La memoria del Cappello d’Oro, locanda con ristorazione appena fuori Porta Nuova – aperta nello stabile dei Caversazzi -, risale alla seconda metà dell’Ottocento, ai tempi in cui era frequentato dai commercianti della Fiera allestita oltre i Propilei, ingresso monumentale alla città.
Nei pressi, appena fuori dalla porta daziaria sostavano dei carretti guidati da uomini con un gran cappello giallo, la cui presenza diede spunto al nome dell’albergo, che trasformò quel giallo nel più appetibile “oro”.
Stiamo parlando del primitivo Cappello d’Oro, un esercizio sempre frequentatissimo da commercianti, rappresentanti, viaggiatori. Quello che diversi anni dopo venne rilevato da quel genio speciale della ristorazione che fu il cavaliere Domenico Ruggieri, che lo trasformò sino a renderlo una stella di prima grandezza, degna di brillare anche in ambito internazionale.
Quello stesso che nel 1979 venne acquisito dai coniugi Anna ed Ernesto Zambonelli, che ne avviarono l’attività l’anno seguente. Storia alberghiera, oggi alla terza generazione, guidata dalla madre Anna, i figli Corrado e Giovanni e il nipote Daniele.
Dagli appunti di Luigi Pelandi emerge che l’albergo era gestito intorno al 1890 da Vittorio Artifoni. Vecchie locandine rintracciate dalla scrivente ci danno conto anche del nominativo di un certo Eugenio Artifoni, la cui attività venne poi rilevata dagli eredi, che dovettero condurre anche l’Hotel Cavour.
Ci fu poi Enrico Avallone, che probabilmente iniziò a gestire l’Albergo non prima del 1897, come si evince dalla mancanza dei binari del tram, posati proprio in quell’anno, seguito da Vittore Albertini, che secondo Pelandi gestì l’albergo verso il ‘900 e teneva servizio di carrozze e cavalli per ricevere alla Stazione i viaggiatori. Con quest’ultimo i locali vennero “completamente rimodernati”.
E’ sempre Luigi Pelandi ad informarci che a Vittore Albertini dovette succedere un Carlo Chighizzola, verso il 1923-1924 e poco dopo Domenico Ruggeri.
Verso la fine dell’Ottocento il Cappello d’Oro godeva già di una particolare notorietà; la sua cucina, rinomatissima, era considerata la più importante della città, ben al di sopra del Concordia – che s’impose in un periodo successivo – e dell’Italia, che ai tempi si trovava in Via XX Settembre, mentre il Moderno era ancora in costruzione.
Forse, per le nobiltà di Città Alta, qualche nomea interessava il “Solino”, antichissimo luogo conosciuto da tutti e di cui Hermann Hesse ci ha lasciato un’indimenticabile testimonianza durante il suo soggiorno, avvenuto nel 1913.
Ma nella città al piano era il Cappello d’Oro a primeggiare, grazie alla capacità dei proprietari di offrire alla clientela le più fini agiatezze, frutto delle più recenti innovazioni.
Fra queste, l’omnibus a due cavalli, un servizio di carrozze stanziato presso la stazione ferroviaria (ricordato da Umberto Zanetti ai tempi della gestione di Vittore Albertini), pronto ad accogliere in gran pompa i “signori clienti” nonostante nel viale il tram a cavalli fosse già attivo dal 1888: i binari del tram vennero posati solo nel 1897 per lo scorrimento dei vaporini “Brembo” e “Serio”, ben presto sostituiti dal tram a cavalli a causa del loro discontinuo e farragginoso funzionamento.
L’ingresso avveniva da una porta a tre luci sistemata lungo il viale o da un grande portone aperto sull’attuale via Tiraboschi, da cui entravano le carrozze, gli equipaggi signorili, i barrocci e le timonelle provenienti anche da fuori città, oltre alle “corriere” che dal Cappello d’Oro partivano per le valli, solitamente “diligenze” a tre cavalli.
Ben tre scuderie provvedevano alla sosta e alla cura dei cavalli, che i padroni più abbienti facevano strigliare fino a brillare. Nel cortile l’andirivieni non conosceva sosta: chi voleva entrare e chi voleva uscire, chi esigeva spazio per l’abbeverata, chi sollecitava per un’incombenza: un bailamme assordante cui non si sottraeva nessuno, nemmeno i clienti altolocati e più azzimati.
La rilevanza dell’Albergo derivava naturalmente anche dalla sua posizione strategica all’incrocio tra le due principali arterie del borgo in pieno sviluppo, ai primi del Novecento in odore di modernità.
La città stava crescendo a ritmo vertiginoso e stava radicalmente modificando la vecchia struttura urbana per acquisire un volto moderno.
Con l’abbattimento delle Muraine sorgevano nuove case, venivano tracciate nuove strade e migliorava la viabilità e, in tutto questo, il decollo dell’industria e dei commerci elettrizzava i bergamaschi.
Nella città che si apprestava a crescere il Cappello d’Oro stazionava al crocevia dei tre cuori pulsanti del centro cittadino di allora, ovvero tra il Sentierone e la Fiera – la grande area del commercio e della finanza cittadina -, il Foro Boario, cioè Mercato del Bestiame, e la fermata delle vaporiere provenienti da Lodi e Milano – il famoso “tram belga” – attraverso lo smistamento di Treviglio.
Al centro dello slargo una torretta vetrata di circa otto metri e con un grande orologio in cima fungeva da capolinea, e all’arrivo del tram belga, un fumigante convoglio, venivano scaricate le folle del trevigliese e del milanese che si smistavano fra negozi, uffici pubblici, scuole ed ospedali.
L’arrivo delle vaporiere affumicava l’aria rendendola irrespirabile per oltre una mezz’ora: il tempo richiesto per scaricare e caricare le merci e rifornire le vetture del combustibile necessario.
Avvelenati dai miasmi del carbone i passeggeri ed i passanti non potevano far altro che tossire, mentre gli astanti in attesa di ripartire si chetavano solo al fischio potente e allo sferragliare della vaporiera. Finalmente, partiti i convogli, per qualche ora si poteva respirare.
Al frastuono che avvolgeva tutto intorno il Cappello d’Oro si contrapponeva la calma quasi irreale che si respirava al suo interno.
LA CLIENTELA
La clientela era formata prevalentemente da habitué – commercianti, rappresentanti e viaggiatori – che non badavano ad altro che a spassarsela in pace. Forniti di marenghi trascorrevano il tempo tra qualche impegno di lavoro, visite agli amici, agli uffici notarili, alle banche e al ritrovarsi al Circolo per la partita, magari assaporando l’idea di qualche scappatella.
Tutt’altra musica la domenica all’ora di cena, quando i “privilegiati” arrivavano con la famiglia, figlioli compresi, tutti azzimati ed eleganti. L’aria si faceva allora densa di attenzioni e reciproche cortesie.
Le signore svolazzavano tra chiffon e cappelli mentre gli uomini sfoggiavano le impeccabili giacche lunghe con i calzoni a righe e le scarpe di vernice, i solini e il fazzoletto ricamato nel taschino, con la catena d’oro in bella mostra sul bianco gilet inamidato.
Il lunedì era invece giorno di traffici, delle più disparate riunioni fra negozianti, viaggiatori di commercio e mediatori d’ogni sorta, che stazionavano all’Albergo sino a notte: tipi alla buona comunque, chiassosi, bevitori e gran mangiatori.
DOPPIO MENU PER CLIENTI….DIVERSI
Nella battagliera giornata del lunedì non si contavano perciò le tazzone di “busecca”, di foiolo, il carrello con il manzo, l’arrosto a pezzi monumentali, lo stracchino di gorgonzola tagliato alla brava, le fettone di salame casalingo, il grana dalla goccia verde.
Tutto ‘sto “ben di dio” spariva alla vista nei giorni successivi per non urtare i palati fini – non avvezzi al cibo triviale – per i quali, al Cappello d’Oro, si approntavano piatti saporiti ed invitanti, ma delicati: si dice che il famoso carrello dei bolliti fosse d’argento.
GOLOSONI ILLUSTRI
Piatti di cui, al tempo della Stagione lirica al Teatro Donizetti, due gran mangiatori come Pietro Mascagni e il maestro Leopoldo Mugnone, croce dei cantanti e degli orchestrali, non si stancavano di lodare la bontà: la cucina del Cappello d’Oro diventava magnifica.
La loro presenza al Cappello d’Oro si affiancava a quella degli artisti che imperversavano in città nell’agosto e nel settembre o a quella di coloro che vi facevano tappa nel viaggio verso San Pellegrino, l’aristocratica sede termale onorata da Sua Maestà la regina Margherita, da ministri, banchieri, industriali, stranieri di fama.
In tali occasioni, al Cappello d’Oro aumentavano i cuochi e i camerieri, e fu proprio lì che comparvero le rarità dei vini francesi, degli champagne, dei cru e dei cognac pregiati.
FESTE E FESTINI
Questi festini si ripetevano nello stesso salone anche in caso di elezioni, dove in seguito ai successi il ricchissimo senatore radicale Adolfo Engel non tralasciò di porgere ai suoi maggiori elettori ostriche, tartufi, pâtés di Strasburgo e larghe fette dei panettoni fatti arrivare appositamente dal Cova di Milano. In queste occasioni, si imbandivano tavolate regali con tovaglie di lino, posate d’argento e porcellane.
All’Albergo si tenevano anche eleganti banchetti di nozze così come banchetti organizzati per varie celebrità o per nomine a Cavaliere o Commendatore.
Quando Bergamo ospitò Gabriele D’Annunzio, non fu difficile rendergli gloria se non raccogliersi, intorno a lui, al Cappello d’Oro nel corso di una memorabile serata pari soltanto a quella che si organizzò per la divina Rosina Storchio, in onore della quale si era approntata una cena principesca.
Momenti di gloria rimasti a lungo nella memoria cittadina insieme al ricordo di centinaia di curiosi, accalcati nell’attesa, stupiti dell’incredibile via vai degli omaggi floreali che gli estimatori del celebre soprano avevano fatto pervenire.
Fuori, ravvolto nella prefettizia consunta, il Sìndech de Pòrta Nöa, seduto sui gradini dei Propilei, aspirava dalla sua pipa di gesso il fumo di un fetido trinciato e contemplava assorto la prima luna.
A che cosa pensava?
Alle fervorose arringhe degli avvocati, ch’egli ascoltava estatico e come inebetito, quando seguiva fra il pubblico i processi dell’Assise in Piazza Vecchia?
Riferimenti principali
Il Cappello d’Oro, da “Bergamo così (1900 – 1903?)” di Geo Renato Crippa.
Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963. Collana di studi bergamaschi.
Ultima modifica 02/12/2023