruppi di tre da lesene sottili: una decorazione che segue e sottolinea il profilo delle quattro absidi, creando un chiaroscuro modulare. Al contempo recuperò le aperture, tra cui le due monofore strombate.

Rese omogenee le varie fasi costruttive, Angelini riuscì perciò a dare unitarietà all’aspetto esterno, che nel corso del tempo aveva subito diverse trasformazioni.

1938: il tempietto dopo la demolizione dei locali contigui, la messa in luce di una delle due  monofore ed il restauro. Degli intonaci rimane oggi solo qualche piccolo lacerto; i giunti della muratura esterna furono completamente “ripassati” in cemento e la muratura integrata con intenti mimetici

La porzione inferiore dell’edificio restava però ancora in ombra, interamente sepolta da oltre due metri di macerie, apportate tra il XV e il XVI secolo per adeguare le quote di calpestio del cortile a quelle imposte dalle modifiche della basilica e di una porzione degli ambienti medievali dell’adiacente palazzo episcopale (1).

L’area circostante Santa Croce prima degli scavi archeologici eseguiti fra il 1999 e il 2007. Nel riquadro le due differenti quote del piano di calpestio, quella  più bassa, originaria, e quella dovuta agli interventi eseguiti tra il XV e il XVI secolo

 

La scalinata che da piazza Duomo immette all’Aula della Curia, innalzata nel 1444 sulle macerie di un portico ad essa addossato (Raccolta Gaffuri))

L’originaria Santa Croce infatti si sviluppava su due livelli di cui l’ambiente principale era costituito dal vano inferiore, posto allo stesso piano di calpestio della Basilica e dell’Aula della Curia, fra loro strettamente collegate; tanto che il tempietto comunicava con la Curia mediante una porta difesa da un muro, che ancora oggi vediamo.

Il sopralzo della copertura con la lanterna ottagonale è solo un’aggiunta della seconda metà del Cinquecento.

Nel tondo, la porzione originaria del tempietto di Santa Croce, con la parte superiore liberata negli anni Trenta dall’Angelini e la parte inferiore (priva di lesene e provvista di due finestre rettangolari), riportata alla luce nel corso degli scavi eseguiti fra il 1999 e il 2007. E’ visibile la porta che nel medioevo comunicava direttamente con l’Aula della Curia, difesa da un muro. Il piano superiore è provvisto di un portale sul lato ovest

I due vani sono da sempre privi di comunicazione interna, divisi da una volta a crociera.

La volta all’interno del vano inferiore di Santa Croce

Considerando perciò come contemporanei i primi due livelli dell’edificio, questi acquisterebbe in alzato misure e proporzioni più giustamente analoghe ad altri edifici a pianta centrale come San Tomè di Almenno San Bartolomeo e l’oratorio di San Benedetto di Civate, cui è assimilato anche per le decorazioni esterne della superficie muraria.

Il tempio romanico di San Tomè, a 3 km a sud-ovest di Almenno San Bartolomeo

Il tempietto (“Capella Episcopi”), di cui la più antica citazione risale al del 1133 (2), era infatti un elemento integrante del grande complesso episcopale, sorto nella sua forma più monumentale nell’area storicamente più importante della città tra l’XI e la  prima metà del XII secolo.

Il centro storico-monumentale di Bergamo: A) Basilica di Santa Maria Maggiore; B) Duomo-cattedrale di San Vincenzo; C) Palazzo della Ragione;  D) Palazzo del Podestà e Torre del Comune; E) Piazza Vecchia; F) Palazzo Episcopale; G) Santa Croce. Nella prima metà del XII secolo il complesso Episcopale viene ristrutturato ed ampliato, soprattutto nella sua parte meridionale, con la costruzione della Basilica di Santa Maria Maggiore (che sostituisce la S. Maria Vetus dell’VIII secolo) e il riassetto della Cattedrale di San Vincenzo nonché la costruzione del Palazzo Episcopale e dell’annessa cappella di Santa Croce. Un complesso il cui sviluppo caratterizzerà a lungo Bergamo, sia dal punto di vista religioso che architettonico

In quel periodo, anche la cattedrale di S. Vincenzo era interessata da lavori, trasformandosi da “modesta” basilica paleocristiana a grande cattedrale romanica, mutando aspetto sia internamente che esternamente, sviluppandosi in verticale ed adottando per il rivestimento l’uso di grossi blocchi di arenaria grigia, quasi a voler indicare la ricerca di un’uniformità anche visiva dell’insieme in un collegamento tra le due chiese, San Vincenzo e la nuova Santa Maria.

Cattedrale di San Vincenzo, con in primo piano la base di colonna e il pavimento musivo di età paleocristiana e sullo sfondo la base del pilastro cruciforme d’epoca romanica

Un collegamento che doveva essere anche fisico, come pare suggerire il frammento di arco che parte dall’angolo nord-orientale della nuova Santa Maria e doveva terminare contro quello sud-occidentale di S. Vincenzo.

L’arco in pietra presente sull’angolo nord orientale della Basilica di Santa Maria Maggiore

NEL CUORE DELLA BERGAMO ROMANA

L’area in cui oggi sorge il complesso episcopale costituisce il punto nevralgico della città sin dall’età romana. Qui sorgeva il foro, con i suoi edifici pubblici e le domus, i cui resti sono venuti alla luce nel corso di numerosi scavi archeologici. Anche nell’area di Santa Croce doveva sorgere una domus, gravitante nell’area del foro.

Uno spaccato della Bergamo romana all’interno del Palazzo del Podestà in Piazza Vecchia, dove, nell’area del foro, si sono rinvenuti i resti di un grande edificio pubblico. Nella zona sottostante la Cattedrale di S. Alessandro sono invece tornati alla luce i resti di abitazioni che occupavano alcune insulae nonché la Cattedrale di San Vincenzo; nelle adiacenti vie Reginaldo Giuliani e Arena, quelli di una domus, mentre altri interessanti ritrovamenti riguardano proprio l’area di Santa Croce

PRIMA DI SANTA CROCE, SULLE TRACCE DEL PIU’ ANTICO NUCLEO EPISCOPALE

Nella tarda antichità, la domus esistente presso Santa Croce fu demolita, in vista della risistemazione urbanistica che attorno al V-VI secolo ha interessato tutta la zona con l’edificazione della basilica paleocristiana di S. Vincenzo, eretta in concomitanza con la realizzazione del più antico nucleo episcopale della città.

A quest’ultimo potrebbero appartenere i resti di un edificio a pianta trilobata (quasi sicuramente una chiesa, vista la sua posizione) emersi tra Santa Croce e il lato occidentale di Santa Maria Maggiore, seminascosta al di sotto dello sperone rinascimentale che sorregge lo spigolo Sud-Ovest di Santa Maria, realizzato in seguito al terremoto della metà del 1400.

E’ certo che questo edificio fosse collegato alla chiesa di Santa Maria Vetus, demolita per far posto alla Basilica (1137), nell’ambito della realizzazione del nuovo e più monumentale complesso episcopale di XII secolo; complesso in cui rientra a pieno titolo la costruzione di Santa Croce, che è stata eretta sulle macerie, oggi parzialmente visibili, dell’edificio trilobato.

L’area circostante Santa Croce dopo lo scavo eseguito nel 2004. A) edifici di età romana; B) edificio trilobato; C) acquedotto a cavallo del quale è stata costruita la cappella di Santa Croce; D) sperone rinascimentale a sostegno della Basilica di Santa Maria Maggiore (foto Studio Arch. Calzana)

Non è un caso infatti che Santa Croce, con la sua pianta polilobata richiami l’edificio più antico, dal quale non si discosta molto sia per le dimensioni (10 x 10 metri) che naturalmente per il tessuto murario, essendo probabilmente realizzata reimpiegando i conci piccoli e rozzi in pietra calcarea provenienti dalla demolizione dell’edificio trilobato: questo spiegherebbe anche la difformità, rispetto alla Basilica e a San Vincenzo, del materiale lapideo impiegato.

La struttura a pianta trilobata di età tardoantica, accanto a Santa Croce, è dotata di absidi semicircolari sui lati est, ovest e sud e di un probabile accesso dal lato nord. Le murature, delle quali si conserva ancora parte dell’alzato, sono realizzate con pietre spaccate messe in opera con corsi orizzontali. Il notevole spessore dei muri (80 cm) a fronte di dimensioni esterne relativamente modeste (8 x 6.5 metri) potrebbe indicare un suo sviluppo in verticale

 

Particolare dell’edificio triabsidato di età tardoantica, oggi visibile accanto al tempietto di Santa Croce

La chiesa di Santa Croce, sorta nella seconda metà dell’XI secolo al centro dell’area libera, fu costruita letteralmente a cavallo di un antico acquedotto che sino a pochi decenni fa alimentava la fontana di Antescholis, presso Santa Maria.

Prima di sfociare nella fontana di Antescholis, l’acquedotto tange l’abside meridionale di Santa Croce, sottopassando un arco in muratura

La sua esistenza è posteriore a quella dell’edificio trilobato, ed anteriore alla nuova Santa Maria (del 1137). Il manufatto potrebbe quindi ricollegarsi all’antica canalizzazione in bronzo rinvenuta sotto la sagrestia della Basilica, rafforzando l’ipotesi dell’esistenza di un antico impianto idrico coevo alla chiesuola di S. Maria Vetus (VIII secolo), dove poteva alimentare il fonte battesimale. Mentre non è confermata l’ipotesi che la cappella di Santa Croce fosse chiesa battesimale, nonostante la sua particolare pianta quadrilobata trovi i suoi confronti più pertinenti con altri edifici battesimali (in primis con quelli di Mariano Comense e Biella, datati tra X e XI secolo) e, soprattutto, in assenza di tracce della vasca battesimale.

Di questo acquedotto è stata riportata alla luce una parete in pietre squadrate lunga 20 metri ed alta di 3; il consistente deposito calcareo rinvenuto sul canale testimonia che il manufatto restò in uso molto a lungo.

La ben conservata muratura dell’acquedotto, ad andamento est ovest; il canale vero e proprio è largo 25 cm

 

Il muro dell’acquedotto attraversa il piano inferiore della Cappella di Santa Croce per dirigersi nella fontana di Antescholis, riducendo lo spazio interno della cappella a un triconco asimmetrico con probabile funzione di servizio

Per consentire il collegamento tra la zona nord e quella a sud dell’acquedotto, nella cappella venne realizzata una porta, poi murata ed ancora visibile al suo interno.

La porta tamponata all’interno di Santa Croce

Nel secolo XV, prima che Santa Croce fosse interrata fino alla soglia del piano superiore, per motivi non chiariti l’acquedotto fu dotato di una canalizzazione secondaria che aggirava il tempietto sul lato meridionale, seguendone l’andamento.

La canalizzazione di età rinascimentale che aggirava la Cappella di Santa Crooce

Fu all’incirca in questo periodo (1561) che su iniziativa del vescovo Federico Cornaro vennero realizzati il sopralzo della copertura ed altri interventi che trasformarono l’opera originaria; opera che dagli studiosi datano alla seconda metà dell’XI secolo, individuando per la sua realizzazione una sola fase romanica, se si escludono ovviamente tutte le modifiche subite nel tempo (come ad esempio l’apertura di alcune porte).

Nell’arcata che sovrasta la porta tamponata, un lacerto sopravvissuto ai restauri degli anni Trenta, Si ha notizia che nel 1360 fu promossa la decorazione di Santa Croce dal vescovo Lanfranco

Ritroviamo in Santa Croce l’irregolarità della tessitura tipica del primo Romanico, che conferisce al piccolo edificio un valore e una bellezza particolare, così diversa da quella che si riscontra negli edifici sicuramente databili ai primi decenni del secolo XII: e ciò a partire dal gruppo abisdale della Basilica di Santa Maria Maggiore e dal monastero suburbano di Valmarina, dove si nota la perfetta regolarità e omogeneità dei singoli conci (generalmente di dimensioni maggiori) e della tessitura che ne risulta.

Scorcio sull’interno dell’ambiente superiore di Santa Croce

Nonostante ciò, la chiesa di Santa Croce è nata da una composizione piuttosto complessa di volumi, che ha imposto precise difficoltà di cantiere (come l’inserimento della volta asimmetrica del piano terra): un cantiere incerto nelle sue prime fasi e che sembra aver trovato le proprie soluzioni man mano si è proceduto alla realizzazione dell’opera.

LA DECORAZIONE INTERNA

Nella prima metà del XVII secolo venne realizzata la nuova decorazione sull’intradosso dei semicatini delle absidi, completata nel secolo successivo con quella nelle trombe, nella lanterna e nella Cupola.

Nei catini absidali, attribuiti quasi unanimemente a Cristoforo Baschenis il Giovane (Averara, 1561 – 1626): La Deposizione, Il ritrovamento della croce da parte di S. Elena, Il miracolo attestante l’autenticità della croce, L’imperatore Costantino recante la croce in Roma; dipinti che vengono accompagnati nelle trombe dalle immagini di quattro angioletti muniti di oggetti liturgici.

 

 

Al di sopra dei quattro pilastri angolari sono collocati quattro bassorilievi raffiguranti i simboli degli Evangelisti.

 

Nella lanterna, quattro vegliardi con la mitra vescovile, probabilmente i Padri della Chiesa (S. Agostino, S. Ambrogio, S. Gregorio Magno, S. Girolamo, l’unico rappresentato senza mitria avendo rifiutato l’onore vescovile) e,  nella cupola,  l’affresco raffigurante il Padre Eterno: tutte opere attribuite a Francesco Coghetti.

Il tempietto è quasi sempre chiuso e non visitabile.

 

Note

(1) Non si può comunque escludere che questo apporto di terreno sia in qualche modo da collegarsi con il terremoto della seconda metà del Quattrocento che, proprio in questo punto, richiese la realizzazione del grande sperone di rinforzo (Angelo Ghiroldi, La Cappella di Santa Croce in Bergamo, in “Storia Economica e Sociale di Bergamo – I Primi Millenni – Dalla Preistoria al Medioevo”, vol II. Ed. Castelli Bolis Poligrafiche, Cenate Sotto (Bg), 2007.

(2) “Sponsio privatarum personarum facta coram Ambrosio Bergomati Episcopo”…….in Ecclesia Sancte Crucis …”, ACVB Archivio Capitolare, pergamena 2390, Lupo liber V 975 978. Una successiva citazione si riscontra in un documento rogato dal vescovo Guala nel 1173, dove il tempietto è citato come “Capella Episcopi”, formula generica nella quale si riconosce un implicito riferimento alla chiesa di Santa Croce.

Riferimenti 

A. Cardaci, D. Gallina, A. Versaci, “La Chiesa di Santa Croce in Bergamo”, 2013.

Giuseppina Zizzo, “S. Croce – Bergamo”, Itinerari dell’Anno Mille: Chiese romaniche nel Bergamasco”, Sesaab, Bergamo, 1999, pagg. da 63 a 66.

Angelo Ghiroldi, La Cappella di Santa Croce in Bergamo, in “Storia Economica e Sociale di Bergamo – I Primi Millenni – Dalla Preistoria al Medioevo”, vol II. Ed. Castelli Bolis Poligrafiche, Cenate Sotto (Bg), 2007.

Bibliografia essenziale

– Giuseppina Zizzo, “S. Croce – Bergamo”, Itinerari dell’Anno Mille: Chiese romaniche nel Bergamasco”, Sesaab, Bergamo, 1999, pagg. da 63 a 66.
– Hans Erich Kubach. Architettura romanica. Milano, Electa, 1978.
– Jacques Le Goff. L’uomo medievale. Bari, Laterza, 1999.
– Gian Maria Labaa. San Tomè in Almenno. Studi, ricerche, interventi per il restauro di una chiesa romanica. Bergamo, Lubrina, 2005.
– Lorenzo Moris, Alessandro Pellegrini. Sulle tracce del romanico in provincia di Bergamo. Bergamo, Prov. Bergamo, 2003.
– Raffaella Poggiani Keller, Filli Rossi, Jim Bishop. Carta archeologica della Lombardia: carta archeologica del territorio di Bergamo. Modena, Panini, 1992.
– Carlo Tosco. Architetti e committenti nel romanico lombardo. Roma, Viella, 1997.

Storia e suggestioni della chiesa di S. Rocco, tra via Rocca e piazza Mercato delle Scarpe

Scorcio sull’imbocco di via Rocca, con ingresso della chiesa di San Rocco posta  accanto a uno dei palazzi più antichi della città. Un susseguirsi di 6 archi e porte, di cui due murate (le cosiddette “porte del morto”), caratterizza la casa che fu la prima sede della Misericordia Maggiore fondata nel 1265 da P. Pinamonte da Brembate (Ph Alfonso Modonesi)

A pochi passi dalla stazione della funicolare di Bergamo Alta, allo snodo tra via Rocca e piazza Mercato delle Scarpe, l’ex chiesa di S. Rocco, gioiello nascosto e dimenticato dell’architettura sacra cittadina, fa capolino al di sopra di un antica fontana trecentesca.

Eretta nel primo ‘500 come ex-voto alla Madonna in seguito all’epidemia di peste che aveva colpito la città, solo più tardi, e dopo varie trasformazioni e vicissitudini, venne dedicata a San Rocco, caro alla popolazione per le sue facoltà taumaturgiche e invocato soprattutto contro la peste (unitamente a San Sebastiano). Proprio in quell’anno la città faceva voto, durante una pestilenza, di celebrare con una processione annuale al 16 agosto la devozione a S. Rocco protettore.

In un periodo di continue e violente epidemie, il culto a San Rocco si era irradiato da Venezia ai domini della terraferma, dove si era talmente diffuso da essere, nel 1575, il santo più invocato dell’intera bergamasca per numero di edifici religiosi ad esso dedicati (si pensi anche solo alle chiese di Castagneta, Fontana, via Broseta e alle tante edicole votive esistenti): solo il contagio del 1630, la famosa peste manzoniana, contò circa 9000 morti su di una popolazione complessiva di 27.000 abitanti.

La chiesa di San Rocco in via Broseta

Il sacro edificio all’angolo tra via Rocca e il Mercato delle Scarpe ha attraversato diverse vicende della storia della città: da tribunale mercantile nel Medioevo a cappelletta ed infine a chiesa, fu poi sconsacrato e a lungo inutilizzato nonostante un’intensa opera di sensibilizzazione volta al recupero, da parte di un attivo comitato di cittadini della circoscrizione, e nonostante la temporanea riapertura, avvenuta nel 2014 in occasione di  un allestimento artistico ideato per riaccendere l’interesse intorno alle sorti della ex chiesetta.

L’ex chiesa (Oratorio) di S. Rocco, inizialmente dedicata alla Madonna, sorge in luogo dell’antico Tribunale dei Mercanti, edificato sull’arcata della Fonte Seca, una sorgente-fontana trecentesca. Alta due piani, la chiesa  è formata da un corpo semplice a pianta rettangolare irregolare

In quell’occasione, dal disfacimento dovuto ad un abbandono protrattosi per ottantant’anni la chiesa era riemersa dall’oblio con il suo lungo corollario storico, i sui silenzi e la forza impressa dalle mille suggestioni trasmesse dal percorso espositivo, che mediante una passerella sospesa permetteva ai visitatori di fruire della fragile struttura interna e saggiare una gamma di emozioni accresciute da una colonna sonora creata ad hoc.

Rivissuta grazie all’iniziativa di Contemporary locus, la chiesa era stata riaperta al pubblico il 17 maggio 2014 per ospitare le installazioni artistiche dell’italiana Margherita Moscardini e della sound artist e compositrice inglese Jo Thomas, invitate a ideare e sviluppare un lavoro “site specific” per questo fragile luogo che racchiude secoli di storia e di silenzi. Per l’occasione, una passerella metallica attraversava la chiesa fin d’ingresso in via Rocca, restringendosi a cuneo fino a “bucare” la finestra affacciata sulla piazza

 

La cupola e la passerella metallica allestita tra la primavera e l’estate del 2014

Ancora nella prima metà del secolo scorso, nel giorno della ricorrenza di San Rocco, il 16 agosto, la porta della chiesetta veniva riaperta e per l’occasione gli abitanti di via Rocca si adoperavano per rendere la festa più solenne e gioiosa.

Racimolato il denaro per far celebrare una messa serale seguita da una solenne benedizione e da un seppur modesto concerto bandistico, predisponevano i preparativi per illuminare la via con un centinario di gusci di lumaca colmi d’olio, disseminati tra l’ingresso della chiesa e i davanzali delle finestre, dove venivano accesi sin dalla serata precedente la festa.

Via Rocca e le porte del morto nella raccolta Gaffuri. All’altezza del primo piano di quella che fu la prima sede della Misericordia Maggiore, campeggia uno stemma araldico (non visibile) diviso in due parti da una linea curva: nella superiore una figura umana che ha l’aspetto di un corpulento mastro di posta come talvolta si vede in alcuni dipinti fiamminghi, in quella inferiore due corni di posta incrociati

Oggi la chiesetta è ancora lì, silente all’angolo tra il Mercato delle Scarpe e l’erta salita che inerpica alla Rocca, “sospesa” sopra il solido arcone di dura arenaria di un’antica sorgente-fontana, poi prosciugata, che anticamente zampillava su una piazza ricca di suoni, voci e odori persistenti, come quello dell’attigua spezieria; fontana che, alla fine del Cinquecento, per soddisfare l’accresciuto fabbisogno era stata affiancata da una grande cisterna, costruita sotto il livello della piazza e presente ancor’oggi all’imbocco di via Porta Dipinta.

La chiesa di San Rocco nella veduta di Alvise Cima, inserita in un fabbricato con alla base la trecentesca Fonte Seca (quest’ultima, visibile solo nella tela del Museo, data la posizione ostica della chiesa) il cui arcone anticipava il serbatoio. L’ingresso della chiesa è tuttora rivolto verso via Rocca, dietro un angolo e appena sopra l’imbocco della salita

Come detto, la chiesa era sorta come cappella nel 1513 in luogo di un’antica corporazione di mercanti come ex-voto alla Madonna, in seguito all’epidemia di peste che aveva colpito la città (1).

Scorcio sulla chiesa di San Rocco in piazza Mercato delle Scarpe nel 1961. Sotto, la santella con l’affresco cinquecentesco e a fianco le tre arcate oggi corrispondenti alla trecentesca Fonte Seca (non ancora recuperata) e i locali della biblioteca rionale Gavazzeni

Cappella che nel 1577 fu dichiarata vicinale e che il 4 aprile del ‘79 fu adattata “in forma di picciola chiesa” ed affidata dal 1580 alla locale Confraternita di San Rocco, la quale, “notabilmente accresciuta”, chiese ed ottenne dal Pontefice l’annessione alla Confraternita di Roma, insieme ai relativi privilegi, indulgenze e statuti.

Ex chiesa di San Rocco, interno

Se la visita pastorale di S. Carlo Borromeo nel 1572 testimoniava che la messa vi veniva celebrata solo saltuariamente (trattandosi per lo più di funzioni private, su commissione), con la Confraternita di San Rocco – tra le più prestigiose in Bergamo, perché composta da molti nobili – era consentita la celebrazione della messa quotidiana e di due messe domenicali; vi si teneva la dottrina e nei venerdì di Quaresima si dava spazio ad un predicatore.

Nel corso dei secoli l’interno dell’Oratorio non ha subito modifiche di particolare importanza (se si eccettua la decorazione a stucchi nel secolo XVII, citata da Luigi Angelini), anche se la visita pastorale di S. Carlo Borromeo testimonia che il modesto edificio doveva avere due non ben precisate aperture (“aperto da due lati con un solo altare in ornato”), oggi non più riscontrabili.

Databili al 1856 gli affreschi, ora non più identificabili, di Giacomo Gritti

All’interno, dotato di un solo piccolo altare, si conservavano le reliquie del Santo (non più rintracciabili) e colui che vi faceva celebrare la S. Messa riceveva delle indulgenze speciali. Per tale motivo lo spazio privilegiato dell’altare doveva essere interamente occupato una “pietra” sacra di marmo (da uno scritto del 31 marzo 1661), che poteva essere spostata verso l’alto, come informa un documento del 1666.

Ex chiesa di San Rocco, altare

La pala d’altare, commissionata nel 1588 a Pietro Ronzelli (La Vergine addolorata e i Santi Rocco e Sebastiano) venne trasferita presso la Quadreria della Cattedrale.

Tra i beni artistici della ex chiesa, la pala d’altare di Pietro Ronzelli del 1588 (La Vergine addolorata e i Santi Rocco e Sebastiano, olio su tela cm 160×120), trasferita presso la Quadreria della Cattedrale

Dietro la parete destra rispetto all’ingresso in via Rocca sono ancora visibili i resti di un organo di cui si sono perse le tracce.

Nel 1697 si ha notizia della soppressione (una probabile e temporanea “sconsacrazione”) della piccola chiesa, che rimase in tale condizione sino al 1884, dopodiché l’edificio fu oggetto di alterne vicende.

Il degrado avanzato della cupola di forma ellittica

L’attuale impianto, comprensivo di una piccola cella campanaria a pianta quadrata e con quattro aperture a tutto sesto, un’alta cornice e copertura a padiglione, deriva dalla modifica apportata nel 1630, anno in cui si verificò a Bergamo un altro contagio di peste.

Il campaniletto, antistante un lacerto d’affresco posto sulla parete dietro la chiesa

Il Pasta, nelle Pitture notabili in Bergamo, descrivendo le chiese cittadine nel 1775 accenna alla “picciola, ma pur galante e gentile chiesuola di S. Rocco”; chiesa che alla fine del ‘700 venne riaperta al culto grazie alla famiglia Salvioni, potente e nobile famiglia bergamasca.

Dalla visita pastorale del 28 Luglio 1835 (proprietaria della chiesa è ancora la famiglia Salvioni), risulta che “L’Oratorio è in lodevole stato, ad eccezione dei banchi, del vecchio confessionale e della volta della chiesa che devono essere riparati”.

Infine, nel 1856 venne abbellita con affreschi (ora non più identificabili) eseguiti da Giacomo Gritti.

A seguito della probabile caduta in disgrazia della famiglia Salvioni, la chiesa fu nuovamente abbandonata per essere definitivamente sconsacrata nel 1927.

La chiesa di San Rocco e le porte del morto (incisione Carlo Scarpanti)

Attualmente di proprietà comunale, si trova in condizione di notevole degrado ed abbandono, ma ancora capace di sprigionare una sua particolare forza evocativa.

Note

(1) Padre Donato Calvi, nelle sue “Effemeridi” riporta la data del 14 novembre 1513, data do cui ricorda la demolizione avvenuta sopra la fontana di quella antica costruzione per l’erezione della chiesetta tuttora esistente.

Riferimenti

Alberto Castoldi, Bergamo e il suo territorio. Ed. Bolis, 2004.

Rossi Tiziana, Vanoncini Barbara, Carcano Rossella, Spanò Giovanna, Chiesa di San Rocco di piazza Mercato delle Scarpe.  Corso di Restauro Politecnico di Milano ‐ Dip. di Conservazione e storia dell’architettura. In Schede del Mercantico, Biblioteca Gavazzeni, Bergamo Alta.

Camillo Pedretti, Una sbirciata al passato. Manoscritto, 2006.

Tosca Rossi, A volo d’uccello – Bergamo nelle vedute di Alvise Cima – Analisi della rappresentazione della città trà XVI e XVIII secolo, Litostampa, Bergamo, 2012.

La Fontana del Delfino nell’antico bosco di Pignolo

All’incontro di quattro strade, due in salita – Pignolo e Pelabrocco – e due in discesa – San Tomaso e Masone-, il cuore di borgo Pignolo accoglie il visitatore con la varietà e la bellezza della sua forma irregolare, in un luogo ricco di straordinarie stratificazioni architettoniche.

Via Pignolo e Fontana del Delfino in una fotografia degli anni Trenta (Bergamo – Curia Vescovile – Raccolta Fornoni)

Accanto alle case borghesi ottocentesche ed ai negozi, la nobile fronte cinquecentesca di Palazzo Lupi fa da contrappunto alla pittoresca, inconsueta casetta con il piano superiore aggettante, posta all’angolo delle vie Pignolo e S. Tomaso. Come si evince dalle vecchie immagini, in passato la casa non era a graticcio, ma presentava le pareti lisce e nude.

Il microcosmo marino della Fontana del Delfino sembra quasi richiamare il curioso edificio nordico con il piano superiore a sbalzo (quattro/cinquecentesco?), dalla forma evocante la poppa di una nave

Luigi Angelini ricorda che la forma particolare e le suggestioni sprigionate da questo luogo ispirarono numerosi artisti, compreso quel “geniale pittore russo Leon Bakst” che realizzò una scenografia per uno dei balletti di Diaghilew che dominarono in quel tempo i teatri d’Europa.

L’edificio – scriveva Luigi Angelini – richiama le piccole case nordiche quali la Glöcklein di Norimberga prossima alla casa natale di Dürer o le casette antiche di Rouen o di Malines, o alcune modeste costruzioni della vecchia Bologna o del quartiere veneziano di S. Lio

Ma ritroviamo la stessa ambientazione nella baracca burattinesca di Bigio Milesi, il celebre burattinaio/pasticcere di San Pellegrino Terme, nato a Bergamo nel 1905, famoso anche per i suoi biscotti.

La scena, che rappresenta la piazzetta del Delfino, veniva usata anche per farvi comparire il padre di Gioppino e di Pantalone prima della partenza di Gioppino (dalla commedia “Per Milano in cerca di moglie”). Raccolta Bigio Milesi, S. Pellegrino Terme

Nel centro della piazzetta è la fontana, che il popolo definisce da sempre “fontana del delfino”; è scolpita nel marmo di Zandobbio, con una stele centrale che regge un delfino a lunga coda, “cavalcato” da un tritone a due code di pesce e dal sorriso ambiguo.

La fontana era alimentata, in un primo tempo, dall’acquedotto di Prato Baglioni e, dopo la sua scoperta, anche da quello della Pioda. Come la fontana di Sant’Agostino, anche quella del Delfino restava spesso in “secca” per lunghi periodi, e numerose furono le suppliche degli abitanti di Pignolo perché fosse definitivamente sistemata (l’ultima e forse più significativa richiesta è quella del 18 maggio 1735): nel 1895 la fontana venne collegata alla nuova rete idrica, fatta costruire dalla municipalità in sostituzione della vecchia ormai obsoleta; e da ciò dipese probabilmente anche la sua salvezza.

La fontana del Delfino è stata costruita contemporaneamente all’intenso urbanizzarsi della via Pignolo, sull’incrocio che collegava le vecchie plaghe Pelabrocco e del Cornasello, che conducevano attraverso via Osmano, all’altura di sant’Agostino

Ma ancor prima della sua realizzazione, funzionava in loco una sorgente-fontana pubblica, fatta costruire dal podestà Gualtiero Rufino d’Asti nel 1208 e chiamata Fonx Lux Morum.

È citata negli statuti del 1248, dove veniva ordinato che le singole vicinie provvedessero alla cura e alla regolamentazione delle acque nel loro territorio. Oggi rimane solo la lapide e un debole ricordo perché, cessata la sua utilità, fu abbandonata ed inglobata negli edifici che le sorsero accanto.

Il venir meno di questa sorgente spinse alla costruzione in loco della fontana del Delfino. Si trova esattamente sulla prima casa di via Masone scendendo dalla piazzetta di Pignolo.

Fonx Lux Morum, antica sorgente-fontana in via Pignolo. Fu abbellita nel 1500 con un arco fiancheggiato da due colonne e pare che la sua cisterna avesse una capacità di 500 brente di acqua (circa 28.000 litri). Padre Donato Calvi menziona questa fonte nelle sue “Effemeridi” e dice che nel 1600 era già in secca

Il gruppo scultoreo della Fontana del Delfino è contornato da un bacino d’acqua chiuso da un parapetto a pianta ovale appoggiato su un gradino, recinto perifericamente da paracarri, pure marmorei.

Giovanni Da Lezze, nel 1596, la descrive così:“…una fontana nel mezzo fatta a vaso di prede roane che spande et rende mirabile vista…”.

Sui fianchi del basamento, due maschere di divinità marine emettono due alti getti d’acqua nel bacino.

Ma un dettaglio importante ci riporta ad un antico significato: sul frontone è scolpita in rilievo una grossa pigna, simbolo dell’antica contrada di Pignolo: infatti, ancor prima dell’erezione delle mura veneziane, il versante che conduceva al dosso di S. Agostino abbracciando le vie Pelabrocco e Cornasello, doveva essere boschivo ed ammantato di conifere, che, a ben guardare, conferivano a questa zona un aspetto più montano che “marino”.

Ricordando l’antico paesaggio di questa zona, il dettaglio della pigna ricorda perciò l’origine del nome di questo borgo.

L’opera è di considerevole eleganza di proporzioni e di nobile fattura plastica: la movenza del tritone sul delfino, nella difficile commistione di tre code, è resa dai vari punti di veduta con la sicura abilità di ottimo artista cinquecentesco, il cui nome però è a noi totalmente ignoto, come indicato da una lapide posta sul basamento.

Si conosce la data dell’opera: 1526, sorta perciò in quel quarto di secolo di fioritura d’arte architettonica e decorativa in cui nel borgo si innalzano i bei palazzi Martinengo ora Bonomi, Grataroli ora De Beni, Casotti-Mazzoleni ora Bassi-Rathgeb, Tasso ora Lanfranchi, Morandi Lupi poi Comando militare (1).

E forse la fontana fu il dono di una di quelle insigni famiglie patrizie.

 

Nota

(1) Alcuni fanno risalire la sua costruzione attorno all’anno 1530. Calvi, nelle sue “Effemeridi”, afferma che la fontana fu inaugurata il 9 agosto 1572.

Riferimento principale

Luigi Angelini, “La fontana del delfino”, Antiche fontane e portali di Bergamo, Stamperia Conti, Bergamo, 1964, pagg. da 20 a 22.