La vicenda costruttiva delle Mura veneziane di Bergamo

Ove non altrimenti indicato, le fotografie attuali sono di Claudia Roffeni

Alla metà del Cinquecento, la nuova condizione di città di confine, impone per Bergamo la necessità di un apparato difensivo rispondente alla ragion di Stato, più che a quelle dei beni, degli interessi, delle vite di chi vi risiede. A tale scopo la Città alta – porzione collinare dell’abitato di Bergamo – viene circondata da un grande anello difensivo e ridotta in “fortezza” – la Fortezza veneziana a Bergamo -, venendo così chiamata fino alla fine del Settecento, quando, con la caduta della Repubblica di Venezia e la dismissione militare della struttura, verrà a prevalere, nel linguaggio corrente, il termine più “urbano” di Mura: la fortificazione più nota d’Italia, per l’intrinseca importanza del suo impianto, per il sostanziale stato di conservazione e per l’elevata qualità urbano-paesaggistica del contesto, che ne fa la fortezza più godibile e significativa di tutta la Lombardia.

Dopo la rinuncia all’espansione della politica veneziana Cinquecentesca, la contrapposizione tra la Serenissima Repubblica e gli stati che le contendevano i possedimenti di Terraferma – di cui la Bergamasca era ormai sentita come la punta più avanzata ad occidente -, impose a Venezia la necessità di “ridurre la città in fortezza reale, atta a sostener….qualunque assalto”.

Bergamo apparteneva a Venezia ormai da un secolo e mezzo, da quella pace di Ferrara conclusa tra Filippo Maria Visconti e Francesco Foscari, che nel 1428 l’aveva sottratta definitivamente al possesso milanese: dopo la pace di Chateau Cambrésis (1559) la Bergamasca offriva a Venezia l’unica porta aperta verso i Grigioni, da cui avrebbero potuto arrivare senza impedimento soccorsi in caso di assalti degli Spagnoli padroni dei Mlilanese.

Oltre ai nuovi scenari geopolitici e ai  presupposti politico-militari, anche motivazioni di ordine economico e sociale  (analizzate qui) concorrevano a motivare l’opportunità di rafforzarne le difese; difese che dovevano fungere da deterrente a scala territoriale e a mantenere la pace nei territori della Serenissima: il grande antemurale che avvolge la Città alta fu infatti concepito non solo e non tanto per la sicurezza di Bergamo e dei suoi abitanti, quanto soprattutto per rispondere alla necessità di una più generale sicurezza di tutto lo Stato della Repubblica di Venezia, rientrando a pieno titolo in quel  grande piano di fortificazione imperniato sulle città-capoluogo, punti nevralgici della difesa così come del commercio marittimo e terrestre.

Ma la scelta del sito da fortificare giunse dopo un lungo e complesso dibattito (1) apertosi fra rettori, capi di guerra, tecnici e rappresentati politici, durante il quale, sul finire del 1526 – ben trentacinque anni prima dell’avvio della costruzione delle Mura – si era già data attuazione ad un piano organico per fortificare Bergamo “alla moderna”, redatto da un altro importante uomo d’arme al soldo della Serenissima: il capitano generale della Repubblica  Francesco Maria I Della Rovere, duca di Urbino, il quale, secondo una logica opposta rispetto a quanto realizzerà più tardi il capitano generale delle milizia di terraferma, Sforza Pallavicino,  aveva avviato un progetto di fortificazione su larga scala, volto a salvaguardare l’unità tra la città sul colle e i borghi, privilegiati  nella difesa in quanto costituivano la parte più vitale e produttiva della città: un’idea che incontrava il favore dei bergamaschi e i pareri degli stessi rettori e di altri tecnici della Serenissima, che a lungo sosterranno senza successo l’opportunità di estendere le nuove Mura al piano, dove i terrapieni posti in opera dal Della Rovere erano ancora in essere a distanza di decenni (2).

Solo più tardi si giungerà alla soluzione “picciola” (piccola), e dunque meno costosa dello Sforza Pallavicino, limitata cioè al solo nucleo antico della città,  trasformando così Bergamo da “città murata” in fortezza di monte: un’operazione strategica di grande impegno, fortemente voluta da Venezia e perseguita con ferma determinazione pur tra fasi alterne, per almeno un trentennio.

1526: LA COMPARSA DELLA CINTA BASTIONATA

Con Della Rovere compariva per la prima volta a Bergamo l’idea della cinta bastionata, un nuovo sistema fortificato elaborato nel Cinquecento in seguito al mutamento delle tecnologie belliche e delle strategie d’assedio e di difesa: strategie che ora non erano più affidate a bombarde e a mortai bensì a schioppi, archibugi e artiglierie (mobili e non mobili), dotate di proiettili metallici che producevano effetti devastanti sulle fortificazioni medioevali. La cinta bastionata era quindi grado non solo di assorbire i colpi da fuoco, ma anche di permettere il movimento sugli spalti delle batterie di cannoni, che, montate su affusti a ruote, permettevano manovre assai più efficaci e dinamiche.

L’introduzione dell’artiglieria, nuovo e potente sistema offensivo, e il mutamento delle strategie d’assedio, porta nel Cinquecento ad elaborare un nuovo sistema fortificato in cui il baluardo (o bastione) costituisce l’elemento difensivo fondamentale, perché garantisce quel “vuoto” indispensabile a non intralciare l’efficacia dell’azione di tiro. Posto generalmente negli angoli più esposti della fortificazione, per consentire il tiro fiancheggiato, il baluardo ha un’altezza pari a quella delle mura (diversamente quindi dalle torri medioevali) ed ha una forma generalmente poligonale. Il suo scopo è proteggere le cortine (tratti di mura rettilinei), che costituiscono le parti della fortificazione più esposte all’attacco dell’assediante, grazie al tiro radente ed incrociato delle artiglierie che sono ospitate al suo interno. Le nuove strutture difensive, che non seguono più il limite del centro urbano, come nel caso delle mura medioevali, ma passano sul corpo della città  richiedendo enormi demolizioni, danno un nuovo volto alle città cinquecentesche, racchiuse ed isolate entro gli arcigni e massicci profili dei bastioni (Ph Claudia Roffeni)

IL PRIMO PROGETTO DI SFORZA PALLAVICINO

Lo Sforza era riuscito ad imporre il suo progetto (approvato dal Senato Veneziano il 17 luglio 1561) prevedendo una spesa estremamente contenuta ma che presto si rivelò fasulla. Secondo le sue valutazioni, Bergamo si poteva fortificare facilmente e in due-tre mesi con poca spesa (40.000 ducati, un terzo cioè di quanto avrebbe richiesto l‘inclusione dei borghi), con una cinta di circa due miglia ottenuta con limitate demolizioni (poco più di venti case, senza sacrificare chiese importanti) e con il parziale sfruttamento delle Mura antiche. Il sito, per sua natura forte, cinto da ripe alte che si fiancheggiano da se stesse, avrebbe avuto bisogno di fosso in pochissimi punti, ma doveva solo essere scarpato e provvisto di parapetto.

Esclusa l’ipotesi di abbracciare le alture verso la Cappella (Castello di S. Vigilio) con il recinto delle mura, nelle intenzioni dello Sforza la cinta doveva dilatarsi a settentrione al solo scopo di includere alcune vallette che potevano consentire di trovare nuove sorgenti: un punto, questo, dove occorreva “la maggior fattura”,  e che si poteva attuare con “l’arte” ricavando lungo il pendio che scendeva dal colle di S. Vigilio solo due o tre baluardi di terra, incamiciati di muro con pietra cavata in loco per un’altezza di soli 70 cm circa; questi baluardi, concepiti secondo le nuove tecniche belliche basate sull’artiglieria, e puntati verso la Cappella, fortificazione esterna a nord del Forte di S. Marco, avrebbero al contempo fatto da cavaliere al resto della cinta.

Era già quindi in embrione l’idea del Forte di S. Marco, l‘unica parte dei primo progetto dello Sforza Pallavicino che troverà riscontro nella fortezza realizzata, la prima opera che verrà intrapresa e tra le prime a configurarsi, ma non per questo esente da ripensamenti, rifacimenti, imperfezioni.

Il Forte di S. Marco, la vasta area soggetta a servitù militare, compresa tra le porte di S. Alessandro e S. Lorenzo, funse da centro dell’organizzazione difensiva di tutto l’apparato logistico-militare. Nella sua realizzazione finale, comprese ben 6 baluardi dei 14 complessivi. All’eminenza della Cappella, il Forte superiore (tra la porta di S. Alessandro e quella “del soccorso”), superando arditamente lo scosceso pendio di S. Vigilio con muri di contenimento e di sostegno che reggono il degradare del terreno, oppone la compatta sequenza di una piattaforma (di S. Gottardo) e di due baluardi (di S. Vigilio e Pallavicino) proiettati verso l’alto senza cortine di collegamento e con i fianchi rientranti ridotti alle minime dimensioni. Con sviluppo più che doppio e con cambi di direzione tra i più decisi dell’intera cinta si snodano invece i tre elementi del Forte inferiore, tra la porta “del soccorso” e quella di S. Lorenzo (baluardi di Castagneta, S. Pietro e Valverde)

Le titubanze legate all’altalenante atteggiamento degli esperti verso la Cappella condizioneranno per decenni forma, apprestamenti e armamento di questa parte della fortificazione, così come ogni intervento sulla Cappella determinerà modificazioni al Forte.

Inizialmente, il Castello di S. Vigilio venne ritenuto ininfluente per la difesa della città perché “parte ruinata” (relazione Priuli, 1553). Nel corso delle demolizioni, il 13 agosto 1561 lo Sforza fece comunque abbassare il maschio medioevale (la torre centrale) per renderla meno esposta ai tiri di artiglieria (solo in seguito, per ottenere un maggior spazio di manovra sulla piazza superiore, ne verrà eliminato anche il moncone)

LA NUOVA E DEFINITIVA DECISIONE

Ma in quello stesso luglio del 1561, nella riunione collegiale tenutasi a Bergamo fra i massimi capi di guerra della Serenissima (Girolamo da Martinengo, Agostino da Clusone, Giulio Savorgnano) e ingegneri (i bergamaschi Malacreda e Francesco Orologi – relatore – e il bresciano Genesio Mazza detto lo “Zenese”), di fronte a un sito che “non lo vedendo non si può capire” matura invece un nuovo progetto di una cinta allargata, tutta a bastioni e  totalmente rivestita di pietra, che il Senato immediatamente approva a larga maggioranza e rende esecutivo (sedute del 6 e 11 agosto), nonostante lo consideri “della medesima sigurtà che era la prima [cinta] et con molto minore interesse di quelli fidelissimi nostri”.

Proposta di ricostruzione della morfologia preromana del complesso collinare di Bergamo, con sovrapposti i perimetri delle mura romane, medioevali e cinquecentesche (E. Fornoni – 1889). I tre sistemi murari di Bergamo hanno mantenuto nel tempo il loro orientamento assiale, inglobandosi l’uno nell’altro: il primo assetto murario romano dell’antica Bergomum, adattatosi alla morfologia del rilievo, venne quasi completamente riutilizzato in età altomedioevale e ampliato nel Basso Medioevo per l’inclusione dei borghi mercantili, ampliandosi ulteriormente e definendosi nel Cinquecento con l’erezione delle Mura veneziane

Il progetto iniziale sostenuto da Sforza Pallavicino subisce quindi numerose e sostanziali modifiche (3) e alla fine dei lavori l’impianto bastionato raddoppierà in ordine al suo sviluppo planimetrico, comportando la vertiginosa spesa di un milione e mezzo di ducati – 15 volte quanto inizialmente preventivato, corrispondenti a 155 milioni di euro d’oggi (4) – e richiedendo tempi molto lunghi, che, anche dopo la chiusura della cinta, avvenuta con il completamento del baluardo della Fara nel 1588 (ben ventisette anni dopo l’inizio dei lavori), si protrarranno fino al terzo decennio del Seicento per le correzioni di alcune porte e i completamenti interni ed esterni delle opere riguardanti la Cappella, chiamando quindi in causa vecchi e nuovi tecnici.

Ne risulterà un’opera corale e di grande respiro, che coinvolgerà progettisti,  consulenti, esperti, grandi personalità militari e politiche, misurandosi spesso con le Magistrature centrali e talvolta tenendo conto di istanze locali, valutando una miriade di eventi contingenti: e se tutto ciò diede luogo a frequenti ripensamenti e mutamenti di rotta, l’opera “trovò nel suo stesso farsi le linee guida per un progressivo affinamento” (5).

Il  Baluardo Pallavicino, nel Forte di S. Marco superiore, ha preso il nome dal comandante generale di Terraferma che ha rivestito un ruolo decisivo nell’impostazione, nella regia della progettazione e nella costruzione delle Mura, che egli ha seguito dall’inizio alla morte (1585). Sarà Giulio Savorgnano a concludere il circuito con il Baluardo della Fara, a ventisette anni esatti dall’inizio del lavori

 

La fortezza di Bergamo è tutta in pietra: il paramento (l’incamiciatura) si presenta in modo molto vario secondo la provenienza dei conci. Non di rado il muro è modellato nella roccia viva, la cui presenza ha talvolta agevolato la fabbrica delle Mura, come nel baluardo di S. Lorenzo, che ingloba per un buon tratto il bancone di conglomerato affiorante presso la “montagnetta”. Quest’ultima forniva tra l’altro un naturale cavaliere e al contempo riparava da eventuali tiri che potevano provenire dalla Cappella (Ph Claudia Roffeni)

Per l’estrema complessità dell’opera, la trasformazione di Bergamo in fortezza di monte si rivelerà alquanto travagliata, non solo per l’entità dell’operazione e per la delicata congiuntura storica, ma anche per le insidie e le difficoltà tecniche – a partire dai lavori di scavo -, dovute alle caratteristiche morfologiche di un sito che poggia sulla dura corna ed è caratterizzato da profondi avvallamenti, come sotto S. Andrea o presso il Vallone di S. Agostino e il Foppone della Fara.

Nel baluardo di S. Agostino furono necessarie imponenti opere di scavo per poggiare il muro delle fondazioni sull’emergenza rocciosa che caratterizza il versante settentrionale, e che vediamo affiorare anche nel parco, sulla muraglia che delimita a oriente il chiostro del monastero (Ph Claudia Roffeni)

 

Il grande muro veneziano che recinge Bergamo alta è frutto delle teorie urbane cinquecentesche, volte a realizzare una forma di città fortificata ideale, dalla forma stellare. Tuttavia la presenza di un terreno collinare irregolare impedì la realizzazione di un disegno geometrico perfetto, dando luogo a una sequenza sempre variata e piena di trasgressioni di baluardi, piattaforme e cortine. L’unico elemento che a quello più si avvicina è il lato del perimetro compreso tra il baluardo di S. Giacomo e di S. Giovanni. Dalla forma piatta, gelidamente lunare, delle enormi muraglie veneziane risalta con evidenza lo schema astratto e geometrico che guida la mano dei costruttori di fortezze del Cinquecento. Il contrasto con la morbida e mossa forma del colle e col frammentato e vario disporsi degli edifici medioevali dell’alta città, conferisce aspetti allucinanti e crudeli a questo disegno, duramente imposto tra il terreno e le case
I dislivelli della cinta tra la tenaglia di S. Agostino (m. 297) e il baluardo Pallavicino (m. 438)

Perciò la fabbrica delle Mura costituì per gli ingegneri del tempo un impegnativo banco di prova, che richiese capacità inventiva e coraggio di sperimentazione affinché gli ormai collaudati schemi della fortificazione bastionata venissero opportunamente adeguati a un sito orograficamente complesso: per i trattatisti militari la nostra Fortezza rappresentò quindi uno stimolante campo di meditazione sulle “fortezze di monte”.

Tali risultati furono ottenuti naturalmente anche grazie alla grande quantità di addetti ai lavori: oltre 6 mila manovali, dalla posa della prima pietra, cui Venezia diede a lungo occupazione,  generando anche numerose opportunità economiche. L‘immane cantiere vide giornalmente al lavoro 3.760 guastatori per lavori di sterro e di demolizione; 263 spezzamonti per scavi e preparazione delle pietre; 147 murari (muratori); 46 marangoni (falegnami), controllati da 35 soprastanti (responsabili della gestione dei cantieri); 8 proti,  incaricati di progettare e dirigere i lavori (tra questi il nostro Paolo Berlendis), distribuiti in nove punti diversi della città, oltre che donne, assunte giornalmente per svolgere lavori di trasporto di materiale con carriole e gerle.

Paolo Berlendis e Figli. Bergamo, Palazzo Frizzoni. L’architetto bergamasco (1520-1572), padre di Giacomo (generale di artiglieria nelle guerre ai turchi e soprintendente alle fortezze di Candia) e “proto generale” che sovrintese ai lavori per la realizzazione della fortificazione veneziana, è ritratto anche in un dipinto di Giovan Paolo Lolmo (Bergamo 1550ca.-1595), considerato uno dei capi d’opera del pittore, donato nel 1824 dal Conte Carlo Marenzi alla Biblioteca Civica A. Mai di Bergamo

*  *  *

Ai fini dell’avanzamento delle opere, rivestono un’importanza cruciale i primi cinque mesi seguiti al fatidico agosto del 1561: ciò che più conta per tutti i diretti responsabili (a partire Sforza Pallavicino, governo centrale e rettori) è costruire una situazione di non ritorno agendo coi tempi e i modi del colpo di mano e facendo intendere che l’operazione sarà sì dolorosa ma breve, e quindi poco costosa anche per la città; città che nel frattempo, oltre al danno subito verrà obbligata a garantire l’ospitalità ai 100 soldati della guarnigione e ai 50 archibugieri posti a difesa dei demolitori.

Entro la fine di quello che a buon ragione è considerato l’anno più terribile della storia urbana di Bergamo, quello in cui la patria è stata “ruinata” , gli uomini al servizio dello Sforza hanno infatti già tracciato gli elementi fondamentali del circuito, dopo aver demolito centinaia di edifici e tenuto a bada le proteste degli abitanti con una folta guarnigione, che per sedare eventuali sollevazioni popolari il 23 agosto salirà fino a comprendere 100 cavalieri e 1000 fanti, venendo portata a 1700 nel mese di novembre.

Alla fine, sarà evidente a tutti che la vicenda sarà lunga, complessa e dolorosa e che chi ha perso i propri averi non sarà indennizzato dallo Stato e sarà rovinato per sempre. La rassegnazione seguita allo spegnersi graduale delle proteste, garantisce allo Sforza il suo primo successo strategico, oltre il quale tutto gli sarà più facile. Dopo questo primo anno i lavori proseguiranno più lentamente.

L’AVVIO DELLE DEMOLIZIONI: BERGAMO NON SARA’ PIU’ LA STESSA

I costi che Bergamo dovrà sopportare per la realizzazione della munizione veneziana non saranno solo una questione di denari.

A partire dal 31 luglio il generale Sforza Pallavicino entra in città con 550 unità tra soldati e archibugieri, a protezione dalle eventuali proteste, dando avvio alle demolizioni e radendo al suolo centinaia di abitazioni, non prima di aver spazzato via gran parte dei coltivi, giardini e siepi ed estirpati gli ormai prossimi raccolti dei fruttiferi vigneti dei colli, la risorsa più importante per la città, in quanto esportata anche ben oltre il contado: dapprima attorno alla Cappella e poi intorno alle vecchie mura della città, da Sant’Agostino al colle di S. Stefano, dove distrugge gli orti e le vigne ormai vicine alla maturità, gettandoli “nel cemeterio de morti” (6) e non risparmiando neppure la vigna di S. Alessandro, presso la basilica intitolata al santo martire.

Sul colle di S. Stefano, oggi occupato dall’emergenza di villa Bizioli, oltre ai vigneti erano presenti ulivi, castagni, marroni, ciliegi, fichi, noccioli e in minor misura meli, peri, mandorli, susini, peschi e melograni

Il primo agosto del 1561 iniziano le demolizioni in nove punti del tracciato e il 7 agosto, all’insaputa anche del Senato, si dà avvio alla demolizione della basilica paleocristiana di Sant’Alessandro, che custodisce le reliquie del martire. Nel volgere di poco il Senato approva le decisioni prese e che prenderà lo Sforza, invitando la città a prenderne atto.

L’erezione delle Mura comportò anche la distruzione di chiese e conventi su cui era imperniata la religiosità cittadina: per tracciare e fondare il baluardo di S. Alessandro, nel Forte di S. Marco, la prima chiesa ad essere sacrificata fu la basilica paleocristiana di Sant’Alessandro, dopo che il veneziano Vescovo Federico Cornaro, in fretta ma con gran processione, aveva trasferito le spoglie del Santo Patrono nella chiesa di S. Vincenzo posta dentro le mura. A ricordo della distrutta basilica, nel 1621 il Vescovo Emo fece erigere una colonna, ancor oggi presente all’imbocco di Borgo Canale

L’idea di difendere solo il nucleo sul colle e di far correre la struttura difensiva non intorno, ma sul corpo della città, ha conseguenze devastati sia sull’economia della stessa che sul tessuto secolare, sconvolto dall’impressionante entità dei movimenti di terra che darà vita a un’opera “spaventevole e imponente, con quelle taglienti superfici e i puntuti speroni protesi minacciosi verso il molle declivio collinare.

“Per sicurtà non solamente di quella città, ma ancora di tutto il stato nostro”, la struttura palmare e digitata della città viene violentemente disarticolata e smembrata, mutando per sempre l’intero sistema delle relazioni che organizzava la città medioevale.

Bergamo contava allora circa 17 mila abitanti, di cui 4 mila nella sola Città alta, che avrebbero preferito per la propria sicurezza la “salda risistemazione” delle esistenti Muraine includenti i borghi e non la trasformazione in fortezza della città sul colle, attorno alla quale verrà a crearsi una desolante corona di vuoto di oltre cinquanta metri.

Assoldati quasi tremila demolitori protetti da folte schiere di soldati, l’avanzata della ciclopica opera difensiva stravolge e cancella interi tessuti urbani, abitati e coltivati da secoli; scompaiono parti intere di borghi, e in toto Borgo S. Lorenzo, e recisi gli antichi tracciati medioevali che li raccordano alla città.

La distruzione di centinaia di abitazioni e dimore (per un valore che supera i 200.000 ducati) che si trovavano sul tracciato delle nuove mura, causa alla popolazione ingenti danni economici, che non verranno mai risarciti, fomentando rabbia, malcontento, disperazione.

Sopra la Bergamo medioevale e sotto la Bergamo amputata dalla costruzione della fortezza veneziana. Le cronache citano fra le 213 case distrutte nei primi cinque mesi del 1561 arrivando a stimarne anche 257, e cioè 80 in Borgo Canale, 40 tra Borgo Santo Stefano, Paesetto e S. Domenico, 57 in Pelabrocco/Pignolo e 80 in Borgo San Lorenzo. Ed altre ancora ne verranno distrutte: nel 1571, a dieci anni dall’inizio dei lavori Ie case rimaste erano 549 e a vent’anni, nel 1581, solo 445 (distrutte 317), tra dimore gentilizie e case popolane: ovvero poco più della metà di quelle esistenti alla posa della prima pietra

Vengono interrotti gli acquedotti che alimentano la città; sacrificati numerosi luoghi nevralgici della storia e del culto cittadino, molti dei quali densi di valore di memoria quali, oltre alla basilica alessandrina e la canonica,  il duecentesco convento domenicano dei SS. Stefano e S. Domenico (importante centro di cultura contenente le spoglie di Pinamonte da Brembate) e la chiesa di S. Giacomo a sud nonché quella di S. Lorenzo a nord. Altrettante scomuniche vennero lanciate dal clero locale allo Sforza Pallavicino, che dovette faticare negli anni successivi per farle revocare.

La veduta a volo d’uccello detta di Alvise Cima (1643-1710), attinge da una pianta prospettica di fine Cinquecento che raffigura la Bergamo medioevale prima della fortificazione, tratta secondo le fonti da un antico affresco oggi perduto. Alla città medioevale si sovrappone un tratto nero rappresentante il tracciato delle nuove Mura, che denuncia con grande effetto le perdite infitte alla città in termini di patrimonio edilizio. Risulta chiaro come la fortificazione escludesse i borghi, racchiusi entro il circuito delle Muraine (il cui inserimento avrebbe comportato lavori troppo lunghi e spese più ingenti), operando una cesura fra le due città, quella produttiva posta al piano, e quella ove risiedeva il potere politico e amministrativo

Ben tre delle quattro nuove porte prenderanno il nome delle chiese distrutte: S. Alessandro, S. Giacomo, S. Lorenzo.

Soltanto il Convento (con due ampli chiostri) e la chiesa di S. Agostino si salvano, grazie all’offerta di un’ingente somma di denaro versata a Venezia dal potente ordine agostiniano per far chiudere “dentro la Fortezza, in anima ed in corpo, Chiesa, Convento e Frati” con “evidente sproposito di militare architettura” (7). E’ anche vero che il convento sorge su uno sperone roccioso, per spianare il quale servirebbero troppo tempo e denaro.

L’INIZIO DEI LAVORI: IN SOLI TRE MESI SONO TRACCIATI GLI ELEMENTI FONDAMENTALI DEL CIRCUITO

1561 – 1 settembre: posa della prima pietra del Forte di S. Marco. •2 settembre: baluardo di San Giacomo. •3 settembre: baluardo di Sant’Agostino.  •ottobre: E’ tracciato quasi tutto il circuito. •novembre: Continuano i lavori “in nove parti della città” con l’impiego di 4259 persone.

L’avvio ufficiale dei lavori, con la posa della prima pietra, avviene il 1° settembre 1561 proprio nel sito inteso da subito come fulcro di tutta la nuova opera difensiva: le pendici collinari disposte tra Colle Aperto e il Castello di S. Vigilio, che prende l’appellativo di “forte”, e poi, ancor più esplicitamente, di “Forte di S. Marco”, il tracciato compreso tra le attuali porte di S. Alessandro e S. Lorenzo, dove si configurerà il centro operativo-militare dell’intera fortezza. Durante la solenne cerimonia, i rappresentanti della Repubblica gettano nello scavo di fondazione una manciata di medaglie appositamente coniate e recanti loro nomi e stemmi.

La porzione occidentale del Forte di S. Marco da via Sudorno (Ph Claudia Roffeni)

Già da questa fase preliminare di impostazione della struttura, si definiscono i margini estremi che il Forte assumerà dopo diversi anni, così come si intuisce la forma trilaterale del circuito complessivo delle Mura, che sarà pienamente evidente nel 1588.

Il tracciamento del circuito del Forte di S. Marco, cuore ed emblema dell’intera fortificazione, è concepito in un ottica esclusivamente funzionale e difensiva. La sua vasta area, sempre distinta dal resto della cinta per il carattere e l’uso esclusivamente bellico (con l’esclusione cioè di ogni presenza civile), si doterà della cosiddetta “Porta del Soccorso” (nell’immagine), ossia un’autonoma porta riservata all’uscita di armati per eventuali azioni oltre la fossa e a soccorso della Cappella, nonché di due “quartieri” per l’alloggiamento delle truppe e di due polveriere. In seguito alla morte dello Sforza Pallavicino verrà allargata e potenziata la fossa e costruita la strada coperta che lo collegherà alla Cappella rafforzata (Ph Claudia Roffeni)

In questo primo anno i lavori si concentrano prima di tutto nel realizzare i baluardi in Colle Aperto, opera di necessità primaria che vede completamente assorbito lo Sforza, dedicato personalmente alla progettazione e direzione dell’opera.

Ma non solo al forte si lavora in quell’autunno del 1561 e ben nove sono i cantieri aperti attorno alla città antica, distribuiti con logica di accerchiamento: entro la fine dell’anno gli uomini agli ordini dello Sforza Pallavicino hanno già  tracciato e fondato gli estremi “cardinali” della fortezza: a Nord il bastione di S. Lorenzo, a Est la tenaglia di S. Agostino (fortificazione che circonda l’omonimo convento), a Sud il bastione di San Giacomo, a Ovest la fortificazione di S. Alessandro (con i baluardi di S. Alessandro e S. Giovanni).

Se i nove cantieri sono diretti da otto “proti” e vi lavorano più di 6.300 persone, le scarse operazioni di effettiva costruzione vedono in questo momento 147 “murari” occupati quasi certamente a rifinire il materiale lapideo da “incamiciatura” (le pietre di rivestimento delle mura) e nel gettare le fondazioni, nonché 46 “marangoni” occupati a puntellare le fondazioni, i casseri, le passerelle e i ponti.

Ma quando le spie milanesi riferiranno dei lavori, gli ambasciatori veneziani faticheranno non poco a convincere gli Spagnoli che si tratta solo di opere di difesa che non prevedono ammassamenti di truppa per attacchi.

NON LATIUS!

Con l’avvio del 1562 mentre chi ha perso casa e i propri averi fa i conti con l’impossibilità di recuperare quanto perduto, ci si inizia a chiedere fino a che limite lo Sforza intenda dilatare la spianata (la pertinenza esterna della fortezza) per poter ricostruire in sicurezza.

Nella sua risposta al Senato lo Sforza afferma che non si possono permettere fabbriche a meno di 50 metri dall’antico muro della città o dalla salita al monte, laddove erano iniziate le nuove fortificazioni, e il 13 giugno vengono posti i termini confinari attorno alle Mura, costituiti da cippi in pietra con inciso le parole “NON LATIUS” (“non oltre”), ad indicare il limite dello spazio riservato al presidio della guarnigione.

Disegno della fortezza di Bergamo (Parigi, Biblioteca Nazionale). Il disegno mette in evidenza, tra la città e il nuovo muro, il profondo spazio reso libero da ogni costruzione, vigneto o vegetazione. A questa prima fascia interna, all’esterno delle Mura, ne corrispondeva una seconda ancora più vasta, dove il terreno era stato spogliato da ogni presenza di arbusti e di edifici

L’ampiezza di questa “fascia di rispetto” è ancora oggi testimoniata dall’unico cippo in pietra superstite visibile all’attacco della Scaletta della Noca, la via gradinata che dall’Accademia Carrara conduce verso la Porta di S. Agostino, posto a indicare il punto a partire dal quale il terreno doveva essere lasciato sgombro da costruzioni e in cui era interdetto qualsiasi tipo di coltura onde evitare l’annidamento di truppe nemiche e il conseguente assalto a sorpresa a ridosso delle cortine, oltre che, naturalmente, rendere libero il tiro delle artiglierie.

L’ampiezza dell’antica spianata è ancor oggi testimoniata dall’unico cippo in pietra arenaria superstite presente all’imbocco della Scaletta della Noca, nei pressi dell’Accademia Carrara, dove l’iscrizione ormai abrasa riporta la scritta NON LATIUS  (‘non oltre’). La stele indicava il limite oltre il quale, per la servitù militare generata dalla presenza delle Mura, non era possibile costruire alcun edificio

Si evince che a questa data le vecchie mura sono ancora esistenti mentre le nuove (escluso il Forte, forse) sono semplicemente iniziate. Ma nonostante ciò, verso la mezzanotte del 27 settembre, anche se le mura non hanno ancora raggiunto l’altezza di un metro e mezzo si fa una sorta di prova generale: all’ordine convenuto, alcune compagnie di soldati si avvicinano alla città. Dato l’allarme, tutti i cittadini (compresi i danneggiati) accorrono prontamente, apprestando la difesa della fortezza e cioè di “colei che da alleata era divenuta la loro peggiore nemica” (8).

Negli anni successivi, a causa del minor esborso finanziario di Venezia i lavori proseguiranno a ritmi più lenti concentrandosi di più sul Forte, mentre altrove, ancora nel 1565 l’azione di assestamento e dilavamento del terreno disfa i terrapieni realizzati (poco più che dei rialzi), creando un danno valutato in mille ducati all’anno. Intanto però, nonostante la fortezza sia ancora incompleta ed imperfetta nelle sue strutture fisiche (muri ancora da fondare, terrapieni da incamiciare, parti accessorie da definire, etc.), comincia ad assumere una fisionomia propriamente militare.

Verranno realizzate, in corrispondenza delle principali direttrici stradali, le porte di San Lorenzo (la prima ad essere costruita, nel 1563, murata per motivi di sicurezza nel 1605 e poi ricostruita al di sopra nel 1627 su progetto di Francesco Tensini), Sant’Alessandro (“voltata, coperta e del tutto fornita” per la fine del 1565), San Giacomo (realizzata negli anni Settanta del Cinquecento molto vicina al fianco dell’omonimo baluardo, trovando la sua definitiva, attuale, posizione nel 1593), e Sant’Agostino (che, inizialmente in legno, venne riedificata in muratura nel 1572-74). Porte che erano già state progettate nei primi anni del cantiere (1562-1563), molto probabilmente da un’unica mano.

Le Porte della cinta cinquecentesca si riducono a 4, riprendendo quelle medievali che erano poste nei pressi

LO STATO DELLA FORTEZZA NEL 1565 

Per la fine del 1565 le “muraglie” di circa la metà del circuito (ossia circa 2550 metri dei previsti 5122) sono incamiciate in pietra e tutte portate a un’altezza di sicurezza (ed in primis quelle del Forte di S. Marco), ma ancora ben lungi dalla quota definitiva.

Ovunque, le vecchie mura medioevali vengono raggirate e laddove sono parzialmente mantenute fungono da contenimento provvisorio della città affinché, com’è nella logica di una città-fortezza, l’operante guarnigione militare (che ora conta 770 soldati), resti nettamente distinta dalle aree della comunità civile.

Stato della Fortezza nel 1565. Nel Forte di S. Marco, dalla porta di S. Alessandro al baluardo di S. Lorenzo e relativa cortina la muraglia è rivestita in muratura fino al redondone, tranne il baluardo di S. Lorenzo che è tutto incamiciato. Da qui al baluardo di S. Agostino suppliscono le vecchie mura medievali (che per ora lasciano fuori il monte della Fara). Tutta la porzione orientale della fortezza è ancora in terrapieno (ossia dalla tenaglia di S. Agostino al baluardo di S. Michele, compresa la cortina di S. Andrea). Dalla piattaforma di S. Andrea fino alla cortina di S. Grata ci si affida ancora alle mura vecchie, ma il baluardo di S. Giacomo è già in pietra fino al cordone e si realizza il pezzo di cortina necessario per impostarvi sopra la nuova Porta di S. Giacomo, mentre a Sud-Ovest si è già fondata la piattaforma di S. Grata e buona parte delle relative cortine. I due baluardi di San Giovanni e Sant’Alessandro sono  ancora in terrapieno

Tutta la muraglia che dal Forte (a partire quindi da Porta S. Alessandro) arriva alla cortina di S. Lorenzo è rivestita in pietra fino al redondone (il cordone lapideo orizzontale che rende difficile la “scalata”), eccetto il baluardo di S. Lorenzo, che è tutto incamiciato.

Il baluardo di Valverde, l’ultimo del Forte Inferiore, e la porta di S. Lorenzo, sul lato settentrionale della cinta veneziana (Ph Claudia Roffeni)

 

La costruzione del baluardo di S. Lorenzo fu favorita dalla presenza di un durissimo banco di conglomerato, inglobato per un buon tratto nella muraglia ed affiorante sulla piazza superiore nella “montagnetta”, che fornì un naturale cavaliere riparando anche contro i colpi che potevano provenire dalla Cappella

Dalla zona di S. Lorenzo fino al baluardo di S. Agostino non s’è fatta nessuna opera: qui suppliscono le vecchie mura medievali (difese dal potente cavaliere del Belfante dei Rivola  e dalla Rocca rinforzata), che chiudono materialmente il recinto lasciando fuori il monte della Fara (il piccolo rilievo visibile nelle piante del Cima, che divide la Valle S. Agostino da quella degli Avogadri), che dovrà invece essere incluso nella fortezza quando verrà realizzato il previsto baluardo.

Il baluardo della Fara, l’ultimo ad essere realizzato (1585-1589), sancendo la reale “chiusura” del circuito murario veneziano (Ph Claudia Roffeni)

Le  perplessità di chiudere questa parte della cinta erano iniziate sin dall’avvio dei lavori, tanto che nella sua relazione dell’8 novembre 1561 l’Orologi raccomandava allo Sforza di non sopprimere quel baluardo della Fara – di cui egli stesso aveva piantato le stagge -, che avrebbe fiancheggiato la tenaglia di S. Agostino, certo troppo bassa ed avanzata.

La Tenaglia di S. Agostino, formata dai baluardi di S. Agostino e del Pallone. In alcuni punti le porte di accesso alle mura erano racchiuse, a breve distanza, da due bastioni formanti una sorta di tenaglia, sporgenti a punta acuta e allacciati con raccordi curvi arretrati alla cortina della Porta, così da avere gli accessi alle Porte difesi dai tiri diretti contro le azioni nemiche (Ph Claudia Roffeni)

Le difficoltà frapposte dal sito, caratterizzato dalla presenza dei profondi Valloni di S. Agostino e degli Avogadri, e la convinzione che la zona sarebbe stata ugualmente sicura con le vecchie Mura, difese dal potente cavaliere del Belfante dei Rivola e dalla Rocca rinforzata, avevano infatti fatto accantonare fin da allora la fabbrica di quel baluardo che sarebbe stato costruito per ultimo (dopo aver colmato parzialmente i due valloni), solo dopo la morte dello Sforza, e con un nuovo disegno di Giulio Savorgnano (1585-88) (9).

Dalle fortificazioni di S. Agostino al baluardo di S. Lorenzo, nel disegno tratto dalla veduta detta di Alvise Cima

Tutta la porzione orientale della fortezza ossia le fortificazioni di S. Agostino (costituite dalla tenaglia di S. Agostino e dal baluardo di S. Michele), sono ancora in terra (ossia terrapienati), anche se ben fiancheggiati. Forse la generale arretratezza di questa parte è dovuta alla perdurante incertezza riguardante il tracciato e la ventilata possibilità della revisione del circuito, tema ancora vivo in questa zona. Anche la cortina di S. Andrea è ancora in terra.

Dalla cortina di Porta S. Giacomo alla piattaforma di S. Andrea, detta “Spalto delle Cento Piante” (Ph Claudia Roffeni)

Dalla piattaforma di S. Andrea fino alla cortina di S. Grata ci si affida ancora alle mura vecchie, ma il baluardo di S. Giacomo è in pietra fino al cordone e si realizza il pezzo di cortina necessario per impostarvi sopra la nuova Porta di S. Giacomo (le cui pietre si trovano fuori opera e pertanto in pericolo di guasto), mentre a Sud-Ovest si è già fondata la piattaforma di S. Grata e buona parte delle relative cortine.

In primo piano, cortina e piattaforma di S. Grata e in lontananza il baluardo di S. Giacomo (Ph Claudia Roffeni)

 

Baluardo di S. Giacomo (Ph Claudia Roffeni)

Del resto, l’area tra S. Andrea e S. Giacomo è interna ai borghi e al loro muro di difesa, dunque non costituisce una priorità. Chi, infatti, si volesse da qui avvicinare non potrebbe certo aiutarsi con la sorpresa e l’avvicinamento non gli sarebbe facile.

Tra S. Giacomo e S. Andrea (Ph Claudia Roffeni)

Riguardo il tratto che corre fra Porta S. Giacomo e la chiesa di S. Andrea, che prospetta verso il centro della Città bassa, parve opportuno allo Sforza che si potesse evitare l’abbattimento di case e conservare parte della cinta medioevale (quella che comprendeva via degli Anditi e che conserva solo alcune arcate), ma che essa, troppo vicina al nucleo cittadino avrebbe impedito, formata com’era dalla sola cortina, di creare quel tipo a bastionate che era imposto dalla nuova tecnica militare.

Nel tondo, le cinque arcate dell’antico vicolo degli Anditi nella veduta “di Alvise Cima”, con sovrimpresso in nero il tracciato delle mura veneziane. Si tratta di un percorso di ronda (ora quasi totalmente chiuso) facente parte della muraglia difensiva medioevale, tagliato dal percorso della funicolare alla fine dell’800 e di cui restano solo alcuni avanzi di muratura ad arco, appena visibili dietro le recinzioni di giardini privati

Portata così avanti la nuova muraglia di circa 70-80 metri dall’antica, fu anche possibile creare il dosso di terra detto Cavaliere di S. Andrea che doveva risultare analogo a quello di ponente denominato Cavaliere di S. Grata (10).

Tra S. Grata e S. Andrea. Nella realizzazione della fortezza veneziana, le alture retrostanti il circuito murario fornirono sovente un naturale cavaliere, un elemento tattico di rinforzo alla funzione difensiva delle Mura

I due baluardi di San Giovanni e Sant’Alessandro (detti “fortificazioni di S. Alessandro”) sono  ancora in terrapieno.

In primo piano la piattaforma di S. Grata e sullo sfondo il baluardo di S. Giovanni, ai piedi del colle omonimo, a cui fa seguito non visibile nell’immagine, il baluardo di S. Alessandro nell’area di Borgo Canale (Ph Claudia Roffeni)

Sino ad ora si sono spesi circa 216.000 ducati; spendendone altrettanti in quattro o cinque anni si potranno concludere le opere: ma le disponibilità annue di 13.400 ducati non possono garantire il progredire spedito dei lavori ed anzi si spenderà di più, sia perché si dovranno restaurare le opere non ancora incamiciate (l’azione di assestamento e dilavamento del terreno disfa quanto si realizza, creando un notevole danno economico) e sia per mantenere in essere una guardia più numerosa (circa 200 fanti) che comporta un esborso all’erario di 5.000 ducati all’anno. I rapporti tra rettori, conduttori delle opere e governo centrale cominciano a farsi tesi.

LO STATO DELLA FORTEZZA NELLA SECONDA META’ DEGLI ANNI SESSANTA

La seconda metà degli anni sessanta del Cinquecento si apre perciò con la struttura fortemente incompleta, del tutto inattiva e quindi debole. Ma nel 1566, al fine di contenere le spese, il procuratore generale di terraferma, Alvise Mocenigo decide finalmente di accelerare e ultimare le opere appaltando i restanti lavori (11).

A danno della sezione orientale delle mura, fra il 1567 e il ‘68 si lavora in quattro luoghi: al Forte, dove si rialzano muri e si fanno casematte; nella “Fortificazione di S. Alessandro” (baluardi di S. Alessandro e S. Giovanni), dove si porta l’incamiciatura fino al cordone; attorno a S. Grata, dove mancano solo 147 metri per aver fondato quindi definito tutto il fronte.

Il sistema difensivo formato dalla cinta veneziana e dalle preesistenze medievali – 1566-1568

E nonostante alla presenza dello Sforza venga solennemente posta la prima pietra del baluardo di S. Agostino (24 giugno 1567, giorno di San Giovanni), ben presto i lavori si arenano (12): la tenaglia di S. Agostino richiederà circa sette anni per passare dall’opera di terra a quella in muratura (1567-1574), tra continue perplessità e contestazioni.

Tenaglia di S. Agostino, realizzata entro il 1574 (disegno datato 1825)

L’arretratezza dei lavori in quest’area così come l’insistenza di alcuni tratti (monte Pelizzolo, monte della Fara), oltre a costituire un evidente pericolo per la sicurezza della fortezza, contribuisce a rimettere in discussione quanto non è stato ancora materialmente compiuto, tanto che sul finire del 1567 si riapre  la sopita questione della difesa dei borghi, di cui molti capi richiedono l’inclusione, fatto che comporterebbe un enorme allargamento del circuito. Infatti, se il progetto originario (voluto da uomini del calibro dello Sforza, del Martinengo, del Savorgnano) prevedeva di tenersi in alto, richiedendo solo circa 1217 metri per chiudere le Mura da S. Giacomo a S. Agostino, comprendendo i borghi si dovrebbero fondare 4868 metri di muri con dieci baluardi e impegnare (in tempo di pace) non meno di 1500 fanti per la difesa ordinaria: una prospettiva di spesa per il Senato Veneto che chiude ogni altro ragionamento nel merito.

Nonostante le tante incertezze, gli anni sessanta terminano perlomeno con la decisione (3 maggio 1569) di appaltare i lavori del lato sud-orientale della fortezza, quello tra i baluardi di S. Giacomo e di S. Michele, ordinando che delle due piattaforme previste nella tratta dal progetto iniziale (e documentate da un disegno del Museo Correr) ne venga realizzata una sola ma “grande e reale” e si ingrandisca anche il baluardo di S. Michele (a quei tempi detto anche Zanco): opere che verranno realizzate cinque anni più tardi (1574-78).

LA PRIMA META’ DEGLI ANNI SETTANTA

In avvio degli anni ‘70 del XVI secolo, tra coloro che indirizzano gli interventi operativi si avverte già il significato simbolico (non solo “storico” ma anche di prestigio personale) del chiudere il circuito della fortezza, fatto che di per sé  infonderebbe forza all’accelerazione dei lavori; ma d’altro canto è forte la consapevolezza di dover dare la priorità assoluta alle necessità funzionali, che richiedono interventi puntuali. La situazione politica interna e internazionale, che tiene impegnata la Dominante nello Stato da Mar con la sfortunata guerra di Cipro (1570-1573), non favorisce in tal senso una presa di posizione. Dopo un decennio dall’avvio dei lavori e vista la contenuta possibilità di spesa, ci si barcamena tra una cosa e l’altra per qualche anno, scontentando tutti: Bergamo e Venezia.

La dichiarazione giurata del proto Paolo Berlendis (16 maggio 1571) chiarisce la situazione: sono ancora da fondare, tra porta S. Giacomo e l’orecchione del baluardo di S. Agostino (oggi detto del Pallone), “solo” 721 metri, mentre  devono essere ancora innalzati i muri già fondati fino a portarli al cordone (10 metri) per scongiurarne la scalata e, sempre lungo questo tratto, bisogna fare i muri delle cannoniere.

Il baluardo del Pallone (all’altezza del Parco di S. Agostino)

Ma ciò che scoraggia ulteriormente è che ancora nel 1571 la fortezza sia ancor del tutto insicura, avendo solo tre cannoniere finite nel Forte e fior di ducati andranno spesi per finire tutte le altre (le già iniziate ai baluardi di S. Giacomo, S. Lorenzo e di S. Alessandro-S. Giovanni nonché alla piattaforma di S. Grata), oltre alle piazze e ai parapetti.

Ciliegina sulla torta: per la tanto sospirata chiusura della Fara manca ancora il progetto.

Paolo Berlendis, Disegno a schizzo della città con il rilievo dello stato di avanzamento dei lavori delle mura, 1571. Il disegno è accompagnato da una lettera autografa del proto P. Berlendis, datata 16 maggio 1571. Il disegno “presenta Bergamo nel suo stato di organica unitarietà precedente la costruzione delle mura, indicandone l’andamento sia delle antiche mura, sia dei principali tracciati viari e che, con l’esplicita indicazione della piazza del Borgo S. Leonardo contrapposta, nella piana, alle piazze Vecchia e Nuova della Città alta, costituisce un’importante testimonianza del grado di coscienza, che, al tempo, si aveva del bipolarismo della città” (W. Barbero, Per Una storia urbana di Bergamo, in: Hinterland n. 25, marzo 1983, pp. 20-21)

LA SECONDA META’ DEGLI ANNI SETTANTA

Finalmente, a metà del decennio la situazione della fabbrica appare decisamente migliorata: si completa tutta la zona di S. Agostino (tenaglia, porta, fontana monumentale e quartiere militare) e si vede almeno prossima la chiusura del fronte di Sud-Est, che tanti problemi aveva dato in ordine alla sua stabilità, per i continui smottamenti in prossimità della Cortina di S. Andrea, che rendevano lento e pericoloso il lavoro.

L’area di S. Agostino

Nel 1575, a ridosso del chiostro maggiore del convento fa costruire il quartiere di S. Agostino (le cosiddette “casermette”). I quartieri militari della fortezza sorgono vicino alle porte e nei punti in cui si necessita di immediati interventi della guarnigione: quello di di S. Agostino, capace di 100 soldati, suscita satisfation infinita di tutta la città” poiché è finalmente sgravata dall’onere dell’alloggio (una vera e propria beffa considerate le privazioni materiali e morali cui è costretta la popolazione).

Il quartiere militare di S. Agostino (1575), l’unico conservato integro, almeno esternamente, tra tutti quelli che sorgevano nei pressi delle porte, preposti a difenderle e ad ospitare i soldati. E’ costituito da un lungo corridoio su due piani, coperti da falde. Oggi ospita gli uffici dei docenti dell’Università di Bergamo

Sempre nell’area il capitano Giustiniani fa realizzare in muratura la porta (1572-74) e poco dopo (1575-76) la “bellissima fontana di pietra viva grande e onorata in faccia della porta di Sant’Agostino”, mentre il ponte levatoio in legno, che in origine garantiva l’ingresso alla Città Alta, verrà sostituito nel 1780 da un ponte in muratura sostenuto da arcate.

Nella pianta del Macheri, il ponte levatoio in legno, sostituito nel 1780 da un ponte in muratura sostenuto da arcate e nel 1838, in occasione della visita a Bergamo dell’Imperatore austriaco, dalla strada Ferdinandea, oggi viale Vittorio Emanuele, che sale dal centro di Bergamo Bassa per ricongiungersi con Via Pignolo proprio davanti alla porta Sant’Agostino (Complesso di Sant’Agostino: veduta a volo d’uccello, 1660 ca., stampa a bulino disegnata dal bergamasco Giovanni Macheri e incisa a Venezia da Pietro Micheli)

 

La Porta S. Agostino, tuttora accesso principale a Città Alta, rappresentava l’ingresso monumentale per chi giungeva da Venezia. Allo scenografico aulico fondale interno del prospetto di fontana (1575-76), unitariamente e contemporaneamente concepito, si contrappone il semplice volume del “quartiere” addossato al chiostro grande del convento, primo ad essere stato costruito per gli alloggiamenti delle truppe. Autore del dipinto (“Antica Rocca e caserma di S. Agostino a Bergamo”), conservato presso la Galleria del Belvedere di Vienna, è  Marco Gozzi (1759 – 1839)

La tenaglia di S. Agostino, formata dai baluardi del Pallone e di S. Agostino, viene invece completata in muratura nel 1574, e anche se la lunga faccia nord del baluardo del Pallone è sconvenientemente esposta al nemico, ciò non rappresenta un serio problema in quanto questi può colpirla solo dal piano, quindi da lontano.

Baluardo del Pallone (Ph Claudia Roffeni)

L’area di S. Andrea  

Negli anni immediatamente successivi, con la costruzione della piattaforma di S. Andrea, realizzata tra il 1574 e il 78, si procede alla chiusura di questo tratto della cinta. L’estesissima piattaforma, dal perimetro complessivo di cresta di 291,50 metri, più che doppio rispetto a quello delle altre piattaforme, è certamente concepita secondo un’ottica “rappresentativa”, tanto da sostituire le due piattaforme previste inizialmente nella tratta e portare appunto alla decisione (3 maggio 1569) di realizzarne una sola “grande et reale”: la sua alta muraglia, di 22.88 metri dopo il rialzo ottocentesco, viene eretta più per far “spettacolo di pompa”- con i suoi pezzi d’artiglieria sempre scoperti, ma anche sempre inattivi, verso sud in direzione di Milano – che per una reale esigenza e volontà di difesa (13).

Del resto il versante, ben protetto tra le mura dei borghi, è ritenuto particolarmente sicuro, sia per la pendenza del colle che per il naturale cavaliere alle sue spalle (la parte superiore del “monte Pellizzolo”).

L’altissima ed estesissima piattaforma di S. Andrea. La muraglia raggiunge con il rialzo ottocentesco 22,88 metri, risultando la più alta dell’intera cinta (Ph Claudia Roffeni)

La lunga piattaforma, che dal 1795 diviene Spalto delle Cento Piante, viene collegata da una cortina di dimensioni altrettanto inusitate (139 metri) al baluardo di S. Michele: quattro anni di lavori particolarmente ardui per i continui dissesti dovuti all’entità di profondissimi scavi, che comportano il crollo di numerosi edifici.

Piattaforma e cortina di S. Andrea, ancora prive del traforo per la funicolare

Ad ulteriore sostegno della cortina, che poggia sulle fondamenta più profonde dell’intera fortificazione, vengono realizzati sei archi di scarico, tuttora visibili nel viale sottostante, anche se diversi per tamponature e nuove erezioni. L’instabilità del terrapieno doveva essere aggravata dall’avere al suo interno un “pozzo di acqua viva sortiva profondissimo” e dal fatto che tutte le sue pertinenze fossero bagnate dalle acque di scolo provenienti dalla fontana di porta Penta (Porta Dipinta).

Già nel corso della dominazione Veneziana, su questo spalto verrà spianato il cavaliere per agevolare il transito delle carrozze tra Porta S. Agostino e Porta S. Giacomo, prefigurando la costruzione del Viale delle Mura, che, iniziato nel 1829, raggiungerà Colle Aperto solo nel 1841.

Lo “Spalto delle Cento Piante”: nel 1795 un decreto comunale ufficializza l‘uso civile della piattaforma di S. Andrea, programmandone i “deliziosi passeggi e giardini pubblici”, che ne faranno la prima passeggiata pubblica di Bergamo. Dalla fine dell’Ottocento, la cortina dello Spalto delle Cento Piante verrà attraversata dalla funicolare per Città Alta

Infine, il pianoro sottostante il baluardo di S. Michele (preposto anche alla difesa della piattaforma di S. Andrea) viene dirupato per scongiurare un attacco da parte dell’assediante, che avrebbe potuto battere la porta di S. Agostino e i due baluardi che gli fanno tenaglia (S. Michele e S. Agostino).

Baluardo di S. Michele (Ph Claudia Roffeni)

Con la chiusura di questo tratto della cinta il presidio viene ridotto a 50 fanti e il proto, ora non più necessario, licenziato: a 17 anni dall’avvio dell’opera, con la tanto sospirata chiusura della fortezza sul fronte di Sud-Est il capitano Tommaso Morosini può relazionare orgogliosamente al Senato (25 settembre 1578) che “Hora la fortezza è finita da serar….per gratia de Dio la fortezza è cinta tutta de muraglia nuova, eccetto però  sotto la Rocca al Monte della Fara” : si tratta cioè del compimento del circuito come previsto sino ad allora, e dunque ancora privo della chiusura della Fara (per ora considerata opera molto secondaria e costosa) ed entro il quale ogni baluardo è provvisto di un retrostante naturale cavaliere.

Bergamo e il suo contesto territoriale, nella carta topografica della fortezza della città e dintorni, disegnata da G. Sorte intorno al 1575 (Biblioteca Marciana-VE)

Finalmente, anche le difese esterne possono entrare nelle preoccupazioni dello Sforza: dalla Cappella, il cui problema si fa sempre più urgente, a quello del dosso di S. Domenico (“il Fortino”), che essendo assai prossimo al circuito  dovrà essere adattato a rivellino, anteposto com’è al baluardo e alla Porta di S. Giacomo – i talloni d’Achille delle Mura – e anche per il fatto di dominare a cavaliere Borgo S. Leonardo.

Sul promontorio dall’Ottocento occupato da villa Bizioli, noto come “Fortino”, per ovviare all’intrinseca debolezza del prospiciente Baluardo di S. Giacomo, troppo esposto ai tiri di artiglieria, viene realizzata una piattaforma fortificata, eguagliando il muro tutt’intorno e livellando la piazza. Si tratta di una difesa avanzata, indipendente dal circuito murario principale, che ricorda per certi versi la tipologia di un rivellino (una fortificazione indipendente generalmente posta a protezione della porta di una fortificazione maggiore), senza averne però l’autonomia difensiva. La fortificazione, oggi irriconoscibile, è terminata nel 1585, come attesta una lapide sul lato nord (le sue possenti mura si possono vedere solo percorrendo il vicolo San Carlo). Per la sua realizzazione viene demolito il complesso conventuale dei SS. Stefano e Domenico (nel tondo)

 

Il Fortino nell’Ottocento (nel tondo), con accanto Villa Bizioli

 

Tra il 1580 e il 1582 sono costruite le due polveriere del Forte di S. Marco, tra Colle Aperto e Porta S. Lorenzo, poste al di fuori del tiro dei cannoni e lontane dall’abitato. Nell’immagine, la polveriera nella valletta di Colle Aperto, oggi di proprietà privata (Ph Claudia Roffeni)

L’ULTIMA FASE DELLA REALIZZAZIONE DELLE MURA: “NETTAR I FIANCHI, ET CAVAR LE FOSSE” 

Anche se per lungo tempo ancora sussisterà la preoccupazione del chiudere il perimetro della fortezza e ultimare la dotazione degli apprestamenti interni, con l’ultimazione della cinta è giunto il momento dell’ultima fase della realizzazione.

La situazione nel complesso si presenta molto caotica, con parti fatte e altre da completare, tanto che ancora nel 1578 è ancora in corso il processo di finitura della fortezza, per portare al cordone muri e finire piazze. E certamente le problematiche murarie legate alla funzionalità operativa della macchina bellica sussisteranno ancora a lungo.

Ma la priorità è ora quella di configurare le difese esterne ai baluardi, a partire dalla predisposizione della fossa per la quale il Senato, riconoscendo come sufficientemente avanzati i lavori murari ha ordinato l’avvio sistematico dello scavo (26 settembre 1575), che consiste in 15.000 pertiche di terreno, per una larghezza media 6 piedi.

Perlomeno nei luoghi più sensibili come il Forte, questa dev’essere stata da tempo già rudimentalmente tracciata di pari passo con l’innalzamento dei baluardi, ma esternamente alle “muraglie”, e quasi a ridosso, persistono grossi accumuli di terreno (tali da costituire una minaccia in quanto tolgono visibilità ed efficacia al tiro), per la cui asportazione i territori soggetti, onde evitare costi accampano scuse, avviando contenziosi che ritardano di molto gli interventi.

Lungo la faccia est del baluardo di Valverde, l’accentuata pendenza ha fatto di questo lato l’unico esempio conservato di fossa terrazzata: una serie di muri disposti ortogonalmente a scarpa e controscarpa suddivide lo spazio in piazzuole successive per impedire i guasti delle acque alle opere murarie (Ph Claudia Roffeni)

 “Nettar i fianchi, et cavar le fosse” tutt’attorno alla fortezza è dunque d’ora in avanti una delle esigenze più importanti: un’operazione costosa, che si protrarrà molto nel tempo, non solo a causa del complesso meccanismo burocratico di affidamento e ripartizione dei lavori, ma anche per la particolarità del sito, dove spesso si incontrano banchi rocciosi (“durissime corne”), o dove la difficoltà di realizzare vere e proprie fosse richiede soluzioni alternative.

L’opera parte speditissima, benché i territori , ai quali per antica consuetudine spetta il costo del guasto e dello scavo, si rifiutino di pagare l’asportazione di quanto non sia strettamente terra (e cioè roccia e materiali come trovanti e conglomerato, che ritengono di pertinenza governativa). In ogni caso, se con il Memmo sono già 6.100 pertiche di terreno quelle rimosse durante i lavori, con il Morosini se ne aggiungono altre 4.652, rimanendone un totale stimato di 6.348.

LA QUESTIONE DELLA MILIZIA, DEL MUNIZIONAMENTO, DEL VETTOVAGLIAMENTO E IL PROBLEMA DELL’ACQUA

In questo scorcio degli anni settanta, mentre la fortezza inizia a caricarsi di funzionalità operativa, si evidenzia la sempre maggiore importanza che sta assumendo la questione degli armati e dell’armamento: questione annosa per la gestione della fortezza, se ancora nel 1585 (relazione di fine mandato del capitano Michele Foscarini) precede lo stato della “importantissima fortezza”.

Si notano alla custodia della fortezza numerosi avvicendamenti e indiscipline, con la rimozione di non pochi capitani; l’impressionante numero delle diserzioni dall’avvio del cantiere (6100 uomini), la dice lunga sulla povertà delle paghe e la durezza del vivere, e ciò nonostante in caso di arresto il rischio sia quello di andare “a vogar il remo per cinque anni” (numerosi sono i libelli diffamatori appesi in varie parti della città a ridicolizzare Venezia) (14).

Le necessità dei pochi bombardieri (“scolari”), reclutati in città e non pagati, sono tenute particolarmente in considerazione (“accarezzati”) dato l’importantissimo ruolo cui devono assolvere in caso di bisogno. Per loro si allunga il bersaglio, si sistemano la polverista in Rocca e la casa del salnitraio, si realizzano due “tezze” (tettoie) a Osio Sotto e a Spirano per la conservazione delle terre necessarie alla formazione del salnitro.

Annota il capitano Foscarini nel 1585 che la guarnigione deputata alla difesa della fortezza è formata da 310 soldati – agli ordini di un governatore e di sei capitani -, dislocati quasi a livello simbolico in due punti nevralgici della fortezza, la Cappella e la Rocca, “anche perché lo stato dei lavori è ormai tale che più di un attacco diretto e in forza è da temere un’occupazione per colpo di mano o per tradimento. Tante fortificazioni si sono in questo modo banalmente perse. Preoccupazione ancora più grande è la relativa affidabilità della guarnigione. Infatti, la maggioranza dei soldati è di forestieri, in sostanza mercenari attratti solo dalla paga” (15).

In realtà, ogni momento della vita militare della Fortezza fu caratterizzato dalla cronica scarsità della milizia e dall’inefficienza dell’armamento, a dimostrazione del fatto che il grande antemurale voluto da Venezia doveva sostanzialmente fungere da deterrente (anche e, forse soprattutto, psicologico) a scala territoriale, ai fini del mantenimento della pace.

Il vettovagliamento, parte integrante dei disposti e degli impegni relativi alla munizione, nel 1585 consiste in grani (miglio e segale), conservati in Cittadella in quantità tale da garantire la sopravvivenza degli abitanti e dei soldati della fortezza (6000 persone), per quasi un anno.

Relativamente al problema dell’acqua, sempre in questo periodo si è consci che un serio assedio toglierebbe del tutto l’apporto esterno attraverso gli acquedotti, che sarebbero facilmente intercettati e tagliati. Messe a secco le fontane della città, si sarebbe potuto contare sulle sole tre significative sorgenti presenti entro la fortezza: il Vàgine, la Boccola, il Lantro, allora provviste di acque abbondanti e quindi ritenute sufficienti al bisogno, tranne che in periodo di siccità.

Sempre in ragione di una maggiore protezione delle porte viene fatta spostare in posizione più visibile la strada fuori Porta S. Lorenzo, che è realizzata con il concorso della Valle Brembana.

Porta S. Lorenzo e la valletta di Valverde, ancora nell’Ottocento occupata da un’incredibile distesa di gelsi (Racc. Gaffuri)

UNA DEROGA PER IL BENE DELLA CITTA’

Nel 1581, nel consiglio comunale venne avanzata la proposta di utilizzare gli spalti delle mura per piantarvi dei gelsi,  al fine di compensare le perdite che erano state spazzate via dall’imponente fabbrica delle Mura e assicurare alla città una fonte di reddito. Approvata la richiesta, nel  1583, ancor prima del completamento dell’opera di difesa, il terreno attorno alla muraglia, lungo la fossa e sulla spianata, cominciò ad essere sfruttato ad uso agricolo, come attestato da una relazione podestarile di fine mandato.

Attorno alla città murata si venne quindi a creare una fitta muraglia verde scandita da filari di gelsi, inframmezzata da ortaglie e qualche vigneto, posta a debita distanza dalla fortezza nel rispetto del non latius. Parte del ricavato andava a foraggiare quelle scorte di grani (miglio e segale) conservate in Cittadella, che era talmente colma da essere a rischio di crollo.

L’episodio anticipava di gran lunga l’uso civile degli spalti una volta smilitarizzate le Mura con l’avvento dei Francesi.

Pietro Ronzoni, Complesso di Sant’Agostino: veduta meridionale dal Baluardo di San Michele, 1837 (Milano, Quadreria dell’800).

LO STATO DELLA FORTEZZA NEL 1585 

Alla partenza del capitano Foscarini (1585) il cantiere della fortezza si trova in una situazione abbastanza ben definita. Bisogna spendere ancora 110.000 ducati per finire completamente la fortezza, compresi il baluardo della Fara, il rafforzo della Cappella e l’ultimazione di tutto quanto ancora manca.

P. Berlendis, Disegno acquarellato del sistema fortificato di Bergamo alta, 1585

Complessivamente la murata del tutto finita viene misurata in oltre 4000 metri, ed è composta da nove elementi tra baluardi, piattaforme e tenaglie.

Lo stato della fortezza nel 1585, circa quattro anni prima del completamento del baluardo della Fara. Mancano alcune rifiniture e alcuni tratti di fossa, soprattutto dove la roccia durissima crea qualche problema (tra il baluardo di S. Giovanni e la piattaforma di S. Grata e tra il bastione e la Porta di S. Agostino). C’è ancora molto da fare nei baluardi di S. Pietro, Valverde, S. Lorenzo, dove vi sono alcune piazze da finire, tutta la muraglia da fare sopra il cordone e terrapienare dove necessario. Si stanno completando le piazze dei baluardi di S. Giacomo e Sant’Agostino ma mancano ancora tutte le traverse e quasi tutti i parapetti. A Porta S. Giacomo va fatto il ponte della porta nuova, che essendo stata realizzata molto in basso, troverà la sua definitiva, attuale, posizione nel 1593; restringere le strade di accesso per non rendere troppo agevole la salita alla fortezza ed infine dirupare tutti i terreni tra la fossa e il limite di edificabilità (la spianata), eliminando ogni pianoro che consenta l’installazione di pezzi di artiglieria o l’accamparsi

LA CHIUSURA DEFINITIVA DEL CIRCUITO

Venuto a morte il 5 febbraio 1585 il governatore generale conte Sforza Pallavicino, Venezia nomina alla guida della fabbrica Giulio Savorgnano, uomo di altrettanta concreta esperienza, con il quale si accelera la soluzione per quanto ancora da realizzare, a partire dalla definitiva chiusura del circuito murato.

La priorità è ora chiudere per intero con bastionatura la fortezza, dando così disegno compiuto all’opera e rispondendo non solo in termini di saggezza ai problemi di sicurezza e di costo che il mantenere attivi i vecchi muri medioevali rappresentava. Ciò era nella logica delle cose: “improvvisamente” tutti scoprivano quanto inconsistenti fossero o muri e facile la presa della Rocca, che pure aveva onorevolmente servito da presidio nel tempo in cui ben altre e altrove erano le preoccupazioni.

Baluardo della Fara (Ph Claudia Roffeni)

Giulio Savorgnano, nella sua qualità di progettista e di direttore dei lavori, provvede con abilità a chiudere il circuito bastionato, realizzando tra il 1585 e il 1589 quel baluardo della Fara che, collegato alla Tenaglia di S. Agostino tramite la Cortina della Fara sancisce la reale “chiusura” del circuito murario veneziano.

Il disegno acquarellato eseguito da Giulio Savorgnano, databile tra il 1586 e il 1587, rappresenta lo stato di avanzamento dei lavori al Baluardo della Fara. Oltre al progetto, Savorgnano ne curò anche l’esecuzione

 

Giulio Savorgnano – Il tracciato delle mura veneziane, 1587 circa

L’inaugurazione del baluardo avviene nel 1588, quando viene scoperta la lapide a ricordo del momento e del luogo in cui si poneva l’”ultima” pietra. Illuminata dal sole del mattino, la lapide è apposta sulla faccia orientale del baluardo stesso, che porta le armi dei rettori Andrea Gussoni e Paolo Loredano.

Baluardo della Fara, stemmi e lapidi di fine lavori

Il 17 luglio 1590 il capitano Alvise Grimani nella sua relazione finale può dichiarare che la città è tutta serrata con baluardi e i suoi membri tutti terrapienati, compite le piazze, i parapetti e le traverse….la fortezza col circuito di tre miglia è bellissima”: e si poté considerare allora come l’opera difensiva più imponente che Venezia avesse costruito nel suo territorio di terraferma.

Mura di Bergamo - Claudia Roffeni
La fortezza di Bergamo da meridione (Ph Claudia Roffeni)

 

Entro il 1590 erano ultimati gli 11 baluardi e le 5 piattaforme, 5 porte, 32 garitte, 100 bocche di cannone e 2 polveriere: la fortezza rimaneva preventivamente isolata grazie alla creazione di una “fascia di rispetto”, non edificabile, affinché la guarnigione potesse vigilare l’eventuale annidamento di truppe nemiche e il conseguente assalto. Si noti anche l’indicazione dei cavalieri e della strada-coperta (“Nomenclatura dei singoli settori che costituiscono il perimetro delle Mura erette dalla Repubblica Veneta  negli anni 1561-1590”, dallo studio di E. Fornoni, “S. Agostino e le nuove fortificazioni in Bergamo”. Gaffuri e Gatti, 1883)

Restava ora da perfezionare e da rifinire tutte le opere dal punto di vista strettamente militare e della logistica, il che comportò il protrarsi delle operazioni per altri trent’anni anni, causando ulteriori disagi alla popolazione.

Le difese esterne della fortezza veneziana di Bergamo

“RIFINIRE” LE MURA

Ci vollero in totale sessantasei anni per rifinire e completare la vastissima opera muraria e per poter finalmente dire di aver messo la fortezza di Bergamo “a perfetta sicurezza”: molto più di mezzo secolo di estenuante lavoro per un’opera costata un milione e mezzo di ducati e che mai subirà un sol colpo di cannone.

Dopo la chiusura della cinta nel 1588 infatti, le correzioni (lo spostamento di Porta S. Giacomo negli anni 1592-93, la chiusura di Porta S. Lorenzo nel 1605 e la riapertura in sito di un “portello” sovrapposto progettato dal Tensini nel 1627; inoltre, la costruzione, nel 1640, del ponte in muratura di Porta S. Agostino), i completamenti interni e soprattutto esterni relativi in particolare alla Cappella, si protrarranno fino al terzo decennio del Seicento, chiamando in causa vecchi e nuovi tecnici.

Costruita negli anni Settanta del Cinquecento, essendo posta troppo in basso , Porta S. Giacomo fu smontata per poi essere rimontata nell’attuale posizione solo nel 1593 (data ufficiale d’inizio cantiere: 27 gennaio 1592): “…edificata di bianchi marmi, indi riuscirà più bella et maestosa di tutte le altre che si mirano nella fortezza”. Il viadotto in pietra fu costruito solo più tardi, nel 1780 (Alvise Contarini Podestà). (Ph Claudia Roffeni)

 

Costruita nel 1563, Porta S. Lorenzo fu murata per motivi di sicurezza nel 1605 e poi ricostruita al di sopra nel 1627 con la realizzazione del portello di S. Lorenzo su progetto di Francesco Tensini (Ph Claudia Roffeni)

La sua progettazione è guidata dalla stessa logica di “parata” della piattaforma di S. Andrea. Lo smagliante emblema in marmo di Zandobbio della Terraferma veneta differenziato fin dall’inizio nell’aulicità del disegno e del materiale (non nelle dimensioni e nello spirito di plastica sodezza) dagli altri tre ingressi monumentali disposti in corrispondenza delle principali direttrici del traffico urbano e territoriale. La collocazione definitiva attuata con la consulenza del Lorini accentua il risalto urbanistico e simbolico di questa Porta meridionale, rivolta in direzione di Milano, alta e scoperta sul colle contro il parere di trattatisti come il Lanteri che le porte non dovessero essere viste dal nemico accampato. In questo caso, per il fondamentale significato di fondale rappresentativo, anche la perdita nell’Ottocento del locale destinato al corpo di guardia e degli adiacenti quartieri trova un’anticipazione addirittura cinquecentesca: fin da allora lo spazio teoricamente riservato a servitù militare fu eroso per ridurre le demolizioni degli edifici a monte.

Negli anni 1594-95 si realizzano i due quartieri di Porta S. Giacomo, costituiti da due casermette che si fronteggiavano all’imbocco dell’omonima via e poste a presidio della Porta, anch’essa in parte destinata al corpo di guardia. I vani interni furono abbattuti nell’Ottocento (Ph Claudia Roffeni)

Il quartiere della Fara Alta. fu invece realizzato negli anni 1619-25.

Dettaglio della fortezza, tratto da Disegno della città et borghi di Bergamo (1626), conservato a Venezia nell’Archivio di Stato (Ter 109). Oltre al sistema difensivo appaiono anche gli edifici cittadini di maggiore importanza

I LAVORI TRA LA CAPPELLA E IL FORTE

All’interno della fortezza, l’area tra il Forte e la Cappella è uno di quei luoghi  soggetti ad essere “battuti” dall’assediante, poiché qui è facile piantare artiglierie, senza contare che la valle di Castagneta consente di accampare comodamente e al riparo un numeroso contingente. Ciò rende necessario fortificare convenientemente la Cappella (delibera del Senato del 29 agosto 1588), che in mano al nemico farebbe da cavaliere a tutta la fortezza richiedendo per un solo assediante ben quattro difensori. La Cappella verrà dunque destinata ad ospitare fino a 500 soldati e 10 pezzi di artiglieria.

Nel 1607 Si decide di rafforzare ulteriormente la Cappella e il Forte di S. MarcoNonostante le contestazioni, i molti consulti e progetti correttivi elaborati a più riprese dopo la morte dello Sforza, il Forte rimane sostanzialmente quale il Pallavicino l’aveva fin dall’inizio concepito; ai successori tocca ora l’allargamento e il potenziamento della fossa (costruendo cioè una nuova controscarpa e alzando i parapetti) e la costruzione della strada coperta che lo collegherà alla Cappella rafforzata e dove anche i terrapieni sono stati potenziati.

Negli anni 1613-16 si completano perciò i lavori alla Cappella, incamiciando la strada coperta e realizzando due piazze (piattaforma verso il Corno e piattaforma verso S. Gottardo).

La freccia rossa indica la strada coperta tra la Cappella e il Forte di S. Marco, con il quale si doveva collegare tramite una sortita nel Baluardo Pallavicino

Negli anni 1621-26, sempre alla Cappella si realizza un ulteriore rafforzamento per mano degli ingegneri Francesco Tensini e Marcello Alessandri: si costruisce in pietra la tenaglia verso il monte Corno e il baluardo Mocenigo verso S. Vigilio, dando forma poligonale al fortilizio.

Disegno del forte di S. Vigilio, Malacreda, 1664

 

La cinta bastionata veneziana raffigurata nel 1664 da Cesare Malacreda. Sono evidenziati il solo tracciato murario e le strutture difensive al suo interno (ad esempio, il Forte di S. Marco a nord-ovest, posto in relazione alla “Cappella”, e la piazza o “Fortino” di S. Domenico a sud-ovest): l’annullamento del tessuto edilizio ha il compito di far risaltare l’aspetto marziale della città (disegno conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia)

Se la grande planimetria dipinta da Alvise Cima restituisce ai contemporanei una città armoniosa in ogni sua parte, la veduta dell’incisore Stefano Scolari, realizzata nel 1680, si presenta molto differente: una differenza anche di atmosfere, determinata proprio dalla presenza della poderosa cerchia murata. Il disegno è molto particolareggiato: alle mura della fortezza sul colle si agganciano quelle che circondano i borghi, le Muraine con bocche da fuoco di circa cento cannoni in dotazione lungo tutto il perimetro della fortezza, garitte, quartieri militari, polveriere, le quattro porte ben custodite e con i ponti levatoi che potevano essere alzati alla minima minaccia. L’immagine era dunque di una Bergamo dove i baluardi erano il segno della forza e del dominio da parte di Venezia, un volto militaresco e arcigno. I dettagli sono accurati e consentono di orientarsi nella lettura della città che trova al piano lo spazio necessario per le sue attività e la sua economia. Ma l’accuratezza del disegno non uguaglia il fascino della raffigurazione del secolo precedente.

Veduta di Bergamo, Stefano Scolari – Venezia, 1680 circa. Si legge con estrema chiarezza la dotazione militare: i forti, i baluardi, i cannoni, le garitte, sono resi con toni così realistici da costituire un chiaro ed esplicito avvertimento

Il 25 dicembre 1796 i Francesi entrano in Bergamo e nella sua fortezza, non trovando alcuna resistenza e il 12 maggio 1797 la Serenissima Repubblica di Venezia ha fine.

Le mura veneziane di Bergamo non ebbero mai l’opportunità di un collaudo bellico, nemmeno nel 1797 quando giunsero i napoleonici a seguito del disfacimento della Repubblica di Venezia dopo il Trattato di Campoformio.

Passeggiata sulle Mura (Ph Claudia Roffeni)

Oggi, per la bellezza panoramica che la rende universalmente nota, dopo l’impianto nel periodo napoleonico della folta alberatura che recinge, come un verde anello, la secolare città, l’antica fortezza veneziana a Bergamo è divenuta la romantica passeggiata di quanti, seguendo l’ampio anello delle mura, vedono aprirsi la varietà delle vedute sull’armonioso e sfumato paesaggio della pianura lombarda.

 Note

(1) Francesco Maria della Rovere, capitano generale della Repubblica, nel 1525 ritiene “impossibile […] fortificar” la città; l’anno successivo, dopo un accurato sopralluogo, raccomanda un adeguato rafforzamento delle Muraine; opinione condivisa dal podestà Costantino Priuli, che nel 1532 propone di riparare le mura esistenti (e cioè “che le mura […] le quali in più lochi sono ruinate […] siano reffate et redutte a tal termine che non si possa entrar se non per le porte”). Il podestà Vincenzo Diedi, ancora nel 1541, definisce Bergamo “città indifesa” per la debolezza delle mura e suggerisce che “senza enorme spesa e molte difficoltà si potrebbe rendere in sicurezza”. Di diverso parere il capitano Francesco Bernardo che, nel 1553, consiglia di fortificare i luoghi di pianura: “Martinengo et Roman […] sono in sito molto forte, et atte ad esser fatte con non molta spesa inespugnabili”. Nel 1554 i Rettori della città richiamano sulla scarsa sicurezza delle Muraine. Il dibattito giunge a conclusione quando, nel 1559, il capitano generale Sforza Pallavicino, favorevole al rafforzamento delle difese in città, propone la costruzione di una nuova cinta muraria sul colle. A nulla valgono le osservazioni critiche del capitano uscente Pietro Pizzamano (1560): “qualche fortezza sul piano del territorio, overo agli confini […] alcune fortezze per frontiera […] frenariano il corso degli inimici”; stima inoltre “che l’illustrissimo Signor Sforza non habbia visto queste frontiere”; e che la costruzione di una nuova cinta comporterebbe dannose conseguenze per i cittadini: “dovendosi fortificare saria necessario a ruinare de molte loro case”. Nel gennaio 1561 il podestà Diedi definisce Bergamo “città indifesa”. Il 13 luglio del 1561 Sforza Pallavicino ribadisce nella sua relazione al Senato che “Bergamo è facile a essere fortificata et con poca spesa rispetto alla grandezza sua”, scartando così l’ipotesi di rafforzare le Muraine o le fortezze della pianura e quattro giorni dopo il Senato approva il progetto dello Sforza di fortificare Bergamo “nella forma picciola” (fortificare solo la parte alta della città senza comprendere i borghi), scartando così l’ipotesi di rafforzare le Muraine. Il 29 luglio il Senato comunica ai Rettori di Bergamo la decisione – già presa – di fortificare la città.

(2) Graziella Colmuto Zanella, Le Mura. In: “Progetto il Colle di Bergamo”, Bergamo, 1988, Pierluigi Lubrina Editore. Osserva a tal proposito G.M. Labaa che “la prima opzione sarebbe andata ad includere non solo i borghi (eccetto il borgo di Canale), ma anche i sottoborghi (S. Caterina e Palazzo). Nella seconda versione si escludono i sottoborghi oltre il torrente Morla” (GianMaria Labaa, Bergamo città fortezza. Fatti e antefatti. In: Renato Ferlinghetti, GianMaria Labaa, Monica Resmini, “Le Mura, da antica fortezza a icona urbana”, Bolis Edizioni, Azzano S. Paolo, Bg. Anno 2016).

(3) La consapevolezza dei punti deboli del progetto e delle insidie del sito è chiara sin dall’inizio all’Orologi, che “nella sua circostanziata relazione dell’8 novembre 1561 prende decisamente le distanze dalle scelte fondamentali dello Sforza Pallavicino, quali l’esclusione della Cappella o della zona di S. Domenico, mentre raccomanda di non aggiungere errore ad errore, sopprimendo quel baluardo della Fara, di cui egli stesso aveva piantato le stagge, che avrebbe fiancheggiato la tenaglia di S. Agostino, certo troppo bassa ed avanzata” (Graziella Colmuto Zanella, Le Mura, Op. Cit.).

(4) Relazione dei cap. Grimani e Venier del 1590. La cifra è equivalente a 155 milioni di euro odierni, stima effettuata sulla base del valore del ducato veneziano, una moneta d’oro del peso di 3,44 grammi a 24 carati (per un totale quindi di 5.160 kg d’oro), moltiplicata per la quotazione attuale dell’oro di 30€/g.

(5) GianMaria Labaa, Bergamo città fortezza. Fatti e antefatti. Op. Cit.

(6) Donato Calvi, 1676.

(7) A. Salvioni, 1829.

(8) Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso. In: “Bergamo verso l’Unesco – Terra di San Marco. Da frontiera di pietra a ‘paesaggi vivi’ di pace”. Grafica & Arte, 2016.

(9) Graziella Colmuto Zanella, Le Mura, Op. Cit.

(10) L. Angelini, “Le mura veneziane di Bergamo”, La Martinella, Milano, 1954.

(11) Dal 1566 Astorre Baglioni è il nuovo governatore della piazza e in questo stesso anno fa visita al cantiere il procuratore generale di terraferma, Alvise Mocenigo.

(12) A questa data si sono spesi 250.000 ducati. La guarnigione è ridotta a 520 soldati.

(13) Le due piattaforme previste inizialmente ma non realizzate, sono documentate da un disegno del Museo Correr reso noto da Concina (Graziella Colmuto Zanella, Le Mura, Op. Cit.).

(14) Agli operai indigenti, impegnati nei lavori di fortificazione della città (i guastatori e gli spezzamonti), la MIA versava un’elemosina prestabilita tramite dei bollettini, sorta di buoni in natura da riscattare nelle sue sedi (Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso. Op. Cit.).

Riferimenti  

Devo l’ossatura del post a: GianMaria Labaa, Bergamo città fortezza. Fatti e antefatti. In: Renato Ferlinghetti, GianMaria Labaa, Monica Resmini, “Le Mura, da antica fortezza a icona urbana”, Bolis Edizioni, Azzano S. Paolo, Bg. Anno 2016.

Graziella Colmuto Zanella, Le Mura. In: “Progetto il Colle di Bergamo”, Bergamo, 1988, Pierluigi Lubrina Editore.

Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso. In: “Bergamo verso l’Unesco – Terra di San Marco. Da frontiera di pietra a ‘paesaggi vivi’ di pace”. Grafica & Arte, 2016.

Walter Barbero, Bergamo, Electa Editrice, 1985, Milano.

La conquista veneziana di Bergamo e la decisione di trasformarla in “città fortezza”: le vicende storiche

Il leone di San Marco, qui dipinto sull’antica Porta di San Lorenzo, riporta all’evangelista Marco, rappresentato dalla figura del leone alato con un libro aperto che reca le parole PAX TIBI, MARCE EVANGELISTA MEUS (“Pace a te, Marco, mio evangelista”) e poggia le zampe anteriori sulla terraferma e le posteriori nel mare; è il simbolo che caratterizza le porte di accesso alla città (inizialmente affrescato anche su quelle medioevali) e i maggiori palazzi pubblici (Palazzo della Ragione, Palazzo del Podestà, Loggia Nuova) e privati

 Fin dal XIII secolo il comune di Bergamo aveva costruito il suo dominio sul “contado”, ma nel 1331, nel momento in cui appare ormai forte la supremazia della città sul suo territorio, Bergamo accetta di sottomettersi a un signore, il re Giovanni di Boemia, perdendo la propria autonomia. Da quel momento Bergamo sarà sempre sottoposta a un dominio esterno: visconteo fino al primo quarto del XV secolo, e quindi veneziano, con le brevi parentesi della signoria malatestiana agli inizi del XV secolo e del governo spagnolo-francese subito dopo la sconfitta veneziana di Agnadello nel 1509.

Il Fontanone visconteo. Gian Galeazzo Visconti, già vicario imperiale e signore della capitale lombarda, aveva ottenuto il titolo di Duca di Milano l’11 maggio 1395 mediante diploma imperiale da Venceslao di Lussemburgo. Con un secondo documento datato 13 ottobre 1396 i poteri ducali furono estesi a tutti i domini viscontei e nei centri più significativi del ducato. Gian Galeazzo ottenne la patente per inquartare il biscione visconteo con l’Aquila imperiale nella nuova bandiera ducale. L’aquila, pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero, compare anche nella lapide, opera di uno scultore comacino appartenente alla scuola di Ugo e Giovanni da Campione, apposta in una nicchia sotto il Fontanone, la grande cisterna d’acqua eretta nel 1342 da Giovanni e Luchino Visconti nell’allora centro politico, religioso e commerciale della città.  Il nome dei Visconti deriva infatti dal latino vice comitis, che significa “vice conti”, vice – colui che fa le veci e conti – comites (con-te) indicava colui che stava con qualcuno, cioè con l’imperatore: per i Visconti con l’imperatore del Sacro Romano Impero. La famiglia dei Visconti era quindi colei che in Italia rappresentava l’Impero, tanto da agognare allo status di primi Principi italiani, che a fatica Gian Galeazzo ottenne nel 1402

Nel corso delle guerre per la supremazia regionale, perdurate per buona parte della prima metà del Quattrocento tra i maggiori Stati regionali dell’area italiana (Repubblica di Venezia, Ducato di Milano, Repubblica di Firenze, Stato Pontificio e Regno di Napoli), Bergamo è una pedina nel gioco diplomatico e militare tra il Ducato di Milano (che, all’apice della sua potenza, la possiede dal 1332) e la Repubblica di Venezia, che, intenzionata ad espandersi nell’entroterra lombardo, muove contro Milano per raggiungerne il definitivo controllo.

Sarà solo con la pace di Lodi, raggiunta nel 1454, che verrà sancita quella “politica dell’equilibrio” fortemente voluta dalla Repubblica di Firenze sotto Lorenzo de’ Medici, per porre una sorta di bilanciamento fra i vari ducati, regni e repubbliche della penisola. Ma con la morte di questi nel 1492 quell’equilibrio instabile andrà in frantumi, creando le condizioni per l’invasione straniera che dagli inizi del Cinquecento vedrà la penisola percorsa in lungo e in largo dagli eserciti Francesi, Spagnoli e Imperiali, decisi a spartirsi parte dei territori italiani e a porre fine alla crescente potenza della città lagunare, tale da sembrare l’unica in grado di unificare il nord sotto un’unica insegna.

Le guerre si estingueranno solo con la pace di Cateau Cambrésis (1559) e con la rinuncia alla politica espansionistica della Repubblica di Venezia, che da questo momento s’impegnerà a garantire la sicurezza dello Stato di Terraferma attraverso un un piano unitario di fortificazioni per la progettazione della difesa, all’interno del quale la Bergamasca rappresenta la punta più avanzata ad occidente.

Il Ducato di Milano e i domini dei Visconti all’inizio del XV secolo. I domini viscontei erano giunti all’apice della massima potenza con Gian Galeazzo, giunto al potere nel 1385. In seguito si ridussero progressivamente per effetto della lunga serie di guerre contro le Repubbliche di Firenze e di Venezia e contro lo Stato Pontificio, che si protrassero per tutta la prima metà del Quattrocento. A Gian Galeazzo succedette il figlio, Giovanni Maria (assassinato a Milano nel 1412), seguito dal fratello minore Filippo Maria (ultimo signore di Bergamo), che riprese la politica espansionistica perseguita da Gian Galeazzo entrando in contrasto con la Repubblica di Venezia. Nel 1441 Filippo Maria diede in moglie la propria figlia naturale Bianca Maria a Francesco Sforza, che divenuto di fatto il successore del potentato milanese, fu riconosciuto come duca nel 1454 da parte delle principali potenze italiane nel corso della pace di Lodi. Tuttavia, alla morte di Filippo Maria avvenuta nel 1447, Milano insorse proclamando la Repubblica, destinata a indebolirsi progressivamente a causa dell’influenza politica e militare che lo Sforza stesso riuscì a esercitare sul popolo milanese. Fu Ludovico Sforza “il Moro” (1452-1508), una delle realtà più importanti del Rinascimento italiano, a provocare l’invasione straniera, invitando il re di Francia, Carlo VIII (1470-1498) a scendere in Italia, allo scopo di approfittarne per diventare il centro dell’equilibrio italiano. Stabilizzatosi nella metà occidentale dell’attuale Lombardia, il Ducato fu quindi conteso tra Francia e Spagna durante le Guerre d’Italia, passando ai Francesi dal 1499 al 1522, e stabilmente agli Spagnoli nel 1535, dalla morte di Francesco II Sforza

LE CONTESE FRA MILANO E VENEZIA 

Agli inizi del Quattrocento il Ducato di Milano aveva toccato la sua massima estensione e l’area della pianura Padana, compresa buona parte della Lombardia, era quasi interamente soggetta al dominio di Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano dal 1385.

La Cittadella viscontea. Dal 1332 con Azzone Visconti iniziava la signoria viscontea su Bergamo e con Luchino Visconti il diritto unico milanese veniva esteso sulla città e il suo territorio, mettendo a tacere le libertà comunali per circa un secolo, sino alla conquista di Venezia (1428). Nel 1355 Bernabò Visconti, zio di Gian Galeazzo, aveva fatto costruire Firma Fides (Cortina murata sicura), ad occupare l’intero settore occidentale di Città Alta, cui si aggiunse dal 1381 l’Hospitium Magnum (alloggiamento per la guarnigione ed il comando), ad opera del figlio di Bernabò, Rodolfo Visconti, con la funzione di controllo della città più che di difesa verso l’esterno

In risposta alla minacciosa espansione dei Visconti, la Repubblica di Venezia, che per secoli aveva rivolto l’interesse verso il Mediterraneo e l’Oriente, aveva da tempo iniziato ad espandersi notevolmente anche nell’entroterra, dove andava raggiungendo la massima espansione (1).

Nel 1425, alleatasi allo Stato fiorentino entrava a far parte di una lega antiviscontea, concentrando il suo interesse sull’intero entroterra lombardo, alla bisogna ricorrendo a compagnie di ventura e mercenari, fra i quali giocò un ruolo importante il condottiero Bartolomeo Colleoni (1400-1476), l’eroe rinascimentale nato a Solza, nell’Isola Bergamasca, proveniente dalla nobiltà rurale.

La dominazione viscontea su Bergamo fu minata a più riprese: nel giugno 1408 entrò in città Pandolfo Malatesta, in precedenza condottiero al servizio dei signori di Milano e da qualche tempo avventuriero in proprio nella Lombardia dilaniata dalla guerra interna ai Visconti. Malatesta iniziò la sua signoria largheggiando in esenzioni e privilegi, ma nel 1414 il capitano di ventura Francesco Bussone detto il Carmagnola, per ordine del nuovo Duca Filippo Maria assediò la città obbligando alla resa le milizie del Malatesta chiuse nella Cittadella. La ripresa viscontea con Filippo Maria riportò quindi Bergamo in mano milanese (luglio-agosto 1419).

Il conflitto tra Venezia e Milano scoppiò nel 1426 e il mese di dicembre (prima pace di Ferrara) fissò il passaggio alla Serenissima di Bergamo, Brescia e Cremona. La guerra riprese nel marzo 1427, quando la Val Calepio venne occupata dalle forze milanesi. In ottobre, con la vittoria veneziana di Maclodio (nei pressi del fiume Oglio), la guerra poteva dirsi ormai conclusa.

Il guelfismo resisteva nel contado e soprattutto nelle valli, teatro di sanguinosi scontri e repressioni da parte viscontea, tanto che agli inizi di ottobre, le valli Brembana Superiore, tutta la valle Seriana Inferiore e alcuni comuni (Scanzo, Rosciate, Calepio) si diedero spontaneamente a Venezia ottenendone in cambio generosi privilegi ed esenzioni fiscali. In dicembre le truppe veneziane occuparono anche la Val Gandino, Trescore e la Val San Martino, giungendo sino alle mura di Bergamo.

Il 19 aprile 1428 si giunse ad una nuova, definitiva pace di Ferrara (conclusa tra Francesco Foscari e Filippo Maria Visconti), che lasciò ai milanesi la Gera d’Adda, Caravaggio e Treviglio, sottraendo definitivamente Bergamo ai milanesi e sancendo una volontà già espressa di passare a Venezia: e a Venezia, dopo un periodo incerto iniziale, Bergamo rimarrà legata fino alla caduta della Repubblica, coincidente con l’avvento della Dominazione Francese (Trattato di Campoformio, 1797), costituendo l’estremo confine occidentale della Terraferma veneziana.

Avvenne così il passaggio della città al dominio della Serenissima: l’8 maggio 1428 entrarono in Bergamo tre nobili veneziani con la carica di provveditori straordinari per prendere possesso della città in nome della Repubblica. Si trattava di Paolo Correr, Andrea Giuliano e Giovanni Contarini. Il 4 luglio, otto ambasciatori bergamaschi “superbissimamente vestiti” e accompagnati da un grandissimo numero di gentiluomini si recarono a Venezia per prestare giuramento di fedeltà alla presenza del Doge.

Milano continuava tuttavia a mantenere i contatti con i ghibellini bergamaschi, insidiando a più riprese il potere veneziano sulla città e il suo territorio: il Duca di Milano Filippo Maria Visconti non tardò a scatenare contro Venezia il suo esercito, comandato dal Piccinino, e nel 1432, presso Lecco, l’esercito veneziano, comandato dal Gattamelata, subì una grave sconfitta, con la cattura dei procuratori veneziani Venier e Corner, che avevano comandato l’attacco. Nell’esercito veneziano militava da quell’anno il trentatreenne capitano Bartolomeo Colleoni, che si era già distinto su molti campi di battaglia in tutta Italia e che presto divenne il grande difensore della città.

Nel territorio la guerra continuò con alterne fortune e per lunghi periodi Bergamo fu assediata dalle incursioni milanesi, che nel tentativo di riassoggettare la città, non risparmiarono nemmeno i borghi: nel novembre del 1437 l’esercito milanese del Piccinino, al servizio di Filippo Maria Visconti, si schierò sotto le mura, dove le difese approntate da Bartolomeo Colleoni impedirono la presa della città. Penetrò allora in Borgo Pignolo, devastandolo in gran parte, e depredando Borgo Palazzo e Borgo Santa Caterina nel settembre del 1438. Bergamo oppose resistenza sino a quando le milizie milanesi, ormai sfinite, spostarono i conflitti in Valcamonica e Valtellina. Il cruento assedio è ricordato da un affresco del Romanino conservato nel castello di Malpaga.

Bergamo sotto assedio, difesa da Bartolomeo Colleoni (Romanino, 1510 ca., Castello di Malpaga, Bergamo). In quegli anni, “la ‘bassa’ bergamasca era teatro d’ogni prodezza del Carmagnola, del Gattamelata, del Piccinino, dello Sforza, del Colleoni e delle loro assoldate milizie mercenarie; con quanta soddisfazione dei malcapitati bergamaschi, tutti possono immaginare” (2)

Le famiglie ghibelline della città brigavano per ricondurre Bergamo al dominio visconteo; non poche vennero esiliate in alcune delle città appartenenti al territorio veneto, da dove tuttavia continuavano ad ordire trame a favore dei Visconti, tanto che anche dopo la conclusione della pace alcuni membri della famiglia Suardi continuarono ad essere banditi dal territorio bergamasco e i loro beni confiscati.

Noto è l’episodio narrato da un’anonima fonte quattrocentesca e riportato dal Belotti, del complotto ordito da molti “bergamaschi amici del Duca”, che avevano racimolato soldi per corrompere il conestabile posto alla guardia di Porta San Lorenzo: nottetempo sarebbero vi sarebbero entrati, aiutati dalle milizie di Pietro Visconti e da un manipolo di Brembillesi. Ma il tradimento fu sventato e denunciato da tal Becharino da Pratta, un modestissimo caporale a servizio del conestabile (forse di origine friulana) e il traditore fu impiccato. Viscontei e ghibellini si vendicarono distruggendo case, torri e vigneti fuori dalle mura, e a Becharino da Pratta fu dedicato un passaggio in via San Lorenzo, comunicante con la via Boccola.

Via S. Lorenzo: l’imbocco del passaggio che la municipalità ha dedicato, nel punto esatto dell’accaduto, al caporale della Serenissima Becharino da Pratta

Il rapporto tra la città e le valli continuò ad essere conflittuale, ed è esemplare la punizione inflitta agli abitanti della Val Brembilla che, da sempre ghibellini e sostenitori dei Visconti, dovettero seguire la via dell’esilio, disperdendosi nella pianura; le loro terre rese sterili, tutte le loro case date alle fiamme, mentre in città si mozzavano torri gentilizie e tagliavano unghie all’artiglio ghibellino.

Bisognava giungere alla pace di Lodi, firmata nell’aprile del 1454, per stipulare una forma di pacifica convivenza tra i maggiori stati dell’area italiana, ponendo fine a trent’anni di lotte tra Venezia e Milano.

Francesco Sforza riconobbe il confine veneziano sul tracciato del Fosso Bergamasco, a ridosso di Milano, dove rimase pressoché invariato per secoli.

Il Fosso Bergamasco, linea, di confine tra la Serenissima e il Ducato di Milano, ha costituito sin dal tardo Medio Evo e per molti secoli il discrimine tra le popolazioni che gravitavano politicamente ed economicamente su Venezia o Milano. Il canale, asciutto, profondo un metro e mezzo e largo altrettanto, fu costruito dalla città di Bergamo, probabilmente nel Trecento, come colatore d’acqua e forse anche quale impedimento per i greggi erranti, poiché quella zona era paludosa e boscosa, con scarse e povere culture agricole (Ph Lino Galliani)

Il nuovo assetto politico-istituzionale regalò all’Italia cinquant’anni di pace ed insieme il definitivo dominio veneziano sul territorio di Bergamo, divenuta il naturale antemurale occidentale della Repubblica lagunare, decisa ormai a volgere il suo dominio verso la terraferma e servendosi soprattutto dell’opera del genio militare di Bartolomeo Colleoni.

Con la nuova posizione geopolitica di Bergamo, le gravitazioni, le direttrici di movimento, i contatti di ordine politico, sociale, economico, culturale, si rivolsero essenzialmente verso Venezia, con tutti gli effetti sulla vita così come sul costruito della città: è questo infatti il periodo in cui si concreta la distinzione in senso storico-politico di una “Lombardia orientale” che, se si considerano i territori di Bergamo e di Brescia (due città dal destino assai simile), può dirsi anche “Lombardia veneta” (3).

Ben presto l’Italia verrà coinvolta da nuovi eventi politici e da nuove guerre: le orrende Guerre d’Italia, che segneranno per il Cinquecento l’inizio del dominio peninsulare delle grandi monarchie europee (Francia, Spagna e Impero), decretando una serie di annate tragiche per tutto lo Stato di Terraferma veneziana, all’interno del quale anche Bergamo diverrà campo di lotta e di passaggio.

COME VENEZIA GOVERNA BERGAMO E IL SUO TERRITORIO

La Repubblica di Venezia eredita una struttura amministrativa organizzata durante i decenni precedenti dai Visconti e cercherà di modificarla il meno possibile. Il territorio bergamasco, dopo il 1428 è divenuto terra di frontiera verso il resto della Lombardia, con una capitale, Venezia, assai lontana e disposta a concedere anche larghe autonomie. Bergamo diviene una delle cosiddette “podestarie maggiori” della terraferma veneta, nella quale la città lagunare invia propri rappresentanti (i Rettori), scelti tra il patriziato veneziano e chiamati ad amministrare la giustizia, a difendere il territorio e a governarlo fiscalmente.

I Rettori, la cui carica dura 16 mesi, possono essere sostituiti od affiancati da cancellieri e segretari, coadiuvati da un Prevveditore, da un Camerlengo che amministra l’uffcio fiscale, dai due Collegi (Maggiore e Minore) e dal Castellano che comanda la Cappella (castello di San Vigilio).

Il podestà si insedia insieme al suo seguito nel Palazzo Podestatis nell’attuale Piazza Vecchia, mentre il capitano risiede in Cittadella insieme alla guarnigione; al loro insediamento si accompagna fra quattro e Cinquecento la definizione delle piazze su cui si affacciano le loro sedi e cioè rispettivamente  Piazza Vecchia e Piazza Nuova (attuale piazza Lorenzo Mascheroni), quest’ultima realizzata a ridosso della Cittadella.

Il podestà (detto anche pretore) presiede al controllo della città e riveste un ruolo prevalentemente giudiziario e civile. Ha come collaboratori un vicario, un giudice del maleficio, un giudice della ragione, un cancelliere, un conestabile, due commilitoni.

Il capitano (o prefetto), consolida la Cittadella a partire dal 1433: vi trovavano posto i magazzini per le armi e le scorte di viveri. Egli presiede al governo della provincia e ha funzione di controllo fiscale e militare; ha la libertà e l’arbitrio di aprire e chiudere le porte della città, sovrintende alla custodia e al governo di tutti i soldati, cavalieri e fanti.

A fronte della garanzia del mantenimento del controllo militare e degli obblighi fiscali della Città suddita, a differenza dei Visconti Venezia si dimostra più liberale e rispettosa, evitando di giungere ad una contrapposizione netta con i poteri locali ormai consolidati, i quali, anche grazie al prestigio ottenuto durante l’assedio milanese, rivendicano la loro presenza in consiglio ed il godere dei pubblici uffici come privilegi esclusivi.

Al Consiglio Comunale hanno quindi accesso esclusivamente membri del ceto dirigente bergamasco, costituito, da un lato, da una consolidata aristocrazia locale che egemonizza la vita cittadina per mezzo di Iegami matrimoniali contratti tra nobili o alta borghesia, detenendo una consistente proprietà distribuita nelle campagne (4), e, dall’altro, da un’emergente classe borghese (mercanti, giuristi e notai), riguardata come spina dorsale della città e alleata naturale di Venezia, dove un potere oligarchico centrale basa le sue fortune sui commerci e sulla mercatura.

Lascia sopravvivere le antiche libertà comunali, mantiene la suddivisione in vicinie, rispetta le abitudini locali, tollera la libertà religiosa – legata ad una concezione laica dello stato -, impone ai suoi Rettori una presenza discreta e porta avanti un’amministrazione oculata e saggia, dettata da una fiorente economia che le permette di contare sulla fedeltà dei propri cittadini.

Anche al Vescovo locale (il cui nominativo è suggerito da Venezia), così come a tutto il clero regolare e secolare (circa 400 unità), è chiesto di fornire un sostegno concreto all’operato dei Rettori, per mantenere il controllo sulla città e sul territorio.

E’ su tali premesse che la ‘Dominante’ organizza la sua presenza politico-militare, inaugurando un duraturo rapporto con un territorio pieno di grandi risorse ed avviato verso un sostenuto sviluppo, anche se assolutamente Iontano dalle vie commerciali e destinato a restare sotto la sua ombra.

La città medioevale con le appendici dei borghi che saranno interessati dalla costruzione delle mura cinquecentesche, presentando il progressivo dilatarsi delle mura dall’Alto Medioevo al Quattrocento. Anche durante la dominazione veneta permane la suddivisione amministrativa su base circoscrizionale esistente sin dal medioevo, che vede la città frazionata in vicinie e, com’era stato per le vicinie dell’età comunale, ognuna è amministrata da un proprio consiglio dei capifamiglia che eleggono i sindaci e un Console. Si tratta delle vicinie urbane (Città Alta), suburbane (che vanno da Borgo Canale a Longuelo alla Val d’Astino e ai Borghi) e dei Corpi santi (che si estendono da Colognola a Lallio, a Redona, a Valtesse, a Torre Boldone), contando in tutto trentacinque unità. La pianta fu elaborata da Sandro Angelini nel 1073, sulla base degli Statuti, dei documenti iconografici, degli studi di Angelo Mazzi, Elia Fornoni, Luigi Angelini e di esami in luogo. Per le suddivisioni vicinali si è seguito di massima lo Statuto del 1491 (che riunisce le due vicinie di Santa Grata e di Canale); si è preferito invece mantenere la suddivisione delle due vicinie di Arena e di San Giovanni Evangelista, unificate dopo la costruzione trecentesca della Cittadella viscontea, per sottolineare la collocazione originaria del toponimo di Arena

Il Consiglio Comunale (o Magnifica Comunità) è composto dal Consiglio Maggiore e dal Consiglio Minore, detto degli Anziani e chiamato anche Bina, cui hanno accesso esclusivamente membri del ceto dirigente bergamasco. Ad ogni seduta deve essere presente almeno uno dei due Rettori veneziani o loro vicari.

Il Consiglio Maggiore e il Consiglio Minore esercitavano le loro funzioni nel Palazzo della Ragione, ma Ia penuria di locali richiese la costruzione della Loggia Nuova, edificata nel 1435 dirimpetto il Palazzo comunale, dove più tardi sorse Palazzo Nuovo (oggi Biblioteca Civica A. Mai), per accogliere gli uffici della Cancelleria e del Commissario alle provvigioni

Al Consiglio minore spetta il compito di vigilare sull’operato dei Collegi (Collegio Maggiore, con 72 membri e Collegio Minore, con 12 membri), cioè le deputazioni alle quali, sempre più frequentemente a partire proprio dal Cinquecento, vengono demandate molte delle funzioni amministrative della città, come la cura delle vie di comunicazione, la vigilanza sul mercato locale e l’istruzione.

Tra le principali deputazioni vi sono il Collegio alla Milizia, che deve farsi carico dell’approvvigionamento e alloggiamento delle truppe di passaggio; i Deputati delle Affittanze, che gestiscono le proprietà comunali e i relativi incanti; il Collegio delle Acque, che si occupa della manutenzione della rete idrica della città e dell’affitto dell’acqua delle seriole; il Collegio alla Sanità, cui spetta la tutela della salute pubblica; il Collegio delle Biade, attivo in situazioni di crisi alimentare, deputato all’approvvigionamento granario.

Il territorio che Venezia ha assoggettato tra il 1427 e il 1428 è ben demarcato da confini naturali:  a nord con la Valtellina, dominio della repubblica delle Tre Leghe a partire dal 1512, mentre ad ovest il confine bergamasco è definito dal corso del fiume Adda, che separa la Repubblica di Venezia dal Ducato di Milano. A sud il confine con Milano è dato dal cosiddetto “Fosso bergamasco”, che lascia ai milanesi Treviglio e il territorio della Gera d’Adda. A est, infine, il fiume l’Oglio e il lago d’Iseo segnano la separazione dal territorio di Brescia, anch’esso divenuto parte della Repubblica di Venezia.

Il territorio viene ripartito in pianura, montagna e valli ed ulteriormente suddiviso in 14 Quadre, all’interno delle quali ogni singolo Comune si governa autonomamente, pur essendo legato alla città. Ogni Quadra è governata da un Vicario (nominato dal Consiglio Maggiore della città), che riveste anche le funzioni di giudice civile, mentre ogni Comune è guidato da un Console, eletto annualmente dai cittadini. Il congresso generale dei Comuni si svolge in città, nel Palazzo della Ragione.

Nel territorio vi sono inoltre alcune Podesterie separate: Romano e Martinengo, che dipendono da Brescia, e Lovere e Cologno che dipendono da Bergamo.

Carta dell’ordinamento amministrativo dato da Venezia al territorio bergamasco con la divisione in Quadre e Podesterie separate (dettaglio)

Al grande programma di pacificazione e di stabilizzazione perseguito in Bergamo, corrisponde un’abile e lungimirante politica condotta da Venezia nel suo territorio. Le esenzioni da imposte e le autonomie eccezionali concesse dal Quattrocento – e a più riprese – alle martoriate valli e specialmente Seriana, Brembana e Scalve, sottendono lo scopo di garantire a Venezia l’assoluta fedeltà di queste terre (che rifioriranno in breve volgere di tempo), sia per poter potenziare e tutelare i percorsi commerciali senza dover sottostare alle dogane imperiali e sia per garantirsi una copertura della fortezza di Bergamo, avamposto incuneato nello Stato di Milano e perciò difficile da difendere se non viene sostenuto da un entroterra, di per sé pressoché inaccessibile per un eventuale esercito assalitore, popolato di gente fidata. Non minore peso rivestono gli argomenti economici basati sul fiorente artigianato locale, soprattutto seriano, e l’abbondante produzione di armi da taglio e, più tardi, di armi da fuoco.

LA VITA ECONOMICA

Ristabilita la pace tra le potenze e le fazioni a metà Quattrocento, Bergamo e il suo territorio poterono finalmente prosperare e rafforzare la propria condizione economica, anche grazie al buongoverno che tenne conto del pluralismo istituzionale e garantì l’autonomia precedentemente acquisita. Era il primo tempo di una dominazione che si mostrava attenta ai problemi della città e delIe ValIi, in procinto di riscattarsi dalle drammatiche condizioni di devastazione e miseria che avevano improntato per quasi un secolo il corso della dominazione viscontea (1332-1428), seguita nel Cinquecento dalle invasioni straniere e dalle ricorrenti carestie.

A fronte della povertà endemica delle Valli, dovuta soprattutto alla sterilità e improduttività del territorio, e da sempre terre di emigrazione (note le compagnie dei Bergamaschi a Venezia o a Genova dal XIV secolo), Bergamo riuscì a sostenere un forte sviluppo attraverso la lavorazione della lana (a Bergamo prodotta e commerciata già dal Duecento, mentre la seta farà capolino nel secolo successivo), l’estrazione e la lavorazione del ferro (industria di antichissima origine, data la presenza nel territorio di numerose miniere) e la relativa produzione di manufatti (che contempla anche quella preziosa delle armi bianche di Gromo), nonché la fabbricazione di pietre coti per affilare lame e la produzione casearia.

La stessa città di Bergamo era caratterizzata dall’essere da tempo un noto e fiorente centro commerciale e finanziario, tradizionalmente legato alla pianura lombarda: una “piazza” la cui vocazione mercantile trovava la massima espressione fisica nella Fiera che dal IX secolo si teneva ogni anno nel mese di agosto sul Prato di Sant’Alessandro, tra i borghi di San Leonardo e Sant’Antonio.

Sui precedenti economici di Bergamo medioevale basterà ricordare la convenzione monetaria stipulata (1254) in camera pincta palacii communis Pergami, fra il Comune di Bergamo e le città di Cremona, Parma, Brescia, Piacenza, Pavia e Tortona, (alcune delle quali d’importanza anche internazionale), che accettano come base di riferimento commerciale la moneta bergamasca, la marcha e Pergamo, comunemente detta Pergamino, coniato nella zecca di via Donizetti ed oggi il logo dell’Università di Bergamo

Il modello concreto di saggezza pubblica e capacità governativa espresso dopo la pace di Lodi, alimentò tra le operose genti orobiche un sentimento di unificazione e di comune sentire, e, ai primissimi del Cinquecento, malgrado le guerre che vedevano la penisola teatro di sanguinose dispute tra Francesi ed Aragonesi e nonostante la stessa città fosse stata invasa e saccheggiata, Bergamo poté godere di condizioni economico-sociali piuttosto favorevoli. Più tardi, lo sviluppo di infrastrutture commerciali e manifatturiere consentì di muoversi ed esportare forza lavoro in un orizzonte geografico più ampio – e, attraverso la nuova Strada Priula (1592 e il 1593), ormai europeo – e di stringere rapporti con il centro Europa in settori fondamentali quali la lana, la seta e il commercio delle ferrarezze.

IL CINQUECENTO: LE GUERRE D’ITALIA

Dopo il lungo periodo di prosperità economica che aveva contrassegnato gli ultimi decenni del XV secolo e i primi anni di quello seguente, l’Italia venne coinvolta da nuovi eventi politici e da nuove guerre: le orrende Guerre d’Italia, che segnarono l’inizio del dominio peninsulare delle grandi monarchie europee (Francia, Spagna e Sacro Romano Impero), decretando una serie di annate tragiche per tutta lo Stato di Terraferma veneziana, all’interno del quale anche Bergamo era divenuta campo di lotta e di passaggio.

Terminata la “politica dell’equilibrio” tra gli stati italiani con la morte di Lorenzo de’ Medici (1492), le tensioni a lungo represse portarono presto l’Italia ad essere dilaniata dall’invasione dei maggiori potentati europei.

Mentre Venezia proseguiva la sua politica espansiva nell’entroterra verso la Romagna, il Trentino e la Lombardia, raggiungendo l’apice della sua potenza, Ludovico Sforza “il Moro”, signore di Milano (1452-1508), la guardava con astio, come guardava con astio anche gli altri principati italiani: dalla medicea Firenze, centro rinascimentale per antonomasia, all’aragonese Napoli, florida sul piano economico ma retta da una dinastia mal vista sia dalla popolazione che dalla stessa nobiltà locale.

Al centro si stagliava lo Stato Pontificio, retto da Alessandro VI (1431-1503), con la sua corte papale celebre per mecenatismo e sviluppo artistico ma discutibile sul piano religioso e spirituale, tanto che lo stesso pontefice era giunto persino a concepire la creazione di uno stato centro-settentrionale da porre nelle mani di suo figlio, il celeberrimo Cesare Borgia.

A provocare l’invasione da parte straniera fu Ludovico il Moro, che animato da rivalità verso le altre casate italiane e dalla volontà di diventare il centro dell’equilibrio italiano, fidando troppo in se stesso invitò il re di Francia, Carlo VIII (1470-1498), a scendere in Italia per occupare il Regno di Napoli, sul quale il monarca sosteneva di vantare diritti feudali dovuti al precedente dominio angioino.

Seppur costretto ad una rapida ritirata da una lega degli stati italiani (1495), l’invasione di Carlo VIII diede inizio al ciclo di guerre che avrebbero devastato la penisola nel trentennio successivo, stravolgendo nell’arco di un decennio la geografia politica italiana a favore delle ingerenze straniere.

Ludovico il Moro fu travolto dall’esercito di Luigi XII (1462-1515), cugino del re di Francia Carlo VIII, e il Ducato di Milano annesso alla corona francese.

Lo stesso sovrano, alleatosi con gli aragonesi spagnoli abbatté il Regno di Napoli (1501); tuttavia i territori meridionali passarono alla corona di spagnola in seguito a una breve guerra fra le due potenze (1501-1503).

La Repubblica fiorentina (5) così come i Ducati di Savoia, Ferrara, Mantova, iniziarono a dipendere dallo “straniero” per conservare la propria autonomia, poggiandosi ora alla Francia di Luigi XII, ora all’Impero di Massimiliano I (1459-1519, Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1493 alla morte), mentre da anni la Repubblica di Genova era di fatto un protettorato della corona francese.

Nello Stato Pontificio, Cesare Borgia (1475-1507), approfittando della crisi in atto e dell’appoggio paterno aveva creato il suo personale ducato a scapito degli stessi territori pontifici, occupando le città di Rimini, Forlì, Cesena, Imola, Fano e Pesaro (1501-1503), e alla cui espansione pose termine la morte del padre e l’ascesa al soglio pontificio di Giulio II (1443-1513), nemico giurato dei Borgia.

L’ESPANSIONE DI VENEZIA E IL SCONTRO CON PAPA GIULIO II

Solo uno stato in Italia non aveva subito alcun danno, anzi, aveva visto crescere la propria potenza: Venezia, la quale nel corso dei vari conflitti ne aveva approfittato per estendere la propria influenza in Italia: nel 1499 si era schierata al fianco di Luigi XII, contribuendo all’abbattimento della signoria sforzesca su Milano e ricavando in cambio la città di Cremona e il controllo sull’area dell’Adda (la Gera d’Adda). Successivamente, nel 1503, aveva appoggiato le pretese spagnole sul sud, ricavando la conferma del controllo sui porti pugliesi di Otranto, Brindisi, Barletta, Monopoli e Gallipoli (strategicamente vitali per i traffici marittimi veneziani all’interno del proprio “golfo”), ottenuti con la breve restaurazione aragonese (1496). Padrona indiscussa dell’Adriatico, dominatrice assoluta del nord-est, Venezia aveva raggiunto l’apice della propria espansione. La Repubblica sembrava l’unica potenza italiana in grado di unificare il nord sotto un’unica insegna.

La crescente potenza della città lagunare destava preoccupazione sia agli altri stati italiani che alle potenze straniere presenti nella penisola, ma soprattutto a papa Giulio II, appena asceso al soglio pontificio: a preoccupare il pontefice era la dichiarata volontà della Repubblica di espandersi verso la Romagna.

Con la caduta di Cesare Borgia e il crollo dei suoi possedimenti romagnoli (1503), Giulio II aveva dato inizio a una politica volta a ricostituire e rafforzare l’antico Stato della Chiesa, in particolar modo quei territori umbri, emiliani e romagnoli che, seppur parte integrante del patrimonio di San Pietro, da secoli erano soggetti a signorie e a tendenze autonomistiche; alla fine del 1503 il papa iniziava la sua campagna di conquista militare recuperando Perugia e, soprattutto, Bologna, strappata alla signoria dei Bentivoglio. L’obiettivo era quello di rendere Roma l’ago della bilancia della politica italiana, ma prima bisognava fare i conti con l’altra “candidata”, Venezia, la quale aveva posto lo sguardo sulle città appartenute al Borgia con l’intenzione di aumentare la propria influenza in quel settore, dove già controllava da tempo Cervia e Ravenna.

Tra il 1503 e il 1504 iniziarono i primi contrasti tra le due parti; Venezia aveva annesso le città di Rimini e Faenza, Giulio II occupava Pesaro. Le tensioni sfociarono nel momento in cui il papa prendeva possesso di Cesena e Imola; il nocciolo del problema stava nel fatto che la Serenissima aveva preso possesso dei contadi delle rispettive città (e una città, privata delle campagne circostanti, è soggetta a grosse difficoltà). Giulio II reagì con durezza all’azione veneziana, pretendendo non solo la restituzione dei contadi, ma anche delle altre città romagnole; al netto rifiuto, il pontefice iniziò allora una serie di trattative con le potenze straniere al fine di creare una lega contro la città di San Marco.

VERSO LA FORMAZIONE DELLA LEGA DI CAMBRAI CONTRO VENEZIA 

Le trattative avviate dal papa contro Venezia coinvolgevano gran parte degli stati italiani ma anche le principali potenze europee. Tutti avevano dei conti da regolare con lo Stato marciano; il re di Francia guardava alle città lombarde della Serenissima (Bergamo, Brescia, Cremona, Crema…), con la volontà di ripristinare la grandezza dell’antico Ducato milanese (nodo essenziale di ogni tipo di dominio: economico, militare e politico); a sua volta l’Imperatore Massimiliano I rivendicava Veneto, Istria e Friuli quali possedimenti dell’Impero; il monarca di Spagna Ferdinando II d’Aragona rivoleva i porti pugliesi, mentre il Regno d’Ungheria non nascondeva le mire sulla Dalmazia; il Ducato di Ferrara ambiva al Polesine, quello di Mantova ad Asola, quello di Savoia guardava a Cipro, Firenze non digeriva l’appoggio veneziano alla ribelle Pisa; lo Stato Pontificio rivoleva l’intera Romagna (agognata da Giulio II per ristabilire un’unità statale): ognuno aveva un motivo d’astio o rivalsa nei confronti della potente Repubblica.

Tuttavia Venezia poteva contare sulla potenza del suo esercito e, cosa non da poco, sulle varie discordie che regnavano fra i suoi nemici, specialmente fra l’Impero e la Francia.

In azzurro è indicata l”espansione di Venezia sulla Terraferma fino alla vigilia della battaglia di Agnadello (1509). Venezia  ha posto piede in Romagna e nel Trentino fino a Rovereto (1441); ha poi conquistato il Polesine (1484), i porti pugliesi (1495), Cremona (1499), infine Pordenone, Gorizia, Trieste e Fiume (1508): questa incalzante progressione porta i piani anti-italiani alla formazione della Lega di Cambrai (1508) contro Venezia, allo scopo di annichilirla per sempre

A Cambrai, nel Dicembre del 1508, fu stipulata la lega anti-veneziana; vi aderirono Giulio II, Luigi XII di Francia, Massimiliano, la Spagna e i ducati di Mantova, Ferrara e Urbino.

Resasi conto del pericolo, la Serenissima tentò in extremis una riconciliazione col papa, offrendo concessioni in Romagna e ricevendo non solo un netto rifiuto, ma anche l’interdetto papale. Era l’inizio del conflitto: Venezia sfidava l’Europa.

E fu la guerra, una guerra che portò la Lombardia ad essere invasa da truppe francesi e spagnole, con la ricomparsa dei ghibellini in città a fomentare le divisioni cittadine: con la pesantissima sconfitta subita da Venezia ad Agnadello nel cremonese (1509), ad opera dei Francesi di Luigi XII ed ottenuta con la complicità dei ghibellini, Venezia si arrese al re di Francia.

Battaglia di Agnadello (14 maggio 1509), Pierre-Jules Jollivet (dipinto del 1837). Quattordici maggio 1509, due eserciti si fronteggia­no sull’Adda; nella spon­da occidentale ci sono i francesi, guidati dal re in persona, Luigi XII; dall’altra stanno le truppe della Repubblica, sotto il comando di Niccolò Orsini, duca di Pitigliano, e Bartolomeo d’Alviano, il valoroso condottiero che l’anno prima ha umiliato in Cadore l’imperatore Massimilano I. I Francesi sono l’avanguardia di una lega comprendente la Spagna, l’Impero, i Savoia, il papa, Mantova, Ferrara: è l’Europa intera che muove contro Venezia. A Cambrai, nel nord della Francia, il 10 dicembre 1508 si è infatti co­stituita una formidabile alleanza decisa a punire, a ridimensionare la superbia dello Stato marciano, il cui imperialismo si dilata ormai da Bergamo a Cipro, dalle Alpi ne­vose ai mari caldi del Levante

LE CONSEGUENZE DELLA DISFATTA DI AGNADELLO

La “rotta della Ghiaradadda” fu un colpo terribile per Venezia. Le potenze della lega di Cambrai approfittarono della crisi veneziana per agire; le truppe pontificie conquistarono le terre romagnole, inclusa Ravenna, mentre nel sud la Spagna si riprendeva i porti pugliesi; il duca di Ferrara occupava il Polesine e Rovigo. Quanto a Luigi XII, questi annetteva al Ducato di Milano le città di Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, Peschiera e la Gera d’Adda. Mentre Verona, Padova e Vicenza si ribellavano dandosi a Massimiliano I.

Dunque Luigi XII annetteva al Ducato di Milano le città di Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, Peschiera e la Gera d’Adda.

Nonostante tutto, Venezia sarebbe stata in grado di riprendersi; approfittando della lentezza delle forze imperiali, della seguente riappacificazione con Giulio II (1510) e dell’appoggio delle campagne venete, ostili all’occupazione imperiale, la Serenissima diede avvio alla riconquista dei territori perduti: già alla fine dello stesso anno, il Veneto era quasi stato recuperato.

La guerra sarebbe proseguita sino al 1516, con numerosi cambiamenti di alleanze e fronti; la Serenissima avrebbe fatto fronte alla Francia alleandosi al Papato, all’Impero e alla Spagna (Lega Santa, 1511) per poi cambiare clamorosamente schieramento (1513) e affiancare Luigi XII prima Francesco I poi. I nemici di Agnadello avrebbero trionfato assieme a Marignano nel 1516, la battaglia che permise alla Francia di riprendersi Milano, precedentemente perduta, e a Venezia di recuperare il grosso dei territori.

L. Lotto, pala Martinengo, Bergamo, chiesa di S. Bartolomeo (dettaglio). Il 1516 segna la fine tanto attesa di lunghe guerre combattute per il predominio nell’Italia settentrionale tra imperatore, papa, francesi, spagnoli, veneziani. La generazione che nasce a Bergamo dopo il 1516 ha davanti decenni di stabilità politica garantita dalla Repubblica di San Marco, di cui il Bergamasco è la parte più occidentale del dominio. Nel maggio di quest’anno, l’inaugurazione nella Chiesa di Santo Stefano della grande pala di Lorenzo Lotto, commissionata dall’anziano capitano Alessandro Martinengo Colleoni, che ha vissuto sul campo i giorni infausti di Agnadello, è di buon auspicio per il futuro: ornano la grandiosa scena della Madonna col Bambino in trono e santi rami del pacifico ulivo cui si accompagnano bilancia e spada, simboli di pace e giustizia

Era comunque l’inizio della fine: dopo il ridimensionamento seguito alle guerre d’Italia, la giornata di Agnadello avrebbe rappresentato per la Serenissima la data spartiacque fra il culmine della sua potenza e l’inizio del suo lento declino, declassandola inesorabilmente tra le potenze di secondo piano, per lasciare il posto alle grandi monarchie straniere, nuove regine della politica internazionale. Ciò significava per Venezia accantonare l’atteggiamento aggressivo per adottare una politica difensiva e di contenimento.

La successiva guerra della lega di Cognac, una delle otto guerre d’Italia, fu combattuta tra il 1526 e il 1530 tra gli Asburgo di Carlo V e Francesco I di Francia, chiudendosi con il definitivo dominio degli Asburgo sull’Italia, delle cui sorti Carlo V divenne unico e incontrastato arbitro. Le ostilità tra Francesi ed Impero furono sedate soprattutto dal minaccioso incalzare dei turchi, ormai prossimi ad attaccare i possedimenti asburgici nel centro Europa, quindi costringendo Carlo V a firmare un accordo con i Francesi.

Nel timore di un’eccessiva egemonia asburgica, gli stati italiani si erano uniti nella Lega di Cognac a fianco della Francia, e dove i maggiori interessi in gioco erano soprattutto quelli del papa e della Repubblica di Venezia. E’ a questo periodo che risale la decisione di fortificare Bergamo, per la quale la perdita definitiva dell’area cremonese e della Gera d’Adda configurava la posizione di un avamposto sospeso su un vuoto strategico, stretta com’era su due lati dei confini a lei prossimi dell’avversato Stato milanese nelle mani della Spagna, al culmine della sua potenza, e, sull’altro lato, da montagne impercorribili: la città verrà fortificata solo trent’anni dopo, quando Venezia deciderà di approntare strutture difensive moderne in tutto il territorio di Terraferma.

Prima che la guerra fra la Francia e gli Asburgo entrasse nel vivo, nel maggio del 1527 dodicimila Lanzichenecchi, soldati imperiali, per la maggior parte mercenari tedeschi di fede luterana, rimasti senza paga e poi senza comandante, avevano deciso di penetrare in Italia compiendo il terribile Sacco di Roma: essi attraversarono e devastarono pure la Bergamasca, portandovi carestia, peste (1528-29) e 150-200 morti al giorno, mentre si diffondevano febbri tifoidee e mal francese.

Le incertezze della situazione avevano provocato paure collettive e agitazioni religiose, e la già instabile situazione economica , aveva subito un tracollo.

La Madonna delle Lacrime a Treviglio. Minacciata di distruzione dal generale francese Lautrec nel 1522, perché ha cacciato una squadra francese, Treviglio venne risparmiata venendo a conoscenza che l’immagine della Vergine nella chiesa di Sant’Agostino aveva cominciato a piangere

Nel quadro mutevole degli assetti geopolitici generati dalle Guerre d’Italia, tra il 1509 e il 1529 Bergamo era passata due volte sotto il dominio francese e per ben sette sotto quello degli Asburgo ed altrettante volte, sottolinea Maironi da Ponte, “fu ripresa dai Veneziani o s’arrese spontaneamente ai medesimi”. Ma in tutte queste terribili traversie, “lo spirito nazionale non venne mai meno a favor della Repubblica” (di Venezia).

Ritornata ai Veneziani nel 1512, poi di nuovo ripresa dai Francesi nel 1513, nel mese di giugno Bergamo era stata invasa dagli Spagnoli, che con crudeli prepotenze, furti, stupri ed incendi, avevano imposto la loro autorità su tutto l’entroterra, incendiando anche il Palazzo della Ragione; due anni dopo era stata occupata dalle soldatesche dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo ed infine, nell’agosto del 1516, era ritornata definitivamente in possesso della Serenissima con la pace di Noyon (con la quale Venezia manteneva anche Brescia e Crema): una severa lezione che dava avvio, per Venezia, all’epoca del mantenimento con tutte le armi possibili.

Mentre Bergamo ne usciva stremata, dopo essere stata vessata da Francesi, Spagnoli, Svizzeri, Tedeschi e dai Veneziani stessi, che andavano imponendo pesanti balzelli riparatori, si concludeva una delle fasi più convulse della storia cittadina.

Tiziano, Ritratto di Gabriele Tadino detto il Martinengo (1538). Nel giugno del 1513, dopo aver sconfitto i Francesi, allora alleati dei Veneziani, il viceré di Spagna Raimondo di Cardona avanza nella pianura e assedia Bergamo. I bergamaschi riuniti in Santa Maria Maggiore, senza valide difese, decidono per la resa. Gli Spagnoli impongono una taglia di 40.000 ducati, e la notte successiva danno fuoco al palazzo del Comune. Le truppe veneziane, riunite in Crema, si muovono la notte del 4 luglio, con 600 cavalli e alcuni fanti, per venire a Bergamo segretamente: scalano le mura dei Borghi e irrompono nella casa del Commissario e del Governatore, impadronendosi di 6.000 ducati già pagati dai bergamaschi per la taglia. Alla testa dei veneziani è il giovane ufficiale, Gabriele Tadino detto il Martinengo dalla località in cui è nato intorno al 1480. Ingegnere e fine conoscitore delle fortificazioni bergamasche nonché milite sotto le insegne di Venezia, dal 1523 sarà Capitano generale delle artiglierie imperiali, con funzioni di sovrintendente  di tutte le fortificazioni di Spagna

Per porre definitivamente fine delle Guerre d’Italia, e principalmente ai conflitti tra Francia e gli Asburgo, si dovette attendere il 1559 con la pace di Cateau-Cambrésis, che dopo Milano attribuiva agli Spagnoli NapoIi, Sicilia e Sardegna, dando inizio al primato Asburgico in Europa e nella penisola Italiana (6), primato che perdurerà sino al 1713.

L’ormai stremata Venezia ribadiva la scelta, già espressa da tempo, di una politica di neutralità, rinunciando per sempre all’iniziativa politica in Italia e rifondandosi come repubblica saggia prudente, virtuosa, rispettosa dei propri come degli altrui diritti. Non poteva più quindi affidare la sua difesa a eserciti in marcia nelle campagne, ma a truppe stanziali.

Nel frattempo, dopo l’abdicazione di Carlo V (1556), l’Impero comprendente Spagna e Austria si era smembrato in due potenze (in Spagna il figlio di Carlo V, Filippo, in Austria il fratello Ferdinando), coniugate ed alleate ma ciascuna con mire politiche proprie. In particolare la Spagna doveva assicurare il collegamento tra i due nuclei che formavano in Europa i domini di Filippo II, penisola iberica e Fiandre. E poiché questa strada non poteva passare nei territori della Francia, eterna nemica, né lungo l’Oceano e la Manica, infestati dalle navi inglesi, rimaneva libero il solo passaggio attraverso Genova, Milanese, Alpi, proprio ai confini con le terre della Serenissima e con Bergamo. La Francia, che con la morte di Enrico II era precipitata in una lunghissima crisi dinastica e nelle trentennali guerre di religione, ormai non era più in grado dì contrapporsi ulteriormente alla Spagna e di frenarne le ambizioni.

Terminate le Guerre d’Italia, Venezia si trovava dunque circondata per terra in una morsa temibile, che le precludeva ogni ulteriore espansione: a ovest la Spagna insediata nel Ducato di Milano e a nord l’Impero Asburgico, mentre per mare, oltre che essere continuamente sfidata dal sostegno asburgico alla pirateria degli Uscocchi (7), che avevano le loro basi in Dalmazia, si trovava a fronteggiare l’espansionismo dell’Impero Ottomano nei Balcani (da cui la grande fortezza di confine di Palmanova (8)) e nel Mediterraneo orientale, dove, malgrado la leggendaria vittoria di Lepanto nel 1571, perderà Cipro.

Inoltre, Turchi e Spagnoli erano i campioni di due sistemi in cui religione e potere politico si legittimavano a vicenda: due sistemi monolitici, accentratori e intolleranti, all’interno e all’esterno. Il Re Cattolico, in particolare, avrebbe potuto trovare nel ruolo così rapidamente e volentieri assunto di paladino della religione, mille pretesti per una politica di invadenza e, perché no, di aggressione. Ben decisa a non lasciar penetrare l’Inquisizione nei propri domini, per rimanere “terra di libertà’, l’unica terra di libertà in Europa accanto all’Olanda, Venezia doveva, come l’Olanda, essere pronta a difendere i propri confini palmo a palmo, senza esitazioni e senza badare a sacrifici: il vero utilizzo delle Mura sarà proprio nella loro capacità di dissuadere gli Spagnoli o chi per essi da ogni velleità aggressiva.

Battaglia di Lepanto in un dipinto di Paolo Veronese. Nel 1669, dopo la sanguinosa, ventennale guerra, i turchi presero la città di Candia e Venezia conquistò il completo controllo di Creta. Nel 1571, a Lepanto, una flotta cristiana, comandata da Don Giovanni d’Austria e composta da navi veneziane, spagnole, genovesi, sabaude, della Chiesa, dei Cavalieri di Malta, sconfisse la flotta turca dove l’apporto di Venezia fu decisivo. Ma in quello stesso anno, dopo il lungo assedio di Famagosta, Venezia perse Cipro. Nel periodo 1683-1687, sotto il comando di Francesco Morosini, i Veneziani riuscirono ancora a conquistare la Morea (l’odierno Peloponneso, poi perduto nel 1718). Intanto il patriziato, da ceto mercantile andava trasformandosi in aristocrazia terriera, con l’acquisizione di ingenti latifondi nella “Terraferma Veneta”

Avviatasi la decadenza militare e marittima, la Serenissima non poteva che rinunciare alla politica espansionistica e cercare di mantenere i territori acquisiti attrezzandosi anche in ordine alla difesa. E fu qui che lo Stato di Terraferma assunse un peso decisivo, diventando oggetto di un piano unitario di fortificazione che coinvolse i punti nevralgici per il commercio marittimo e terrestre e all’interno del quale la Bergamasca costituiva l’avamposto più occidentale, incuneato fra territori nemici.

La rete difensiva progetta e costruita dalla Serenissima tra il XV e il XVII secolo,  coinvolgeva i punti nevralgici del commercio marittimo e terrestre, snodandosi per oltre 1.000 km, tra lo Stato di Terra (Lombardo-Veneto) e lo Stato di Mare (Croazia-Montenegro). All’interno di tale sistema, in cui ogni singola città-capoluogo giocava un ruolo strategico: mentre, ad esempio, la grande fortezza di confine di Palmanova doveva tenere a bada l’espansionismo dell’Impero Ottomano nei Balcani, la fortificazione di Bergamo costituiva la punta più avanzata ad Occidente dei domini di Terraferma, al confine con il Ducato di Milano. Tutti i centri sono stati iscritti nel Sito culturale seriale transnazionale creato nel 2016: “Le opere di difesa veneziane tra XV e XVII secolo” (in pratica fortezze), che ha visto Bergamo, con le sue Mura, capofila di un percorso per il riconoscimento e l’inserimento nella Lista del Patrimonio dell’Umanità UNESCO

IL RUOLO STRATEGICO DI BERGAMO E L’IDEA DI FORTIFICARLA

Se da una parte, la continua avanzata dei Turchi minacciava seriamente gli interessi marittimi e commerciali veneziani nel Levante, dall’altra, la scoperta di nuove rotte navali verso le Americhe e verso le Indie con la circumnavigazione dell’Africa, aveva spostato il baricentro economico dal bacino del Mediterraneo all’Oceano Atlantico ad esclusivo vantaggio della corona spagnola, decretando per Venezia il declino dei commerci marittimi per la fine del monopolio esercitato fino a quel momento sul commercio del pepe e delle spezie (9) ed imponendo, di conseguenza, una sempre maggiore attenzione ai commerci che avvenivano verso il centro d’Europa.

Alla perdita di competitività commerciale si accompagnerà sempre più la scarsa propensione degli uomini d’affari veneziani a viaggiare (accaparrando le merci attraverso i mercanti, anche bergamaschi) e a dirottare i propri capitali verso investimenti fondiari nell’entroterra.

Dopo la pace di Chateau Cambrésis, l’opportunità di aumentare le difese del territorio di Bergamo, unico varco nell’accerchiamento territoriale messo in atto dagli Spagnoli, doveva quindi costituire un deterrente a scala territoriale e nel contempo fungere da presidio di un territorio strategicamente importante anche dal punto di vista economico, perché il suo territorio consentiva, attraverso i passi delle Api Orobie, uno sbocco commerciale nel cuore stesso dell’Europa e la possibilità di mantenere sul mercato prezzi ancora altamente competitivi, aggirando inoltre ad oriente i territori soggetti ai fortissimi dazi commerciali imposti dagli Spagnoli, di stanza nel Ducato di Milano.

Il territorio di Bergamo è collegato alla Valtellina, terra dei Grigioni, e ai passi che portano in Svizzera e in Germania, attraverso due itinerari: il primo, passando da Lecco, risale il lago nel dominio spagnolo di Milano ed è percorribile solo se lo permettono le condizioni politiche, l’altro raggiunge i passi delle Alpi Orobie attraverso le disagevoli mulattiere della Via Mercatorum: un tortuoso percorso che da Albino o da Nembro, in Valle Seriana, portava a Selvino e da qui a Serina e a Dossena, per poi scendere a Cornello dei Tasso in Val Brembana. Tra il 1592 e il 93 sul fondovalle brembano viene costruita la Strada Priula (dal nome del podestà Alvise Priuli), che supera lo strapiombo del Brembo alla Botta di Sedrina, modificando gli antichi tracciati. Progettata per fini principalmente militari, e cioè per realizzare un collegamento sicuro e veloce con i Grigioni delle Tre Leghe, alleati della Serenissima, la strada diviene un’importante via commerciale, permettendo di fatto ai mercanti bergamaschi di intensificare i commerci con la Valtellina e, per quella via, con l’Europa Centrale (in particolare con Svizzera, bassa Germania e Fiandre), evitando gli ingenti dazi imposti dagli Spagnoli nei loro territori. Si tratta di una mulattiera lunga 35 miglia, in parte scavata nella roccia viva, che, uscendo dalla Porta di S. Lorenzo (per questo detta la “porta della salvezza della Serenissima”) percorre tutta la Valle Brembana fino al passo S. Marco; la sua larghezza è tale da consentire il transito dei carri (10)

Ma la scelta riguardante il miglior modo di organizzare l’assetto difensivo bergamasco giunse dopo un lungo e complesso dibattito, dove i pareri di rettori, capi di guerra, tecnici e rappresentati politici furono spesso portatori di opinioni divergenti sul da farsi.

Z. Da Lezze, carta itineraria lungo la Valle Brembana con segnate la vecchia strada ed il progetto della nuova (Via Priula) verso la Valtellina, 1596

Incaricato dal Senato Veneto (1559) di individuare un luogo adatto alla fortificazione lungo il confine occidentale della Repubblica, il Governatore Generale delle milizie di terraferma, conte Sforza Pallavicino, individuata come idonea la porzione di Bergamo posta sui colli, sia per la facilità di fortificazione secondo le nuove regole dell’arte della guerra e sia per la posizione strategica, propose ed ottenne (1561) di costruire una fortezza in pietra bastionata continua, limitata per estensione alla sola città sul colle senza comprendere i borghi, la parte più viva e produttiva delle città, ed incontrando con ciò lo sfavore degli stessi bergamaschi e di alcuni esperti consultati a suo tempo da Venezia. Lo Sforza escluse anche l’ipotesi di abbracciare la malconcia Cappella con il recinto delle mura, ponendosi in forte contrasto con altri esperti di ingegneria militare del tempo, come l’Orologi, che ne prese decisamente le distanze nella sua circostanziata relazione dell’8 novembre 1561.

Dopo la pace di Chateau Cambrésis Bergamo  rappresentava la punta più avanzata ad Occidente dei domini veneziani di terraferma, al confine con il Ducato di Milano, governato dalla Spagna. Al contempo, dato l’indebolimento della potenza commerciale veneziana nel Mar Mediterraneo, rivestiva un ruolo strategico di primissimo piano per gli scambi commerciali con il centro Europa, trovandosi in comunicazione con tre grandi vie commerciali indispensabili alla vitalità economica della Serenissima: Svizzera, bassa Germania e Fiandre, verso i grandi porti fiamminghi di Ostenda, Brugge, Gent, Anversa e con le provincie olandesi del nord, che nel secolo successivo sarebbero divenuti l’attracco dei mercantili delle Compagnie Olandesi delle Indie Orientali e Occidentali di rientro dall’America, dall’Africa e dall’Asia, carichi di ogni bene (spezie, tessuti, colori, minerali, preziosi, frutta e verdura esotiche (11). Da qui la necessità di porre in condizioni d’avanguardia il delicato sistema territoriale fortificando la parte alta della città con un impianto aggiornato, progettato ex novo secondo le più moderne tecniche militari, considerate ormai inadeguate alla difesa le vecchie mura medioevali

Per contro, nel territorio si individuarono delle località ubicate in posizioni strategiche, da utilizzare per la difesa, sia sul confine meridionale ed occidentale, minacciati dalla presenza spagnola, e sia lungo quello settentrionale, unico sbocco verso i Grigioni (serbatoi di truppe mercenarie donde all’occorrenza potevano giungere soccorsi in caso di assalti degli Spagnoli) e l’Europa centrale (nuovo sbocco commerciale per Venezia): sul confine meridionale, segnato dal Fosso Bergamasco, vennero individuate le località di Brembate, Cividate, Cologno, Spirano, Martinengo e Romano, le due ultime considerate il granaio della bergamasca; sul versante occidentale, lungo il corso del fiume Adda, Calolzio, Cisano e Villa d’Adda; all’estremo nord nella Valle Brembana, arteria delicatissima che collegava alla Valtellina e ai Grigioni Svizzeri, Almenno, Zogno (monte Ubione), Piazza (attuale Piazza Brembana) (12) e, naturalmente, il Passo di S. Marco, porta aperta verso i Grigioni.

Dopo una serie di tentennamenti e cambi di direzione, la costruzione delle nuove ed imponenti Mura urbane, a partire dal 1561, sancì per Bergamo la funzione strategica che il potere centrale aveva assegnato alla città orobica, in linea con gli orientamenti del dominio veneziano nel costituire un sistema difensivo imperniato sulle città-capoluogo, posto al centro di una seconda ”cerchia” di difesa fatta di luoghi fortificati, muniti di uomini e di risorse, distribuiti sia in città che nel territorio annesso (13).

Oltre ai fini già ricordati, v’erano propositi altrettanto importanti che inducevano Venezia a voler fortificare Bergamo alta, che a causa del cattivo stato delle mura medioevali era sottoposta a continui saccheggi e si trovava in perenne stato di insicurezza.

Vi era poi l’esigenza di esercitare un rigido controllo sociale ed economico su una città la cui crescente ricchezza era legata anche, e non marginalmente, a consolidati traffici (spesso illegali) con lo Stato di Milano, favoriti dal cattivo stato delle vecchie mura (14).

Nonostante infatti le restrizioni imposte dal governo veneziano, il rapporto tra Bergamo e Milano, che si era consolidato in quasi un secolo di dominio visconteo, si manteneva vitale: Bergamo continuava a mantenere un forte senso di identità, e a considerare se stessa come “centro”, mal adattandosi alla condizione di subalternità a Venezia.

Queste manifestazioni di autonomia, radicate in un’economia mercantile vitale e in espansione qual era quella di Bergamo, non potevano non preoccupare Venezia e certamente ebbero un certo peso nella decisione di trasformare Bergamo in città-fortezza, nonostante autorevoli pareri contrari (15).

Note

(1) Nel 1409 la Repubblica di Venezia aveva ottenuto da parte di re Ladislao d’Ungheria tutti i diritti sulla Dalmazia; nel 1410 conquistava gran parte dell’odierna regione italiana del Veneto e dieci anni più tardi assoggettava il Friuli, arrivando a comprendere il territorio di quella che era stata la X regione augustea della penisola italica (Venetia et Histria). Nel corso del secolo raggiungerà la sua massima espansione.

(2) Alberto Fumagalli, Bergamo. Origini e vicende storiche del centro antico. 1981, Rusconi Libri S.p.A., Immagini, Milano.

(3) Lelio Pagani, Bergamo. Lineamenti e dinamiche della città. Edizioni Sestante, 2000, Bergamo.

(4) I nobili, chiamati gentiluomini e col tempo cavalieri, nel caso siano iscritti all’estimo e risiedano in città, sono chiamati anche cittadini, status comprovato da una apposita patente (Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso. In: “Bergamo verso l’Unesco – Terra di San Marco. Da frontiera di pietra a ‘paesaggi vivi’ di pace”. Grafica & Arte, 2016).

(5) Crisi dovuta al primo crollo della signoria medicea (1494), alla breve esperienza del governo di Savonarola (1494-1498) e alla ribellione di Pisa, alla quale il governo fiorentino non riusciva a porre rimedio.

(6) La Francia rinunciò alle proprie pretese sui domini Italiani degli Asburgo di Spagna (Napoli, Sicilia, Sardegna, Milano) e sui feudi Imperiali in Italia, dipendenti formalmente dagli Asburgo d’Austria. Questo quadro muterà in parte con le guerre di successione del Settecento, quando l’Austria prenderà il possesso di Milano e insedierà rami cadetti della sua casata negli altri feudi dell’Italia imperiale (mentre il mezzogiorno andrà ad un ramo cadetto dei Borbone di Spagna). Si passerà così, nel quadro della dominazione asburgica, da un primato Spagnolo ad uno Austriaco, cui l’Italia porrà fine solo durante il Risorgimento.

(7) Gli Uscocchi erano una popolazione costituita esclusivamente da cristiani cattolici, originalmente e prevalentemente dei Balcani riversatisi sulle coste del Mare Adriatico per sfuggire all’avanzata dei Turchi. Inizialmente famosi per le loro operazioni di feroce guerriglia contro i turchi, risolsero poi di dedicarsi alla pirateria: dal loro quartier generale a Segna, presso Quarnaro, organizzarono veloci spedizioni di saccheggio sia contro le rotte turche che contro la Repubblica di Venezia.

(8) Nel 1449 i Turchi erano già penetrati fino al fiume Livenza, nel Dogado (nucleo centrale e nativo della Repubblica di S. Marco), inducendo più tardi Venezia a presidiare convenientemente il confine orientale, impiantando sull’Isonzo una grande fortezza di confine a Palma (Palmanova).

(9) Le navi portoghesi trasportavano dalla lontana Insulindia (isole asiatiche sud-orientali, della Sonda, Molucche e Filippine) grosse partite di spezie attraverso gli oceani, che poi la Spagna instradava (insieme a grandi quantità di oro e argento americano) nell’ampio e ricchissimo mercato centro europeo attraverso il porto di Anversa (divenuta nel Cinquecento crocevia dei traffici verso l’Europa centro-settentrionale) e i grandi corsi fluviali navigabili. Dal canto loro, i mercanti veneziani venivano riforniti di spezie attraverso le piste carovaniere che facevano capo agli empori levantini (Alessandria d’Egitto, Damiata, S. Giovanni d’Acri, Tiro, Beirut), da dove, attraverso un percorso via mare di cui Famagosta rappresentava la prima tappa, raggiungevano il porto e i magazzini di Venezia. A questo punto si trattava di introdurre le preziose spezie nel cuore dell’Europa eludendo i pesanti balzelli imperiali imposti lungo tutta la barriera alpina, dalla Carinzia al Tirolo, di dominio Asburgico, e dal Ticino alla valle dell’Adda, di dominio  Spagnolo. Questo unico canale era rappresentato dal territorio bergamasco (Alberto Fumagalli, Bergamo. Origini e vicende storiche del centro antico, Cit.).

(10) Fondazione Bergamo nella Storia, Il Cinquecento – Bergamo e l’età veneta. Sestante Edizioni, Bergamo, 2012.

(11) Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso, Cit.

(12) Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso, Cit.

(13) Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso, Cit.

(14) Fra gli innumerevoli documenti che riferiscono al contrabbando attraverso la frontiera milanese, la relazione (1532) del podestà C. Priuli, attribuisce al cattivo stato di manutenzione delle vecchie mura medioevali, il favorire di un grosso contrabbando di lana spagnola proveniente da Vercelli e introdotta a Bergamo attraverso l’area milanese e Treviglio (Walter Barbero, “Bergamo”. Electa Editrice, Milano, 1985).

(15) Nella relazione del 7 luglio 1570 il Capitano uscente di Bergamo P. Pizzamano insiste sulla maggiore utilità di munire con forti la pianura nei pressi del confine (Walter Barbero, “Bergamo”, Cit.).

Alcuni riferimenti

Nicolò dal Grande, Agnadello o “la rotta della Ghiaradadda”.

Renato Ferlinghetti, Gian Maria Labaa, Monica Resmini, Le Mura da antica fortezza a icona urbana. Bolis Edizioni, 2016.

Fondazione Bergamo nella Storia, Il Cinquecento – Bergamo e l’età veneta. Sestante Edizioni, Bergamo, 2012.

Centro Studi Valle Imagna: Antonio Martinelli, Bergamo. Itinerari nella storia della città e del suo territorio dalle origini al ventesimo secolo. Grafica Monti, Bergamo, 2014.

Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso. In: “Bergamo verso l’Unesco – Terra di San Marco. Da frontiera di pietra a ‘paesaggi vivi’ di pace”. Grafica & Arte, 2016

Alberto Fumagalli, Bergamo. Origini e vicende storiche del centro antico. 1981, Rusconi Libri S.p.A., Immagini, Milano.

Andreina Franco Loiri Locatelli, “La città sotto assedio!”. Bergamo Scomparsa (BergamoSera).

Mariana Frigeni, Il condottiero. Vita, battaglie e avventure di Bartolomeo Colleoni. Longanesi, 1985.

Il Forte di San Marco: la “fortezza nella fortezza”, nel cuore delle mura veneziane di Bergamo

Bergamo, nella sua storia, aveva subito invasioni, assalti e distruzioni da parte di ogni esercito che passava nelle vicinanze e per questo motivo i cittadini stessi avevano invocato la Serenissima di rinforzare le sue difese, incontrando i propositi di Venezia di rendere sicuri i suoi confini di terra, verso gli ingombranti vicini Spagnoli.

Incaricato dal Senato veneto di costruire la fortezza di Bergamo, il generale Sforza Pallavicino dedicò grande attenzione a quest’opera, da cui dipendeva la sicurezza dell’intera città.

Mentre verso sud‐est, sopraelevata e dominante vi era la trecentesca Rocca, rinforzata dai Veneziani (con l’arsenale principale, un sito per la riparazione delle armi, una polveriera e la scuola dei Bombardieri), in centro ma verso nord‐ovest sorgeva la Cittadella, sede della Capitaneria con truppe ed arsenale.

Attorno a tutto il perimetro esterno delle mura, la “fossa” (oggi un gran bel circuito verde) per giri di ronda, spesso fornita di controscarpa di copertura ed eventuali postazioni e piazze di difesa avanzata.

Verso sud ed esterna alle mura, una difesa avanzata dominante la pianura a protezione del retrostante bastione di San Giacomo, denominata Fortino di San Domenico, costituito da una piattaforma dal perimetro di 376 mt, oggi completamente irriconoscibile a causa degli alti alberi circostanti.

Pur essendo considerato scarsamente difendibile, il capitano da Lezze nel 1596 giudicava che se fosse stato occupato dal nemico, questi avrebbe potuto farvi “saltare la mina” provocando una profonda voragine “come di cisterna secreta formata de sassi e coperta con un volto di muro che sarebbe la morte di quelli che vi si ritrovassero sopra”.

Nel tondo il Fortino di San Domenico, ad ovest di Porta San Giacomo e al di sopra della Galleria Conca d’Oro. La sua realizzazione comportò la demolizione del convento di Santo Stefano e San Domenico, un convento prestigioso ed ampiamente partecipe della vita cittadina, in cui si conservava la grande pala Martinengo di Lorenzo Lotto

Verso nord, ancor più sopraelevato (490 mt s.l.m. contro un’altezza media delle mura di 350 mt), il ben munito Castello di San Vigilio collegato al Forte di S. Marco, una “fortezza nella fortezza” posta nel settore nord-occidentale del circuito delle Mura, frutto di lavori grandiosi particolarmente attenti a contenere l’eventualità di un assalto proveniente dai colli, dal momento che, come la storia insegnava, mantenere il possesso del Castello era di primaria importanza per la sicurezza della città, così come il versante della collina di San Vigilio rimaneva il settore più esposto all’assalto del tiro nemico.

La parte settentrionale delle Mura cinquecentesche compresa tra la porta di Sant’Alessandro a sud e quella di San Lorenzo a nord (sicuramente la parte più bella e meno conosciuta del circuito murario), venne quindi concepita come centro dell’organizzazione difensiva di tutto l’apparato logistico-militare.

Il Forte di S. Marco, un vasto recinto innalzato lungo il settore nord-occidentale del perimetro fortificato), comprendente ben 6 baluardi dei 14 complessivi. Era collegato al Castello di S. Vigilio da una strada coperta e circondato da una fossa come una buona parte del circuito murario veneziano (dallo studio di E. Fornoni, “S. Agostino e le nuove fortificazioni in Bergamo”. Gaffuri e Gatti, 1883)

Venivano quindi completamente abbandonati gli antichi resti di fortificazioni viscontee sul Monte Bastia, ancor più di poco sovrastante la “Cappella” (20 mt), ma distante 520 mt.

Delle poderose difese del castello, o Cappella, rimane il solido impianto dei quattro torrioni cilindrici collegati dalle possenti cortine. Sul lato ora percorso dalla lunga scalinata che conduce alla sommità erano allineati gli edifici con gli alloggi dei soldati e i magazzini; c’era anche una polveriera del tutto simile alle altre due superstiti, demolita molto probabilmente in coincidenza con le notevoli trasformazioni che la “Cappella” subì nell’Ottocento per mano degli Austriaci, che la sguarnirono del tutto abbattendo pure il grandioso portale d’ingresso. La spianata delle adunate militari è oggi un parco pubblico dal quale nelle giornate terse lo sguardo spazia fino alle lontane Alpi. La fortezza sul colle poteva allora ospitare nella piazza d’armi fino a 500 soldati e 10 pezzi di artiglieria. Un pozzo e due cisterne ne assicuravano il rifornimento idrico

IL FORTE DI S. MARCO SUPERIORE: IL VERO CUORE DELL’INTERA FORTEZZA

Con il compito di proteggere il Castello da eventuali assalti esterni provenienti dal settore più vulnerabile dei colli, il Forte Superiore comprendeva una serie di strutture sotterranee articolate in modo tale da poter assicurare una pronta difesa della zona in caso di emergenza.

Il Forte di S. Marco e il Castello di San Vigilio collegati dalla strada coperta nella planimetria prospettica di Bergamo di Stefano Scolari (Venezia secolo XVII). Incisione su rame. Bergamo – Uff. Tecnico del Comune

La chiave di volta del suo apparato era la piazza S. San Marco, il quartier generale dell’organizzazione difensiva dell’intera fortezza, ben nascosta e protetta all’interno dei tre possenti baluardi, di cui, come vedremo, conosciamo l’aspetto grazie alle esplorazioni del gruppo speleologico delle Nottole, impegnato anni or sono nei rilievi dei sotterranei celati dalle mura, svolgendovi anche visite guidate.

La piazzetta S. Marco

La piazza, che dava riparo ai soldati e ai corpi di guardia e custodiva nei depositi il materiale bellico, era collegata, mediante camminamenti e strade coperte, a tutti i baluardi circostanti, costituendo il punto di partenza e di arrivo delle gallerie che correvano verso le cannoniere e le sortite, e di cui una conduceva all’esterno della fortezza tramite il varco “segreto” della Porta del Soccorso: la quinta delle porte della cinta bastionata veneziana, la più piccola, anonima e ben mimetizzata fra la boscaglia dei colli, tuttora esistente ma celata all’interno di una proprietà privata e sbarrata da un portone sempre chiuso.

La Porta del Soccorso, nel Forte di S. Marco

A differenza delle Mura, di proprietà comunale, la Porta del Soccorso, compreso tutto il Forte di S. Marco e le interessantissime strutture sotterranee, furono acquistati da privati dal 1812 – negli anni della dominazione francese – insieme al Castello, poi rientrato in possesso del Comune di Bergamo. Il passaggio a proprietà privata del Forte, lo mantiene per gran parte tuttora “altro” rispetto alla città.

La Porta del Soccorso è ben nascosta dietro la cancellata antistante un cortile posto a metà di via Sotto Mura di Sant’Alessandro, un ombroso viottolo pedonale dominato da una compatta muraglia semicoperta dalla vegetazione, raggiungibile da Colle Aperto superata la curva di via Beltrami, oppure da via Cavagnis, la cosiddetta “panoramica” che scende dal colle di San Vigilio

La Porta del Soccorso era considerata l’ultima via di fuga in caso di assedio disperato e sarebbe stata utilizzata per dare aiuto (da qui il nome di soccorso) al Castello di S. Vigilio: le truppe concentrate nella piazza del forte avrebbero fatto irruzione all’esterno utilizzando la porta celata dentro la muraglia, così da sorprendere gli assedianti.

A parte la cura dedicata ai particolari strutturali, che dovevano garantire stabilità e sicurezza, a causa dell’utilizzo prettamente militare la porta non ha le caratteristiche delle altre quattro e non presenta nessun elemento distintivo, come uno stemma od una targa: presenta solo due tagli verticali nella pietra che ospitavano le travi del ponte levatoio necessario per superare la fossa antistante che circondava la fortezza, oggi coperta, anche se esternamente è ancora parzialmente presente il terrapieno di copertura, superato nel dislivello dai curvoni che portano a San Vigilio. Era protetta dalle cannoniere poste nei fianchi dei baluardi in cui era incassata: quello di Castagneta a sud (in cui è inserito l’Orto Botanico, accessibile dalla scaletta posta a fianco di una delle due polveriere veneziane, affacciata su Via Beltrami) e il baluardo Pallavicino a nord

Il suo utilizzo era previsto anche per controllare il territorio intorno al Forte o per azioni di disturbo oltre la fossa: la sua pur modesta dimensione consentiva infatti l’uscita di un gran numero di armati e cavalleggeri con a seguito macchine da guerra.

All’importante ruolo che questo settore doveva svolgere per la difesa della città si aggiungeva un secondo corridoio, una “strada coperta” di collegamento tra la Porta del Soccorso al Castello di San Vigilio, che correva a cielo aperto lungo la costa del colle ma ben protetta dal tiro del fuoco nemico grazie ad una doppia cortina di mura e da un argine in terra.

L’impianto fortificato del Castello di S. Vigilio nel contesto orografico del colle, con la strada coperta che giunge fino al Forte di S. Marco (disegno di Cesare Malacreda, conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia)

Questa strada coperta includeva lungo il percorso due piazze capaci di diversi pezzi di artiglieria fissi e mobili, una posta a metà del percorso e rivolta verso S. Gottardo, l’altra a fianco della porta del Castello e rivolta verso il Monte Corno, con postazioni cannoniere.

Il Forte di S. Marco, posto a “guardia” del Castello di San Vigilio

In questo modo il presidio sul colle avrebbe potuto ricevere aiuto ed essere rifornito di viveri e munizioni senza che il nemico potesse osservare quello che stava accadendo ed impedire il passaggio. Di questo manufatto oggi non resta traccia perché è stata demolita dai Francesi nel 1796.

NEL FORTE DI S. MARCO, FRA UN BALUARDO E L’ALTRO

Oggi interamente inaccessibile in quanto proprietà privata, l’intera area occupata dal Forte di S. Marco è ancora ben identificabile lungo il settore di nord-ovest delle mura veneziane (il più scosceso), dove si articola in un vasto recinto suddiviso in due parti: il Forte di S. Marco Superiore, che chiude la fortezza a nord-ovest rivolto verso il colle di San Vigilio, e il Forte di S. Marco Inferiore, che si sviluppa verso est, rivolto verso la Valverde e Castagneta.

Pianta del Forte di S. Marco. Il Forte di S. Marco Superiore (formato dai baluardi di San Gottardo, San Vigilio, Pallavicino) chiude la fortezza a nord-ovest, sviluppandosi dalla porta S. Alessandro alla porta del Soccorso. Il Forte di S. Marco Inferiore (formato dai baluardi di Castagneta, San Pietro e Val Verde) si sviluppa a ventaglio dalla Porta di S. Lorenzo alla porta del Soccorso

 

Il contesto naturale in cui si inserisce il Forte di S. Marco (contrassegnato dalla linea nera sovrimpressa) prima della costruzione delle Mura veneziane, nella veduta a volo d’uccello attribuita ad Alvise Cima (dettaglio). Nel riquadro blu la “Cappella”, mentre la Porta del Soccorso (nel tondo rosso) è collocata genericamente tra grumi di case. Nei tondi verde e giallo le porte rispettivamente di S. Alessandro e di S. Lorenzo, da cui si diparte la cerchia del “Forte”

Abbracciava dunque una vasta area, quasi interamente riservata agli edifici militari, intorno alla quale, esternamente e quasi interamente correva la fossa completa di controscarpa di copertura, predisposta sia per un percorso di ronda che per difese esterne.

Per rispondere alle necessità delle armi da fuoco, all’interno del forte recinto furono costruite due polveriere di forma piramidale, che avevano il compito di conservare i barili di polvere fabbricata a Bergamo mescolando lo zolfo importato da Venezia con la carbonella di produzione locale. La polveriera del Forte Inferiore (nel tondo) si trova tuttora nella valletta a monte di porta San Lorenzo. E’ scomparsa invece quella un tempo esistente nel Castello di S. Vigilio

 

La polveriera del Forte Superiore (cerchiata in rosso) è tuttora collocata in via Beltrami, all’inizio della scaletta che conduce all’Orto Botanico. Qui è rittatta nel 1875, in una veduta da Colle Aperto verso il palazzo dei conti Roncalli e la strada per Castagneta (fotografia probabilmente eseguita dal conte Antonio Roncalli e conservata nella Racc. Gaffuri presso la Biblioteca Civica A. Mai)

Entrambi i settori del Forte, quello inferiore e quello superiore, erano infatti dotati di un quartiere per l’alloggio dei soldati e di una polveriera, disposte a monte e a valle del muraglione di Colle Aperto, che digradando sul pendio dell’omonima valletta permise di allargare una strada al servizio delle parti del forte.

Il Muraglione di Colle Aperto fu costruito per rafforzare il ciglio del colle e scongiurare il pericolo di crolli o frane causati dallo smantellamento operato per l’edificazione delle mura. La faccia nord del Forte Inferiore era percorsa internamente da una strada, oggi corrispondente alla via Sforza Pallavicino (il capitano generale delle truppe venete, che organizzò e coordinò tutti i lavori di demolizione ed erezione della cinta bastionata), che da via Beltrami si dirama verso Castagneta

Mentre il Forte Inferiore costituiva la parte che meno avrebbe risentito di un possibile attacco, la porzione bastionata del Forte Superiore, formata dall’insieme dei baluardi di San Gottardo, San Vigilio e Pallavicino assumeva particolare importanza perché, secondo i costruttori, erano quelli che avrebbero dovuto sopportare il maggior peso di fuoco da parte di un assediante che si fosse appostato sul colle di San Vigilio, nel Castello oppure sui colli vicini. Per questo motivo qui il muro è alto e compatto, protendendo sul lato a monte veri e propri speroni fondati sulla pietra viva che non avrebbero dovuto offrire appigli agli attaccanti.

Posti in immediata successione i tre bastioni del Forte Superiore si configurano come la porzione più tormentata della cerchia, quasi del tutto priva delle cortine di collegamento che altrove dividono un baluardo dall’altro: una soluzione che tra l’altro risolveva, oltre alla necessità di difesa da ipotetici tiri provenienti dalla “Cappella”, anche il problema dell’adattamento alla conformazione orografica – la più scoscesa dei colli -, con dislivelli particolarmente marcati tra un baluardo e l’altro.

I baluardi del Forte di S. Marco. All’eminenza della Cappella il Forte superiore (tra la porta di S. Alessandro a ovest e la porta “del soccorso” a nord), superando arditamente lo scosceso pendio di S. Vigilio con muri di contenimento e di sostegno che reggono il degradare del terreno, oppone la compatta sequenza di una piattaforma (di S. Gottardo) e di due baluardi (di S. Vigilio e Pallavicino) proiettati verso l’alto senza cortine di collegamento e con i fianchi rientranti ridotti alle minime dimensioni. Con sviluppo più che doppio e con cambi di direzione tra i più decisi dell’intera cinta si snodano invece i tre elementi del Forte inferiore, tra la porta “del soccorso” e quella di S. Lorenzo (baluardi di Castagneta, S. Pietro e Valverde)

IL FORTE SUPERIORE: DALLA PORTA S. ALESSANDRO ALLA PORTA DEL SOCCORSO

Il Forte Superiore si sviluppa a partire dalla Porta Sant’Alessandro (custodita nel 1565 da una compagnia di “settanta fanti elettissimi”), da dove si dipartono in successione i poderosi baluardi di San Gottardo, conosciuto anche come piattaforma e fiancheggiato dal tracciato iniziale della funicolare, San Vigilio, con la funicolare che prosegue il viaggio ai suoi piedi, e Pallavicino, che, strettamente affiancati lungo gli scoscesi pendii del colle, sembrano sostenersi tra loro nel contrastare eventuali attacchi sferrati dall’alto.

I cannoni con cui la guarnigione avrebbe colpito tutto lo spazio antistante erano alloggiati dentro cannoniere e casematte, profondamente incuneate nel vivo dei terrapieni e raggiungibili solo con corridoi sotterranei.

Tutte le parti sotterranee delle mura veneziane – corridoi, strade coperte, cannoniere -, sono state esplorate, studiate e rese in parte accessibili dal lavoro prezioso del Gruppo Speleologico bergamasco “Le Nottole”. Preziosi anche i contributi dati dagli “Amici delle Mura di Bergamo” per la manutenzione e la valorizzazione di un’opera che appartiene alla nostra città e che è assolutamente unica nel suo genere.

Dopo il breve tratto di Cortina di Porta S. Alessandro, che tagliò definitivamente l’antica strada romana tra Casnida (Castagneta) e Borgo Canale (l’altro lato chiuso dà sul baluardo di Valverde), prende inizio il Baluardo S. Gottardo, che si inerpica lungo il marcato declivio del tracciato della funicolare per San Vigilio, dove le difficoltà di costruzione furono brillantemente superate grazie a notevolissimi riporti di materiale e dove le costruzioni ottocentesche hanno reso il tratto poco leggibile.

La parte esterna di Porta S. Alessandro, rivolta verso gli imbocchi di Sudorno, Borgo Canale, via degli Orti, via Tre Armi nonché la Ripa, la salita verso il colle di S. Vigilio. Ai tempi della ripresa, la funicolare ancora non esisteva

 

A pochi passi da Porta S. Alessandro, a fianco della funicolare per S. Vigilio, lo sperone del Baluardo di S. Gottardo, posto su di angolo unicamente ottuso di quasi 120°

Nel fianco sud si aprivano e si possono ancora ben leggere nella possente e regolare tessitura del muro di chiusura due cannoniere e due troniere a difesa dell’attigua porta Porta S. Alessandro.

Fianco ritirato nord e cannoniera del Baluardo di S. Gottardo

Allo sperone, posto su di angolo unicamente ottuso di quasi 120°, fa seguito la faccia ovest del baluardo, che attualmente fiancheggiata dalla funicolare è estremamente ardita, mentre in questo tratto la pur solida struttura muraria appare più minuta.

L’ardita faccia ovest del Baluardo di S. Gottardo, oggi fiancheggiata dalla funicolare per S. Vigilio, lungo il tracciato dell’antica fossa

L’orecchione nord (lo smusso tondo dell’angolo tra faccia e fianco del bastione) è molto allungato, come fosse uno sperone proteso verso il colle sovrastante.

Da San Vigilio a Città Alta in funicolare. In primo piano l’orecchione nord del Baluardo di S. Gottardo (credit Dimitri Salvi)

Il baluardo di S. Gottardo termina con il fianco ritirato nord, molto ridotto, che era munito di due cannoniere, di due troniere e di una sortita.

Il Baluardo di S. Gottardo (nel tondo, con l’orecchione nord bene in vista) e il sovrastante Baluardo di S. Vigilio, lungo la parte occidentale del Forte di S. Marco, rivolta verso Borgo Canale e il tratto iniziale di via Sudorno

Gli edifici ottocenteschi hanno molto alterato anche l’intera zona alla sommità del baluardo, dove il cavaliere doveva presentarsi a gradoni, lungo i quali avrebbero potuto piazzarsi dei pezzi d’artiglieria rivolti verso il colle sovrastante.

1880: la conca di Borgo Canale, sovrastata dal versante occidentale del Forte di S. Marco, formato dai baluardi di S. Gottardo e S. Vigilio (Foto Terzi)

Sull’orecchione nord vi sono i resti consunti di una lapide dedicata allo Sforza Pallavicino, che fortemente volle questa costruzione. Alcuni affermano che sotto questa lapide terminasse il giro di ronda (all’arrivo della quale suonava una campanella) e poiché, riportava il segno di 3 armi del generale, questo avrebbe dato il nome alla strada che inizia sotto Porta S. Alessandro: via Tre Armi appunto.

Via Tre Armi ricalca il tracciato esterno dell’antica “strada coperta”, incassata tra le Mura e i muri di protezione e perciò  nascosta agli sguardi del nemico. Il nome di via ‘Tre Armi’ testimonia quindi il suo essere stata strada militare attorno alla città fortificata

Segue il Baluardo San Vigilio, il cui progetto fu particolarmente sofferto e controverso per l’assillante timore di una presa nemica del Castello, che avrebbe dato agli assedianti la possibilità di battere con le artiglierie gran parte della fortezza.

In primo piano il Baluardo di S. Vigilio con la sua garitta

Alla Faccia sud leggermente rientrante dalla visuale del Castello, segue lo sperone, che è la punta più a ovest di tutta la fortezza; su di essa svetta una torretta di guardia, l’unica garitta ancora esistente delle trentadue che un tempo si alternavano ad intervalli regolari su tutti gli speroni dislocati lungo il percorso delle mura. La torretta ha le due finestrelle di osservazione orientate verso Borgo Canale e S. Vigilio.

Nel tondo, la garitta sul Baluardo di S. Vigilio (Foto Terzi, 1880)

 

Nel tondo, lo sperone del Baluardo di S. Vigilio sovrastato dalla garitta, l’unica  ancora esistente delle trentadue che un tempo si ergevano su tutti gli speroni dislocati lungo il percorso delle mura veneziane. A sinistra, la faccia nord del baluardo

La faccia nord del Baluardo di S. Vigilio rappresentava la massima opposizione all’omonimo Castello e, forse per la fretta posta nella sua costruzione, non dispone del classico redondone; per la sua difesa avrebbe dovuto essere costruito un sovrastante cavaliere, ma si decise forse che sarebbe bastato quello sovrastante il baluardo successivo.

Tramite un orecchione la faccia nord si raccorda al ben fatto e particolarmente basso fianco ritirato nord, in cui sono annidate una sortita e due troniere (aperture praticate nelle mura per le bocche da fuoco) con un’ampia sala di manovra (atta anche al ricovero dei pezzi) collegata direttamente con la piazza di S. Marco.

Fianco ritirato e cannoniera del Baluardo di S. Vigilio

 

L’orecchione (a destra dell’immagine) raccorda la faccia nord del Baluardo di S. Vigilio al fianco ritirato nord, in cui sono annidate una sortita e due troniere nonché  un’ampia sala di manovra collegata direttamente con la piazza di S. Marco

 

Le buche cannoniere nel baluardo di San Vigilio durante i rilevamenti della struttura, nel 1974 (Archivio G.S.B. le Nottole)

Giungiamo ora al Baluardo Pallavicino, un manufatto estremamente importante perché affianca la strategica Porta del Soccorso.

Il Baluardo Pallavicino, dallo sperone ovest ricalca il tracciato della via Sotto le Mura di S. Alessandro, parallela alla strada panoramica per San Vigilio ma posta ad una quota inferiore

Quest’ultima è infatti collocata nel punto di unione fra le parti superiore e inferiore del Forte di S. Marco.

La Porta del Soccorso, posta a metà tra le porzioni superiore ed inferiore del Forte di S. Marco. Si racconta che alla vigilia dell’ingresso di Garibaldi in Bergamo, nella notte tra il 7 e l’8 giugno 1859 I patrioti Francesco Nullo e Antonio Curò, per osservare le mosse degli austriaci riuscirono a penetrare in città proprio attraverso la Porta del Soccorso, di cui la guarnigione austriaca ignorava l’esistenza.

Il baluardo prende ovviamente il nome dal generale Sforza Pallavicino, colui che curò in particolare questo tratto ma che non vide la conclusione di tutto il perimetro poiché morì nel 1585 dopo aver dato le ultime indicazioni per la zona della Fara. Proseguì il lavoro Giulio Savorgnano che aveva in precedenza molto criticato l’intero progetto.

Il nome del generale è legato al baluardo che si spinge verso l’alto (un “puntone” unico, che raccorda direttamente la faccia nord con la faccia ovest del baluardo di S. Gottardo), quasi una sfida contro ogni assalto tanto da essere privo di orecchioni come quello, altrettanto ardito, di Valverde.

Presenta una parte interna notevolmente complessa, percossa da cinque camminamenti, con tre camere di manovra.

Pianta di una parte dei sotterranei del Forte Superiore. La struttura interna è rimasta celata fino alle impegnative  campagne di rilievo che hanno finalmente restituito l’originale trama delle strade coperte che si dipartono dalla “piazza” di S. Marco, con la complessa struttura dei camini per la ventilazione dei sotterranei. Le misurazioni negli ambienti interni sono stati effettuati nel 1974/75 dal Collegio dei Geometri di Bergamo con l’ausilio del GSB le Nottole, dotati di specifica attrezzatura per raggiungerli (Tavola 48, tratta da “Rilievi e disegni delle mura venete” a cura del Collegio dei Geometri di Bergamo, Tipografia Bergamasca, Bergamo 1980)

La cannoniera posta nella faccia ovest serviva per la protezione del baluardo antecedente e cioè quello di S. Vigilio e aveva la particolarità di essere parzialmente esterna alle mura, all’interno della fossa. Lavori in epoche recenti hanno modificato la struttura di questo sotterraneo.

La cannoniera del Baluardo Pallavicino

Sempre nella faccia ovest, una sortita con casamatta per la difesa della fossa e che serviva probabilmente da uscita ed inizio della “via coperta” verso il Castello di S. Vigilio, sul suo lato nord.

La sortita del Baluardo Pallavicino

 

Cunicoli accanto alla Porta del Soccorso

Allo sperone ovest segue la faccia nord, fondata su un affioramento di roccia; il redondone non è ben conservato, ma percorrendo la via Sotto le Mura di S. Alessandro i cittadini possono oggi toccare con mano la muraglia alla base, essendo uno dei pochissimi posti non recintati o chiusi da barriere e cancellate.

Al successivo sperone est fa seguito il fianco est munito di due cannoniere con casamatta posteriore (e probabilmente due postazioni superiori), una troniera con bocca da fuoco a cielo aperto (l’unica ad essersi conservata lungo il perimetro della cinta bastionata) e una sortita a difesa della Porta del Soccorso.

La buca cannoniera a cielo aperto, nel baluardo Pallavicino, a difesa della porta del soccorso e fossa antistante (1974, Archivio G.S.B. le Nottole)

Dalla ampia sala di manovra del fianco est diparte un passaggio con camini di aereazione, presenti in tutte le cannoniere ipogee, che porta alla casamatta della faccia ovest.

La galleria di collegamento tra la cannoniera precedentemente mostrata e la casamatta a difesa della faccia nord del baluardo di San Vigilio. Si notano i camini di ventilazione (Archivio G.S.B. le Nottole)

IL FORTE INFERIORE: DALLA PORTA DEL SOCCORSO ALLA PORTA DI SAN LORENZO

Dalla Porta del Soccorso, inserita nella relativa Cortina di Porta, continuando in senso orario prende inizio la porzione inferiore del Forte di San Marco, che si sviluppa a ventaglio fino alla Porta di S. Lorenzo, composto rispettivamente dall’insieme dei baluardi Castagneta, S. Petro e Val Verde.

Il Baluardo di Castagneta impiantato sull’ultimo rialzo del contrafforte Leidi controllava il rilievo del Pianone e la strada sottostante da una parte e, dall’altra, a protezione della porta e del colle di S. Vigilio. La piazza del baluardo doveva essere divisa a settori ma la struttura è oggigiorno completamente alterata.

Scorcio sul Baluardo di Castagneta

 

Orecchione del Baluardo di Castagneta

Il baluardo presenta ad est un fianco particolarmente esteso e un angolo di spalla singolarmente ottuso. Nel fianco ritirato ovest (ben protetto dall’orecchione ovest) si trovano 2 cannoniere ed una troniera a difesa della Porta del Soccorso.

Nella faccia occidentale (in origine leggermente più bassa), la cresta della muraglia conserva traccia dell’andamento originario a dente di sega, che doveva rendere più agevole il defilamento nei confronti del nemico su questo terreno molto accidentato e particolarmente esposto. Tale profilo, unico in tutto il perimetro, fu infatti corretto in un tempo successivo; vi era la piazza per una troniera, mentre alla base un muretto rinforzato delimitava la fossa.

Lo Sperone del baluardo di Castagneta è il punto più a nord della fortificazione.

Il Baluardo di Castagneta: faccia est e ovest

Sulla faccia est era disposta la vasta piazza per una troniera che doveva avere un ampio angolo di copertura; alla sua base è infelicemente addossata un’abitazione privata con giardino e piscina.

Sul fianco est si affaccia oggi il Giardino Botanico, era munito di due cannoniere ed una sortita per sostenere la difesa del baluardo successivo, importantissimo per la presenza del passaggio dei uno dei soli due acquedotti della città.

Il raccordo con il Baluardo di S. Pietro, posto a metà del Forte Inferiore, avviene tramite la breve Cortina di Castagneta (che il da Lezze chiamava cortina di squinzo, e dove si trovavano la piazza di una troniera e una sortita). Tecnicamente definito “piattaforma” perché dotato di un solo fianco, ha la particolarità di non avere un orecchione completamente rotondo e di terminare con uno sperone.

Sia nel baluardo di S. Pietro (che si sviluppa per 150 metri coprendo un dislivello di circa 10 metri) che in quello altrettanto scosceso di Valverde, il muro, concepito essenzialmente come congiunzione di due sistemi forti, si snoda parallelamente all’andamento altimetrico del terreno e limitato alla sola scarpa per ridurre l’esposizione all’artiglieria su questo lato nord naturalmente difeso dalla forte pendenza del colle. ln realtà la piattaforma, che parrebbe una semplice interruzione della cortina, risulta invece una macchina predisposta di un ingegnoso apparato difensivo, purtroppo amputato nel 1908 con l’apertura della strada tra la città e Castagneta (attuale via Beltrami): l’unica grave lacerazione inferta al circuito significò anche la perdita di un elemento particolarmente raro, quello delle tre cannoniere affiancate nel baluardo occidentale.

Particolare del Forte di S. Marco nella planimetria prospettica di Bergamo di Stefano Scolari (Venezia secolo XVII). Incisione su rame. Bergamo – Uff. Tecnico del Comune

 

La costruzione del baluardo di S. Pietro aveva interrotto l’antica strada di passaggio che da Borgo Canale portava a Castagneta e dopo ripetute proteste degli abitanti si decise di abbattere la parte sud della Cortina di Castagneta e circa un terzo della lunghezza del baluardo di S. Pietro ed aprire un varco che permettesse il collegamento tra Castagneta e il nucleo della città antica attraverso l’attuale via Beltrami, tracciata a partire dal 1908. Per il passaggio dell’Acquedotto dei Vasi venne lasciata un’apertura nella faccia nord del baluardo

I cedimenti della muraglia hanno portato alla chiusura di quella via Roccolino, che ricalca presumibilmente l’antico tracciato collegante borgo Canale con Castagneta citato dalle fonti. Poiché il condotto dell’Acquedotto dei Vasi è contenuto nel muro che definisce la via a monte, nella suggestiva via Roccolino si sono rinvenuti tratti di acquedotto.

Il baluardo deriva il suo nome dalla chiesetta poco distante, costruita posteriormente, nel 1629; ma secondo alcuni deriverebbe da quella omonima abbattuta nei pressi di S. Giovanni.

Via Beltrami e la chiesetta di S. Pietro nel 1905

Il fianco ritirato est del baluardo di S. Pietro dispone di due cannoniere (trasformate recentemente in sala bruciatori), due troniere e una sortita, atte a servire anche la lunga faccia nord del baluardo di Valverde.

Il Forte Inferiore termina con il Baluardo di Valverde (originariamente di “Colaperto”), che si sviluppa per 221 metri lungo una complessa orografia che ne fa la parte più bassa di tutto il perimetro, con un’altezza media di circa 9 mt.

Ha una fossa con controscarpa ben conservate ma non ha sortite ed è l’unico che non presenta orecchioni ma solo facce e fianchi.

Al suo interno e, poco distante, all’esterno, furono nel tempo ricavate due cave di arenaria.

La faccia nord, rivolta verso la valle del Roccolino e Valtesse, era percorsa da una strada interna (ora Sforza Pallavicino) e disponeva di due cannoniere e di 4 troniere, anche se nel 1596, non aveva ancora il parapetto; alle sue spalle vi era una casamatta di presidio.

Faccia nord del Baluardo di Valverde, rivolta verso la valle del Roccolino e Valtesse. All’interno del baluardo e all’esterno, furono nel tempo ricavate due cave di arenaria

Dallo sperone nord si diparte la faccia est, dalla pendenza così accentuata da fare di questo lato l’unico esempio conservato di fossa terrazzata: una serie di muri disposti ortogonalmente a scarpa e controscarpa suddivide lo spazio in piazzuole successive per impedire i guasti delle acque alle opere murarie.

Dato il dislivello di circa 4 mt, posteriormente furono ricavati tredici gradoni atti a ricevere altrettanti pezzi d’artiglieria battenti la valle sottostante.

Faccia est e fossa terrazzata del Baluardo di Valverde

La faccia est del baluardo presenta alcuni pezzi marmorei ricavati da edifici presumibilmente d’epoca romana.

Superato lo Sperone est, che era munito anch’esso di garitta, si diparte il fianco sud il cui dislivello (3 metri) permise di ricavare otto gradoni con relativo spazio di manovra per piazzare altrettanti cannoni a difesa della porta.

Fianco sud del Baluardo di Valverde

Segue infine la Cortina della Porta San Lorenzo, che legata all’antica porta veneziana taglia la parte alta della Valverde, comprendendola nel Forte Inferiore.

Cortina di Porta S. Lorenzo, faccia nord e viadotto

Quando nelle Mura c’era un’osteria… e il caveau di una banca

L’OSTERIA NELLE MURA

Un paio di secoli fa, quando il “chilometro zero” era ancora di là da venire, dove oggi sorge LOrto sociale di via Tre Armi, sotto la Porta San Giacomo, si andava quasi direttamente dal produttore al consumatore.

LOrto sociale, spazio agricolo gestito dalla cooperativa L’Impronta, si trova in via Tre Armi, ai piedi delle Mura, tra il baluardo di San Giacomo e la rampa che sale verso Porta San Giacomo

 

Lo stesso luogo (il “Paesetto”) verso la fine dell’Ottocento con la porta daziaria (Raccolta Gaffuri)

Lo stesso contadino che coltivava i vigneti di via Tre Armi aveva avuto l’idea di aprire un’osteria in uno dei sotterranei delle Mura, dove vendeva il vino di sua produzione.

Via Tre Armi verso fine Ottocento, con il muro che delimita gli orti e i vigneti distesi lungo il pendio. Gli ortaggi venivano portati nei Borghi lungo le scalette del Paradiso e di Santa Lucia, ma nelle notti di luna, chiusi i pesanti portoni daziari del Paesetto, dalle mura di via Tre Armi venivano calate delle lunghe corde per issare cesti ricolmi di cibo che  giungevano a destinazione “de sfross” – di frodo – gabbando con gran soddisfazione le ignare, sonnacchiose guardie del dazio (Raccolta Gaffuri)

E come LOrto fornisce oggi i suoi prodotti ai chiringuito estivi sugli spalti delle Mura, l’impresa del contadino si dimostrò un successo. Gli avventori affollavano il vano dove il vino veniva spillato in gran quantità direttamente dalle botti.

Tutto si svolgeva al riparo dallo sguardo vigile delle guardie che stazionavano più in là, presso la porta daziaria del Paesetto, nulla potendo contro lo strano via vai che si svolgeva al di là della porta.

Fine Ottocento: la porta daziaria di via Tre Armi al Paesetto, dove si innesca la salita che conduce a Porta San Giacomo. A sinistra gli agenti del dazio e l’ufficiale, con il lungo cappotto; a destra la casa dell’ufficiale del dazio (fotocomposizione da Raccolta Gaffuri)

Tra solenni bevute, ubriaconi, personaggi d’ogni risma e donne di malaffare, il locale stava creando problemi d’ordine pubblico e la gendarmeria austriaca, che sull’argomento era molto intransigente, decise di chiudere l’improvvisata vineria.

La notizia, scovata in qualche polveroso archivio, fu riportata in auge da Pino Capellini in un articolo dell’ “Eco”, riverberandosi altrove per poi essere dimenticata.

Dove fosse esattamente questa singolare cantina non era dato di sapere, dal momento che nell’Ottocento per costruire il viale e consentire l’utilizzo degli spalti, gli accessi, ch’erano posti a varie altezze della muraglia veneziana, erano stati ostruiti o distrutti e dei sotterranei si era persa la memoria.

Nel frattempo anche i terreni alla base delle mura erano stati modificati.

La “lunetta” di via Tre Armi, perfettamente conservatasi sino a pochi anni fa, era una parte importante della fortificazione. A lato si nota un piccolo vigneto, che un tempo doveva essere molto più esteso

Ma oltre quarant’anni anni fa, nel corso dei primi sopralluoghi compiuti dalle Nottole in quel misterioso mondo sotterraneo, le lampade svelarono a poco a poco un mondo straordinario: grandiosi vani, lunghi corridoi, cannoniere, sortite.

E fu proprio nel corridoio di una sortita dal lato di via Tre Armi che le lampade illuminarono vecchie damigiane e una tinozza a pezzi: era quello il posto dell’improvvisata rivendita?

Via Tre Armi dalle Mura veneziane (Raccolta Gaffuri)

Tutto lascia pensare che quegli oggetti fossero stati frettolosamente abbandonati dopo il veto degli Austriaci e che, data la loro collocazione, la singolare enoteca si trovasse nei paraggi.

Dove esattamente?

L’osteria si trovava nella Cannoniera posta nel fianco meridionale della piattaforma di Santa Grata e certamente nei pressi c’era una vigna, nella fossa della Cortina di San Giacomo, in corrispondenza della controscarpa che era stata costruita per proteggere la strada di ronda.

Le Mura Veneziane di Bergamo nel 1588 (Disegno di Luca dell’Olio). Ubicazione della Cannoniera, nel fianco meridionale della piattaforma di Santa Grata

E se è per questo, vigneti sulla collina ce n’erano da sempre, e sovente ritratti  nei dipinti antichi.

Porta San Giacomo (inedito). Ex voto – Anonimo – 1727. E’ visibile un vigneto sotto la porta

Le acque per l’irrigazione non mancavano di certo, dal momento che quelle che defluivano dalle sorgenti a monte, arrivavano alle vigne e alle ortaglie attraverso via San Giacomo e le Mura. Acque talmente abbondanti da richiedere la costruzione di una cisterna sotterranea dietro il lato est della Cortina di Porta S. Giacomo.

Ed è probabile che l’esistenza dell’osteria fosse celata in qualche detto popolare, come quel “’nda a dörmi a la cà di balòarcc” (andare a dormire alla casa dei baluardi), quando i cunicoli e gli anfratti venivano utilizzati per ripararsi dalla pioggia e dalla neve o da qualche sbandato come riparo notturno.

Anfratti nelle Mura

Per molto tempo le parti sotterranee delle Mura erano state – forse volutamente – dimenticate e usate come discariche o locali privati, se non addirittura distrutte. Nell’Ottocento una cannoniera celata dietro il fianco nord della Cortina di Santa Grata era stata affittata a un falegname, mentre dal 1789 una sortita del fianco ovest del Baluardo di San Giacomo era affittata agli ortolani sottostanti come deposito.

Uomini lavorano ai piedi delle Mura veneziane (raccolta Gaffuri)

Fino alla visita degli speleologi il ventre delle mura era dunque un mondo pressoché sconosciuto, dove si avventuravano solo gli addetti alle fognature e agli impianti dell’acquedotto e del metano, che ne avevano utilizzato alcuni cunicoli.

I lavori per la realizzazione dell’acquedotto (Raccolta Gaffuri)

Quando le Nottole (che prima d’allora si erano dedicate solo alle grotte) si infilarono nei chiusini lungo il viale delle Mura calandosi dall’alto per raggiungere le aperture nella muraglia, non si conoscevano né mappe né documenti che potessero fornire indicazioni. E fu proprio grazie a loro che gli esperti e gli studiosi della fortezza poterono ricevere materiale di grande interesse, poi utilizzato per un volume interamente dedicato alle Mura, dato alle stampe nel 1977: basti pensare ai bellissima serie dei disegni di Luca Dell’Olio (68 Tavole), eseguiti fino all’89, composta da accurati rilievi dei sotterranei.

Si constatò così che quasi tutte le strutture ideate dagli architetti di Venezia nella costruzione della cerchia delle mura c’erano ancora, ed era anche possibile visitarne alcune poiché le Nottole si erano assunte l’impegno di accompagnare le scolaresche e le comitive nella Cannoniera di San Michele, allo spalto dell’Acquedotto.

UN CAVEAU NELLE MURA

Prima del loro abbandono, gli ambienti sotterranei delle Mura erano stati oggetto d’interesse nel periodo della guerra, quando si progettavano i rifugi antiaerei della città.

Cunicoli all’interno della cinta bastionata veneziana (Raccolta Gaffuri)

Proprio allora, non molto distante da da LOrto Sociale e da quella che circa un secolo prima era stata un’osteria, negli ambienti della Cannoniera di San Giacomo era stato ricavato un vero e proprio “caveau”, nascosto dietro a una sortita posta ai piedi della monumentale porta di marmo, oggi camuffata da un’anonima porticina metallica grigia.

Le Mura Veneziane di Bergamo nel 1588 (Disegno di Luca dell’Olio). Cerchiata in rosso, la Cannoniera di San Giacomo, posta nel fianco est del’omonimo Baluardo

 

L’ingresso (o sortita) della Cannoniera di San Giacomo

Secondo alcune notizie scovate in rete, l’ingresso della sortita era stato rinforzato alla fine degli Anni Trenta “con lastre di cemento armato e panelli antischegge per custodire i ‘tesori’ della Banca d’Italia”; tali notizie aggiungono che la struttura non venne mai utilizzata, cioè non racchiuse mai alcun tesoro.

La Cannoniera di San Giacomo, una vasta, profonda e labirintica struttura incastonata nel monumentale complesso delle Mura Veneziane, si articola in un sistema di vani sotterranei e passaggi militari che si articola proprio sotto l’omonima Porta in marmo della città che taglia le mura. Un gioiello architettonico quasi del tutto sconosciuto al grande pubblico, perché chiuso da sempre e visitabile solo in occasione delle aperture straordinarie organizzate dal gruppo speleologico bergamasco (Photo © Maria Zanchi)

In realtà la cannoniera venne utilizzata, ma non dalla Banca d’Italia (il cui caveau si presume concepito con ogni “garanzia”), bensì dalla Banca Mutua Popolare di Bergamo.

Quest’ultima, il 4 dicembre del 1942 aveva ricevuto dal Municipio (previo benestare della Regia Soprintendenza ai Monumenti) il permesso per poter utilizzare TEMPORANEAMENTE la Cannoniera di San Giacomo come rifugio antiaereo per i valori della banca stessa, per la durata della guerra e per un periodo massimo di quattro anni dalla fine del conflitto.

Esterno della Cannoniera di San Giacomo. La Cannoniera di San Giacomo si trova nel fianco est del’omonimo Baluardo, un tempo posta a difesa della cortina fra i baluardi di S. Giacomo e la piattaforma di S. Andrea e della porta. Il 4 dicembre del 1942 la Banca Mutua Popolare di Bergamo ottenne il permesso dalla municipalità di poter utilizzare i suoi ambienti come deposito di titoli, valori e opere (Photo © Maria Zanchi)

Pertanto, a partire dal 1942 vennero effettuati tutti i lavori necessari per rendere l’ambiente adatto a ricevere e custodire i beni della banca; lavori che logicamente snaturarono l’originalità della struttura.

La bocca della cannoniera che immette alla galleria di accesso dei sotterranei, sul lato interno delle mura, venne chiusa con uno spesso muro di cemento armato, ricavando un’apertura più stretta (sbarrata poi con una porta metallica) per poter accedere al ricovero;

Cannoniera di San Giacomo  (Photo © Maria Zanchi)

nella sala di manovra fu creata un’intercapedine in muratura per limitare l’umidità e vennero realizzati l’impianto elettrico e quello di ventilazione forzata.

Cannoniera di San Giacomo (Photo © Maria Zanchi)

Non ci credete? Questa fotografia ne è la prova.

Deposito Valori Della Banca Mutua Popolare di Bergamo, all’interno della Cannoniera Di San Giacomo (1943)

 

Riferimenti 

Pino Capellini, L’Eco di Bergamo, domenica 2 agosto 2012.

GSB Le Nottole

L’Eco di Bergamo,  29 Gennaio 2018. Sapevate che nelle Mura c’è un caveau? È proprio sotto porta San Giacomo.

Le polveriere veneziane di Bergamo e la fabbrica della polvere da sparo: un mondo sconosciuto

Una splendida e rara immagine della polveriera superiore, in via Beltrami (Raccolta Gaffuri)

LA ROCCA, IL PRIMO DEPOSITO E FABBRICA DELLA POLVERE NERA

Agli inizi del Cinquecento la Bergamasca aveva avuto varie occasioni per far conoscenza con la forza distruttrice della polvere da sparo e delle armi da fuoco. Come nel 1509, quando le forze della Lega di Cambrai – nata  allo scopo di annichilire per sempre l’espansionismo di Venezia – avevano invaso, conquistato e devastato un paese dopo l’altro.

Nel 1514 fu però la volta della città, quando le truppe spagnole assalirono da  Sant’Agostino la Rocca, presidiata dai Veneziani, costringendo i difensori alla resa.

Nel corso degli eventi bellici il Castello di San Vigilio vide confermata la sua rilevante posizione strategica e fu al centro di aspri scontri, mentre la Rocca, che soprattutto dopo la costruzione delle nuove mura andò perdendo importanza nella difesa della città , finì con l’essere relegata a funzioni di magazzino e di arsenale della fortezza, attrezzandosi per la riparazione dei mezzi di trasporto e dei pezzi di artiglieria.

La Rocca, ampio recinto fortificato rettangolare con quattro torri quadrate di rinforzo agli angoli, costruito nel 1331 da Giovanni di Boemia, completato entro il 1336 dai Visconti ed ulteriormente definito sotto il dominio veneziano

Con i Veneziani, la grande torre d’ingresso della Rocca era stata convertita a polveriera.

Il torrione della Rocca, all’ingresso della fortificazione, venne trasformato dai Veneziani in forma cilindrica nel 1455/58 e utilizzato come deposito della polvere nel ‘500, quando venne danneggiato da uno scoppio provocato dal fulmine: un episodio ricordato da un graffitto eseguito da un fedele sulla veste di quella S. Caterina raffigurata nella Teoria dei Santi, all’interno del vano ipogeo di San Vincenzo (attuale duomo)

Nonostante il pericolo derivante dall’essere a diretto contatto con le abitazioni, vi si fabbricava la polvere per i cannoni e per gli archibugi, ma in misura molto modesta in quanto le macine per tritare e ridurre in polvere salnitro, zolfo e carbone, necessari per la miscela esplosiva, erano azionate con i cavalli o a mano.

Planimetria della Rocca di Bergamo con indicala la “masena da polvere” (dalla relazione di Giovanni Da Lezze, anno 1596)

A ridosso della cortina orientale del mastio interno i Veneziani avevano costruito gli alloggiamenti (poi ridotti in altezza e trasformati nel 1975 in museo) e istituito la scuola dei bombardieri , per il cui addestramento funzionò con fasi alterne un tiro al bersaglio grazie al quale, peraltro, venivano consumate ingenti quantità delle già scarse scorte della fortezza.

La Rocca dall’alto. La regolare milizia dei “bombardieri”, addetti all’artiglieria ed addestrati per la difesa di Bergamo, da noi si limitava al “falconetto” o all’archibugio da cavalletto. Nel Seicento contava 4.700 unità distribuite in diciannove città della terraferma. Non era solo di un centro di addestramento ma una corporazione avente anche funzioni religiose e di assistenza (Archivio Wells)

 

Le riunioni degli scolari bombardieri si tenevano nella chiesa di Santa Eufemia in Rocca

 

La scuola dei bombardieri era dedicata a Santa Barbara, venerata dagli stessi in un altare della Chiesa del Carmine. A Santa Barbara ciascun aspirante allievo bombardiere doveva fare l’offerta di mezzo scudo nel momento in cui chiedeva di potersi iscrivere e a ciascuno di loro, al momento della morte, la Scuola assicurava un funerale con l’accompagnamento di tutti gli scolari bombardieri

Anche quando vennero costruiti appositi edifici (le ben note polveriere) per conservare la polvere in tutta sicurezza, il deposito della Rocca non venne rimosso, esponendo la stessa Rocca e una a parte della città alle conseguenze di uno scoppio, che avrebbe potuto essere provocato in qualsiasi momento da un fulmine – data l’eminenza della sua posizione – o da qualche azione criminosa: erano gli anni di notevole tensione con gli Spagnoli e con Milano, fatto che porterà alla decisione di erigere una monumentale fortezza bastionata a protezione della città alta.

Proprio la caduta di un fulmine sul torrione tondo della Rocca ci fornisce la prima testimonianza dell’esistenza in città di un deposito di polvere nera, datata 17 giugno 1511 e riportata nelle “Effemeridi” dall’abate Donato Calvi riprendendo la notizia dall’ “Historia Quadripartita” di Celestino Colleoni: la saetta rovinò quasi del tutto il torrione, danneggiando gravemente il circondario. Quello stesso torrione esplose anche nel 1512.

Come sempre, la munizione era scarsa è vetusta; soprattutto, c’era pochissima polvere e mancava il piombo. Si raccomandava pertanto che, come in altre fortezze, in concomitanza all’erezione delle mura si costruisse lontano dall’abitato un “edifitio da polvere”, che il nemico non avrebbe mai potuto colpire direttamente con il cannone: si tratta delle due polveriere nel forte di S. Marco, che, come vedremo, verranno costruite qualche decennio dopo.

Parte della cinta muraria veneziana nel Forte di S. Marco superiore, in corrispondenza dell’attuale strada panoramica che conduce a San Vigilio (Racc. Gaffuri)

I TEZZONI DEL SALNITRO

L’unico esplosivo disponibile fino alla seconda metà dell’Ottocento fu la polvere da sparo, per fabbricare la quale occorrevano tre ingredienti: lo zolfo, il carbone e il salnitro. Ma mentre i primi due erano facili da procurare, la produzione del salnitro – principale ingrediente della miscela esplosiva, di cui costituiva quasi il 75% – richiedeva un processo lungo e laborioso dal momento che abbondava soprattutto nei luoghi saturati da escrementi animali, ovunque fosse possibile l’azione di speciali batteri nitrificanti. I sali di nitro venivano estratti dal terreno imbevuto di orina e feci mediante una lavatura con acqua; il liquido così ottenuto conteneva il salnitro disciolto che veniva recuperato mediante evaporazione (1).

La parte maggiore della produzione del salnitro avveniva perciò attraverso i cosiddetti “tezzoni”, ampi recinti con il fondo costituito da terra opportunamente scelta e riparati da tettoie, sotto le quali venivano fatte ricoverare le pecore (per ogni tezzone era previsto un gregge di duecento pecore).

A Bergamo il tezzone del salnitro si trovava nel Prato di Sant’Alessandro a fianco della Fiera e a non molta distanza dall’Ospedale Grande di San Marco, ed era stato costruito per ordine di Venezia tra il 1573 e il 1588, istituendo la figura del salnitraio (2), attraverso il quale la Dominante gestiva in regime di monopolio la raccolta del salnitro e la sua raffinazione in nitrato di potassio.

Altre “tezze” in muratura furono istituite in provincia ed entro il 1623 nella Bergamasca se ne potevano contare sino ad otto. La loro attività proseguì per tutto il Settecento, benché, almeno per un certo periodo, una parte venisse importata (3).

Nell’immagine della città secentesca formulata da Macherio e poi da Stefano Scolari, a sinistra del loggiato dell’Ospedale Grande di S. Marco è visibile l’edificio della Dogana veneta e il tezzone del salnitro (con i locali annessi), dove, terminato l’evento, venivano ricoverate le baracche di legno della fiera. Venne abbattuto nel 1820 per far posto al mercato del grano

 

Il “tezzone” del salnitro al Prato di Sant’Alessandro. Rielaborazione di Luigi Angelini dal disegno di Bernardino Sarzetti del 1723, fatto eseguire dall’amministrazione ospedaliera al fine di controllare e quantificare gli esercizi delle rivendite. Il tezzone si trovava nell’area oggi compresa tra la Banca Popolare di Bergamo e l’incrocio tra il viale Vittorio Emanuele e via Tasca (disegno di Luigi Angelini, “II volto di Bergamo nei secoli”)

Come riferisce Donato Calvi nelle “Effemeridi”, sopra l’ingresso, dominato dal Ieone di San Marco, spiccavano gli stemmi del Doge, del Provveditore alle Artiglierie Giovanni Bondumiero e del capitano Michele Bono, oltre a quelli dei rettori Paolo Contarini e Paolo Loredano.

 

Nella pianta del Manzini del 1816 è indicato il tezzone del salnitro, funzionante dal 1573/’88 sino al 1820, anno del suo abbattimento

 

Planimentri di inizio Ottocento nell’area della Fiera. Non è ancora stato abbattuto il tezzotto del salnitro (demolito nel 1820) – (da: Maria Mencaroni Zoppetti, “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo)

Il tezzone al Prato di Sant’Alessandro venne abbattuto nel 1820 per far posto al mercato delle granaglie, costruito entro l’anno successivo (4) ed affacciato su piazza Baroni, nell’area adiacente alla Fiera.

G. Berlendis, Piazza Baroni in tempo di Fiera. A sinistra il mercato delle granaglie nei pressi della Fiera costruito nel 1821 al posto del “tezzone” del salnitro. Con l’abbattimento del mercato del grano, nel 1838 poté iniziare la costruzione della strada Ferdinandea (poi Viale Vittorio Emanuele), cui seguiranno importanti trasformazioni nell’area del centro urbano come si evince dal confronto tra la pianta di Bergamo del 1816 e quella del 1896 (mencaroni zoppetti).

Ritroviamo una Fabbrica di Sanitro nella mappa del Catasto storico lombardo-veneto del 1853, appena fuori le muraine, accanto al portello e al convento delle Grazie.

Nella mappa del Catasto storico lombardo-veneto del 1853, accanto al portello e al convento delle Grazie, fuori le Muraine, è invece indicata una Fabbrica di Salnitro (f.10 Archivio di Stato di Bergamo)

Se in un primo momento la conservazione del salnitro avveniva in Cittadella in un magazzino in disuso, nel 1598 la quantità prodotta era così notevole da far pensare alla costruzione di un deposito affinché la polvere venisse fabbricata localmente anziché mandare il salnitro a Venezia. Ciò avrebbe permesso di fronteggiare le crescenti richieste della fortezza, dove le scorte erano solo la metà del necessario.

LE POLVERIERE VENETE DI COLLE APERTO

Tra il 1580/’81 e il 1582 si provvide dunque a costruire le due polveriere venete all’interno del Forte di S. Marco, al di fuori del tiro dei cannoni e lontane dall’abitato (5).

Il Forte di San Marco con le due polveriere: la prima a sinistra della chiesetta dì San Pietro, l’altra un po’ più in basso a destra. Particolare dalla planimetria di Stefano Scolari, 1680 circa

Una, di proprietà comunale, è adagiata lungo il baluardo di Castagneta, nella parte superiore, chiave della difesa cittadina del Forte. Si trova in via Costantino Beltrami, ai piedi della scaletta che conduce all’Orto Botanico Lorenzo Rota.

Di notevole interesse storico e turistico e in posizione facilmente accessibile,  ha sofferto per la modifica della zona dovuta alla presenza della scuola media  “T. Tasso.

La polveriera superiore dopo i restauri in un ambiente che non ne valorizza le caratteristiche, essendo sovrastata a nord e ad ovest da un alto muro che ne guasta la visione frontale

 

1875: veduta da Colle Aperto verso il palazzo dei conti Roncalli e la strada per Castagneta. Cerchiata in rosso la polveriera veneziana (fotografia probabilmente eseguita dal conte Antonio Roncalli (Racc. Gaffuri)

L’altra, oggi di proprietà della famiglia dei conti Roncalli, fu costruita più in basso, nella valletta tra Colle Aperto e Porta San Lorenzo.

Cerchiata in rosso, la polveriera inferiore nel 1899. In primo piano, Porta Garibaldi, già San Lorenzo (Racc. Gaffuri)

 

La polveriera inferiore con in primo piano il baluardo di San Lorenzo

E’ delimitata alle spalle dal poderoso muro del forte superiore, dominando  con le sue forme insolite un inconsueto ambiente agreste.

La polveriera inferiore, immersa in un ambiente agreste, nel verde della valletta che scende da Colle Aperto. Di proprietà privata, è stata a lungo adibita a ricovero degli animali dell’attigua cascina

Le pietre furono cavate probabilmente da qualche vena nelle vicinanze, come si usava ai tempi, dal momento che i blocchi di pietra di arenaria della copertura furono con certezza estratti dalla cava posta nelle immediate adiacenze di Porta di San Lorenzo.

Le polveriere, identiche nella forma, sono formate dalla sovrapposizione di una piramide ad un parallelepipedo; in entrambe, il blocco di base è formato da grandi masselli di pietra accuratamente tagliati e ben disposti. Il locale interno è voltato in mattoni e sopra la volta, un conglomerato di calce e pietrame prepara la forma della piramide, rivestita da blocchi di arenaria, più consistenti all’incontro degli spigoli e verso la cuspide; il rivestimento sui quattro lati è invece in lastre più sottili

Il blocco di base, formato da masselli di pietra di nobile fattura e accurata disposizione, è un elemento non trascurabile nel complesso di architettura bellica e aggiunge preziosità alla costruzione:

“Queste costruzioni sono tra i volumi più belli, inusitati e curiosi dell’opera fortificata. La perfetta loro geometria è evidenziata dal nitore dei semplici volumi e testimonia molto bene quel rigore che nell’architettura militare mai vien meno, neppure in piccoli edifici sussidiari dove sarebbe stato possibile concedersi divagazioni ornamentali” (Gianmaria Labaa, “Le Mura di Bergamo”).

La messa a nudo delle piramidi attuata durante i recenti lavori di restauro (6), ha rivelato lo stato rovinoso della copertura lapidea ed anche l’azione delle acque meteoriche, che avevano sfaldato gran parte dello strato superficiale di copertura.

Mentre la piramide della polveriera inferiore è oggi l’unica a presentarsi ancora completa, in quella della polveriera superiore (la più malconcia e più a lungo trascurata) le infiltrazioni d’acqua hanno invaso la volta con minuscole stalattiti, aggiungendo una nota di romantica decorazione al complesso.

La piramide della polveriera inferiore durante i restauri

 

La vegetazione spontanea incombeva sulla piramide superiore e invadeva tutto attorno il blocco di base; la piramide manca pertanto di tutto il rivestimento del lato settentrionale, dove è a vista il sottostante conglomerato; il rivestimento del lato ovest, ricoperto per circa un terzo da terriccio di riporto è stato rifatto in epoca recente utilizzando lastre d’arenaria provenienti dal rifacimento di strade o di marciapiedi. Lo si riconosce dalle caratteristiche scanalature sulla pietra

 

Tolti cespugli ed erbacce finalmente torna ad essere visibile la struttura della polveriera superiore

L’aereazione è attivata da fori o finestrelle alte, mentre la luce e l’aria penetrano attraverso due finestre a baionetta di profondo sviluppo, consentito anche dal notevole spessore del muro che alla base è di circa due metri.

L’inconfondibile mole della polveriera nella valletto dì Colle Aperto mentre erano in corso i restauri

 

La polveriera inferiore al termine dell’intervento di restauro. Proprio perché stabilmente occupate dalle rispettive proprietà per usi pratici, all’interno le operazioni di intervento si sono limitate alla sola pulizia, mantenendo il pavimento realizzato in terra battuta, come all’uso nelle polveriere

 

Nella polveriera inferiore, la porta è sormontata da una stretta feritoia, presente sui lati est ed ovest. Le aperture sono del tipo a baionetta, con un angolo spezzato che impedisce l’accesso diretto al deposito, trattenendo in questo modo eventuali proiettili o materiale incendiario lanciato da fuori. Per maggior sicurezza all’interno delle finestre era stato innalzato in origine un muro, demolito nel 1685 dal capitano Giorgio Cocco perché sottraeva molto spazio al deposito

Sopra gli ingressi sopravvive ciò che resta dei due stemmi scolpiti in un grosso blocco di arenaria grigia, quasi totalmente disgregati. Essi presentano la data di esecuzione dell’opera e i nomi dei capitani e dei soprintendenti veneti.

Lo stemma della polveriera di via Beltrami è ridotto ad una massa informe, dove si può solo intuire la presenza in origine di due insegne affiancate

 

Nella polveriera inferiore la perdita di materiale è ancora maggiore perché, essendo stata usata pietra con un taglio a strati, il distacco degli stemmi è avvenuto in modo netto ma il profilo è tuttora leggibile. Sopravvive un po’ del fregio sottostante, la cui conservazione lascia spazio alla fantasia per la ricostruzione della data relativa alla costruzione (MD…XXX…) e di alcune lettere di dedicazione

§ § §

Nel frattempo si riorganizzava l’intera struttura militare. Per alloggiare le truppe si costruivano quartieri sul versante settentrionale, vicino alle porte (le cosiddette “casermette”, a sud del chiostro maggiore del convento di S. Agostino) o all’interno del forte di San Marco (dove gli alloggiamenti sono ancora individuabili in una parte degli edifici all’inizio di via Beltrami), garantendo ovunque l’immediatezza di un eventuale intervento e un forte presidio nelle località strategicamente più importanti e al contempo sgravando la città dall’onere dell’alloggio.

Le “Casermette” di SAnt’Agostino

 

L’imbocco di via Costantino Beltrami nel 1905 con la chiesupola di S. Pietro, le case del conte Roncalli sulla destra ed altri edifici lungo la strada

Il Castello di S. Vigilio veniva ulteriormente rafforzato entro il 1626, ricavando dalle demolizioni una vasta piazza capace di ospitare anche deposito per le polveri, per le munizioni e per gli archibugi nonché gli alloggiamenti per i soldati.

Sopra la controscarpa che circondava il castello correva la strada coperta in cui erano ricavate alcune piazzuole per le cannoniere.

LA TERZA POLVERIERA

Una terza polveriera, di cui non è rimasta traccia, venne costruita all’interno del Castello di San Vigilio, documentata da un disegno di Luigi Deleidi, detto il Nebbia, nell’album di vedute di Bergamo trafugato alcuni anni or sono dalla Biblioteca Civica “Angelo Mai”. Un’opera grandiosa, il cui progetto secondo l’ingegnere Luigi Angelini può essere attribuito al Codussi.

La polveriera del castello di San Vigilio nell’Ottocento. Disegno di Luigi Deleidi detto il Nebbia. Di questo deposito s’è persa traccia

Il deposito si trovava a destra nella piazza bassa del castello prospettante sulla città, dove si innalzava anche una chiesetta; a sinistra c’erano invece il magazzeno delle armi e gli alloggiamenti dei soldati.

Da Lezze precisa che la torretta (piramide) “per conserva della polvere” era coperta di piombo. Il suo impiego doveva essere limitato alle esigenze del presidio militare sul colle, ma nel 1666 il capitano di turno, nel riferire la situazione dei depositi della polvere, fa presente che essa era suddivisa in tre torrette (ossia piramidi), due in città e la terza nella “Cappella” (Castello di S. Vigilio).

Fu demolita molto probabilmente in coincidenza con le notevoli trasformazioni che la “Cappella” subì nell’Ottocento per mano degli Austriaci, che la sguarnirono del tutto abbattendo pure il portale d’ingresso; i disegni eseguiti da Giuseppe Rudelli nel momento della demolizione ne documentano la grandiosità.

I CRONICI RALLENTAMENTI: SI CONTINUA A USARE LA POLVERISTA DELLA ROCCA

Finita la costruzione nel 1582, le due polveriere non furono utilizzate con la dovuta tempestività, probabilmente per il rallentamento del modesto apparato amministrativo-burocratico dell’epoca, dovuto all’alternanza dei rettori inviati da Venezia a Bergamo, lontana dal potere centrale.

La sigla lasciata da uno scalpellino su una delle pietre della piramide della polveriera superiore

Ancora nel 1598, a ben 16 anni dalla fine dei lavori funzionava a malapena una polveriera (completata tre anni prima), dove il capitano Giovanni Querini aveva fatto collocare tutta la polvere che era stata spedita a Bergamo all’inizio del suo mandato, mentre nella seconda mancava ancora la copertura in piombo.

La piramide era rivestita con piombo che doveva garantire l’impermeabilità. Le lastre di piombo venivano fissate nell’arenaria con degli incavi (nella foto), maggiormente riscontrabili verso la base della piramide

La prima, non era comunque messa meglio, visto che la pioggia filtrava nuovamente a causa della sottile copertura del piombo e il capitano Girolamo Alberti aveva dovuto rimuovere la polvere “bagnata, e in parte ridotta come fango”, facendola asciugare e riportandola in Rocca nonostante il pericolo.

Ancora nel 1599 la polvere (82.126 libre di grossa e 9.226 libre di fine) veniva dunque conservata dentro due torri della Rocca e per la custodia vi erano solo quattro bombardieri, per giunta poveri (quindi corruttibili) e perciò esposti a tramare “ogni scelerità”. Nel 1601 la polvere era ancora in Rocca, ancora esposta al pericolo dei fulmini o a quello di essere presa con un facile colpo di mano, come evidenziato nelle relazioni dei capitani Venier e Trevisan tra la fine del Cinque e l’inizio del Seicento, invitando a portare la polvere in luogo più sicuro.

La Rocca di Bergamo (particolare) – Racc. Gaffuri

Si provvedeva pertanto a sistemare la polverista (deposito della polvere) della Rocca insieme alla casa del salnitraio. Si allungava il bersaglio e fuori città (Osio Sotto e Spirano) si costruivano due “tezze” (tettoie) per la conservazione delle terre necessarie alla formazione del salnitro.

LE ESPLOSIONI ALLA ROCCA

La lunga consuetudine fece trascurare le più elementari norme di sicurezza, per cui si finì col dimenticare dentro la Rocca una scorta di esplosivo, che a causa di un fulmine scoppiò: era il 22 settembre 1663 e ne dobbiamo la vivace descrizione a Donato Calvi, testimone oculare dell’evento.

A giudicare dai danni alle abitazioni anche di Borgo San Lorenzo, sul versante opposto del colle, c’è da ritenere che l’esplosivo anziché nella torre rotonda fosse collocato in una torre in posizione più avanzata verso la città. Questa venne diroccata insieme a molte case vicine e si contarono due vittime fra i civili.

La Rocca di Bergamo (Racc. Gaffuri)

Delle antiche esplosioni avvenute in Rocca restano comunque i segni nel torrione – evidenziati da recenti restauri – nei corsi irregolari delle murature, dove si notano i vari tipi di materiali usati. Alle pietre ben squadrate della base si sovrappone nella parte superiore materiale di taglio e di varia composizione, come se si fosse reso necessario chiudere una breccia.

LE DUE POLVERIERE FINALMENTE ATTIVE MA NON DEL TUTTO EFFICACI

Ed ecco finalmente che con il capitano Andrea Paruta nel 1606 la Rocca è sgomberata e tutta la polvere è conservata in una polveriera.

Il problema non è però del tutto risolto: lo spazio disponibile è poco, mentre è indubbiamente molto pericoloso tenere tutto l’esplosivo in un solo luogo. Il capitano ha fatto sistemare anche la seconda polveriera e sei anni più tardi (1612) il capitano Marco Dandolo può annunciare che tutta la polvere (per 2272 barili) è al sicuro nei due depositi; ma si ripresenta il problema della conservazione, sia per l’insufficiente copertura e sia perché i muri non sono del tutto impermeabili, obbligando a far asciugare la polvere al sole.

Per sicurezza, ma forse anche per ridurre l’umidità proveniente dal terreno circostante, il capitano Dandolo fa circondare i due edifici con un alto muro, di modo che nessuno si può più avvicinare, evitando “ogni pericoloso incontro”.

Le polveriere erano circondate da un alto muro, che le proteggeva e le isolava; se ne nota ancora una traccia nello spazio circostante, soprattutto per quanto riguarda la polveriera inferiore. La cuspide, come appare da alcuni disegni, era sormontata da una sfera di pietra, ora scomparsa

Pur con tutti i difetti, quasi due secoli dopo la costruzione le due polveriere sono ancora utilizzate. Nel 1759 il capitano Francesco Rota fa sapere di aver speso 4025 lire per il loro restauro: ad entrambe le costruzioni vengono tolte le coperture di piombo per rinnovarle, ma sembra che poi non se ne faccia niente.

LA POLVERISTA E I DEPOSITI DELLA POLVERE NEI BORGHI

Mentre, finalmente, dal 1612 pur con qualche problema le due polveriere nel forte di S. Marco potevano contenere tutta la polvere da sparo, per tutto il Cinquecento e parte del Seicento, quando il fabbisogno cresceva di pari passo con lo sviluppo delle armi da fuoco, la produzione rimase concentrata nella “masena da polvere” della Rocca dove, come s’è visto, si fabbricava la polvere per i cannoni e per gli archibugi: in misura modesta, in quanto le macine per tritare e ridurre in polvere componenti necessari erano azionate con i cavalli o a mano.

Nonostante la sua presenza fosse una costante minaccia per la città e nonostante i numerosi solleciti inviati a Venezia a partire dal 1572 (7), la cessazione di questa attività e il suo trasferimento in luogo più isolato, andò incredibilmente per le lunghe.

Le scorte di polvere nella fortezza erano insufficienti e se ne consumava per l’addestramento degli “scolari bombardieri”. Nonostante la scomodità di inviare il salnitro a Venezia e di far venire la polvere da questa città e nonostante salnitro e carbone (componenti essenziali per ottenere la miscela esplosiva, insieme allo zolfo) a Bergamo non mancassero, il progetto di costruire un “edificio da polvere” al piano andò in porto solo nel 1614.

Una fabbrica della polvere ne avrebbe incrementato la produzione – rendendola sufficiente anche per le fortezze vicine -, a costi inferiori rispetto alle vetuste macine della Rocca potendo utilizzare la forza motrice dell’acqua dei canali.

Nel 1623 comunque, la fabbrica presso l’ex convento del Galgario, già degli Umiliati, era già in tutto o in parte funzionante. Qui era possibile sfruttuare come forza motrice le acque del torrente Morla.

L’ex convento del Galgario nel secolo scorso in un disegno di Giuseppe Rudelli (1790-1850). Il Galgario fu sede della prima fabbrica della polvere a Bergamo. (Propr. Sandro Angelini)

La conservazione della polvere avveniva nella vicina torre, quella del Galgario, oggi unica scampata all’abbattimento delle Muraine.

Pietro Ronzoni, Il Galgario (Bergamo, propr. rag. A. Farina)

Ma la presenza della polvere non poteva non suscitare allarme tra gli abitanti del borgo, anche in considerazione degli incendi che si erano sviluppati nel 1623 e dieci anni più tardi.

Così, nel 1682, essendo l’edificio ormai malconcio il doge Alvise Contarini dispose la costruzione di un nuovo edificio per la polvere in un sito lontano dell’abitato, “con abondanza di acqua, et capace di lavorare con trenta copie di pestoni”, in modo da aumentare il più possibile la produzione.

Il luogo scelto fu quello nei pressi della cappella del Sant’Jesus, situata dietro il monastero di Santa Maria delle Grazie (su un’area oggi compresa tra le vie Taramelli e Casalino), dove passavano due canali.

La cappella del Sant’Jesus, nei pressi della fabbrica della polvere, costruita su un’area oggi compresa tra le vie Taramelli e Casalino. Già attiva intorno al 1685,  la fabbrica continuò a funzionare per tutto il Settecento tra sistemazioni e rifacimenti vari (agosto 1888, Racc. Gaffuri)

Il deposito, in tutto simile alle polveriere dell’alta città, dovette essere costruito con una certa celerità e tre anni più tardi il capitano Giorgio Cocco non risparmiava elogi alla nuova costruzione (“la più bella e ben disposta pianta che in questo genere l’arte havesse potuto inventare”), apportandovi delle migliorie, ampliando l’edificio e collocando il “rafinadore”, in un settore dove non c’era pericolo di incendio.

Planimetria della “polverista”, ing. Urbani. (Bib. Mai)

Sappiamo però dell’incendio del 1702 e dei conseguenti lavori di sistemazione nell’edificio, che fu adibito a fabbrica della polvere per tutto il Settecento tra sistemazioni e rifacimenti vari.

Significativi sono, a questo proposito, i due bei disegni in pianta e in alzato dell’ing. Gio. Antonio Urbani, eseguiti dopo un sopralluogo compiuto nel 1778 per rendersi conto delle condizioni del “pubblico edificio della polveri” che risultava essere piuttosto malandato.

Nel disegno a volo d’uccello è visibile, annesso alla fabbrica, il deposito della polvere, copia delle due polveriere piramidali costruite nel 1582.

Veduta a volo uccello dell’edificio della “polverista”, ing. Urbani. (Bib. Mai)

Anche se le cento bocche da fuoco dislocate lungo il perimetro delle Mura non spararono mai un solo colpo e con l’arrivo delle truppe francesi in città (1797) l’apparato militare era già quasi del tutto in disuso, la fabbrica della polvere continuò la sua attività anche nel corso dell’Ottocento, come è possibile rilevare dalle planimetrie del   1816 e del 1836 dove è indicato ancora il complesso della “polverista”.

La caserma del Galgario nel 1880 (Foto Antonio Roncalli). Con le soppressioni e gli espropri avvenuti tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, in seguito al decreto napoleonico, molti istituti religiosi vennero convertiti ad usi civili (caserme, prigioni, ospedali, alloggi militari…)

Il caratteristico toponimo di “polverista” sopravviverà anche all’abbattimento dell’edificio, tanto che i più anziani lo ricordano ancora applicato all’area dove sorgeva lo stabilimento Reich, dove verso la fine degli anni 50 e negli anni 60 è sorto il quartiere residenziale compreso tra via Casalino e la via Martiri di Cefalonia.

II trasferimento nei borghi della produzione della polvere ridusse gradualmente l’importanza delle due polveriere di Città Alta, che, verosimilmente a metà Settecento finirono con l’essere abbandonate e, senza più sorveglianza, esposte ai ladri che asportavano pezzi della malconcia copertura in piombo. Nella foto, la polveriera inferiore (cerchiata in rosso), nella valletta di Colle Aperto, aggredita dalla vegetazione (Racc. Gaffuri) 

Anche per i religiosi del monastero di Santa Maria delle Grazie, non lontani dalla fabbrica della polvere e dall’annessa polveriera, tale presenza continuava a suscitare motivato allarme.

Nel 1769, dopo un disastroso scoppio con molte vittime a Brescia causato dalla caduta di un fulmine (e probabilmente anche dopo un disastroso incidente citato da Ferdinando Caccia nel “Trattato scientifico di fortificazione” del 1748), venne deciso di trasferire il pericoloso materiale in una località più isolata.

La scelta cadde sull’ex convento di Santa Maria di Sotto, l’attuale “Conventino”, dove le polveri furono trasportate nonostante la presenza nell’edificio di un centinaio di ragazze ospiti.

L’edificio del “Conventino”

In un sopralluogo del 1781 effettuato per ragioni di sicurezza l’ing. Urbani rilevava che oltre ai rischi ai quali erano esposte le ragazze, nella zona esistevano anche diversi cascinali e, non molto lontano, la contrada della Malpensata.

Quattro anni più tardi, per allontanare il pericolo dalle ospiti del Conventino l’Urbani ricevette l’incarico di costruire un deposito della polvere in località isolata e realizzò un progetto che ricalca nelle linee tradizionali le polveriere cinquecentesche: non sappiamo però se l’edificio venne realizzato.

Progetto dell’ing. Giovan Antonio Urbani per la polveriera da costruire nei pressi dell’ex convento di Santa Maria di Sotto. Anno 1785

L’ultima traccia di un deposito della polvere in città ce la fornisce la pianta delineata nel 1896 dall’ingegnere Roberto Fuzier. Si tratta di una vera e propria polveriera militare in prossimità del cimitero di San Maurizio, poi inglobato nell’attuale cimitero civico. La polveriera del San Maurizio doveva già esistere un cinquantennio prima ai tempi dei moti del 1848, quando, presidiata dagli Austriaci, venne assaltata dai patrioti bergamaschi. Forse non a caso,  nella mappa del Catasto storico lombardo-veneto del 1853, è ancora indicata  una Fabbrica di Salnitro, accanto al portello e al convento delle Grazie.

Nella planimetria dell’ing. Roberto Fuzier del 1896 il deposito della polvere è situato nei pressi del cimitero di S.Maurizio

 

Il Cimitero Unico nella prima metà del Novecento. A sinistra dell’immagine si riconosce ancora chiaramente la forma rotonda dell’antico cimitero di San Maurizio, unico sopravvissuto dei tre piccoli cimiteri costruiti a Bergamo agli inizi dell’Ottocento perché inglobato nel nuovo impianto del Cimitero Monumentale di Bergamo e destinato da allora alle sepolture dei bambini. La polveriera si trovava a nord del piccolo cimitero

Poco distante alla polveriera del San Maurizio sorgeva fra l’altro la Piazza d’Armi (già presente nella pianta di Bergamo del 1874), posta tra le vie Suardi solcata dalla roggia Serio, Giovanni da Campione, Codussi e Noli affiancata in quel tratto dalla Morla. Era sorto verosimilmente dopo che la Piazza d’Armi presso la stazione ferrioviaria era stata dismessa insieme al “Bersaglio” per far posto al Mercato del Bestiame nel 1865 (8). In particolare, fino al 1920 fu tutta cintata da un alto muro e riservata esclusivamente alle esercitazioni militari’.

Fu proprio in quel periodo che, in previsione della nascita di un nuovo quartiere di duemilacinquecento abitanti, si cominciò a pensare a una piazza d’Armi da realizzare altrove in città.

1924: il “Campo di Marte” (Piazza d’Armi), prospiciente il quartiere della Zognina

Ma questa è un’altra storia.

 

Note

(1) Il salnitro compariva sotto forma di efflorescenze o di aggregati di minutissimi aghi sulle pareti delle stalle, delle cantine e degli ambienti umidi (grotte per esempio); lo si poteva trovare anche nel terreno di varie zone dell’Europa (in particolare Francia e Lombardia), ma abbondava soprattutto nei luoghi saturati da orina e da feci,

(2) La raccolta del salnitro avveniva ad opera del salnitraio e dei suoi lavoranti. L’attività dei “tezzoni” era disciplinata insieme a quella dei salnitrai e dei pastori, ai quali I primi affittavano i pascoli loro assegnati. Per ogni tezzone era previsto un gregge di duecento pecore (ed è curioso sapere che dopo il 1810 nell’ex Mercato dei bovini  posto tra le attuali Piazza Cavour e via T. Tasso, si commerciava solo il bestiame fessipede). Il salnitraio e i suoi lavoranti potevano in un qualsiasi momento scavare nelle stalle e nelle cantine per prelevare il terreno ricco di nitrati, ed era fatto divieto non solo di ostacolarli ma anche di intervenire sulla raccolta, spazzolando ad esempio, i muri.

(3) In provincia a partire dal 1576 erano state istituite altre “tezze” in muratura che consentivano una più abbondante produzione di salnitro in sostituzione della raccolta occasionale nelle stalle e nelle cantine: una ad Osio Sotto e l’altra a Spirano, alle quali vent’anni dopo (relazione del capitano Giovanni Da Lezze) si erano aggiunte quelle di Martinengo, Mornico e Terno d’Isola e, pare, una settima per Sarnico. Nella Bergamasca si giunse ad avere fino ad otto “tezzoni”, citati nel 1623, epoca in cui erano tutti piuttosto malconci. Nel 1601 essendo i salnitrai venuti meno all’obbligo di fornire i quantitativi, la ricerca di salnitro avvenne al di fuori dei confini dello Stato (a Trento, nel Genovese, a Chiavenna e a Zurigo nei Grigioni). Dopo aver intrattenuto rapporti con Nova Genovese, il capitano di turno finì con lo stringere un accordo con un mercante d’oltralpe, importando salnitro di ottima qualità, che probabilmente venne fatto arrivare attraverso la Strada Priula.

(4) In poche note trovate nel n. 5 del “Giornale di indizi giudiziari” del 1° febbraio 1821, si informa che in piazza Baroni la fabbrica dei nitri, detto il “Salmister”, veniva trasformata in “pubblica vendita di granaglie al coperto”: “L’impresa di questo lavoro è diggià incominciata, e compiuta che sia noi avremo un’area ancor più vasta adiacente a questo ampio porticato, con casini laterali per uso degli inservienti, e chiuso da tre rastelli di ferro”.

(5) Il via al cantiere venne dato verosimilmente con il podestà Francesco Pesare e portato a termine, ma in modo incompleto con il capitano Vincenzo Nani. In un documento dell’Archivio Albani, custodito alla Biblioteca “A. Mai” vi sono risolutive indicazioni sulla data di inizio. Per la prima polveriera l’appalto dei lavori fu assegnato ad Antonio da Piacenza, per la seconda a Paolo dei Bizioli di Desenzano. Entrambe costarono 2668 ducati.

(6) Il restauro conservativo completo è stato portato a termine sotto la supervisione della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici e del Comune, grazie al prezioso interessamento del Lions Club Bergamo Host (1981) nonchè della Banca Popolare di Bergamo e del Credito Bergamasco (1986).

(7) Uno dei primi a sollecitare il Senato Veneto perché a Bergamo venisse costruita una fabbrica della polvere – come esisteva nelle altre fortezze – fu, nel 1572, il capitano Bartolomeo Vitturi.

 (8) La Piazza d’armi nell’area dell’attuale piazzale degli Alpini, luogo di esercitazione militare popolarmente denominato “Campo di Marte”, compare nella mappa Catasto Storico Lombardo Veneto del 1866. In funzione al sito militare, viene costruita la struttura del “Bersaglio” (in corrispondenza dell’attuale via Foro Boario) con il suo lungo corridoio di tiro (che verrà dismesso insieme alla Piazza d’Armi per far posto al Mercato del Bestiame nel 1865 (anche se sulla pianta di Bergamo del 1874 la “Nuova Piazza d’Armi” risulta ancora presente). In precedenza, luogo di esercitazione militare era il Comando di Piazza, costituito da piazza e capannoni, dove nel 1852-54 era nato il Palazzo della Pretura ora Palazzo degli Uffici Comunali).

Riferimento principale

A cura del Lions Club Bergamo Host, Pino Capellini, “Le polveriere venete”. Editrice Cesare Ferrari di Clusone. Tipolitografia Cesare Ferrari. Giugno, 1987.