Il Fontanone Visconteo – il più grande serbatoio di Città Alta da oltre 700 anni – e la nascita dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti

“Da ragazzino, insieme ai compagni ci infilavamo dentro, facevamo gli speleologi perlustrando le vasche. E’ immensa, passa sotto la basilica di Santa Maria Maggiore, a berla sapeva di pane” (Domenico Lucchetti in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, 28/04/2002)

Il Fontanone, stupendo manufatto a conci bicromi, bianchi e neri, sorge nel 1342 nella vicinia di Antescolis, nel cuore della Città Alta di Bergamo, tra l’abside della basilica di Santa Maria Maggiore e l’antica Cattedrale di San Vincenzo (Duomo dal IX secolo). E’ sormontato dalla mole della ex sede dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, eretto nel 1768

Nei sotterranei dell’ex Ateneo, in piazza Reginaldo Giuliani, si cela un grandioso serbatoio d’acqua, scavato nella viva roccia. E’ quello che chiamiamo “il Fontanone”, realizzato (o forse ripristinato) nel 1342 da Luchino Visconti – che governava Bergamo anche a nome del fratello arcivescovo Giovanni – nel centro politico, religioso e commerciale della città, oggetto in quegli anni di un grande fervore costruttivo.

La piazza, anticamente occupata dal Foro romano e divenuta nel medioevo “platea magna Sancti Vincentii”, ebbe fin dagli albori del Comune soprattutto vocazione commerciale.

La piazzetta antistante il Fontanone nell’incisione di Giuseppe Berlendis (1830). Sovrasta il Fontanone la sede dell’Ateneo. A lato è visibile la Basilica mentre a sinistra fa capolino la lanterna della Chiesa della Carità, indagata da Tosca Rossi in “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”

Il Fontanone si inserì nel centro monumentale urbano, a sottolineare la presenza dei nuovi signori. Vi si trovava una fontana citata come fontana “berlina”, forse perché nei suoi pressi si trovava la berlina, luogo di pena che esponeva al pubblico disprezzo i colpevoli di reati che erano di danno alla cittadinanza. C’era inoltre una struttura porticata, citata in alcuni documenti come “porticus pelipariorum” (portico dei pellicciai), e la cisterna inglobò ovviamente sia la fontana che il “porticus” preesistenti (1) e venne protetta da un riparo (2).

Donato Calvi nelle Effemeridi (Vol. I, pag. 324) dà la notizia di essere il volume d’acqua contenuto di tremila seicento cinquanta carri d’acqua, pari a 43.800 brente bergamasche (1200 mc.)

Capace di circa ventiduemila ettolitri d’acqua (secondo le testimonianze di allora tremilaseicentocinquanta carra, pari a 43.800 brente bergamasche), la cisterna era alimentata dall’antica conduttura dei Vasi proveniente da Castagneta, acquedotto di origine romana che, dopo secoli di abbandono e i danni causati dalle invasioni barbariche, i Visconti avevano provveduto a ripristinare per poter intervenire al meglio sull’impianto urbanistico, con la definizione di alcune piazze del centro storico: Mercato del Fieno, delle Scarpe, delle Biade, della Carne, del Pesce, differenziate per mercanzia allo scopo di agevolare la tassazione.

L’antico acquedotto dei Vasi proveniente da Castagneta, sui colli a nord della città, venne ripristinato in età viscontea rimediando ai danni delle invasioni barbariche, come recita la lapide presente in località Gallina, inserita in un bel tratto di muro medioevale. Il testo ricorda che nel 1339, sotto il podestà Beccaro Beccaris, l’acquedotto fu interamente ripulito (“Sguratum”) fino al Saliente (partitore finale o Castellum acquae), situato nei pressi dell’antica porta medioevale di S. Alessandro, distrutto con l’edificazione delle Mura veneziane

Nelle intenzioni della Signoria Viscontea, che dominò Bergamo dal 1331 e al 1428, la cisterna doveva, per misura di capacità, superare di gran lunga le camere di serbatoio delle altre fonti della città, che era già provvista di tre pozzi pubblici (3) e di 17 fontane vicinali.

La realizzazione della nuova cisterna (Fontanone) non aveva fatto eliminare la fontana di Antescolis unita alla basilica

E ciò non tanto, come asserivano i Visconti, per assicurare il rifornimento idrico ai poveri bergamaschi, quanto piuttosto per garantirlo ai militi viscontei, in quei difficili anni gravati da guerre, carestie e pestilenze, nell’eventualità di un lungo assedio da parte dei nemici.

Il fonte doveva perciò servire solo per attingere acqua: non vi dovevano essere né vasche per lavare, né abbeveratoi per i cavalli. come esistevano presso le fontane del Vagine, del Lantro, della Boccola, del Corno alla Fara, per le quali gli statuti della città, riassunti nel volume del 1727 (coll. VIII, cap. 75-78), imponevano ai guardiani misure di pulizia e di ordine: “custodes teneantur mundare et sgurare lavanderia et lavellos in quibus bibunt equi”.

Cisterna del Fontanone Visconteo. Recenti studi assicurano che prima di versarsi nella cisterna, l’acqua confluiva in una piccola vasca di decantazione posta sul lato occidentale verso la basilica; dalla parte opposta c’era la zona di aspirazione con il pescaggio nella parte inferiore (ora interrato e nascosto)

L’ACQUEDOTTO MAGISTRAE E IL PARTITORE DEL VESCOVADO

Con la costruzione delle Mura veneziane e la conseguente distruzione dell’antico serbatoio del Saliente in Colle Aperto, da cui si diramavano i canali per servire le diverse fontane, il Fontanone venne alimentato dall’Acquedotto Magistrale, il cui condotto prendeva origine dal punto di unione dell’Acquedotto dei Vasi con l’Acquedotto di Sudorno, all’interno del baluardo di S. Alessandro.

Snodandosi all’interno di Città Alta, tramite partitori delle acque e canalizzazioni minori, tale condotto distribuiva acqua alle fontane, cisterne ed utenze private che avevano la concessione per l’estrazione.

Le acque giungevano al Fontanone tramite il “Partitore del Vescovado”, il più importante fra i tre partitori delle acque costruiti lungo l’acquedotto, posizionato al di sotto del giardino della della Curia Vescovile. Da qui si dipartivano le canalizzazioni per alcune utenze interne alla Curia stessa, per la fontana di San Michele dell’Arco, la fontana di Antescolis o di Santa Maria Maggiore, il palazzo della Mia in via Arena, il Fontanone e il partitore successivo di piazza Mercato del Pesce.

Partitore del Vescovado. Provenendo da dietro la Cittadella, l’acquedotto magistrale raggiungeva il Vescovado, da dove un partitore distribuiva l’acqua in più parti della città E’ indicato il canale maggiore e le diramazioni per la fontana di S. Maria Maggiore (Antescolis) per il Fontanone e per la fontana di S. Michele (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole)

GLI ANTICHI CONDOTTI

Fondamentali tra le diramazioni del partitore del Vescovado due canali che passavano in senso longitudinale sotto la basilica di Santa Maria Maggiore. Uno di essi, in parte ancora esistente, attraversava un ambiente ipogeo di forma circolare e con soffitto a volta in cotto, ubicato sotto la sacrestia nuova. Il condotto proseguiva andando quindi ad alimentare la grande cisterna del Fontanone.

A riprova dell’esistenza di un preesistente sistema di canalizzazione, all’interno del suddetto ambiente ipogeo il Gruppo Speleologico Bergamasco Le Nottole ha individuato una struttura muraria più antica fornita di un tubo circolare in bronzo che doveva assicurare l’approvvigionamento idrico al sito. Ciò non deve stupire in quanto strutture come gli acquedotti dovevano seguire determinati percorsi, rispettando quote e livelli.

E’ da ritenere quindi che tra il condotto che assicurava l’acqua alla città romana e medievale, e poi a quella del ‘600, non vi fossero molte differenze, dovendo giocoforza attestarsi su alcune emergenze fondamentali come il colle di S. Giovanni e quello di S. Salvatore.

Vano ipogeo a pianta circolare con soffitto a volta in cotto esistente sotto la sagrestia di Santa Maria Maggiore. Era attraversato dall’acquedotto che, provenendo dal partitore del Vescovado, correva longitudinalmente sotto il pavimento della Basilica per poi alimentare la cisterna del Fontanone Visconteo (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole)

 

L’Acquedotto Magistrale rimase in funzione sino al 1892, quando venne costruito un nuovo impianto che rispondesse alle nuove esigenze, con la costruzione di nuovi lavatoi quello in via della Boccola, in Borgo canale e il lavatoio in via Mario Lupo, in fotografia

LA SIGLA AQ

La presenza dell’antico Acquedotto è segnalata dalla sigla AQ, incisa su un muro a lato del Fontanone, accanto allo scalone posto fra l’Ateneo e Santa Maria Maggiore e vicino a una porticina di legno, antico uschiolo di ispezione.

L’iscrizione AQ incisa su un muro a lato del Fontanone, accanto a una porticina in legno cui accedevano i fontanari per ispezionare la cisterna viscontea

 

La sigla AQ presso il Fontanone

Un tempo questa sigla, insieme alle lettere “A” o “AQM” si notava un po’ ovunque in Città Alta e sui colli, incisa sui muri di alcune case o su appositi cippi di arenaria. Era così che, nel ‘700, gli addetti alla manutenzione e alla pulizia della rete idrica (i cosiddetti “fontanari”) indicavano i punti in cui passavano i tracciati dell’acquedotto, altrimenti impossibili da individuare.

E dal momento che la rete idrica sotterranea si diramava per oltre sei chilometri, si presume che in passato tali sigle fossero numerose. Ancor oggi sopravvivono alcune tracce, ad esempio su un cippo di via Sudorno, su pietre del muro di sostegno in via San Vigilio o lungo il percorso dei Vasi (vie Castagneta, Ramera, Beltrami.

IL CARTIGLIO TRECENTESCO E LE BOCCHE DELL’ANTICA FONTANA

Al di sotto del doppio scalone un arco inquadra le bocche dell’antica fontana e un grande cartiglio trecentesco in marmo grigio, inciso in latino e in caratteri gotici.

L’epigrafe riporta il 1342 come data di edificazione del Fontanone ed oltre a ricordare i fratelli Giovanni e Luchino Visconti, riporta i nomi del podestà cittadino, Gabrio Pozzobonelli, e del tesoriere, Bondirolo de’ Zerbi, milanesi, nonché nomi dei costruttori, Giovanni da Corteregia e Giacomo da Correggio, forse scultori comacini che, all’epoca della costruzione, avevano da poco ultimato, sotto la direzione di Ugo e Giovanni da Campione, la ricca decorazione ornamentale del Battistero, ora affacciato sulla Piazza del Duomo di fronte alla Cattedrale.

Il pregevole cartiglio trecentesco

Il dominio di Luchino e Giovanni Visconti è visualizzato non solo nei nomi ma da tre interessanti riquadri araldici scolpiti nella parte superiore, con a sinistra lo stemma della città con sei strisce, vermiglie e gialle, disposte “a palo”; al centro la targa con l’aquila (pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero) allusiva a Giovanni Arcivescovo di Milano e, alla destra, come emblema del fratello minore Luchino, la raffigurazione in parte consunta di un aquilotto che artiglia un animale (lupo o cinghiale).

Gian Galeazzo Visconti, già vicario imperiale e signore della capitale lombarda, aveva ottenuto il titolo di Duca di Milano l’11 maggio 1395 mediante diploma imperiale da Venceslao di Lussemburgo. Con un secondo documento datato 13 ottobre 1396 i poteri ducali furono estesi a tutti i domini viscontei e nei centri più significativi del ducato. Gian Galeazzo ottenne la patente per inquartare il biscione visconteo con l’Aquila imperiale – pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero – nella nuova bandiera ducale. Il nome dei Visconti deriva infatti dal latino vice comitis, che significa “vice conti”, vice – colui che fa le veci e conti – comites (con-te) indicava colui che stava con qualcuno, cioè con l’imperatore: per i Visconti con l’imperatore del Sacro Romano Impero. La famiglia dei Visconti era quindi colei che in Italia rappresentava l’Impero, tanto da agognare allo status di primi Principi italiani, che a fatica Gian Galeazzo ottenne nel 1402

Nella parte inferiore, i due mascheroni a rilievo e a testa di moro posti a lato della bocchetta sono modellati con gusto secentesco, rivelando l’aggiunta di elementi in epoca molto più tarda.

In alternativa alla bocche dell’antica fontana c’era una bocchetta, ancora visibile sul lato breve che volge verso via Mario Lupo, che tramite una pompa prelevava l’acqua dal serbatoio, presente sino a pochi decenni or sono

Il Fontanone intorno al 1915 e la bocchetta ancora presente sul lato breve che volge verso via Mario Lupo (Raccolta D. Lucchetti)

 

1948: un bambino aziona la pompa per prelevare l’acqua del Fontanone

 

Una delle due finestrelle aperte ai lati più corti della struttura, attraverso la quale è possibile osservare la cisterna. La pompa e la bocchetta verso via Mario Lupo sono ancora presenti

IL PORTICO E LA NASCITA DEL MUSEO LAPIDARIO

La costruzione del Fontanone permise la realizzazione di un sovrastante piazza rettangolare sulla quale fu successivamente costruito un piccolo edificio, che compare nella cosiddetta veduta di Bergamo a volo d’uccello di Alvise Cima, dove è indicato come una minuscola struttura. Il prospetto sud, murato, è provvisto di tre piccole porte; molto probabilmente il fronte nord, non visibile nella rappresentazione, era aperto e scandito da colonne.  Poteva trattarsi o di un deposito di armi in disuso (4).

La freccia indica, di fronte alla chiesa di S. Vincenzo (attuale Duomo) il Fontanone visconteo privo del sopralzo neoclassico del 1768, con il prospetto sud murato e provvisto di tre piccole aperture; si presume che il fronte nord, non visibile nella rappresentazione, fosse aperto e scandito da colonne (4) (Anonimo, Bergamo a volo d’uccello, eseguita verso la fine del XVI secolo e con modifiche apportate entro il 1662, Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo. Foto Dimitri Salvi. Dettaglio)

Nel 1743 il portico esistente sopra il Fontanone fu trasformato in un ambiente destinato ad ospitare la sede del nascente museo lapidario, voluto dalla municipalità per ospitare le lapidi antiche provenienti da materiale di scavo, disperse a Bergamo e nel territorio. Il progetto fu affidato all’architetto veronese Alessandro Pompei. I lavori iniziarono nel 1759 e terminarono nel 1768 con la posa della monumentale scalinata d’ingresso a rampe contrapposte. Non siamo a conoscenza del disegno originario, ma è possibile immaginare una struttura essenziale, presumibilmente un loggiato aperto, dove internamente erano collocate le antiche lapidi.

La divisione in moduli proporzionale al piede veronese del l’edificazione – circa 35 cm – è stata recentemente confermata. Questo ha condizionato negli aspetti metrici tutta la sua successiva funzionalità e modifiche stilistiche (la sequenza lesene-arcate ricalca quella rapporto 1:3 e la larghezza di ciascun pilastro è pari a due piedi).

DALLA LA NASCITA DELL’ATENEO AI GIORNI NOSTRI

Nel 1818 l’Imperial Regia Delegazione Provinciale dispose di dare come sede definitiva dell’ “Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti” il pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone, che venne quindi adattato, ovvero modificato, per divenire un ambiente chiuso.

Ed è appunto in seguito al 1818, che viene eretto, su progetto dell’architetto Raffaello Dalpino, l’attuale costruzione di gusto neoclassico.

L’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, istituito con decreto napoleonico il 25 dicembre 1810, è sorto dall’unificazione di due antichissime accademie: degli Eccitati e degli Arvali. L’Accademia degli Eccitati, fondata nel 1642 da un gruppo di eruditi, tra cui Bonifacio Agliardi, Clemente Rivola e Donato Calvi, ebbe attività prevalentemente letteraria; rinnovata nel 1749 ad opera soprattutto di Pierantonio Serassi e di Mario Lupo. Ebbe tra i suoi soci anche Lorenzo Mascheroni (un “Eccitato”) e Giovanni Maironi da Ponte (un “Arvale”). L’Accademia degli Arvali sorse nel 1769, dietro invito della Repubblica di Venezia, con lo scopo di introdurre sistemi innovativi nell’agricoltura e nell’economia in genere. Gli Arvali erano sacerdoti appartenenti a famiglie patrizie dell’antica Roma dediti al culto di Cerere, dea delle messi. Ecco perché questa accademia si occupava in particolar modo di agricoltura. Dapprima l’istituzione si intitolò Accademia d’Agricoltura o degli Arvali; quindi, a partire dal 1787 fu denominata Accademia Economico-Arvale; ad essa sono legati i nomi della nobiltà terriera bergamasca: Benaglia, Rivola, Tomini-Foresti, Mozzi, Brembati, Secco Suardo, Calepino. Con il decreto napoleonico del 25 dicembre 1810, che tendeva a riformare ed unificare gli istituti culturali, le due istituzioni furono fuse in un solo organismo con il nome di Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Bergamo. L’Ateneo trovò sede provvisoria nell’ex refettorio e in alcune stanze contigue del monastero di Rosate (nel luogo dell’attuale Liceo Classico Sarpi), trovando sede definitiva (1818) nel pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone, per risarcire il debito che la città aveva aperto nei confronti dell’istituzione accademica quando, nel 1796, chiese in prestito 4000 scudi per far fronte alle spese che la Municipalità doveva sostenere per l’alloggiamento delle truppe francesi (Maria Mencaroni Zoppetti).

Scartato il progetto di adattamento e di messa in sicurezza di Carlo Capitanio, architetto responsabile dell’ufficio tecnico della città, furono incaricati gli architetti Gian Francesco Lucchini e Giacomo Bianconi (membri di l’Ateneo che nel frattempo finanziava l’edificio) il cui progetto – oggi perduto – prevedeva la chiusura dei portici con finestre e la realizzazione di due grandi ambienti nelle due campate laterali opposte. Il primo per creare un ampio vestibolo con ingresso secondario e il secondo ad uso ufficio e biblioteca.

La distribuzione spaziale fu mantenuta dall’architetto Raffaello Dalpino (anch’egli socio), al quale dobbiamo un nuovo progetto che è stato realizzato e completato nel 1859.

Il progetto dell’architetto Raffaele Dalpino, 1854

Il progetto di Dalpino è un progetto colto e raffinato, con un sapiente uso degli ordini architettonici e un rigoroso rispetto dei moduli adeguati, nelle proporzioni, al sito e al contesto dato dagli edifici preesistenti (5).
Uno spazio apparentemente semplice e simmetrico che in realtà ha diversificato fortemente le due parti attraverso una diversa caratterizzazione degli arredi, delle funzioni e della disposizione delle lapidi (presenti solo nella parte sinistra). Una perfetta combinazione tra la funzione museale e il ruolo istituzionale della sede dell’Ateneo.

Questa configurazione rimase immutata per circa ottant’anni e cioè fino al 1933 quando l’edificio fu ceduto al locale gruppo fascista Garibaldi; furono poi rimosse le collezioni e sostituiti gli arredi.

L’Ateneo con le aperture ancora tamponate (foto non datata)

L’intensa attività culturale dell’Istituzione aveva cominciato ad essere compromessa quando tra il luglio del 1899 e il gennaio del 1900 la biblioteca e i manoscritti erano stati collocati in deposito presso la Biblioteca Civica A. Mai.

Nel 1905 la Società di Cultura di Bergamo si offrì per accogliere ciò che restava della biblioteca degli scambi con le altre Accademie . Nel 1917 la sede fu concessa al Comune per il Museo del Risorgimento (opere d’arte e libri dell’Ateneo vennero quindi trasferiti nella biblioteca Mai). Quando questo fu poi installato in Rocca, i soci dell’Ateneo non poterono rientrarvi, perché al posto dell’istituzione culturale si insediò un’organizzazione fascista.

La rinascita avvenne dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1952, quando l’Ateneo ottenne una nuova sede, in via Torquato Tasso, dove si trova oggi.

Nel quadro di Luigi Brignoli, datato 1934, la mole Ateneo volutamente non compare: la sala sopra il Fontanone è ritenuta ormai inutile, anche perché nel 1933 è stata modificata. In quell’anno l’Ateneo è stato scelto come locazione della sezione del Partito fascista di Città Alta (proprietà Ateneo di Scienze Lettere e Arti)

 

Luigi Brignoli, L’Ateneo e S. Maria Maggiore, 1934 (proprietà Ateneo di Scienze Lettere e Arti)

Dopo molti anni di inattività, il monumento fu restaurato alla fine del secolo scorso per essere adibito a spazio espositivo per mostre temporanee ed eventi pubblici.

Il progetto di restauro dell’architetto Bruno Cassinelli, 1997

 

Sala interna dell’Ex Ateneo oggi

Va detto che quando ancora era accademia, l’Ateneo, a tutt’oggi molto attivo, per lungo tempo ha rappresentato l’unica istituzione interamente dedicata alla cultura. Basti pensare che la Biblioteca Civica arrivò solo più tardi. La sua istituzione non costituì soltanto un cambiamento di tipo amministrativo, dalla fusione nacque un organismo moderno, adeguato ai tempi nuovi che si preparavano.

A duecento anni dall’intitolazione l’Ateneo continua a parlare di storia, con l’intento di far conoscere ai bergamaschi l’origine della società in cui viviamo, affinché ognuno possa orientarsi in questo mondo e capire quale direzione prendere in futuro.

Note

(1) Andreina Franco-Loiri Locatelli per Bergamosera, rivista on line non più esistente.

(2) G. Petrò fa invece riferimento a un “porticus longa” documentato dagli statuti del 1331. Si tratta di una struttura porticata che funge da parapetto al forte dislivello che si crea tra la strada e la platea magna Sancti Vincentii  (Gianmario Petrò, “Dalla Piazza di San Vincenzo alla Piazza Nuova”. I luoghi delle istituzioni tra l’età comunale e l’inizio della dominazione veneziana attraverso le carte dell’archivio notarile di Bergamo”. Bergamo, Sestante, 2008).

(3) Ronchetti, “Memorie storiche”, 1838 (Vol. V, pag. 83).

(4)The International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, Volume XLVIII-M-2-2023 29th CIPA Symposium “Documenting, Understanding, Preserving Cultural Heritage: Humanities and Digital Technologies for Shaping the Future”, 25–30 June 2023, Florence, Italy. THE PALAZZO DELL’ATENEO IN THE UPPER CITY OF BERGAMO (CITTÀ ALTA): NEW DOCUMENTATION AND CONSERVATION STUDIES. Alessio Cardaci , Antonella Versaci, Pietro Azzola.

(5) G. Colmuto Zanella, 2001  L’elegante e ben inteso Edifizio sopra il fontanone visconteo, in “L’Ateneo dall’età napoleonica all’unità d’Italia”, Edizioni dell’Ateneo, Bergamo, 249-276.

Riferimenti
Renato Ravanelli, “Palazzo dell’Ateneo”, Bergamo: una città e il suo fascino, Grafica e arte, Bergamo, 1977, pagg. da 174 a 175.

Luigi Angelini, “La costruzione trecentesca del Fontanone”, La Rivista di Bergamo già “Gazzetta di Bergamo”, Anno VII, n. 11, Edizioni della Rotonda, Bergamo, Novembre 1956, pagg. da 3 a 4.

“L’elegante e ben inteso edifizio…sopra il Fontanone Visconteo” – Andrea Pasta alla presentazione del nuovo Museo Lapidario, 1775.

The International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, Volume XLVIII-M-2-2023 29th CIPA Symposium “Documenting, Understanding, Preserving Cultural Heritage: Humanities and Digital Technologies for Shaping the Future”, 25–30 June 2023, Florence, Italy. THE PALAZZO DELL’ATENEO IN THE UPPER CITY OF BERGAMO (CITTÀ ALTA): NEW DOCUMENTATION AND CONSERVATION STUDIES. Alessio Cardaci , Antonella Versaci, Pietro Azzola.

L’Eco di Bergamo, 17 giugno 2010. Intervista a Maria Mencaroni Zoppetti. “La passione per la città nasce dalla necessità di capirla”.

L’ex chiesa di S. Antonio in foris in Borgo Palazzo

All’inizio di Borgo Palazzo, poco oltre lo splendido palazzo Camozzi si apre a sinistra un piccolo slargo – dove un tempo funzionava la pesa pubblica -, sul quale si affaccia un edificio che vanta oltre ottocento anni di storia ma che la nuova destinazione d’uso risalente al Settecento ha fatto dimenticare: quella che un tempo fu la chiesetta di S. Antonio in foris, risalente all’anno 1208, sorta per desiderio del “dominus” Giovanni Gatussi di Parre, personaggio che aveva una certo appoggio politico cittadino (1).

L’edificio della chiesetta di S. Antonio in foris esiste ancora, ma trasformato in negozio

Il piccolo edificio, pressoché sconosciuto, è di misure tanto modeste da non essere notato: bisogna andarlo a cercare di proposito, tanto più che nulla, nemmeno un cartello, ricorda al passante la presenza della chiesetta – con il portale più antico rimasto della città -, sopravvissuta a tutti i mutamenti e alle demolizioni (2).

Portale laterale della chiesa con la lunetta affrescata

Era posta fuori dall’antica porta del borgo S. Antonio, nel suburbio di Mugazzone (termine che appare già nel 928, con il quale si indicava l’antico nome di Pignolo), quartiere al tempo poco abitato ma posto in prossimità di due corsi d’acqua: la Morla a sud e il canale Roggia Serio a nord, che favoriva il “forte insediamento di attività tessili, tra cui tintorie, folli, purghi e mulini” (3) all’estremità meridionale del borgo S. Antonio.

Nella veduta di Alvise Cima la chiesetta di Sant’Antonio Abate in foris è posta fuori l’antica porta di S. Antonio, aperta nelle Muraine, all’imbocco di Borgo Palazzo e in angolo con la strada che conduceva al monastero degli Umiliati del Galgario, anch’esso lambito dalla Roggia Serio a nord e non molto distante dal torrente Morla a sud. Proprio questo tratto, compreso dall’imbocco della via – dal lato di via Frizzoni – fino al ponte della Morla, corrisponde alla parte più antica del borgo ed è detto contrada della Rocchetta, con evidente riferimento ad un fortilizio. Un toponimo, questo, che si aggiunge a quello di S. Antonio, che però fa riferimento anche ad un’area esterna a borgo Palazzo

Nonostante la sua posizione apparentemente marginale, assunse ben presto una certa importanza, confermata in particolare da un documento del 1263, citato da Angelo Mazzi, in cui lo statuto della città creava una nuova vicinia staccata da quella di Mugazone, intorno alla chiesa sorta da pochi decenni (4): fatto che denota quanto il borgo stesse crescendo e acquisendo una sua autonomia rispetto a quello di Pignolo.  

Fu dunque grazie alla presenza della chiesa di S. Antonio in foris, che la zona oggi designata come Pignolo bassa assunse la nuova titolazione di vicinia di S. Antonio, cui faceva capo anche il convento di Santo Spirito. Il toponimo S. Antonio coincide dunque con la parte più antica di Borgo Palazzo, ma fa anche riferimento ad un’area esterna allo stesso, fino a comprendere l’attuale piazzetta Santo Spirito.

La porzione di Borgo Pignolo che noi tradizionalmente chiamiamo basso in passato era un Borgo dalla propria identità, per l’appunto Borgo Sant’Antonio. Fino alla metà del XIII secolo, la parte bassa di Borgo Pignolo (futuro Borgo S. Antonio) faceva parte della vicinia di S. Andrea (Via Porta Dipinta) e i suoi confini al piano correvano a ridosso delle antiche Muraine medioevali, dalla Porta di Santa Caterina, posta all’imbocco del borgo omonimo, fino al Borgo di San Leonardo, transitando quindi lungo l’attuale asse urbano di Via San Giovanni-Frizzoni-Camozzi. Fu la presenza della chiesa di Sant’Antonio in foris e dell’annesso ospedaletto, eretti nel 1208 all’estremità meridionale del borgo di Mugazone (l’antico nome di Pignolo) a giustificare la sua autonomia e la sua nuova titolazione. La vicinia di S. Antonio si estendeva dalla stongarda esistente al Maglio del Rame (allora del Vegete) fino a S. Spirito e da qui fino ad una colonna al prato di S. Alessandro

 

Insieme alla chiesa di S. Antonio in foris, la chiesa di S. Spirito faceva capo alla vicinia di S. Antonio, sorta nel 1263  (piazza S. Spirito nel 1909, Raccolta Gaffuri)

E’ difficile comprendere oggi l’area su cui si estendeva in passato questo toponimo, soprattutto quando esisteva l’omonima vicinia: la topografia del luogo è molto mutata, non solo per la scomparsa delle Muraine, della porta di S. Antonio e per la copertura della Roggia Serio, ma anche perché le vicinie in un certo senso costituivano anche dei confini fisici, coincidendo questi con recinzioni, muri di edifici, portoni (5).

La porta daziaria di S. Antonio, posta in corrispondenza del limite meridionale dell’attuale via Pignolo (Gaudenzi, 1885-1900)

 

Come si presentava la porta di S. Antonio alla fine Ottocento (Raccolta Gaffuri)

 

Il canale Roggia Serio all’altezza della torre del Galgario (attuale via Frizzoni), a pochi passi dall’ex monastero degli Umiliati del Galgario e sulla strada per la chiesa di S. Antonio in foris

La chiesa era detta “in foris” (fuori) proprio per distinguerla dalla chiesa di Sant’Antonio Abate (o di Vienne o dell’Ospedale), che sorgeva entro le Muraine, sul prato di Sant’Alessandro, demolita nell’Ottocento per l’erezione del palazzo Frizzoni (attuale Municipio).

Era affiancata da un ospedale (oggi difficilmente individuabile), il cui giuspatronato rimase alla famiglia Gatussi di Parre fino al XV secolo e fino a quel momento il piccolo ospizio duecentesco rivestì una certa importanza, e cioè fino a quando, nel 1458, venne assorbito dal nuovo e centralissimo Ospedale Grande di S. Marco insieme ad altri dieci disseminati in varie località della città (6).

Così come stava accadendo in altre città, anche a Bergamo verso la metà del Quattrocento si deliberò l’accorpamento di 11 ospedaletti sparsi tra il colle e il piano in un unico grande organismo (l’Ospedale Grande di S. Marco), al fine di ottimizzare i servizi e creare un’unica dirigenza, esercitando così un maggior controllo. Nell’Ospedale Grande di S. Marco confluì anche quello di S. Antonio Abate in foris, istituito nel 1208 sulla strada che conduceva a Seriate. Dopo cinque secoli di vita, l’Ospedale Grande venne chiuso e quasi interamente  demolito nel 1937, con l’erezione dell’ospedale Maggiore e sulla sua area fu innalzata la Casa del Fascio, che caduto il fascismo venne ribattezzata come Palazzo della Libertà

Nonostante la ex-chiesa sia ormai da tempo priva del suo campaniletto, osservando con attenzione possiamo ancora rintracciarne l’antica foggia: nel tetto spiovente (un tempo a falde in vista), nella facciata a capanna attigua al portale con stipiti in pietra che immette nella corte interna, nell’oculo sovrastante la facciata e nel piccolo portale romanico posto sul fianco, sovrastato dalla lunetta affrescata: l’unico, tra i tanti affreschi rinvenuti nella chiesa, conservatosi in loco.

Nella veduta di Alvise Cima (tela della Biblioteca), la chiesa si affaccia su una piccola rientranza di via Borgo Palazzo “Un praticello avanti le s’appiana”, scriveva l’abate Angelini). Si nota il campanile, oggi non più visibile, il tetto a spiovente e la facciata a capanna, a cavallo del portone che immette alla corte interna. L’ospedale non compare nelle didascalie e forse, suppone Tosca Rossi, neppure rappresentato: “forse rimandi del vecchio nosocomio sono rintracciabili in pianta in fronte all’attuale palazzo Camozzi e in angolo con l’attuale via Frizzoni, dove si contano tre caseggiati addossati tra loro”

Nella corte, sopra lo spazio in cui viene raccolta l’immondizia dello stabile, resta la traccia di un grande affresco devozionale. All’interno, la semplice aula unica della chiesa è ancor oggi scandita in tre campate da due arconi ogivali in pietra impostati su semipilastri (7).

Portale d’ingresso alla corte interna

 

Particolare dello stemma scalpellato sulla chiave di volta

 

Scorcio della corte interna, con il semplice portale con stipiti in pietra, oggi tamponato. In alto si intravede l’oculo

Secondo Luigi Angelini l’antico ospedale duecentesco, demolito nel Settecento, doveva trovarsi negli edifici attuali che recingono il cortile interno. In quell’epoca fu distrutto anche il campanile, per edificare i nuovi condomini che sorgono tutt’intorno (8).

La chiesetta continuò a funzionare “col nome di S. Antonio in foris, officiata fino al 1806, finché, sconsacrata nell’Ottocento (9), diverrà officina per un fabbro, poi un anonimo ambiente di magazzeno, ridotto poi ad ufficio e negozio, subendo lavori di sistemazione interna che ne hanno in parte snaturato le forme suddividendola in due piani.

Le cronache riferiscono che la chiesa non fosse molto curata e che venisse utilizzata solo per celebrare la messa quotidiana da parte dei Padri Zoccolanti del vicino convento delle Grazie, remunerati dall’Ospedale Grande di San Marco (10).

Con il tempo la chiesa finì con l’essere del tutto abbandonata. L’ultimo suo destino era la demolizione, che si voleva porre in atto nel 1937 secondo un progetto di totale rifacimento dello stabile. Demolizione che non avvenne grazie alla scoperta, da parte di don Angelo Rota, degli affreschi che l’ornavano quasi interamente (11) e al successivo intervento di Luigi Angelini (a quei tempi ispettore onorario della Soprintendenza ai monumenti), che riconobbe l’importanza della chiesetta, alla quale venne posto il vincolo.

Fu proprio in quella occasione che, scrostando l’intonaco, in corrispondenza di una traccia di porta nell’antico ingresso laterale della chiesa, affiorò la lunetta affrescata che sovrasta l’architrave del portale romanico, portato alla luce ed ancor oggi visibile sulla via, dove, scrutando con attenzione, si possono ancora notare le tracce dell’affresco duecentesco, tra i più antichi del territorio, raffigurante Madonna in trono col Bambino affiancati da sant’Antonio Abate e un santo vescovo, che malgrado lo stato di degrado è stato identificato in base ad antiche foto in san Tommaso di Canterbury; l’affresco è posto sotto un arco in pietra sui cui conci sono affrescate una serie di teste entro tondi.

Sulla lunetta del portale laterale della ex-chiesa di S. Antonio in foris, seppure sbiadita è ancora visibile la decorazione ed affresco rappresentante una Madonna in trono col Bimbo, affiancata dai santi Antonio abate e Tommaso di Canterbury. Tutt’intorno, suIl’arco di pietra intonacato che chiude Ia Iunetta, appare un motivo decorativo formato da quindicl tondi accostati l’uno accanto all’altro, racchiudenti teste di Santi di tono grigio roseo, in parte consunti e in parte anche mancanti. Ritenuti da Angelini di pregio non comune sia in senso artistico che per la loro rarità. L’affresco è stato assegnato da L. Angelini alla scuola bergamasca deII’inizio del XIII secolo, ritenendolo eseguito subito dopo il 1208, anno in cui un documento attesta Ia scelta del Iuogo di edificazione della chiesetta e deIl’ospedaIe di S. Antonio: “Le tre figure bizantineggianti aureolate (…) denotano nella Ioro ieratica rigidità il carattere tipico della pittura duecentesca”. Angelini trovava conferma alla antichità del dipinto nella vicinanza stilistica ad affreschi, anch’essi frammentari, nella cripta di S. Michele al Pozzo Bianco, nei riquadri deIl’arcone della Curia antistante alla facciata di S. Maria Maggiore e nelle figure di Santi nella bifora dipinta dell’aula della Curia

GLI AFFRESCHI DELLA CHIESA DI S. ANTONIO IN FORIS, ESPOSTI AL MUSEO DELL’AFFRESCO IN BERGAMO ALTA

I pregevoli affreschi che rivestivano quasi interamente le pareti interne della chiesa furono eseguiti tra il XIII e il XVI secolo e risultano essere tra le testimonianze più antiche del nostro territorio insieme a quelli della chiesa di San Michele al pozzo bianco di via Porta Dipinta, della Vecchia Cattedrale e della chiesa a di San Giorgio ad Almenno San Salvatore.

Le ritroviamo oggi nel cuore di Bergamo Alta in piazza Vecchia all’interno del Palazzo della Ragione, dove riaffiorano dalle pareti settentrionali della Sala delle Capriate, allestita a sede museale dagli anni Novanta del secolo scorso, divenendo Museo dell’Affresco di Bergamo, cui è possibile accedere in occasione di mostre ed eventi.

I numerosi strappi provenienti dalla chiesa di Sant’Antonio in foris di Borgo Palazzo, sono i più antichi esposti nel Museo dell’Affresco nella Sala delle Capriate al Palazzo della Ragione e sono tra i più antichi presenti nel territorio bergamasco, insieme a quelli della chiesa di San Michele al pozzo bianco di via Porta Dipinta, del Museo della Cattedrale in Piazza Vecchia e della chiesa a di San Giorgio ad Almenno San Salvatore nel parco del Romanico

 

La Vergine con S. Giuseppe e il Bambino esposta al Museo dell’Affresco di Bergamo proveniente dalla chiesa di S. Antonio in foris. E’ assegnata all’inizio del XIII secolo da L. Angelini, che lo considera coevo a quello della lunetta, risultando più arcaico del dipinto iconograficamente affine deII’aula della Curia

Proprio in quest’antica sede, si conservano molti altri lacerti o porzioni smunte e sbiadite dallo scorrere del tempo, provenienti da edifici sacri e profani della nostra città (come il monastero di S. Marta): gli affreschi della chiesetta di Sant’Antonio in foris fanno capo al secondo e terzo gruppo affisso alla parete nord del palazzo, paradossalmente il comparto più numeroso considerando la minima superficie della chiesetta da cui provengono, e ci restituiscono numerose immagini di Sant’Antonio abate, della Vergine con Bimbo, apostoli e Santi vari tra cui Bartolomeo. Giacomo e Giovanni Battista.

 Note

(1) La chiesa fu fondata nel 1208 dal vescovo di Bergamo Lanfranco (successore di Guala), per desiderio del “dominus” Giovanni Gatussi de Parre, la cui famiglia doveva risalire a quella dei conti di Parre, paese dell’alta val Seriana. Già nel 1156 un “filius Iohannis de Parre” risulta essere inserito nell’elenco dei “mille homines” che giurarono dopo la Battaglia di Palosco la pace con Brescia, mentre nel 1176 è citato un canonico della basilica alessandrina che godeva di un certo prestigio. Giovanni Gatussi de Parre aveva una certo appoggio politico cittadino. Viveva in prossimità di una fonte che viene indicata come fontana coperta nella vicinia di San Lorenzo (prossima a quella di San Pancrazio), considerata di pregio per le importanti famiglie cittadine che la abitavano. La famiglia raggiunse una certa stabilità economica acquisendo beni fondiari alla fine del XII secolo tra cui il terreno dove poi sorse la chiesa, che venne venduto nel 1208 a Giovanni dal console dalla vicinia di San Pancrazio, proveniente dalla famiglia molto vicina a quella guelfa dei Rivola (Maria Teresa Brolis, LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995). L’importanza del personaggio e i legami con le più importanti famiglie sotto l’aspetto sia politico che religioso di Bergamo (come i del Zoppo, i Rivola, i Sorlasco, i de Foro, gli Albertoni) motivano la presenza di tutte queste famiglie alla fondazione dell’ospedale con il vescovo Lanfranco e i canonici della chiesa di San Vincenzo che tre mesi dopo si presentarono per la consacrazione della prima pietra della chiesa. L’atto di consacrazione è del 28 giugno 1208 eseguita con le disposizioni canoniche della “ecclesiae hospitalis”. Fu quindi accolta la domanda di fondare una chiesa e il vescovo Lanfranco impose al Gatussi di provvedere alla custodia e alla illuminazione degli edifici, cosa che ebbe risposta affermativa indicando la protezione della chiesa alla canonica di San Vincenzo alla quale doveva versare una libra di cera annua, quale segno di sottomissione al clero, che però non poteva aggiungere altri tributi dovendo essere la chiesa e l’ospedale libero come indicato dall’atto poi perduto: “de protectione et municione et securitate ipsius hospitalis” (Maria Teresa Brolis, LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995). Il Fornoni (“Le vicinie cittadine”) precisa che “La concessione di piantare la croce, in segno di edificazione della chiesa, porta la data 13 giugno 1208 ed è rilasciata dal vescovo Lanfranco, alla presenza e col consenso di Algisio da Credario arciprete della chiesa di Bergamo, di Lanfranco arciprete di Clusone e dei canonici di S. Vincenzo”. Alla sua morte Gatussi dotò l’ospedale di vari beni, tra cui una casa situata in Città Alta, nei pressi del Mercato del Fieno (Pino Capellini e Renato Ravanelli, “I borghi di Bergamo”. Grafica & Arte, 1984).

(2) Eppure l’Angelini una targa l’aveva preparata: QUESTA CHIESETTA MEDIOEVALE/ERETTA INTORNO AL 1210/COL PORTALE AFFRESCATO/IL PIU’ ANTICO RIMASTO DELLA CITTA’. Ma la lapide non fu mai applicata (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966).

(3) Tosca Rossi, “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”. Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012.

(4) L’importanza della chiesa è confermata da documenti citati dal Mazzi: uno del 1249, per un atto steso “in burgo de Mugatione” “in claustro hospitalis Sancti Antonii” e un altro del 1263, in cui lo statuto della città creava una nuova vicinia staccata da quella di Mugazone intorno alla chiesa sorta da pochi decenni: “vicinancia nova quae dicitur vicinia S. Antonii” (“Note suburbane” di Angelo Mazzi, Bergamo, 1892, pag. 230).

(5) Vanni Zanella “Bergamo Città”. Edito nel 1971 dall’Azienda di turismo di Bergamo.

(6) Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

(7) Luigi Angelini, “La lunetta duecentesca della chiesetta di Sant’Antonio in Foris”. In: “Cose belle di casa nostra”, Bergamo, Stamperie Corti, 1955.

(8) Secondo Angelini l’ospedale venne demolito e trasformato nel Settecento in edificio civile (Luigi Angelini, Op, Cit.).

(9) “Per il Maironi è il 1806 (…). Nella Pianta della città e borghi esterni di Bergamo dell’architetto Giuseppe Manzini del 1816 non è più presente” (Tosca Rossi. Op. Cit., pag. 219). Riferisce Luigi Pelandi che “La chiesetta ed i locali del modesto ospedale…vennero ceduti dal Demanio al sig. Pesenti di Alzano, poi alla famiglia Zanchi (commercianti in latticini), che avevano negozio sull’angolo della via Rocchetta con l’attuale via Frizzoni, allora via Muraine sulla Circonvallazione, ove esiste tutt’ora una trattoria, quella denominata S. Antonio” (della famiglia Zanchi faceva parte il sottotenente Gioachino Zanchi, nato in Borgo Palazzo il 25 maggio 1909, “che nella guerra d’Africa immolò la sua vita in un fatto di arme glorioso”. Alla sua memoria venne concessa la medaglia d’oro al valor militare). La chiesetta “fino a pochi decenni or sono, venne passata alla ditta Agostino Moretti, che già conduceva un negozio di cesterie, sedie e scope sull’angolo di via Camozzi (n. 1). Intorno al 1955 subentrava il negozio di calzature Sperani. Fu in quel tempo che vennero asportati gli affreschi…Pare che nel frattempo i locali fossero stati invasi dai ‘barboni’, i disgraziati senza tetto dei dintorni che non trovavano posto al Dormitorio pubblico, o non volevano sottostare alle abluzioni obbligatorie del dott. Favari, nè tanto meno al ‘cordial Favari’” (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”, Op. Cit.).

(10) La trascuratezza della chiesa è confermata da padre Donato Calvi nelle “Effemeridi” (pubblicate nel 1676), dove informa che sotto la data del 17 dicembre 1530 la chiesa, “ridotta a cattivo stato”, correva il pericolo di cadere. Per questo “l’Ospital Maggiore a cui detta chiesa è unita diede hoggi l’ordine per il risarcimento, come infatti seguì a primo opportuno tempo”. La chiesa, aggiungeva padre Donato Calvi, ha un solo altare, “ove continuamente si celebra, e le feste si convoca per l’esercitio della Dottrina Christiana” L’intervento dell’ospedale non dovette bastare perché la chiesa, prima dipendente dalla parrocchia di S. Alessandro della Croce e poi dalla parrocchiale di S. Anna, finì con l’essere del tutto abbandonata. Fu soppressa nel 1806. L’ultimo suo destino, dopo essere servita come officina per un fabbro, era la demolizione (Pino Capellini, Renato Ravanelli. Op. Cit.), che si voleva porre in atto nel 1937 secondo un progetto di totale rifacimento dello stabile.

(11) Per gli affreschi, si veda la missiva di Don Angelo Rota pervenuta a Luigi Pelandi, il quale cita anche quelli desunti da una nota di Luigi Angelini: Madonna col Bambino e S. Giuseppe (sec. XIII); Madonna col Bambino e S. Antonio (sec. XV); Madonna con Bambino; frammenti vari; teste di santi; figura di S. Antonio (Luigi Pelandi, Op. Cit.).  Nel 1954 Angelini rinvenne poi un affresco nella sacrestia: una Natività attribuita al XIII secolo (strappata nel ’55 da Allegretti o da Arrigoni, forse sotto la direzione di Pelliccioli) e alcuni affreschi frammentari (Laura Marini, “Affreschi trecenteschi: S. Marta e S. Antonio in Foris”, Osservatorio delle arti: rivista semestrale dell’Accademia Carrara, n. 1, Lubrina, Bergamo, 1988, pagg. Da 30 a 37).

Riferimenti bibliografici

Luigi Angelini, “La lunetta duecentesca della chiesetta di Sant’Antonio in Foris”. In: “Cose belle di casa nostra”, Bergamo, Stamperie Corti, 1955.

Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. Il Borgo Palazzo”. Bergamo, Ed. Bolis, stampa 1966.

Tosca Rossi, “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012.

Maria Teresa Brolis, “LA FONDAZIONE DELL’OSPEDALE BERGAMASCO DI S. ANTONIO “DE FORIS” (sec. XIII), in Bergomun, Biblioeca Angelo Mai, 1995.

Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), “L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco”. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

Pino Capellini e Renato Ravanelli, “I borghi di Bergamo”. Grafica & Arte, 1984.

Francesco Rossi, “Accademia Carrara-Gli affreschi a Palazzo della Ragione”, Accademia Carrara, 1995.

Laura Marini, “Affreschi trecenteschi: S. Marta e S. Antonio in Foris”, Osservatorio delle arti: rivista semestrale dell’Accademia Carrara, n. 1, Lubrina, Bergamo, 1988, pagg. Da 30 a 37.

Il Castello di San Vigilio e la sua evoluzione nella storia

Nel lungo corso della storia di Bergamo, con i suoi 496 metri di altitudine il colle su cui è sorto il Castello di S. Vigilio ha sempre costituito il luogo privilegiato di avvistamento per la difesa della città. Data l’ampiezza della visuale, dalla sua sommità era possibile controllare una vastissima porzione di territorio, dall’imbocco delle valli principali – Brembana e Seriana – all’antica Val Breno e l’intera spianata di Almenno, per arrivare alla pianura e ai centri posti all’imbocco della Val San Martino. La posizione preminente del colle, cardine del sistema orografico dei colli nel territorio cittadino, permetteva di  osservare i movimenti dei nemici decidendo le opportune contromisure, ed è quindi probabile che sin dall’occupazione romana vi sorgesse una torre di avvistamento.

Ubicato allo sbocco delle due principali valli bergamasche – Brembana e Seriana – il nucleo storico di Bergamo (nel medioevo denominato “Mons Civitatis”) è posto sullo sperone sud-orientale di un lunga dorsale collinare isolata, che alle spalle della città si prolunga verso ponente fino a Sombreno, culminando nel Monte Bastia, massima elevazione dell’intero corrugamento orografico

 

La preziosa foto aerea del 1924 mostra il rilievo su cui sorge il Castello (circa 496 m. slm), perno della dorsale maestra del sistema collinare, culminante nel vicino Monte Bastia (518 m. slm), e comprendente l’altura del Corno (472 m. slm)

 

Dal Castello si gode di una visuale a 360° sulla città, sulla pianura, sull’imbocco delle valli e sulla catena montuosa delle Prealpi Orobie

La sua posizione eminente rispetto alla città antica, ne fa il punto privilegiato da cui osservarne il lato migliore, che si offre ai nostri sguardi attraverso il tondo profilo del colle di San Giovanni.

Per la sua posizione particolarmente esposta rispetto al colle di S. Vigilio, il colle di S. Giovanni ha sempre costituito il punto più vulnerabile della città  (Racc. Gaffuri)

Avvenente protagonista delle nostre scorribande fotografiche, il colle su cui oggi sorge il Seminario era alquanto vulnerabile, essendo le sue difese particolarmente esposte ad eventuali assalti provenienti dal Castello di S. Vigilio.

La città alta con in primo piano il colle di S. Giovanni (rappresentato dalla mole del vecchio Seminario), ancora provvisto di alcune delle torri della trecentesca Cittadella viscontea, poi scomparse. A sinistra sono visibili i possenti contrafforti del Forte di S. Marco Inferiore

Se infatti la parte sud-orientale di Città Alta era ben protetta dall’altura di S. Eufemia (dal Trecento non casualmente occupata da una rocca), aprire una breccia nelle fortificazioni che cingevano il colle di S. Giovanni era più facile che altrove: come avvenne nel IX secolo, quando nel corso delle le lotte che dilaniavano l’Italia, dal “Castellum” gli assalitori capeggiati da Arnolfo di Carinzia devastarono le mura, e, conquistata la città, distrussero il fortilizio.

Bergamo dal Castello di S. Vigilio: una delle vedute più belle rappresentate della città

Fu così impartita a Bergamo una grande lezione, e cioè quella dell’importanza strategica del forte sul colle, che troppo distante per essere incluso nella cerchia delle mura urbane, verrà potenziato a più riprese nel corso dei secoli.

Gran parte della storia del Castello risulta quindi fortemente condizionata da questa circostanza, che in ogni periodo storico ne ha fatto il punto privilegiato da cui partire per assalire la città. Per questo motivo, di pari passo con le grandi trasformazioni del nucleo urbano ed ogni volta che si poneva mano alle fortificazioni della città, questa fortificazione è sempre stata oggetto di particolare scrupolo e attenzione, per quanti erano incaricati della difesa di Bergamo.

Il Castello di San Vigilio, posto sulla cima dell’omonimo colle, fuori la cerchia delle Mura veneziane di Città Alta, ha costituito nei secoli una strategica porta d’accesso verso la città. Nell’immagine, risalente al 1920, è osservato dalle pendici del monte Bastia e pertanto la didascalia posta in calce alla fotografia è errata

Il Castello, posto a capocroce della dorsale maestra, in riferimento alla direttrice nord-sud manteneva un perfetto controllo, spaziando da Sudorno (m 432 slm) al monte Casnida (Castagneta) per arrivare all’intestatura del Pianone (m 378 slm).

Il nucleo di Borgo Canale e l’imbocco di Sudorno, dominati dal Castello di S. Vigilio

Ma lo stesso non poteva dirsi per la sovrastante altura della Bastia che, seppur più alta di 22 m rispetto alla sommità di S. Vigilio ma da esso distante di appena 300 passi, poteva costituire un serio pericolo per lo stesso Castello: per questo motivo la Bastia è sempre stata oggetto di opportune attenzioni in ordine alla difesa della città.

Con i suoi 518 metri di quota il colle della Bastia, in antico denominato (anche da Mosè del Brolo nel 1120) “Mons Milionus”, è la massima elevazione prossima al Castello di S. Vigilio. In età viscontea vi viene costruita una fortificazione per l’avvistamento e la segnalazione di movimenti sulle direttrici del teatro occidentale della città, svolgendo quindi un’efficace azione di antemurale che rafforzava il ruolo difensivo della “Cappella”

Purtroppo, nonostante l’abbondanza delle fonti, non è semplice ricostruire con certezza l’evoluzione storica del fortilizio  – primo e vero manufatto realizzato sul colle -, in quanto non esiste un’indagine approfondita che ne chiarisca le continue trasformazioni, i rinnovamenti e le vicissitudini che lo hanno visto protagonista.

Il torrione Belvedere, costruito in epoca veneta e rivolto verso Monte Bastia, l’altura che è stata oggetto di particolari attenzioni, tanto da dettare le nuove opere realizzate attorno al Castello. Per contenere un eventuale assalto proveniente dalla Bastia, si arrivò persino a prendere in considerazione l’eventualità di abbassarne la cima perché in caso di attacco il nemico avrebbe potuto piazzarvi dei cannoni con cui colpire i difensori del Castello

Alcuni documenti attestano la presenza di un “Castellum Bergomense” sul Colle di San Vigilio nel 538 d.C. ai tempi di Giustiniano; lo stesso ricordato dal Mazzi già nel 395 d.C. Il Castellum è citato anche nell’894 d.C. in un documento rilasciato dal figlio di Carlo Magno, Arnolfo di Carinzia.

Bergamo Alta con sullo sfondo il colle di S. Vigilio e il suo castello

Denominato anche ‘Cappella’ per la presenza in loco nel IX secolo di un piccolo insediamento di monaci, il Castellum viene individuato dal Comune di Bergamo a partire dal 1167, come essenziale per la difesa della città. Ampliato e completato dai Visconti nel 1336, subisce modifiche e rinforzi durante e dopo la costruzione delle Mura veneziane, quando si distingue per i suoi quattro torrioni circolari perimetrali con cortina di pietra a blocchi, costruiti verso la fine del Quattrocento nel quadro dei lavori di ristrutturazione e ampliamento della Cappella, disposti dalla Repubblica Veneta: da quel momento l’edificio costituirà un apparato difensivo sufficientemente sicuro.

Dai torrioni del Castello di S. Vigilio (denominati Castagneta, Belvedere, Ponte e S. Vigilio), di cui emerge la struttura d’epoca Veneta, si può immaginare che gli armigeri del tempo vigilassero sul territorio ed ancor’oggi restano i punti più maestosi e suggestivi dell’antico fortilizio

E sarà in epoca Veneta che l’assillante timore di un attacco proveniente dalle colline di  ponente porterà non solo a un continuo rimodellamento del Castello, ma anche a condizionare fortemente la costruzione della porzione settentrionale delle mura – sicuramente la più bella e meno conosciuta –, che da Porta San Lorenzo a Porta S. Alessandro andrà a costituire il cosiddetto “Forte di San Marco” (m 423 s.l.m.), frutto di lavori grandiosi, particolarmente attenti a contenere un eventuale assalto dal colle di San Vigilio, dalla Bastia e dall’attiguo monte Corno.

La parte occidentale del Forte di S. Marco rivolta verso Borgo Canale e l’imbocco di Sudorno. Ai piedi dei baluardi corre la funicolare per S. Vigilio

Ed è soprattutto con questo sguardo che dobbiamo osservare oggi la “Cappella”, parte integrante (seppur disgiunta) dalla cinta bastionata: la fortezza inizia qui e da qui si spiega. Non sorprende dunque che dall’inizio della costruzione delle Mura veneziane fino a tutto il Seicento, il Castello di S. Vigilio sia stato continuamente oggetto di adattamenti in rapporto a tutto l’imponente apparato difensivo posto sul fronte di ponente del Colle di Bergamo.

La piattaforma alberata del Castello, ora Parco pubblico, circondata dai quattro torrioni con la loro superficie curva appositamente studiata per attutire i colpi delle artiglierie, deviandoli al momento dell’impatto e riducendone la capacità penetrativa e distruttiva

Per la posizione privilegiata, per la ricca e documentata vicenda storica che forma una trama di forte significato, per le preesistenze e le strutture presenti, il Colle di S. Vigilio è quindi identificato, come pochi altri luoghi di frangia, quale reale perno del divenire e dell’esistenza stessa della città di Bergamo.

LE ORIGINI ALTO MEDIOEVALI DEL CASTELLO

Sappiamo che nella zona si era insediata una piccola comunità ecclesiastica, che vi aveva costruito una chiesuola intitolata a Santa Maria Maddalena, particolarmente venerata in Provenza e per tale motivo forse sorta durante l’occupazione carolingia del IX secolo. Le dimensioni del luogo sacro erano tuttavia molto ridotte, tanto che questo non veniva identificato come santuario o chiesa, ma con l’appellativo di “Capella”: uno dei nomi con cui è nota la località sin dall’altomedioevo.

L’altro nome era “Castellum”, e a conferma del ruolo strategico rivestito da questo luogo, l’appellativo si lega all’assalto alla città da parte di Arnolfo avvenuto nell’894 nel corso delle dispute tra Berengario e Guido da Spoleto per il possesso della corona d’Italia dopo la deposizione, avvenuta nell’ottobre del 887, di Carlo il Grosso, ultimo imperatore della dinastia carolingia: l’assalto di Arnolfo, figlio di Carlomanno di Baviera, è la prima notizia di una fortificazione militare sul colle di S. Vigilio.

Bergamo trecentesca Xilografia da Supplementum Chronicarum, di Jacopo Filippo Foresti, Venezia, 1486 (Bergamo, Biblioteca Civica)

In quell’anno, chiamato in suo sostegno da Berengario del Friuli, Arnolfo scese in Italia. La città di Bergamo e il suo conte Ambrogio si mantennero fedeli al marchese Guido da Spoleto, rivale di Berengario. La città ribelle fu quindi posta sotto assedio dalle truppe tedesche.

L’assalto investi dapprima proprio il “Bergomense Castello”, che fu difeso strenuamente dal chierico veronese Gotefrido, ma i difensori furono sopraffatti e questi giustiziato.

Proprio dal castello conquistato Arnolfo diresse l’assalto alla città e aperto un varco nelle mura, diroccate e sbrecciate in più parti (scrive il Mazzi: “battute in mille maniere da questo lato”, e cioè verso il colle di S. Giovanni), Bergamo fu saccheggiata, smantellata la cinta della mura e la Cittadella Alessandrina devastata con la sua Basilica.

Particolare della lapide realizzata dall’Ing. Luigi Angelini (1961), affissa sul muro retrostante la colonna di Borgo Canale. La lapide reca incisa la planimetria della Cittadella Alessandrina, devastata dalle truppe tedesche di Arnolfo di Carinzia nell’894 (“diruta et combusta remansit” – “Codex diplomaticus” di Mario Lupo). Solo dopo molti anni, quando il borgo e la vita torneranno a rifiorire, il vescovo Adalberto provvederà alla sua ricostruzione (la Cittadella verrà definitivamente distrutta nel 1561 con l’erezione delle nuove mura edificate da Venezia)

Come riportato dal Mazzi (1), dopo queste distruzioni compare la prima notizia dell’esistenza del Castello, dal quale il 1 febbraio 894 Arnolfo emise il diploma con cui donava i beni confiscati al chierico Gotefrido (che tanto ostinatamente aveva resistito) alla Cattedrale di S. Vincenzo, che si era mantenuta fedele alla corona di Berengario mentre il vescovo e i canonici di S. Alessandro avevano aderito al suo antagonista.

Il conte Ambrogio fu impiccato davanti a una porta della città (l’unica città ad opporre resistenza, fidando nella sua firmissima munitione), mentre il vescovo Adalberto fu fatto prigioniero.

Nel corso delle lotte, il Castello in cui Arnolfo si era barricato e che tanto filo da torcere aveva dato agli oppositori, venne distrutto.

Il termine “Castellum” restò comunque in uso per due secoli e mezzo come riferimento topografico (come citato in un documento del 1032), presto affiancato dalla denominazione di “Cappella” con riferimento esplicito alla cappella di S. Maria Maddalena, proprietaria delle terre su cui sorgeva il diruto Castello: in un atto del 1112 si trova infatti “in Monte ipsius Civitatis ubi diritur ad Capellam”.

Successivamente l’appellativo di “Cappella” prevalse nella documentazione e l’edificio divenne elemento iconografico dominante nella rappresentazione della città. Chiaramente visibile nel disegno quattrocentesco conservato presso la Biblioteca di Mantova.

La più antica immagine della città è – a parte il conio delle antiche monete bergamasche del sec. XIII limitata alla sola raffigurazione della Basilica Alessandrina -, un disegno, di cui non si conosce l’autore, contenuto nel codice agiografìco della Biblioteca Civica di Mantova del 1450. Le mura accerchiano una città nella quale lo spazio interno già saturo, obbliga a uno sviluppo edilizio in verticale. Nello skilyne due-trecentesco emergono le aste dei campanili e appena al di sotto i tetti delle case a più piani, rare le torri che si ergono al cielo, come rileva Mosé del Brolo nel suo Liber Pergaminus del XII secolo. La spinta ascensionale è resa efficacemente nel disegno raffigurante alcuni monaci nel Prato di S. Alessandro. La città è arroccata sul monte, “costretta” tra la Rocca e la Cittadella, protetta dalla Cappella posta sull’altura a occidente (Monica Resmini, cit. nei riferimenti)

IL CASTELLO IN EPOCA COMUNALE 

L’esperienza traumatica dell’assalto subito da parte di Arnolfo, rimase di certo ben presente ai Bergamaschi tanto che nel XII secolo, durante le contese tra la nascente Lega Lombarda e l’imperatore di Germania Federico I di Svevia detto il Barbarossa (calato in Italia con un potente esercito), ogni città coinvolta (oltre a Bergamo, Brescia, Mantova, Cremona e successivamente Milano) provvide a rinforzare le proprie difese.

Bergamo ampliò la cinta muraria ricostruendo le parti rovinate e poi, riconoscendogli un ruolo strategico nel sistema difensivo, mise mano al fortilizio sul colle.

Non è dato di sapere come fosse il Castello prima della sua distruzione, ma di certo il nuovo manufatto superava il precedente per dimensioni e dava maggiori garanzie per la difesa di Bergamo: è infatti del 1167 il rialzamento del recinto e del mastio (hedificatum est castrum et turris), la torre eretta a ribadire il ruolo strategico del fortilizio, e da questo momento la Cappella diviene simbolo della libertà comunale della città. Al centro della piazza d’armi troneggiava così la riedificata “turris” coperta, circondata da un “castrum”, termine che designava il muro merlato. Si ebbe inoltre cura che la fortezza fosse vigilata da una conveniente guarnigione e da custodi.

Per realizzare la nuova fortezza il Comune dovette espropriare alla chiesetta di S. Maria Maddalena quel terreno che da oltre due secoli era passato di sua proprietà, cedendole in cambio un altro appezzamento di terra all’Acqua Morta, sopra Astino.

I lavori di fortificazione alterarono lo stato dei luoghi, come testimonia nel 1160 un lascito del prevosto Lanfranco Rivola alla chiesa di S. Maria Maddalena, per l’edificazione di una nuova cisterna.

Proprio in questo periodo, la denominazione di “Castellum”, per indicare il fortilizio di S. Vigilio, iniziò ad essere sostituita da quella di “Cappella” (in un atto del 1175 il colle di S. Vigilio è denominato monte della Cappella), che rimase poi sino al termine della dominazione veneta.

DAL COMUNE AI VISCONTI 

E nel 1229 la denominazione di Cappella si era addirittura estesa al riedificato fortilizio: un atto attesta infatti la chiesa di Santa Maria della Cappella che sorgeva presso il castello della Cappella.

Dallo statuto del 1248 si evince che la città intende prestare una maggior cura alla manutenzione del fortilizio, dotandolo anche di un guardiano: nel giuramento del Podestà Giovanni Brolo, troviamo che aveva l’obbligo di fare custodire la Cappella da “buoni e leali cittadini” che avessero un patrimonio di almeno 100 lire imperiali e che la “turris cappelle” fosse tenuta in ordine in modo che i custodi vi potessero salire e starvi di guardia.

Per la difesa della città il comune prestò quindi al fortilizio un’attenzione particolare, non permettendo che andasse in rovina; ed altrettanto fecero i vari signori che dominarono di Bergamo, che lo vedevano non solo come uno strumento per atterrire i propri oppositori ma anche come un mezzo per controllare la popolazione.

Infatti, quando nel 1331, terminata l’età comunale venne conferito il potere signorile sulla città di Bergamo a Giovanni di Boemia, si stabilì la costruzione della Rocca sul colle S. Eufemia e la fornitura per la Cappella di vettovaglie e provviste per almeno sei mesi.

Passata in un lampo la meteora del re boemo, nel settembre 1332 Azzone Visconti, duca di Milano, si impadronì di Bergamo e tre anni dopo, nel 1345, il suo successore Luchino Visconti si dedicò al rafforzamento della Cappella e al restauro delle mura della città (2).

Lo stralcio di un’iscrizione (“Hos condi fecit muros”), ora dispersa, ricordava dei lavori di restauro e delle migliorie fatti eseguire nel 1345 dall’allora incaricato podestà e capitano Negro da Pirovano, che eresse muri provvisti di merli e feritoie che formavano un circuito lungo circa 186 metri.

La descrizione prosegue indicando l’ingresso al fortilizio che si affacciava verso la città, a oriente, e precisando che la chiesuola di S. Maria Maddalena rimaneva all’esterno dell’apparato murario, ma ad una quota inferiore per non ostacolare la difesa.

Nel periodo signorile la Cappella, nome con cui ormai usualmente era indicato il forte, venne sempre fornita di una guarnigione, che più che alla difesa della città era ormai espressamente dedicata al suo controllo: essa ormai non rappresentava più il propugnacolo della libertà cittadina, ma uno strumento di soggezione.

IL MONS MILIONUS DIVIENE COLLE DELLA BASTIA 

Quando nel 1373 le Valli e in particolare quella di S. Martino, si ribellarono a Barnabò Visconti, nel rinsaldare le difese bergamasche suo figlio Ambrogio edificò sul Mons Milionus una bastia (o bastita), una fortificazione campale in muratura, completata con recinto merlato, la cui fossa fu terminata il 2 maggio di quello stesso anno.

Dominando la parte occidentale, la bastia controllava anche visivamente lo sbocco delle valli ribelli, comunicando con altre postazioni viscontee – le fortezze di Mapello e Carvico e più tardi di Sombreno, rimaste fedeli ai Visconti – mediante segnali di fumo o luci notturne.

Da quel momento il Mons Milionus assunse il nome di “Bastia” (che ancor’oggi pronunciamo con l’accento sulla “a”) e annoverata tra le fortezze della città venne fornita di un regolare presidio, che sappiamo ancora esistente nel 1407. Quando poi, scalzando Barnabò, il nipote Giangaleazzo Visconti prese il potere, il castellano della Bastia, Antonio de Mussi di Crema, si affrettò a consegnarla al nuovo signore.

Su questo colle alla fine del Cinquecento il da Lezze vide ancora le fondamenta di una torre, nel mezzo della quale si trovava una cisterna, con un’altra lì accanto.

All’inizio del Quattrocento, sotto il caotico governo di Giovanni Maria Visconti, la Cappella, unitamente alla Rocca e alla Cittadella era difesa dal ghibellino Giovanni Suardi. Con il consenso del duca di Milano questi consegnò Bergamo nelle mani di Pandolfo Malatesta (riservandosi però il controllo della Cappella e del vicino colle della Bastia, già attrezzato di difese), il quale rimase fino al 1419 allorché il nuovo duca, Filippo Maria Visconti, affidò al Carmagnola l’incarico di riconquistare la città.

Il condottiero del duca comprese ben presto che se voleva conseguire un rapido successo militare doveva innanzi tutto conquistare la Cappella, cosa che fece rapidamente corrompendo il Guastafamiglia, che l’aveva in custodia. Fu uno dei momenti sanguinosi della contesa tra Milano e Venezia (3).

La resa di Bergamo al Carmagnola (1427), dettaglio – Opera di Antonio Vassillacchi, l’Aliense (1556-1629) – (Sala della Bussola, Palazzo Ducale, Venezia)

Già nel 1432 sotto i Veneziani, tra le fortezze cittadine in cui erano gli stipendiati la Bastia non è più nominata. Ma non per questo incute meno timore, tanto che tutte le nuove opere realizzate attorno al forte della Cappella saranno dettate dalla presenza del sovrastante colle della Bastia. Per quest’ultimo furono anche predisposti vari progetti per rendere più ardua la comunicazione tra i due colli e per farvi nuove fortificazioni. Si prese anche in considerazione la possibilità di abbassarne la cima, perché in caso di attacco il nemico avrebbe potuto piazzarvi dei cannoni con cui colpire i difensori del castello. Ma quest’opzione venne accantonata, lasciando intatto l’adiacente paesaggio collinare.

IL DOMINIO VENEZIANO

Nel 1428 Bergamo entrò a far parte della Serenissima, che pose da subito un presidio nella Cappella (nel 1429 vi era castellano Benedetto della Stoppa), individuata come cardine difensivo della città.

Alcune opere di rafforzamento verranno intraprese dalla Repubblica Veneta solo dal 1482 conferendo alla struttura un ruolo di primissimo piano nella gestione della città, ma già qualche anno prima dell’edificazione dei quattro torrioni, lo studioso veneziano Marin Sanudo, in visita a Bergamo nel 1483, afferma che “Chi à la Capella è signor di Bergamo”.

Schizzo schematico di Marin Sanudo (Venezia, 1466 – 1536) raffigurante il castello della Cappella in S. Vigilio (1483). Il Sanudo, uno dei più importanti cronisti dell’epoca, scrisse nel 1483 “Itinerario per la terraferma veneziana” dove venivano descritti alcuni luoghi della città di Bergamo e dintorni. Il forte della Cappella è rappresentato da mura circolari con un’alta torre nel mezzo, in quanto la sua descrizione viene redatta precedentemente alle prime modifiche apportate al fortilizio dalla Repubblica di Venezia. Inoltre, a mezzo del colle una chiesetta: l’attuale di S. Vigilio ora del tutto trasformata. Nella descrizione, egli ne conferma l’importanza difensiva: “questo è tondo con una torre in mexo alta ne la qual tre volte havea dato la saeta: era molto mal condizionada, ma si fusse conzada, per el sito saria inexpugnabbile…. È locco di gran momento, et concludendo, chi à la Capella è il signor de Bergamo”. Luigi Angelini scrisse che la posizione esatta della torre centrale (demolita nel 1595 dai Veneziani) “è tuttora individuata in luogo essendo accessibile un cunicolo che porta sottoterra al perimetro di questa antica torre”

Intanto, nel 1433 si diede ordine di riparare i danni che erano stati inflitti dal Carmagnola. Forse in quel tempo si provvide anche ad ampliare il recinto verso est per includervi la cappella di S. Maria Maddalena e per creare i nuovi alloggi per la guarnigione. Nonostante il forte fosse malconcio, il luogo era inespugnabile. Presentava la cappella di S. Maria Maddalena, un pozzo per le munizioni, una porta con saracinesche.

Fu però solo verso la fine del secolo che i Veneziani, ormai saldamente insediati in Bergamo, ordinarono (1482) l’adeguamento del forte della Cappella, ripartendo la spesa tra la città, il territorio e la camera fiscale. E sarà con i Veneziani che la Cappella muterà la sua denominazione in Castello di S. Vigilio.

Negli anni 1485-87 si procedette al rifacimento del torrione vecchio, alla sistemazione delle fosse e di altre parti (4) e soprattutto alla costruzione dei quattro torrioni tondi angolari (di Castagneta, Belvedere, torrione detto Ponte e torrione di S. Vigilio) che, collegati tra loro da un muraglione di cinta di forma poligonale, andarono a delimitare la fortificazione: un muraglione della lunghezza totale di 189 metri, dotato di merli e feritoie e munito di cannoniere, oltre che da un fossato di protezione. La antica torre centrale assunse quindi la funzione di mastio del castello.

I torrioni (chiamati Castagneta, Belvedere, Del Ponte e San Vigilio) presentano tutti due piani interni che costituiscono le casematte, cioè le postazioni per l’artiglieria a difesa del fortilizio. In queste, le bocche cannoniere erano rivolte a difesa dei vari tratti di muro congiungenti le torri ed hanno il foro per la bocca del cannone ed un’apertura superiore che fungeva da traguardo di mira. Ulteriori postazioni per i cannoni si trovavano sul bordo superiore delle mura del castello

 

Torrione di Castagneta: a sinistra la sortita, verso la fossa, del corpo di guardia nord e a destra la sortita, descritta dal capitano Da Lezze, che portava all’esterno delle strutture difensive del castello. Il disegno è di L. Deleidi detto Il Nebbia (1784 – 1853) – (Riproduzione fotografica conservata presso la Biblioteca Civica A. Mai, Archivio “Bergamo illustrata”)

La pregevolissima ed alta scarpa verrà invece addossata al corpo cilindrico delle torri solo circa 100 anni dopo, verso la fine del Cinquecento (quando si penserà ad un tale accorgimento anche attorno alle mura cittadine) per adattare la fortezza alle nuove tecniche di difesa imposte dall’impiego sempre più massiccio dell’artiglieria.

I lavori di ampliamento si conclusero inserendo nel lato rivolto ad est, quello che guarda la città, un solenne ingresso monumentale realizzato in forme rinascimentali, spostato, con la realizzazione del recinto basso, dalla coalizione antiliberista dopo la fine del secolo.

La porta rinascimentale del Castello, posta sul fronte verso la città e realizzata su probabile progetto del Codussi, architetto particolarmente attivo a Venezia. Fu demolita senza specifiche ragioni nel 1829

Dell’opera architettonica rimangono alcuni schizzi effettuati del pittore bergamasco Giuseppe Rudelli, che ci permettono di conoscerne la forma costruttiva. Dalla lettura dei disegni, Luigi Angelini attribuì l’opera all’architetto bergamasco Mauro Codussi che, a quel tempo, stava lavorando alla facciata di S. Zaccaria dove adottò il motivo delle lesene binate reggenti l’arco, motivo che poi ritroviamo nel frontone dell’ingresso della Cappella, unitamente all’elemento tipico dello stile codussiano di quel periodo, ossia il coronamento ad arco del portale e le due curve laterali più basse.

Schizzo del pittore Rudelli, riprodotto sulla rivista “Bergomum”, con a sinistra la porta rinascimentale del Castello, attribuita al Codussi (da Bergomum, Bergamo scomparsa, ottobre 1949 di L. ANGELINI: Un’insigne opera architettonica perduta. Pag. 12)

IL FORTE AL TEMPO DELLE GUERRE D’ITALIA 

I primissimi anni del Cinquecento furono tragici sia per Bergamo che per tutta la terraferma veneta di cui ora la città faceva parte. In seguito alla formazione della lega di Cambrai contro Venezia (1508) si succedettero una serie di eventi che portarono a vedere la Lombardia invasa da truppe francesi e spagnole: il castello parteciperà alla sorte della città e verrà impiegato quale rifugio per tentare la resistenza.

Quando nel 1509 le truppe coalizzate di Francia, Impero e Papato sconfissero nel cremonese ad Agnadello l’esercito Veneziano, questo fu costretto ad arretrare fin quasi alla laguna: per l’unica volta nella sua storia Venezia si preparò ad un assedio. Bergamo venne occupata da Carlo d’Amboise e solo la Cappella, in cui si era ritirato il provveditore veneto, resistette per un giorno al tiro delle artiglierie per poi arrendersi, tradita per denaro da un connestabile bresciano.

Il Castello in una veduta di Bergamo prima della costruzione delle mura veneziane (in nero), attribuito a Alvise Cima (1643-1710) 1693 (?).  Risulta definito da quattro torrioni angolari a pianta circolare e da una porta torre d’ingresso

Dopo tre anni di occupazione da parte dei Francesi (e cioè dal 1509 al 1512),  Venezia tentò la riconquista della città assediando la Cappella, dove i Francesi, insieme ad alcuni ostaggi bergamaschi, si erano rifugiati capeggiati da un guascone, tale Odet de Caucens.

Dapprima il de Caucens si limitava a tirare qualche colpo di bombarda sulla città, radendo anche al suolo la chiesa di S. Vigilio i cui resti furono poi spianati per la posa della prima pietra della nuova chiesa, avvenuta il 10 maggio 1517.

La chiesa dedicata a San Vigilio, Vescovo trentino che pare abbia dimorato nei dintorni  nell’anno 727, due anni prima della sua elezione, sorgeva vicina al “Castello Bergomense”, dando il nome al colle sovrastante la città.  A fianco si diparte l’imbocco della scaletta dello Scorlazzone, termine forse derivante da “scorlass”, contrazione di “castellaceum”, da cui “castellazzo”

Ma l’assedio si protrasse e gli assediati iniziarono a fare delle sortite, sino a che il monte S. Vigilio non risultò tutto bruciato e devastato. Il de Caucens infatti sotto gli occhi dei provveditori veneti e delle loro compagnie, aveva ardito uscire dal forte e distruggere le case limitrofe, facendo bottino e forzando gli abitanti a portare legnami presso il forte, dove edificò un bastione in terra di fronte al dominante colle della Bastia e addirittura procedendo a realizzare delle riparazioni urgenti di cui il forte necessitava.

Fu forse durante questo assedio che i difensori, e cioè gli Spagnoli, realizzarono, partendo probabilmente dal lato est, fra Città Alta e la Cappella, lo scavo di un cunicolo di contromina (e cioè destinato a contrastare gli attacchi “di mina”), per giungere sotto le mura del forte e demolirle con l’uso di esplosivo.

La galleria, scavata completamente in roccia ed accessibile, tramite un profondo pozzetto, dal torrione di Castagneta (da cui si dirama verso nord ovest e sud est), è stata ritrovata durante le esplorazioni del G.S.B. le Nottole negli anni ’70 partendo da una leggenda che voleva il fortilizio collegato tramite un passaggio segreto sotterraneo a Città Alta, da utilizzare per portare aiuti al castello o, per contro, permettere una fuga sicura ai militari in caso di assedio. Si può invece ipotizzare che il collegamento sotterraneo fra castello e Città Alta non sia mai esistito e sia sempre stato confuso con la strada coperta, opera di collegamento ma a cielo aperto.

Quindi dopo quattro mesi d’assedio il 28 ottobre del 1512 il de Caucens si arrese a onorevoli patti.

Venezia tenne Bergamo per poco, infatti nel giugno del 1513 vi giunsero nuovamente le truppe spagnole, che in quell’occasione incendiano il Palazzo della Ragione. Il provveditore veneto Bartolomeo Mosto e il castellano Carlo Miani con cento fanti si rinchiusero a loro volta nella Cappella, ma gli Spagnoli, dopo un blando assedio iniziale in settembre, avendo ricevuto rinforzi (2000 uomini ed artiglierie) iniziarono dei seri lavori d’assedio battendo il forte con le artiglierie e scavando gallerie di mina, obbligando quindi l’8 ottobre i veneziani alla resa, fatta salva la vita.

A sorpresa, nel 1515 gli Spagnoli abbandonarono Bergamo lasciando solo un presidio formato da 40 fanti, con cinque pezzi d’artiglieria.

A nulla valsero le trattative di resa da parte dei Veneziani, che al comando del provveditore Giorgio Vallaresso, avevano ricevuto l’ordine di riprendere il forte e spianarlo al suolo. Furono quindi posti cento schioppettieri ad impedire l’accesso di viveri e munizioni e fu tentato un colpo di mano che tuttavia fallì. Data la circostanza, i Veneziani si trovarono a dover ingaggiare per la riuscita dell’impresa proprio colui che anni prima era stato protagonista di una simile vicenda, ossia il francese Odet de Caucens.

Il 7 gennaio 1516 da Milano giunse un corpo di Guasconi a dare man forte agli assedianti, e alla testa di 400 guasconi e sette cannoni tornò in Bergamo Odet de Caucens, che da assediato divenne assediante.

Questi, che aveva tenuto in scacco i nemici per oltre quattro mesi dalle cortine della Cappella, ben ne conosceva i punti deboli, e disposta l’artiglieria prese ad asserragliarla col fuoco dei cannoni posti sul monte Corno, procurando una grande breccia nelle cortine del forte che dopo quattro mesi di assedio, il 21 gennaio 1516 convinse gli Spagnoli ad arrendersi.

IL FORTE DELLA CAPPELLA TRA XVI E XVIII SECOLO

Col tempo, anche se i danni prodotti dalle artiglierie del de Caucens furono in qualche modo riparati, cominciarono a giungere da più parti proposte di radere al suolo la malridotta Cappella, quasi dimenticata e ritenuta pericolosa per la città (5).

I drammatici avvenimenti costituirono comunque le premesse che alla metà del secolo portarono il governo veneziano ad elaborare un piano di fortificazione dell’intero territorio del dominio ed in particolare di Bergamo, dove nel 1561 si diede avvio alla costruzione delle Mura che racchiudono  ancor’oggi Città Alta.

Tuttavia, nonostante le preoccupazioni espresse in alcune relazioni di capitani e podestà succedutisi in città, non furono proposte soluzioni utili al potenziamento del Castello, che, sebbene costituisse il punto debole delle costruende Mura, almeno inizialmente non venne considerato all’interno di una più ampia visione (6).

La questione fu dibattuta a lungo tra coloro che erano favorevoli ad un suo rafforzamento e coloro che, ritenendolo inutile se non pericoloso, ne consigliavano l’abbattimento insieme al dirupamento del terreno circostante. Il nodo controverso divideva i tecnici in due fazioni:

  • da un lato i sostenitori del rafforzamento del Forte di S. Marco di cui era portavoce il Governatore Generale Sforza Pallavicino, che incaricato a sovrintendere la costruzione delle Mura considerava la Cappella ininfluente nella difesa della cinta bastionata che stava prendendo corpo sul terreno (7).
  • Dall’altro, vi erano coloro che spingevano affinché la Cappella non andasse nuovamente perduta in quanto rappresentava il punto debole verso la nuova opera difensiva in costruzione, che potrebbe “eser battuta et offesa da due monti….” (8): la Bastia e il monte Corno.
 Il Forte di S. Marco (evidenziato in verde) completava il perimetro nord-occidentale delle Mura, dalla porta di Sant’Alessandro alla porta di San Lorenzo: una “fortezza nella fortezza” posta in relazione alla Cappella per difendere la città in direzione dei colli. Il suo rimodellamento era stato progettato dallo Sforza Pallavicino avvalendosi dell’abilità tecnica del Savorgnano, che alla morte dello Sforza (1583) ne portò avanti l’opera. Il disegno, eseguito nel 1664 da Cesare Malacreda, è conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia

Per la Cappella lo Sforza pensava semplicemente al rafforzamento del fronte verso la Bastia e all’ammodernamento del Castello con un baluardo. Intenzione irrealizzabile, perché la ristrettezza della piazza (140 passi) mal s’adattava ad un presidio efficiente e soprattutto a un’ordinata azione di uomini e pezzi in caso di operazione. Osserva G.M. Labaa che forse la determinazione di non trasformare in corpo reale la piazza del Castello poteva sottendere il disegno tattico di evitare, in caso di perdita, che la fortificazione potesse accogliere sufficiente artiglieria da sfondare il fronte della lunga muraglia del Forte di S. Marco.

Tavola dimostrativa dei possibili tiri contro il forte San Marco di Città Alta, conservata presso la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia

Tuttavia la straordinaria posizione che la identificava come impareggiabile cavaliere con visualità di azione a 360°, pur nella difficoltà obiettiva di assicurarne la difesa rendeva restii a sacrificarla (9).

Che questo fosse un problema vitale e aperto risulta dal fatto che già nel 1565 si provvide a studiare il rimodellamento di tutto il territorio tra la Fortezza (le Mura) ed il Castello al fine di togliere di mezzo ogni possibile pianoro che potesse accogliere l’artiglieria di un ipotetico assediante (10).

A questo scopo si stanziarono 12 mila ducati e si fece in modo che in andamento rimanesse solo una stretta strada di soccorso e d’approvvigionamento del Castello, che a questa data era presidiato da soli 40 fanti (11).

La mancanza di fianchi adeguati sminuiva indubbiamente la validità della Cappella: le cannoniere erano infatti ricavate nei vetusti torrioni cilndrici del Castello medioevale con evidenti difficoltà di brandeggio e di operatività complessiva di fuoco e di fiancheggiamento. Quanto si sarebbe potuto fare in barbetta era poi limitato dall’esiguità della piazza.

Da qui le ragioni che fecero orientare non verso interventi sul nucleo ma verso l’approntamento di opere esterne ed avanzate, che però vennero realizzate solo tra la fine del Cinquecento e il secondo decennio del Seicento.

Le preoccupazioni maggiori venivano sempre dai colli vicini, Corno e Bastia, dai quali il fortilizio, facilmente raggiungibile tramite il dolce declivio del terreno, poteva essere battuto; i terreni verso la Cappella non erano sufficientemente scoscesi per contrastare l’avvicinamento del nemico.

Progetto per la sistemazione del Castello firmato dai provveditori (1585)

LA RISTRUTTURAZIONE DEL CASTELLO NEGLI ANNI 1585-1595

Intanto, verso l’ultimo decennio del Cinquecento il Senato Veneziano deliberava per l’inizio dei lavori di ammodernamento del fortilizio, che entro il 1595 era completamente ristrutturato sotto la direzione del capitano Nicolò Michiel e dell’ing. Bonomi (12).

Del Bonomi il lavoro più pregevole fu sicuramente la costruzione della scarpa addossata al corpo cilindrico delle torri, accorgimento difensivo poco prima attuato sulle mura cittadine, per difenderle dagli attacchi portati con le mine.

Sono infatti notevoli le differenze tra il paramento murario della scarpa e la cortina dei torrioni, dovute alla differente funzione delle due parti murarie: la scarpa doveva reggere l’urto e le principali offese degli assedianti, doveva sostenere il maggior onere dei carichi dei terrapieni e poteva, per la sua posizione, essere facilmente sbrecciata dalle mine; il muro verticale doveva sopportare carichi di gran lunga inferiori servendo solo di sostegno per la merlatura sulla quale solitamente si appoggiavano le travi della copertura.

Il paramento, interamente realizzato con pietra d’arenaria, appare caratterizzato da un’altissima scarpa realizzata con grossi blocchi squadrati e bugnati con estrema cura, disposti in corsi regolari e perfettamente connessi. Il completo redendone nella parte terminale sottolinea lo stacco tra la scarpa e la cortina sovrastante, dove i conci appaiono di piccole dimensioni, tagliati con poca precisione e collocati irregolarmente (fotografia del 1922)

 

Redendone che delimita la scarpa inclinata dal muro verticale

Nel corso dei lavori, vennero demoliti alcune casupole e il residuo dell’antica torre centrale (il maschio medioevale che era già stata fatta abbassare dal Pallavicino per renderla meno esposta ai tiri di artiglieria), per ottenere uno spazio di manovra maggiore sulla piazza superiore del Castello, ora ampliata (40×70 metri ca.) e capace di ospitare fino a 500 soldati e 10 pezzi di artiglieria.

Per ampliare il fortilizio verso est, la cortina rivolta verso la città fu demolita nel tratto compreso tra i due torrioni e sostituita da due cortine perpendicolari a quella abbattuta (e cioè edificate sul lato settentrionale e meridionale),  collegate fra di loro da una cortina a “coda di rondine”, al centro della quale venne costruito il nuovo ingresso al castello. Da questa parte i muri erano di esiguo spessore, ben diversi da quelli assai più robusti e massicci rivolti verso le alture circostanti.

Lo spigolo nord della cortina “a coda di rondine” che si protende verso Città Alta. A destra il torrione di Castagneta

Da tali lavori si ricavò una nuova piazza chiamata “inferiore” per distinguerla da quella sopraelevata, di dimensioni assai maggiori – con la quale era collegata tramite una scala in pietra di 4 passi veneziani (1 passo = m 1,738) -, entro la quale furono costruite una polveriera e una chiesetta (forse per sostituire quella dedicata a S. Maria Maddalena, demolita nel 1567 e i cui resti potrebbero essere stati inglobati nella Casa del Custode con i lavori di ampliamento?); sulla sinistra, il deposito delle munizioni, degli archibugi, degli attrezzi e, dietro, gli alloggiamenti per i soldati disposti in doppia fila.

Negli alloggi dimorava il contingente militare che variava a seconda dei periodi storici e delle crisi politiche. Una piccola comunità il cui compito principale era l’esercitazione oltre al rondamento diurno e notturno, nella fossa intorno al Castello e a controllo del territorio.

La polveriera del castello di San Vigilio nell’Ottocento, documentata da un disegno di Luigi Deleidi, detto il Nebbia, nell’album di vedute di Bergamo trafugato alcuni anni or sono dalla Biblioteca Civica “Angelo Mai”. Il progetto di quest’opera grandiosa, di cui non è rimasta traccia, secondo Luigi Angelini può essere attribuito al Codussi, autore anche del portale monumentale. Da Lezze precisa che la torretta (piramide) “per conserva della polvere” era coperta di piombo. Fu demolita molto probabilmente in coincidenza con le notevoli trasformazioni che la “Cappella” subì nell’Ottocento per mano degli Austriaci, che la sguarnirono del tutto abbattendo pure il portale d’ingresso; i disegni eseguiti da Giuseppe Rudelli nel momento della demolizione ne documentano la grandiosità

Venne inoltre edificata la Casa del Castellano (costruita solo nel 1593 ed oggi sede l’associazione Castrum Capelle, a sinistra della scalinata principale) e la Casa del Capitano, chiamata del Pittore (ubicata sulla destra).

 

Vista del fronte Sud del Castello con la Casa del Castellano

 

Stato della cappella verso la fine del XVI Secolo, dopo la ristrutturazione interna. Risale a questo periodo  la principale conformazione che il Castello possiede oggi, con la cosiddetta “Piazza di Sotto” collegata con la “Piazza di Sopra” da scalette in pietra (disegno conservato presso l’Archivio storico di Venezia, Ter. 110)

In mezzo alla piazza superiore venne eretta un’antenna su cui nei giorni festivi veniva issata l’insegna di San Marco. Sotto questa antenna venne realizzata una vasta cisterna per assicurare il rifornimento idrico, alimentata da una sorgente e dalla raccolta delle acque piovane.  

Un’altra cisterna fu realizzata di fronte alla Casa del Castellano.

La cisterna costruita di fronte alla casa del castellano è  un vano ipogeo con volta a botte alta poco più di otto metri e pianta con dimensioni medie di 7 metri per 11, posizionato sotto la balconata antistante la casa stessa (ex Trattoria del castello). Nell’immagine, la fontana della cisterna a servizio delle abitazioni dei militari come si presenta oggi. La relazione del proto Bernardo Berlendis del 1600 indicava la cisterna, che ancora doveva essere completata, posizionata all’interno della fossa vecchia del castello: è stato quindi utilizzato parte dello spazio che si è reso disponibile con l’espansione del fortilizio verso est. Fu completata nel 1606

 

La stessa fontana  in un disegno di L. Deleidi detto Il Nebbia (1784 – 1853) (Riproduzione fotografica conservata presso la Biblioteca Civica A. Mai, Archivio “Bergamo illustrata”)

Tutt’ intorno venne scavata una fossa profonda quattro passi, controllata da due corpi di guardia sul lato nord e sud e dotata di una controscarpa che, erosa e continuamente dalle piogge, richiederà continui interventi. I lavori eseguiti erano costati sino a quel momento 34.000 ducati.

La cortina verso il torrione Belvedere, la passerella lungo un fossato mai esistito e, a destra, il muro di controscarpa

Altri lavori di rafforzamento del forte furono realizzati all’inizio del Seicento seguendo le proposte di Francesco Berlendis e di Marco Antonio Negrisoli.

Pianta del Castello di San Vigilio dove sono indicati: in verde, la cortina congiungente le torri di San Vigilio e di Castagneta come da costruzione veneta della fine del XV secolo; in rosso, l’espansione della piazza del castello con i lavori della fine del XVI secolo; in blu, i corpi di guardia nord e sud (Proprietà GSB  Nottole).

LA PROSECUZIONE DEI LAVORI: LE STRUTTURE ESTERNE ED AVANZATE PER LA DIFESA VERSO IL MONTE BASTIA

Riguardo le perplessità relative all’effettiva inespugnabilità del Castello dovuta alla presenza dei colli vicini (Corno e Bastia), tra i progetti presentati nel 1585 il Bonomi aveva proposto quattro bassi baluardi attorno al vecchio Castello, uno dei quali era un puntone che si protendeva fra la Bastia e il Corno, soluzione onerosissima (80 mila ducati) e di scarsa fattibilità; il Malverda si era limitato ad un puntone verso il monte Corno utilizzando le vecchie torri del Castello per il fiancheggiamento, oltre a potenziare al massimo il collegamento con la città, soluzione meno onerosa (25 mila ducati) ma di scarsa efficacia; Paolo Emilio Scotto aveva proposto una soluzione costituita da una tenaglia che dal vecchio Castello si rivolgeva verso la Bastia e il Corno e la realizzazione di una strada coperta che occupasse tutto il dosso che s’interpone fra la fortezza e il Castello. Tale strada non avrebbe dovuto essere un semplice percorso protetto, ma consistere in cortine terrapienate e forte scarpamento dei pendii esterni. L’ipotesi della tenaglia venne quantificata in 35 mila scudi. La soluzione fu avvertita come la migliore e più o meno secondo quest’ultima ipotesi ci si mosse.

Stampa secentesca dei Remondini di Bassano. I lavori intrapresi all’inizio del XVII secolo diedero alla fortezza la configurazione definitiva a forma di stella (di questo nuovo perimetro difensivo, tratta F. CACCIA: Trattato scientifico di fortificazione in appendice al TASSI. – Vita dei pittori – architetti – scultori bergamaschi, 1793)

La costruzione della strada coperta tra la città e la Cappella iniziò nel 1607 ma solo tra il 1613 e il 1616 i lavori, diretti dall’ing. Marcello Alessandri, si poterono considerare conclusi. La strada, una sorta di trincea con argini in terra (rivestiti da parapetti in pietra nel nel 1623), che dal muro di controscarpa che affiancava la fossa correva lungo la costa del colle, costituiva un collegamento sicuro tra il Forte di S. Marco e la Cappella, utile a portare rifornimenti e aiuti in caso di necessità.

La freccia rossa indica la strada coperta tra la Cappella e il Forte di S. Marco, con il quale si doveva collegare tramite una sortita nel Baluardo Pallavicino

 

Planimetria del 1617 presente nella relazione di Buonaiuto Lorini (conservata presso la Biblioteca Civica A. Mai, Bergamo)

La strada coperta era protetta, a metà del percorso, da una piccola piazza per posizionare i cannoni sul lato sud (verso S. Gottardo) e da un’altra piazza sul lato nord, verso il Monte Corno.

L’intero passaggio, che aveva una larghezza di 18 passi ed era costato la considerevole cifra di 41.000 ducati, verrà smantellato e completamente cancellato da Napoleone Buonaparte.

Il Castello e il forte di S. Marco nel contesto orografico dei colli, con la strada coperta

Di pari passo con le modifiche relative al Forte di San Marco, la difesa esterna del Castello venne definitivamente completata tra il 1621 e il 1623 su progetto degli ingegneri Tensini ed Alessandri, mediante la costruzione, oltre la controscarpa della fossa, della tenaglietta di nord-ovest (due grandi speroni , rivolti verso il monte Corno ed il monte Bastia, posti a protezione del torrione più occidentale) e dei due baluardetti di sud-ovest e di sud- est, realizzati per migliorare la difesa dei due sottoposti torrioni: il primo, denominato baluardo Moncenigo, è un puntone verso la chiesa di S. Vigilio, il secondo è posto a protezione del primo torrione, detto di S. Vigilio.

Pianta del Castello di S. Vigilio, con descritta ogni singola parte (arch. G.M. Labaa)

Infine, i terreni circostanti vennero dirupati per rendere meno agevole l’avvicinamento del nemico.

 

Con il 1623 si concludevano le operazioni di fortificazione della città di Bergamo da parte di Venezia. Ma servivano altre risorse economiche e per averle si ribadiva nuovamente che in questo luogo si giocava per Venezia “Ia conservazione di questa Città e di tutta Bergamasca”:  in particolare, bisognava rendere ancor più aspro il declivio davanti alla “fòrvese” attraverso un ennesimo intervento di modellamento della sella fra il Castello e l‘altura del Colle, che restava facilmente accessibile al nemico (14):  un appassionante e “classico” problema tattico-strategico (tale da entrar nella trattatistica), per la cui soluzione vennero chiamati i migliori ingegni nell’arte del fortificare d‘Italia.

L’impianto fortificato della “Cappella” nel contesto orografico del colle di S. Vigilio, con la strada coperta che giunge fino al Forte (disegno di Cesare Malacreda, conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia)

 

Il Castello e la cinta bastionata unite dalla strada coperta, nella planimetria di Pierre Mortier (1660)

Affinché niente fosse anteposto al superiore bisogno di sicurezza, le plurimillenarie forme della natura vennero modificate ancor più radicalmente, artificializzando e caricando di nuovi valori una parte importante del Colle di Bergamo, esaltandone il senso di dominanza: si scavarono fosse, si tolsero boschi, vigne ed alberi isolati e si asportarono persino i muretti dei terrazzamenti, rimodellando tutt’attorno al Castello il profilo delle alture, delle selle e dei crinali, lasciando percepire da lontano persino il corridoio che correva lungo la strada coperta.

Il Castello alla fine dell’Ottocento

Il luogo tutt’intorno al Castello mutava ma la sommità del colle non perdeva i suoi valori semantici di spartiacque fra le vigne e le aree boscate che si succedono a ponente e l’artificialità del costruito a levante, con la città serrata nella smagliante cinta bastionata.

“NelI’ordinaria percezione da sud, dal piano, si godeva la stereometrica astrattezza dei piani in terra e delle pareti in pietra, che connotano rampati, Ia tenaglia e le bastionature minori, ai corridore della strada coperta e alle rotondità delle torri del soprastante vetero impianto” (G.M. Labaa, “Progetto – Il colle, cit.)

  

L’emergenza del Castello, circondato da un cerchio di folti tigli, letta dalla collina di Madonna del bosco

Sino alla fine della presenza Veneta a Bergamo, il forte non subì l’assalto di alcun avversario.

Giovanni Antonio Urbani, Planimetria acquerellata del Castello di San Vigilio e degli spalti interni ed esterni, 22 aprile 1766 (conservata presso la Biblioteca Civica di Bergamo)

 

Giovanni Antonio Urbani, disegno del 1776 raffigurante gli interni del Castello di San Vigilio (conservato presso la Biblioteca Civica di Bergamo)

DOPO VENEZIA

Il 25 dicembre 1796 i francesi di Napoleone I entrano in Bergamo ed è la fine della dominazione veneta. I francesi si fanno consegnare dal capitano veneto Ottolini il Castello, temendo un tentativo di controffensiva di Venezia proprio da quella postazione; ed è forse per questo motivo che, l’anno successivo, viene distrutta la strada coperta costruita circa duecento anni prima, decretando per il Castello la perdita definitiva dell’importanza strategica che lo aveva contraddistinto fino ad allora.

Incisione settecentesca di Bergamo Alta, vista da Santa Maria del Giglio, presso Porta S. Giacomo, posta di fronte al Fortino. In alto a ponente svetta la Cappella imbandierata. La prima versione, in bianco e nero, era stata eseguita Giorgio Fossati (1704-85)

Il fortilizio perde importanza per le ormai mutate strategie militari e dal 1803 il Ministero della Guerra indice alcune aste per la vendita o affitto a privati dei terreni facenti parte della ex fortezza (15), che in questo periodo viene anche utilizzata come magazzino militare.

Bergamo Alta vista da Porta S. Giacomo, dominata dall’alto dal Castello di S. Vigilio (incisione veneta settecentesca). E’ una prima prova della stampa di Giorgio Fossati (1704-1785) integrata poi con figure nella stampa della sopracoperta e dei risguardi (Racc. Conte G. Piccinelli)

Le campagne napoleoniche richiedevano ingenti finanziamenti e, venute meno le ragioni militari, furono vendute numerose parti della fortezza cittadina. Tra queste, oltre al Castello, il Forte di San Marco che da allora è di proprietà privata, compresa la Porta del Soccorso e le interessantissime strutture sotterranee.

Occupata Bergamo nel 1815, gli Austriaci intrapresero una politica di smantellamento delle principali strutture militari presenti in città; nel 1829 furono infatti demolite alcune parti del castello, tra cui la polveriera e la  monumentale porta d’ ingresso entrambe attribuite al Codussi.

In precedenza, nel gennaio del 1825 avevano messo all’asta gli spazi dell’intero perimetro delle mura. Per buona fortuna l’operazione fu bloccata dal podestà di Bergamo Rocco Cedrelli il quale riuscì ad aggiudicarsi (la somma sborsata fu di 6.050 lire) tutte le aree, divenute poi la splendida passeggiata che è uno degli aspetti più affascinanti dell’antica città.

Il rilievo, risalente al 1828, mostra i nuovi manufatti all’interno delle mura di cinta, successivamente demoliti (conservato presso  l’Archivio Comunale di Cittadella)

Alla fine dell’Ottocento, con la cessata strategia difensiva, si assiste al progressivo inurbamento del Colle con la costruzione di residenze e case di villeggiatura sul suo versante più soleggiato.
Questo a seguito della crescente attrazione delle zone collinari a luogo di villeggiatura e ristoro.

A partire dai primi anni del Novecento, e nell’arco di tutto il secolo, si assiste sempre più alla riconversione dei cascinali meglio esposti al sole in ville e villette in stile liberty e la progressiva sostituzione del verde rurale in giardini, anche con essenze estranee all’areale tipico e/o con essenze esotiche.

Veduta di S. Vigilio nel 1900 (da Patrik Serra, Antiche stampe di Bergamo – XIX secolo. Grafica & Arte Bergamo)

Del 1912 è la costruzione della funicolare di collegamento tra Città Alta e S. Vigilio, che copre una distanza di 621 metri con un dislivello pari a 91 metri.

 

L’imbocco della strada che dalla stazione superiore della funicolare conduce al Castello

 

Cartolina di Via Sudorno con il Colle di San Vigilio sull’altura

Le mappe catastali rilevate negli anni successivi non riportano trasformazioni evidenti e gli edifici si manterranno pressoché inalterati fino ad oggi, tranne l’edificio settentrionale soggetto ad una demolizione parziale.

Nel 1934 buona parete del sedime dell’antico forte fu ceduto alla famiglia Soregaroli, che trasformò la Casa del Castellano in un caffé-ristorante; i camerieri servivano clienti ai tavolini allineati all’ombra del tigli sulla sommità. Il proprietario, Pierino Soregaroli vi profuse molte energie fisiche ed economiche per riadattare la scalinata e sistemare i camminamenti del malconcio castello. Nel corso degli anni ’80, a causa del progressivo stato di degrado dell’edificio il ristorante ha cessato la sua attività.

Nel 1957 il Comune di Bergamo ritorna in possesso del castello e dei terreni a nord dello stesso, acquistandoli da privati ed a partire dal 1960 vengono avviati i lavori di restauro del fortilizio, su progetto dell’architetto Pippo Pinetti.

Il Castello prima della ripulitura

I lavori si conclusero alla fine di agosto del 1961, quando la piazza superiore venne riaperta al pubblico (16).

Due fotografie che ritraggono il castello prima e durante i restauri condotti fra il 1960 ed il 1961: oltre alla rimozione della vegetazione che aveva invaso la piazza superiore i lavori si sono concentrati sulla ricostruzione di parte delle cortine andate distrutte nel corso degli anni. (Fotografie inserite nelle relazioni di sopralluogo ai lavori, archivio del Comune di Bergamo)

Anche la funicolare di San Vigilio, che funzionò fino al 1976, venne ripristinata nel 1991, quando si conclusero i lavori di restauro.  Un’ulteriore restauro è stato approntato in tempi recenti ed è stato completato nel 2004.

Il recupero ha dato la possibilità di far riemergere dal colle le parti superstiti di questa struttura, restituendo alla luce agli antichi torrioni, disboscando la vegetazione spontanea e trasformando le cortine nelle terrazze panoramiche di un giardino pubblico.

Planimetria del Castello con la nuova sistemazione del verde dell’arch. Bellocchio (conservata negli atti  del Comune di Bergamo)

 

Vista dell’ ingresso alla Cannoniera del Torrione Ponte

Per concludere con le parole di G.M. Labaa, oggi possiamo identificare il Castello di San Vigilio come un “segno formale di grande significato e strumento interpretativo di sedimentazione storica e di tecnica difensiva”. Lo si evince “dalle strutture murarie e dagli spazi ricchi di portato castellologico riferibili sia all’impianto visconteo che a quello veneziano, per arrivare cronologicamente fin oltre la soglia del secolo XIX, all’epoca del definitivo disarmo strutturale dell’impianto voluto da Napoleone” (17).

Ed oggi come allora, il Castello continua a costituire uno dei più precisi riferimenti — e non solo visuale — di quel contesto variegato che è Bergamo.

 

NOTE

(1) Angelo Mazzi, Il Castello e la Bastia di Bergamo, Ist. It. d’Arti Grafiche, 1913.

(2) Secondo il Mazzi (Il Castello e la Bastia di Bergamo, cit.) ai tempi del rafforzamento della Cappella sotto il governo di Luchino Visconti (1345) non si provvide solo ad un semplice restauro ma i lavori dovettero essere ben più sostanziali, comprendendo la costruzione dei quattro torrioni circolari posti agli angoli delle cortine coronate dalla merlatura. Questi, secondo Luigi Angelini, per la loro forma e struttura, sarebbero invece stati edificati dai veneziani verso la fine del XV secolo nel quadro dei lavori di potenziamento della fortezza.

(3) Nel 1419 il duca Filippo Maria Visconti, intenzionato a riannettere Bergamo al Ducato di Milano affidò al Carmagnola il compito di cacciare il Malatesta da Bergamo. Carmagnola, compreso da subito l’importanza strategica del fortilizio della Cappella, il 24 luglio ne acquisì il controllo, corrompendo con denaro il castellano, Antonio Guastafamiglia. Non appena occupata la Cappella, le truppe del Carmagnola da lì iniziarono ad attaccare incessantemente la città, che fu presto ridotta alla resa ed obbligata a tornare sotto il dominio visconteo.

(4) Questi lavori sono documentati dalle ducali venete sino al 1490. Per il rifacimento e la sistemazione del torrione vecchio, delle fosse ed altre parti, furono spesi 1000 ducati della camera fiscale. Nel 1487 sono documentate opere realizzate sotto la direzione dell’ingegnere militare Venturino Moroni.

(5) Nella Relazione del podestà Costantino Priuli, 8 novembre 1553: “… Vi è la Capela qual è parte ruinata, et per mia opinion se doveria ruinar del tuto, in tuto quela è fuora di la Cità poco spacio.”

(6) Al sopralluogo alle fortificazioni, eseguito a cavallo fra gli anni venti e trenta del Cinquecento dal comandante delle truppe Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, segue un progetto per il loro rafforzamento con alcuni bastioni, ma non v’è accenno alcuno al castello di S. Vigilio (Cfr. G. Colmuto Zanella, “La fortificazione di Bergamo promossa da Francesco Maria della Rovere” in “1588 – 1988 le mura di Bergamo”, nota 52 pag. 295). Nella Relazione del podestà Costantino Priuli, 8 novembre 1553: “… Vi è la Capela qual è parte ruinata, et per mia opinion se doveria ruinar del tuto, in tuto quela è fuora di la Cità poco spacio”.

(7) Cfr. E. Fornoni, “Le fortificazioni di Bergamo sotto la Repubblica Veneta” alle pagg. 108 e 109.

(8) Dalla Relazione inviata al Senato dal podestà Francesco Venier nel novembre 1561, tre mesi dopo l’inizio dei lavori della Fortezza.

(9) G.M. Labaa, Il Castello, in: “Progetto – Il Colle di Bergamo”. Pierluigi Lubrina Editore (anno non indicato).

(10) Nel 1565 il capitano Donato relaziona sui lavori di modifica ai terreni compresi fra la Cappella ed il Forte di San Marco per la rimozione di alcune piazze che potevano diventare utili al nemico per collocare l’artiglieria e, secondo lo stesso capitano, era questo il punto di maggior pericolo per la fortezza in costruzione (Cfr. relazione 17 del capitano Lorenzo Donato, 31 dicembre 1565, in “Relazioni dei rettori veneti ….”). Dopo i lavori doveva rimanere solo una strada stretta per raggiungere il castello.

(11) Cronicamente modesta rimarrà sempre, invece, la guarnigione: il 18 settembre 1585 il capitano Michele Foscarini lamenta che a custodia della Cappella vi siano solo 35 fanti, parte dei quali devono fare anche servizio di ronda in città e ravvisa in ciò un grandissimo pericolo in ordine alla sicurezza generale della Piazza (G. M. Labaa, cit.): “La milizia stipendiata posta alla custodia della fortezza di Bergamo è di trecentodieci soldati, sotto la caricha del governatore et de sei capitanij….. Il quinto [capitano] è posto alla custodia della rocchetta detta la Capella con 35 fanti, parte de quali convengono a servire a rondare et fare le sentinelle dentro alla Città, per esser il numero de soldati così ristretto, che non può suplire ai necesari bisogni, di maniera che la Capella resta con soli 25 huomini, parte de quali alle volte anco si trovano inutili per esservi degl’ammalati, et inclusovi il tamburo, ragazzo et bombardieri et perciò viene ad essere pocco sicuramente guardata, il che a me pare di nottabilissimo disordine per gl’accidenti che potessero occorrere.” In “Relazioni dei rettori veneti in terraferma – Podestaria e capitanato di Bergamo”. Nella relazione sono riportati anche i quattro diversi progetti di modifica per il rafforzamento della Cappella, fatti pervenire alle istituzioni Venete.

(12) La data della fine dei lavori è documentata con la relazione del capitano Giovanni Guerini.

(13) Da Archivio Comune di Bergamo 1900, faldone 883, Biblioteca Civica A. Mai.

(14) Anche la tenaglia verso il Corno, non essendo sufficientemente incamiciata franava continuamente per le piogge, mentre la strada coperta, ancora nel 1702 (Cfr. relazione del capitano Andrea Badoer del 1702 in “Relazioni dei rettori veneti in terraferma – Podestaria e capitanato di Bergamo”), non aveva più i parapetti, dei quali rimanevano “le vestigia”, ed era ormai così stretta da non permettere il passaggio di un cannone.

(15) Da Archivio del Dipartimento del Serio, faldone 1071 (piazzeforti Bergamo), Archivio di Stato di Bergamo.

(16) Da archivio del Comune di Bergamo: atto di compravendita del 6 giugno 1957. Progetto di restauro a cura dell’arch. Pinetti.

(17) G.M. Labaa, Il Castello, cit.

Alcuni riferimenti 

G.M. Labaa, Il Castello, in: “Progetto – Il Colle di Bergamo”. Pierluigi Lubrina Editore (anno non indicato).

Mario Locatelli, “Il castello di S. Vigilio (La Cappella)”, Castelli della Bergamasca 2, Il Conventino, Bergamo.

Emanuela Gregis, “Complesso museale presso il Castello di San Vigilio a Bergamo”. Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura e Società. Corso di Laurea in Architettura. A.A. 2009-2010.

Castrum Capelle onlus

Tosca Rossi, A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012, cm 21×28, pp. 244.

Monica Resmini, Le Mura: immagini e realtà. In “Le mura. Da antica fortezza a icona urbana”, di Renato Ferlinghetti, Gian Maria Labaa, Monica Resmini. Bolis Editore, 2016.

“I sotterranei del Castello di San Vigilio – Bergamo”, a cura del Gruppo Speleologico Bergamasco Le Nottole.

Angelo Mazzi, Il Castello e la Bastia di Bergamo, 1913.

La vicenda dello scomparso ospedaletto di Sant’Antonio in Prato (dove oggi sorge Palazzo Frizzoni)

Come osservato qui, da Vienne, cittadina francese che conserva le spoglie di S. Antonio abate e che dal XII secolo aveva mostrato il potere taumaturgico del Santo, il culto si diffuse rapidamente in tutta Europa (ed oltre), dove fiorirono rapidamente numerose fondazioni antoniane con una serie pressoché infinita di luoghi di culto ed ospedali al Santo dedicati.

In Italia i primi ospitali sorsero lungo la via francigena che collegava Delfinato e Italia, presso la Precettoria di S. Antonio a Ranverso in Val di Susa (ante 1188), poi a Roma, Teano e presso Napoli.

Sant’Antonio Abate, il grande eremita egiziano la cui devozione era legata alla cura dell’ergotismo, causato dall’ingestione di prodotti derivati dalla segale cornuta, malattia molto diffusa fra I poveri a causa della cattiva alimentazione. Nelle immaginette ricorre l’immagine del Santo, diffusa dagli stessi antoniani, raffigurato con accanto un porcellino e con in mano  una campanella ed un bastone terminante a forma di tau

Il culto si diffuse anche nella Bergamasca ed in città vennero fondati due hospitali intitolati al Santo: nel 1208 quello di Sant’Antonio in foris, appena fuori la porta di S. Antonio e all’imbocco di borgo Palazzo e, verso la fine del XIV secolo in luogo dell’attuale Palazzo Frizzoni, l’ospedale di Sant’Antonio “in Prato” (o “di Vienne”), entrambi con annessa chiesa.

In Contrada di Prato, l’ex- chiesa di S. Antonio di Vienne e poco oltre il monastero di S. Marta. Le colonne di Prato, davanti all’attuale via Borfuro, delimitarono il confine della Fiera fino al 1882 (disegno di G. Trécourt)

La chiesa e l’annesso ospizio per malati e pellegrini si trovavano in Contrada di Prato, sulla strada che dal Prato di S. Alessandro portava alla chiesa di S. Leonardo. Ma esistendo già una chiesa con ospizio nel borgo di S. Antonio, si aggiunse la dicitura di Antonio “in Prato” o di S. Antonio di Vienne per evitare che la dedicazione scelta potesse dare adito a confusione.

Al centro dell’immagine, l’ex- chiesa di S. Antonio di Vienne (dal 1586 dedicata alle SS. Lucia e Agata), in Contrada di Prato (incisione del 1815 ca. Proprietà Conte G. Piccinelli, Milano)

I frati antoniani erano giunti a Bergamo verso la fine del Trecento e vi si erano insediati, ma è difficile oggi stabilire se essi siano stati gli effettivi promotori della sua edificazione; di certo l’ospedale fu fondato per iniziativa laica tra il 1380 e il 1382: la tradizione ne fa risalire la fondazione a Gerardo (morto tragicamente nel 1380) della nobile famiglia cittadina dei De la Sale, ma un documento conservato nel fondo pergamene dell’archivio della Mia attesta la contemporanea presenza di un certo frate Francesco, “un armigero di ignota provenienza”, che nel 1382 è citato come edificatore della chiesa e dell’Ospedale di San Antonio in Prato (non era in “habito religioso”, ma “portabat pannos lungos et signum S. Antonii scilicet unum T super pectore”) (1).

(1) Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

La riunificazione degli ospedaletti medioevali nell’Ospedale Grande di S. Marco: la resistenza dei frati di S. Antonio de Vienne

Così come stava accadendo in altre città, anche a Bergamo verso la metà del Quattrocento si deliberò l’accorpamento di 11 ospedaletti sparsi tra il colle e il piano in un unico grande organismo (l’Ospedale Grande di S. Marco), al fine di ottimizzare i servizi e creare un’unica dirigenza, esercitando così un maggior controllo (2).

(2) Le prime notizie di un sistema ospedaliero compiuto di Bergamo risalgono al 5 novembre del 1457, quando il Vescovo Giovanni Barozzi (1449-1465) approva i Capitula hospitalis novi et magni structi in civitate Bergami. Insieme ai Rettori della città aveva infatti ottenuto l’autorizzazione di fondare un Ospedale Grande che riunisse in sé tutte le strutture di assistenza al malato e tutti i luoghi pii dediti alla cura sanitaria e all’assistenza paramedica. I  beni degli ospedaletti avrebbero costituito il fondo economico necessario alla realizzazione del progetto.

La veduta prospettica di Alvise Cima, nella tela conservata presso la Biblioteca Civica Mai. Dall’azione congiunta del Vescovo Barozzi e della municipalità, nel 1457 viene deciso di riunire sotto un’unica direzione gli ospedali di Sant’Erasmo fuori dalla porta di Borgo Canale, di Santa Grata inter vites in Borgo Canale, di San Lorenzo dell’omonimo borgo, di San Bernardo presso il ponte della Morla sulla strada di Valtesse, di San Tommaso della Gallinazza dentro porta di Santa Caterina, di Santa Caterina fuori le mura, legato alla parrocchiale, di Sant’Antonio in foris,  fuori porta S. Antonio, del monastero di Santo Spirito, situato nei pressi del monastero dei Celestini, di San Lazzaro in Borgo San Leonardo, di San Vincenzo in contrada di San Cassiano, di Santa Maria Maggiore in Contrada Ante Scolis

Il documento firmato nel 1458, delibera “che il nuovo ospedale dovrà essere costruito nel luogo dell’ospedale di S. Antonio o altrove, qualora lì non fosse possibile”, avviando un’annosa disputa che vede da una parte la resistenza degli antoniani, decisi a difendere strenuamente privilegi e concessioni acquisiti nel tempo (dopo essere stata per un certo periodo in mano alla MIA, nel 1453 i frati di Vienne avevano ottenuto da Papa Nicolò la chiesa e l’ospedale) e, dall’altra, la cittadinanza, che non solo li considera abusivi all’interno della struttura “sorta a vantaggio dei poveri e su iniziativa di una famiglia bergamasca”, ma li rimprovera anche di elemosinare per sostenere la loro comunità e la precettoria d’appartenenza (quella già osservata di Ranverso, in Piemonte), trascurando del tutto l’ospedale e la chiesa.

La diatriba verrà risolta alla fine del Cinquecento, quando il vescovo Barozzi decide di accorpare l’ospedaletto di S. Antonio in Prato all’Ospedale Grande di S. Marco (di cui diviene una dipendenza), permettendo ai frati di restare nella loro sede, dove continuarono a esercitare attività di accoglienza per malati e pellegrini e a celebrare nella loro chiesa, che con l’unione decretata nel 1457 era divenuta parte dell’Ospedale Maggiore.

E poichè la chiesa di S. Marco, costruita (1572) nel perimetro dell’Ospedale Grande era solo chiesa cimiteriale per i degenti del nosocomio ed aveva un battistero per il battesimo degli esposti, per volontà degli amministratori dell’Ospedale Grande nella chiesa di S. Antonio di Vienne veniva celebrata ogni giorno una messa (3).

La chiesa di S. Antonio nel frattempo si era ampliata: “.. era ampia e non disadorna. Aveva quattro altari; la scuola dei Disciplini, che si riunivano in sagrestia; la scuola del Divino Amore, che si riuniva sopra la porta maggiore dove c’era una grande volta in forma di pulpito” (tribuna) (4).

(3) Nella chiesa di S. Marco, costruita 1572 nel perimetro dell’Ospedale Grande, venivano sepolti coloro che nell’ospedale morivano; c’era inoltre un fonte battesimale per il battesimo dei bambini esposti (come da atti della visita pastorale di S. Carlo Borromeo del 1575). C’erano poi due altari, il maggiore e quello di S. Marco, e c’era il SS. Sacramento, ma si celebravano messe solo nel giorno dedicato a S. Marco, poichè, secondo gli accordi presi dal momento dell’unione degli ospedali, una messa quotidiana veniva celebrata nella chiesa di S. Antonio di Vienne in Prato (M. Mencaroni Zoppetti, op. cit.).

(4)  A.G. Roncalli, Gli Atti della visita pastorale di S. Carlo Borromeo (1575), Firenze 1937, Vol. I, La Città, parte II, p. 140.

L’ingresso laterale della chiesa di S. Antonio di Vienne, davanti alla quale si faceva mercato, in un disegno ottocentesco (elaborazione tratta da M. Mencaroni Zoppetti, op. cit.)

I frati di S. Antonio di Vienne vi rimasero fino al 1586, anno in cui il complesso, che era adiacente al convento femminile di Sant’Agata, fu acquisito dalle monache domenicane provenienti dalla Valle di Santa Lucia Vecchia, che lo ridedicarono alle Sante Lucia e Agata (5).

Dopo le soppressioni napoleoniche attuate alla fine del 1798, tutto il complesso venne acquistato nel primo Novecento dalla famiglia Frizzoni, e demolito per far posto alla loro residenza cittadina poi divenuta Municipio della città di Bergamo.

(5) D. Calvi, Effemeridi sagro profane di quanto di memorabile sia successo in Bergamo sua diocese et territorio, vol. III, p. 398, 11 dicembre 1586 “Le monache di S. Lucia fuori delle mura di Bergamo, havendo fin l’anno passato comprate le habitationi e Chiesa dell’Ospitale di S. Antonio in Prato contiguo a S. Agata, vennero in questo giorno ad habitarvi formandosi delle due chiese di S. Antonio e di S. Agata una Chiesa sola con titolo di S. Lucia e Agata”.

Palazzo Frizzoni, edificato tra il 1836 e il 1840 dall’architetto bresciano Rodolfo Vantini ed attualmente sede del Municipio di Bergamo. L’edificio è sorto sull’area occupata dall’antica chiesa e annesso ospedale di S. Antonio di Vienne

Data l’impossibilità di utilizzare l’ospedale di S. Antonio, su cui erigere l’Hospital Grande di San Marco, nelle sedute comunali si avanzarono le ipotesi più varie finchè, nel 1474, si scelse un’area poco lontana, ai margini dello stesso Prato di S. Alessandro: si trattava di un terreno di proprietà dell’ospedale stesso, sul prato Bertellio (prato di S. Bartolomeo?), in una zona pianeggiante, chiusa a sud dalle Muraine, a monte del luogo dove sin dall’alto Medioevo si svolgeva la grande Fiera annuale dedicata al patrono della città: un punto a cui era possibile convergere da ogni parte dell’abitato e in posizione equidistante rispetto ai borghi di S. Alessandro a ovest e di S. Antonio a est, come indicato nella veduta prospettica di Alvise Cima,  dove il complesso ospedaliero e la chiesa annessa sono indicati come PEPITALE S. ANTONIO.

La supposta Bergamo quattrocentesca un un particolare della veduta di Alvise Cima, conservata presso la Biblioteca Civica Mai. In verde, la zona in cui si trova l’ospedale di Sant’Antonio (oggi Palazzo Frizzoni), posto accanto al convento di S. Marta. In azzurro, l’Ospedale di San Marco, al centro dell’antica Bergamo, ai margini del Prato di S. Alessandro, risulta formato da tre corpi di edifici collegati da un loggiato. A destra la chiesa (costruita nel 1572), priva di campanile e con il fronte al rustico, si affianca al corpo occidentale  (PEPITALE) connesso al chiostro, affiancato dal brolo (orto officinale). Verso est un edificio più basso si congiunge con quella che dovrebbe essere la Cappella dell’Ospedale.  La vasta area verde restituisce l’idea della salubrità del luogo antistante il  prato che si estende sino alle Muraine, solcato dalla Seriola Nuova che lambisce il convento di S. Bartolomeo e raggiunge la Porta del Raso

 

Anche nell’immagine della città secentesca formulata da Macherio e poi da Stefano Scolari, la facciata della chiesa di S. Marco appare in una modesta forma a capanna, probabilmente in arenaria. Sono visibili due cortili, il loggiato di fronte al prato, l’edificio della Dogana veneta e il tezzone del salnitro, che serviva per la fabbricazione della polvere pirica e dove, terminato l’evento, venivano ricoverate le baracche di legno della fiera. Il tezzone è abbattuto nel 1820 e trasformato in mercato del grano

 

La fabbrica dell’Ospedale Grande di San Marco si avvia dal 1478 e termina nella prima metà del Cinquecento; è ampliata all’inizio del Settecento e quasi interamente demolita nel 1937, per il nuovo assetto assunto dal centro della città bassa. La sua conduzione venne affidata ai frati del vicino convento delle Grazie

Del grandioso edificio rinascimentale dell’Hospital Grande di San Marco, demolito negli anni Trenta del secolo scorso, il ricordo più vistoso e bello è la chiesa dedicata a San Marco che, costruita nel 1572 nel perimetro dell’ospedale, ha assunto fogge barocche nel corso del Settecento.

L’interno della chiesa (qui ritratta nel primo Novecento) a una navata, è d’impianto quattrocentesco ma viene riformato all’inizio del Settecento, pochi anni dopo la costruzione del quarto braccio della crociera dell’ospedale. Fra il 1726 e il 1728 il prospetto, sino ad allora in semplice arenaria, viene rinnovato con il rivestimento marmoreo dalle eleganti forme barocche da Giovanni Ruggeri e impreziosito dal portale e dalle statue di coronamento dello scultore Giovanni Sanz. Nel 1747 le pareti e il soffitto vengono affrescati dal comasco Carlo Innocenzo Carloni che affrescò sulla volta l’Eucarestia, sui pennacchi della cupola i quattro evangelisti, nella cappella di destra la Vergine Assunta, e in quella di sinistra San Camillo De Lellis, fondatore dell’Ordine dei chierici regolari ministri degli infermi, sicuramente quegli stessi chierici che operarono nella struttura (Mencaroni Zoppetti, cit.)

Dopo l’ingresso (1586) delle domenicane di S. Lucia Vecchia nel convento di S. Antonio, la messa verrà celebrata nella chiesa di S. Marco (6), che da allora comincerà ad esser nominata “chiesa di S. Antonio” nonostante la sua dedicazione a S. Marco ed alla Vergine, in omaggio alla Serenissima.

(6) E a tal fine verranno mantenuti dall’ospedale un priore e un cappellano (A.G. Roncalli, Gli Atti della visita pastorale… Cit., pp. 158-159).

In un particolare del cabreo della Fiera di Bergamo, disegnato dall’agrimensore Bernardino Sarzetti nel 1723, la chiesa dell’Ospedale Grande, intitolata ai SS. Marco e alla Vergine, è indicata come Chiesa di S.to Antonio. Si noti, sul lato destro,  la cappella dei morti con il portico

La chiesa e l’ospedale di S. Antonio di Vienne, come detto verranno acquistati nel primo Novecento dalla famiglia Frizzoni e demoliti per far posto al palazzo di famiglia, oggi  Municipio della città di Bergamo, cancellando qualsiasi testimonianza dell’antico complesso.

Bibliografia

Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

Le viuzze medioevali di Città Alta e le porte del morto

Oggi vi prendo per mano per condurvi nel dedalo di Città Alta alla ricerca delle sole viuzze medievali che ancora mantengono il loro carattere originario e che nel XII e XIII secolo intersecavano il groviglio delle abitazioni addensate in disposizione casuale, senza  tracciati definiti.

Il tratto iniziale di via Alla Rocca, salendo da piazza Mercato delle Scarpe

Di queste viuzze sono sopravvissuti solo due tratti, il primo dei quali s’incontra inizialmente sul lato destro di via Rocca ed è contiguo alla chiesa di S. Rocco, ad essa accomunato per il suo essere “luogo nascosto”, ammantato da un’aura vagamente lugubre e misteriosa.

Si tratta di una schiera ininterrotta di case, la quale, accanto a normali aperture presenta un’insolita serie di porticine murate che invitano a interrogarsi sulla loro origine e sul loro significato.

La schiera di case sul lato destro di via Rocca, il cui fronte presenta una serie di porte murate risalenti al periodo medioevale (Foto Alfonso Modonesi)

L’altro tratto riguarda via Mario Lupo, tratto che è sopravvissuto alle alterazioni sopravvenute dal Quattrocento all’Ottocento e si trova proprio di fronte ai vani delle botteghe sottostanti la sacrestia della Cattedrale, erette dai canonici nel XII secolo.

Il lato sinistro di via Mario Lupo, uno dei due tratti originari di Città Alta che ha mantenuto il carattere delle stradette della Bergamo del XII e XIII secolo. La via, già denominata via delle Beccherie, era in quel tempo zona di traffici e commerci in quanto collegava il crocicchio del Gombito con la Piazza Maggiore di S. Vincenzo (attuale piazza dell’Ateneo), nel secolo XII destinata a mercato cittadino, prima degli animali ed in seguito dei cereali e delle biade

 

Lato sinistro di via Mario Lupo, particolare

 

Via Mario Lupo, ingresso alle abitazioni posto di fronte alle ex botteghe dei canonici della Cattedrale

Le botteghe  si trovano invece dopo il portale della Canonica detta “dei Cuochi”, che porta nella serraglia l’immagine di S. Vincenzo.

I fondachi (botteghe) di via M. Lupo ripresi negli anni Sessanta

 

Lapide affissa all’ingresso del portale della Canonica detta dei Cuochi: “Portone di S. Vincenzo del 1150 di accesso al chiostro e alla canonica eretti dal Vescovo Adalberto nell’897”

 

Il passaggio della Canonica “dei Cuochi”, che ricongiunge via M. Lupo a Piazza Vecchia (Raccolta Gaffuri)

 

Particolare del passaggio della Canonica “dei Cuochi” (Raccolta Gaffuri)

 

L’immagine di S. Vincenzo nella serraglia del portale della Canonica “dei Cuochi”, ingenua opera scultorea di gusto e forma bizantineggiante

Era il tempo in cui il Comune bergamasco, sorto dal decadimento della vita feudale, andava affermando la sua autonomia in un’atmosfera di libertà. Un’epoca in cui un considerevole sviluppo edilizio vedeva il sorgere di nuove case, torri ed edifici destinati a durare per secoli.

Porzione dell’area occupata dal castrum dei La Crotta inglobato dalla Cittadella (Foto Lino Galliani)

 

Accanto al Palazzo della Ragione, il Palatium Comunis Pergami (attuale Palazzo del Podestà), eretto tra il 1182 e il 1198, in una tarsia di Fra Damiano Zambelli nel coro di S.Bartolomeo a Bergamo (da “Bergamo d’altri tempi”, S. Angelini)

Solo all’interno della cerchia murata vi erano più di trenta torri, appartenenti al ceto dominante. E’ il caso dei De Zoppis al Gombito, dei La Crotta di fronte al Carmine, dei ghibellini Suardi presso il Palatium Comunis (l’attuale Campanone) , dei Rivola (la più eminente casata di parte guelfa) e di altre case minori, erette con facciate di pietra a vista e con l’impiego di massicci blocchi di arenaria e più spesso di duro calcare, mentre i contorni di finestre e porte erano comunemente di muratura o di legno.

Casa De Zoppis e Torre di Gombito (inizio XII secolo), all’incrocio principale della città, là dove si incontravano il cardo e il decumano romani. Originariamente l’unico accesso alla Torre di Gombito, ora murato, era posto sul lato est, ad otto metri dal suolo, attraverso il quale comunicava con la casa adiacente, con cui formava un complesso unitario. Le altre aperture erano solo le feritoie e le monofore poste alla sua sommità

 

Nel XVI secolo, nella Torre di Gombito viene inserita una bottega al piano terra, con un ingresso e una finestra. Successivamente viene inserito un porticato o forse un’altra bottega di cui restano tracce, sul lato verso via M. Lupo, di mensoloni in pietra nera che sporgono a circa sei metri dal suolo

 

Particolare di uno dei mensoloni posto a circa 6 metri dal suolo, residuo di un preesistente porticato o bottega successiva al XVI secolo

Le case dei ghibellini De Zoppis al Gombito (Casa-torre e Passaggio fortificato fra la casa e la torre) furono erette, come recita la lapide posta sopra il passaggio, dalla famiglia De Zoppis intorno al 1100.

Casa De Zoppis e Torre di Gombito – lato ovest

 

Le case della famiglia De Zoppis al Gombito (Foto Raccolta Lucchetti). Nel XVI secolo la casa adiacente la torre di Gombito era già stata completamente ricostruita con un voltone archiacuto

 

La lapide affissa sopra il passaggio, testimonia che le case dei ghibellini De Zoppis al Gombito furono erette da tale famiglia intorno al 1100

 

Il passaggio fortificato tra la casa De Zoppis e la Torre. Nel XIV secolo Lo spazio era chiuso all’esterno da una semplice porta fortificata che non doveva essere molto dissimile da quella posta nel passaggio, dove un arco a sesto acuto dà accesso al sottoportico leggermente voltato (Foto Raccolta Lucchetti)

 

Il cortile interno a lato della torre del Gombito nella Raccolta Gaffuri

Anche se col trascorrere del tempo le pietre delle facciate furono frequentemente intonacate perdendo così il tipico aspetto delle case di Toscana e dell’Umbria, i contorni delle porte che si susseguono quasi a contatto fra loro mantengono e mostrano, oggi come allora, il loro aspetto primitivo.

Particolare delle porte del morto in via Rocca, in uno dei palazzi più antichi di Bergamo Alta. “Le spalle e gli archivolti, tagliati con masselli ed armille con esatta precisione di squadratura e di giunzione ed eseguite con accuratezza di fattura nel duro calcare, conservano dopo quasi otto secoli la loro forma genuina senza alterazione alcuna e come tali dureranno per lungo tempo ancora, rievocando nel loro aspetto quella lontana vita” (L. Angelini, op. cit.)

La caratteristica dei blocchi che compongono spalle ed archi è costante come per le aperture di finestre e di porte dei fortilizi antichi: la fascetta intorno alla luce dell’apertura lavorata a scalpello fine e la bozza soprastante lavorata grezza in lieve curvatura formante uno sporto ad unghia: lavorazione questa che durò dal secolo XI fino al Quattrocento.

In via Rocca, la cortina di edifici sulla destra presenta caratteristiche architettoniche di case medioevali con archi, spalle alle finestre e alle porte con paramento in pietra squadrata. In questo gruppo di case dalle cinque aperture contigue (che si può attribuire al secolo XIII) si aggiunge nella casa più bassa segnata al n. 3 un’altra porta pure medioevale ma ad arco acuto sorta più tardi nel secolo XIV e pertanto posteriore di circa un secolo

 

A partire dal 1301 e fino al 1449, le porticine di via Rocca permettevano l’ingresso nei depositi dell’Opera di Misericordia Maggiore (la più importante confraternita laica cittadina istituita a favore di poveri, malati, religiosi e bisognosi), di cui rimane traccia nella lapide affissa in una delle pareti cieche di via Rocca. Probabilmente in questo edificio si svolgevano anche attività artigianali e di commercio

Fra queste luci di porta sono presenti nel tratto di strada di via Rocca le piccole porticine intermedie che da tempo, in richiamo di consimili esempi umbri, vengono chiamate “porte del morto” perché, secondo la tradizione, ognuna di esse veniva usata solo per il passaggio di un feretro nell’uscire dalla casa.

La porticina murata rappresenta una delle “porte del morto” di via Rocca. La porta era ubicata accanto all’ingresso principale dell’abitazione e si distingueva oltre che per la sua forma piccola e stretta anche per la sua collocazione rialzata rispetto al piano stradale.Ve ne sarebbe un altro esempio in via Solata, accanto alla torre della chiesa di S. Pancrazio

Si tratta di una caratteristica struttura delle case medievali presente in Umbria, particolarmente a Gubbio, a Nocera Umbra, a Spello, ad Assisi, mentre contrariamente a quanto altri affermano, L. Angelini non accenna ad esempi simili in Toscana.

“Per strano caso, difficilmente spiegabile, si ritrova tale motivo anche in un punto della Provenza francese nella cittadina abbandonata dei Baux presso le Alpilles, già sede medioevale di feudo, punto di afflusso del turismo e che lascia nel suo strano aspetto un indelebile ricordo: anche qui fra quelle pittoresche rovine le porticine alte e strette risultano contigue a porte di maggior misura” (L. Angelini, cit.).

Ma vediamo il motivo di questa insolita struttura architettonica.
La “porta del morto” deve il suo nome all’usanza medievale di fare uscire la bara non dall’ingresso principale, ma dalla porta più stretta, affinché lo spirito del morto restasse dentro la casa.

Le porte del morto nella Raccolta Gaffuri

La porta quindi si apriva soltanto per far passare la bara di chi usciva, piedi in avanti, dalla casa, per non farvi più ritorno.
Per scongiurare un cattivo auspicio, subito dopo il passaggio della bara la porta veniva murata affinché nessun vivo, nemmeno per errore, vi passasse attraverso. Ed anzi, chi la oltrepassava anche solo per errore veniva considerato già morto per i familiari; si racconta che S. Chiara e S. Francesco lasciarono la casa paterna varcando proprio quella soglia, forse a simboleggiare l’addio alle cose terrene.

A giustificare l’esistenza di una simile stranezza vi sarebbe però un altro motivo, non legato alle credenze popolari ed ispirato a ragioni prevalentemente pratiche.
Le abitazioni medievali, infatti, normalmente avevano al pianterreno le stalle, le botteghe artigiane o commerciali e subito dopo l’ingresso partiva, per privilegiare questi spazi, una ripida scalinata tanto stretta che la bara non vi poteva girare e pertanto in questa occasione necessitava di tale apertura.

Il gruppo di case di via Rocca, attribuibili al secolo XIII, formante cinque aperture contigue, alcune delle quali murate (incisione all’ acquaforte del 1966, di Carlo Scarpanti)

La tradizione che ha dato il nome a questi stretti passaggi, da taluni si interpretano ora o come porte di sussidio e quasi di servizio con scaletta a parte, o come elemento difensivo, essendo non aperte fino a terra ma con un livello della soglia tenuto a notevole altezza sul piano stradale.

Una più semplice interpretazione si appoggia sul fatto che essendo nel medioevo intollerabile una coabitazione con ingresso comune, ogni porta accedeva direttamente ai locali interni con singole scale separate fra le quali spesso trovavano posto, come nel nostro caso, fondaci o botteghe intermedie.

La stretta di Via Rocca in direzione Mercato delle Scarpe

Certo è che nelle tombe etrusche esisteva una porta simbolica, spesso disegnata, ad indicare il passaggio delle anime dei defunti, il che fa supporre ad alcuni studiosi l’origine etrusca delle porte del morto.
In epoca romana invece il passaggio delle anime veniva presentato come il limes dell’uscio di casa, varcato dal defunto una sola volta, mentre nel Medioevo la porta veniva murata per impedire il ritorno della morte in quella casa.
Anche le tombe delle prime dinastie faraoniche, successivamente destinate a dignitari di corte, presentano la riproduzione di una finta porta, con il nome e il titolo del defunto, a simboleggiare il passaggio tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Riferimento principale

Luigi Angelini, “Un tratto di Bergamo medioevale”, Cose belle di casa nostra: Testimonianze d’arte e di storia in Bergamo, Stamperia Conti, Bergamo, 1955, pagg. da 111 a 113.