
Siamo nell’età dioclezianea, prossimi ormai al quarto secolo. L’editto milanese dell’anno 313 permette libertà di culto ai cristiani; nel 380 quello di Tessalonica, sotto il regno di Teodosio, proclama la nuova religione, unico culto dello stato.
A duecentocinquant’anni dalla prima persecuzione neroniana in Roma, Bergamo dà il primo segno d’essere stata toccata dalla nuova parola con Alessandro, miles della Legio Tebana di stanza a Milano, martirizzato sotto la persecuzione di Massimiano (286-305 d.C.) o di Diocleziano (303-304 d.C.).
Narra la tradizione che nei giorni seguenti il martirio di Alessandro, la nobile Grata, figlia di Lupo, trovò il suo corpo, lo raccolse e con la compagna Esteria ed i suoi servi, volle dare sepoltura al martire in un suo podere posto sull’alto dei colli, fuori le mura della città. Giunti al podere disteso tra le vigne, all’inizio di Borgo Canale, Grata dette sepoltura al corpo del Santo, là dove successivamente fu eretta la basilica a lui intitolata.
Le figure dei primi cristiani presenti nella nostra città sono tratteggiate da leggende e tradizioni tramandate oralmente: “Alessandro, il martire legionario venuto dall’oriente; Fermo e Rustico, i primi giovani bergamaschi capaci di offrire la vita a testimonianza della loro fede; Grata, la gentile, che tra i gigli solleva la testa mozza del martire; Narno, Viatore e Dominatore, i pastori del primo gregge cristiano; Proiettizio, Giacomo e Giovanni, ombre erranti con le torce accese nella basilica, e Esteria la velata.
Nel territorio bergamasco, dove prevale la presenza contadina e ancora permane fortemente radicata la fede pagana – l’antica religione dei padri – sono questi personaggi i primi protagonisti di una storia in parte vera e in parte intrisa di emozionanti leggende e di figure levate a volo dall’eccitata fantasia di credenti visionari.
[…] Sulle terre dei morti, sulle aree sepolcrali fuori delle porte cittadine, con ogni probabilità inizia soltanto allora a nascere Bergamo cristiana […]. Nasce la basilica alessandrina sull’area cimiteriale fuori della porta occidentale; nasce Sant’Andrea, l’antica, sul sepolcreto fuori di porta orientale e San Lorenzo a settentrione” (Alberto Fumagalli, “Le dieci Bergamo”, Op. cit.).
Ed è proprio dalla metà del IV secolo che comincia probabilmente a organizzarsi a Bergamo – divenuta centro episcopale – una comunità cristiana (così come solitamente avveniva nei municipia romani) ed iniziano a profilarsi i primi edifici della topografia cristiana: la Basilica alessandrina, prima chiesa paleocristiana della città, sorta ad occidente nel IV secolo d.C. appena fuori le mura; la Basilica di San Vincenzo, sorta nel V secolo d.C. nel centro della città (l’area del foro); ad occidente, in via Porta Dipinta, la basilica cimiteriale di San Andrea (menzionata in documenti del 785), sorta al pari della Basilica alessandrina su un’area sepolcrale sviluppatasi a partire dal VI secolo (e sulla quale verrà costruita la nuova chiesa ottocentesca) (1).
Ed è sul sepolcreto di Borgo Canale, là dove Grata depose il corpo mozzato di Alessandro, che nel IV secolo d.C. viene innalzata la Basilica alessandrina, che sappiamo essersi trovata all’esterno delle mura nell’altomedioevo (2).
E’ probabile che la necropoli occidentale di via Borgo Canale, attestata in continuità d’uso con l’età romana, avesse inizio in corrispondenza dell’attuale bastione a sud della porta S. Alessandro, e che si sviluppasse lungo i lati della via extraurbana proprio laddove oggi sorge una colonna, fatta erigere nel 1621 dal Vescovo Emo a ricordo della distrutta basilica.
La planimetria dell’area, incisa sulla lapide realizzata da L. Angelini su disegno di E. Fornoni, riporta – insieme alla posizione della Basilica alessandrina e degli edifici adiacenti -, l’ubicazione della colonna, eretta proprio laddove sorgeva la necropoli di Borgo Canale, innalzata poco più a monte del sito effettivo in cui si trovava la Basilica alessandrina.
(1) E come non menzionare almeno la chiesa di S. Salvatore (cui risale un’antichissima tradizione legata al “divo Lupo”, il padre di S. Grata), la ragguardevole (sebbene di molto posteriore, VIII sec.) chiesa di San Lorenzo (anch’essa abbattuta nel 1561 per la realizzazione della fortificazione veneziana), così come la chiesa di S. Grata inter vites (documentata nel 774), “sorta sui terreni di proprietà della famiglia di Grata, di cui conserverà le spoglie fino al 1027, quando verranno traslate nella chiesa di S. Maria Vecchia in via Arena, successivamente intitolata alla santa (attuale monastero di S. Grata). Per non creare confusione nell’identificazione dei due edifici, alla titolazione della chiesa venne aggiunta la specifica di inter vites (tra le viti), motivata dalla sua posizione fuori le mura del borgo sul colle.” (Tosca Rossi, Op. cit.).
(2) Come indicato dai ritrovamenti (molte epigrafi funerarie romane, originariamente reimpiegate nelle strutture dell’edificio e una cisterna d’epoca romana ai piedi del bastione, adiacente alla basilica).

L’esistenza della Basilica è documentata dal 774 dal testamento del gasindio regio Taido (che cita: “Basilica beatissimi Christi martyris Sancti Alexandri…ubi eius sanctum corpus requiescit”), ma la sua titolazione la fa risalire a secoli prima, in quanto custode dei resti del martire Alessandro, morto a cavallo tra il III e il IV secolo d. C., “ed eletto compatrono di S. Vincenzo per Bergamo e il suo territorio nel 1561, fino a divenire l’unico titolare della città nell’anno 1689 con atto ufficiale del 4 novembre ad opera del Vescovo Daniele Giustiniani”.
(Tosca Rossi, Op. cit.).
Se è vero, come afferma Fabio Scirea (Op. cit.) che “le cattedrali paleocristiane sorsero senza eccezioni entro le mura cittadine, pur in rapporto con i santuari cimiteriali del suburbio”, è plausibile che, in quanto molto antica e custode dei resti del santo, la Basilica alessandrina rivestisse, almeno inizialmente, lo status di unica cattedrale: “Il tempio era per antichità insigne, celeberrimo per frequenza e devozione di popolo (…) Distinto per la dignità prepositurale e per Capitolo di diciotto canonici”, riporta Lorenzo Dentella.
I continui contrasti (a volte anche armati) che per secoli opposero le due canoniche di Sant’Alessandro e di S. Vincenzo, diretta espressione dei rispettivi schieramenti cittadini, non tradivano altro che la loro “valenza politicoeconomica, legata al governo della città, al controllo del contado e delle decime” (Fabio Scirea, Op. cit.).
Di fatto, dal momento che le due canoniche erano entrambe ai vertici della chiesa bergamasca, sino a quando non vennero unificate in un unico Capitolo (1689), quello di S. Alessandro continuò ad avanzare pretese istituzionali e patrimoniali di tipo episcopale.

Le fonti indicano che nel 975 i canonici di S. Alessandro erano diciotto, numero che oscillò nel tempo. Essi restarono nella Cittadella alessandrina sino al momento della distruzione del complesso basilicale avvenuta nel 1561 per edificazione delle mura venete.
Da quel momento il capitolo di Sant’Alessandro (composto dal collegio dei canonici istituito presso la distrutta chiesa di Sant’Alessandro) si era trovato a convivere con quello di San Vincenzo.
La coabitazione era risultata difficile e tormentata almeno fino al 1614, quando si stabiliva un accordo tramite gli Atti dell’Unione e Concordia dei Capitoli e Cattedrali di S. Vincenzo e S. Alessandro.
La concordia tra i due capitoli si ruppe già nel 1615. Le tensioni erano legate alla nuova fabbrica del Duomo e alla sua intitolazione (l’accordo provvisorio del 1614 prevedeva che la nuova Cattedrale sarebbe stata dedicata al solo Sant’Alessandro e che le due congregazioni si sarebbero fuse nel capitolo di Sant’Alessandro Maggiore). L’annosa querelle si risolse definitivamente solo nel 1689, con la fusione nell’unico Capitolo di S. Alessandro Maggiore.
INTRA O EXTRA MOENIA?

Si è a lungo discusso riguardo l’ubicazione della basilica alessandrina, chiedendosi se essa si trovasse dentro o fuori le mura cittadine. Ma è opinione comune che originariamente la basilica si trovasse fuori dalla cinta muraria (extra moenia), sebbene in certi documenti fosse indicata come interna e non più esterna alle mura: un’incongruenza derivante forse dal fatto che la fortificazione che proteggeva la cittadella alessandrina, sorgendo a ridosso del settore nordovest delle mura romane (poi altomedioevali, medioevali e successivamente anche sul tracciato delle fortificazioni venete), venisse talora considerata come parte integrante delle stesse.
Raccogliamo qualche informazione in più grazie alla lettura del sito compiuta da Tosca Rossi mediante il raffronto delle tele prese in esame nel suo “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo” (Op. cit.), in parte consultabile nel Geoportale del Comune di Bergamo.

Certo che “Una parte poteva essere salvata e il bastione, ora detto di sant’Alessandro, avrebbe potuto essere deviato nel suo tracciato senza grave danno ai concetti direttivi sulla tecnica dell’architettura militare del tempo. Ma era norma che il nuovo tracciato difensivo dovesse avere delle aree sgombre, come le artiglierie esigevano” (L. Angelini). Un motivo in più per rimpiangerla.

LA CITTADELLA ALESSANDRINA

Come attestano antichi documenti, vicina alla porta detta di Sant’Alessandro v’era l’omonima Corte, il già citato sistema di edifici racchiusi in un recinto fortificato denominato “Cittadella alessandrina”, comprendente una seconda chiesa di minori dimensioni, connessa alla Basilica: la chiesa di S. Pietro (anch’essa documentata nel 774, ampliata verso la fine del Quattrocento e demolita nel 1529), adibita al rito battesimale.
V’erano poi, oltre ad una grande piazza, edifici con funzione di residenza, assistenza e ospitalità: uno xenodochio (ricovero per pellegrini ed infermi), la casa del Prevosto, la residenza del Vescovo (o palazzo vescovile) e la canonica, dove si svolgeva la vita comunitaria e una torre campanaria e difensiva.
I terreni circostanti, di proprietà vescovile, erano denominati “Vigna di Sant’Alessandro”.
LA GRANDE TORRE

Al centro della cittadella alessandrina, “a dieci passi dalla chiesa” spiccava la costruzione più imponente del complesso: una grande torre campanaria e difensiva a pianta quadrangolare, descritta come molto larga alla base e con una struttura muraria a grandi massi di pietra che la rendeva inespugnabile; essa “Garantiva le possibilità difensive estreme e costituiva ultimo rifugio in caso di assalto nemico” e “poteva agevolmente ospitare per molti giorni la corte ecclesiastica al completo con gli arredi più preziosi” (Bruno Cassinelli, “Il contesto urbano della corte ecclesiastica alessandrina”, in Bergamo e S. Alessandro, p. 131-138. Anno 1997).
La torre, che raggiungeva gli oltre 35 metri in altezza, spiccava su tutta la città rivaleggiando col Campanone affinchè il suono delle sue campane (in numero di sei nel XI secolo) potesse chiamare a raccolta il popolo nelle “grandi cerimonie che avevano luogo nell’insigne Basilica”.
Anche la chiesa di San Vincenzo era dotata di un’analoga torre campanaria e difensiva (attestata dal 1135 e demolita nel 1688 per far posto all’attuale abside), che fu più volte “ruinata” e riparata nel corso delle lotte intestine fra opposte fazioni.
L’ASPETTO DELLA BASILICA ALESSANDRINA

L’immagine pittorica più antica della chiesa è giunta sino a noi grazie a un dipinto del 1529 di Jacopino Scipioni, che doveva trovarsi all’interno della Basilica alessandrina, esposto nella chiesa di San Pancrazio dietro l’altare maggiore.


Un’altra immagine della Basilica alessandrina fu riprodotta da Fabio Ronzelli nel dipinto Traslazione del corpo di Sant’Alessandro (1623), collocato presso la sacrestia del Duomo di Bergamo.

In un altro dipinto, la Tumulazione di Sant’Alessandro (1623) di Fabio Ronzelli, è raffigurato un uomo che tiene fra le mani il modello dell’insigne Basilica (3).
(3) Il dipinto è conservato presso la chiesa di S. Alessandro della Croce o presso le sacrestie del Duomo di Bergamo.

La Basilica alessandrina, pur non presentando le vaste dimensioni delle grandi costruzioni romane da cui trae il modello, era comunque un edificio maestoso e lo si può ben desumere dai disegni del rilievo eseguiti (ad perpetuam rei memoriam) su ordine del vescovo Federico Cornaro dal canonico Giovanni Antonio Guarneri, che dovette redigere una relazione sulla demolizione dell’antica chiesa (le cui dimensioni furono riportate in cubiti) e sul trasporto delle reliquie di S. Alessandro nella chiesa di S. Vincenzo.
La chiesa, a pianta longitudinale divisa in tre navate, aveva una lunghezza di quaranta metri e quindici di larghezza e rispettivamente ventisette metri per sei e mezzo misura la sua navata principale. Conteneva quindi comodamente cinquecento fedeli nello spazio centrale; più di mille, sommando a quello le navi minori.
Un muro, verosimilmente somigliante all’iconostasi della cattedrale di San Vincenzo separava le navate laterali dalla zona presbiteriale, alla quale si accedeva dalla navata centrale tramite quattro gradini.
La cattedra del vescovo era posta dietro l’altare maggiore, circondata dai seggi dei canonici.
Attraverso due scale di quindici gradini si accedeva ad una cripta che conteneva, come riporta la tradizione, i tre altari di Sant’Alessandro, San Narno e San Viatore (i primi due vescovi di Bergamo), presumibilmente posti sopra le rispettive arche e, sempre secondo la tradizione, i resti di alcuni altri santi bergamaschi.

LA BASILICA ALESSANDRINA NELLE SUGGESTIONI DI ALBERTO FUMAGALLI
L’architettura basilicale cristiana sorge in continuità con la tradizione civile romana “e anch’essa è un vasto spazio coperto, dispone di colonnati e di una grande nicchia nel fondo. Ma a differenza della prima chiude con alti muri tutti i suoi lati esterni e lascia appena piccole porte d’accesso: si distacca dalla libera e mutevole luce della realtà esterna e immerge i suoi ospiti in una penombra calma e meditativa.
Solo verso l’abside, eco non spenta dell’antica sede di una giustizia regale, accende infinite piccole luci votive e apre sopra di quelle la grande nicchia di un re onnipotente nascosto agli occhi dell’uomo. A lui dedica l’arco trionfale che si apre all’ingresso del transetto e il baldacchino prezioso del ciborio. Così la vasta aula raccoglie la proiezione spirituale di tutta la somma delle attività umane esercitate nell’antico foro pagano: l’arco di trionfo, la sede della giustizia operante dove incessantemente vien richiamata la legge, dove regna il silenzio che precede ogni imminente giudizio; dove si assolve e si condanna.
Come nelle banche del foro qui si accumulano anche le pietre preziose, i cristalli, le sete intessute d’oro, e ancora gli ori e gli argenti, ma per farne raggio agli ostensori, teca alle reliquie dei santi: deposito certo di un bene salvato per l’eternità. Qui si chiede la sepoltura per poter riposare accanto ai santi per risorgere con loro, protetti da quella vicinanza, come figli amati e difesi dalla implorazione di quei mediatori celesti nel giorno della verità o all’atto della paventata catastrofe siderale.
Sul catino dell’abside, in alto, si distende il velo sottile del mosaico; quasi una volta cosmica, celeste, suggerita dagli infiniti mobili bagliori riflessi dalla sua frammentata superficie. La accendono i lumi votivi brulicanti ai lati dell’altare; legami incorporei innalzati dagli oranti tra una terra invola in un processo di continua trasformazione e l’immobile incombente volta del “Ciel d’auro”, dalla gloria incorrotta, dalla vita inconsumabile.
Il suo incavo luminoso è luogo di convergenza di tutte le linee architettoniche della grande aula di preghiera; per i presenti è centro naturale di attenzione: domina la stessa cripta, il luogo oscuro della morte; e questo rapporto spaziale di sudditanza sottolinea con forza il senso dell”attesa resurrezione e la presenza di un seme disfatto, capace di generare il grande albero ricco di vita, di nidi e di canti.
Così la navata ne rappresenta il tronco steso sulla terra; disposti a croce, i suoi rami s’allargano nel transetto; l’appoggio del capo è l’abside irraggiante luce; l’appoggio del cuore è la cripta misteriosa, come i moti che scuotono dal fondo ogni essere umano. Gli eredi del seme dei martiri han fatto nido in quell’albero e i loro canti si innalzano dal coro che si apre davanti all’altare” (Alberto Fumagalli, op. cit.).
L’ASSEDIO DEL 894 E LE MODIFICHE DI ADALBERTO
Nell’anno 894 le truppe tedesche per mano di Arnolfo di Carinzia (figlio di Carlo Magno e futuro re d’Italia), assalgono la città, saldamente fortificata, distruggendone una parte: penetrate dal colle di San Vigilio, distruggono il Castellum e la Cittadella Alessandrina con la sua Basilica, “diruta et combusta remansit” (“Codex diplomaticus” di Mario Lupi).
Solo dopo molti anni, quando il borgo e la vita torneranno a rifiorire, il vescovo Adalberto provvederà alla sua ricostruzione.

LA FINE DELL’AUGUSTO TEMPIO
L’abbattimento della Basilica alessandrina fu un episodio molto doloroso per la città, raccontato da numerose cronache, “..tristissimo avvenimento da addossarsi a totale carico di chi nel 1561 guiderà la costruzione delle nuove mura: atto di inciviltà e di soldatesca prepotenza favorito dalla disanimata e mercantile piaggeria dei reggitori veneti di quel tempo, posti di fronte ai vocianti e sgangherati aut aut di personaggi dal mercenario mestiere; impietosi e quindi sordi ad ogni voce dei sentimenti di una gente pacifica e proprio per questa ragione spregiata e tenuta in nessuna considerazione”.
(A. Fumagalli, Op. cit.).
L’inizio di questa rovina si può far risalire ad una relazione tecnica fatta al Senato veneto nel 1526 da Francesco Maria della Rovere, nella quale si faceva presente la necessità di fortificare Bergamo in quanto Venezia, entrata nella lega di Cognac a fianco della Francia contro la Spagna, temeva per la sicurezza della città, posta al confine con il Ducato di Milano controllato dagli Spagnoli.
Constatato che le mura medioevali erano in parte diroccate e cadenti, il Senato veneto decise di fortificare la città con nuove e potenti mura.
Il 7 luglio 1560 il capitano della città, Pietro Pizzamano, inviò al Senato un rapporto negativo sull’opportunità di ulteriori fortificazioni in Bergamo, consigliando invece di cingere con mura alcuni paesi della pianura; nello stesso rapporto il Capitano faceva presente che la trasformazione di Bergamo in città fortezza avrebbe arrecato danni assai gravi al suo patrimonio.
Nonostante ciò, l’anno successivo il generale Sforza Pallavicino, giunto a Bergamo con il compito di dirigere i lavori di fortificazione della città (che iniziarono il 1° agosto 1561 e terminarono definitivamente nel 1595), non mise neppure in conto di modificare il tracciato della fortificazione e si limitò a comunicare la sua decisione al vescovo, dando al tempo stesso disposizioni perché fosse minata la gran torre che apparteneva alle antiche difese cittadine e trasformata poi in campanile.
Il vescovo, il veneziano Federico Cornaro, entrato nella sua diocesi solo l’11 luglio, fu impotente di fronte alla repentina distruzione di case, chiese e conventi, di muri, orti e vigne, ma anche della Basilica alessandrina che per più di mille e duecento anni era stata il decoro e la gloria della città.
Neppure i cittadini ebbero il tempo di opporsi, né di tentare accordi di modifica alle opere proposte.
Nel giro di un mese vennero abbattuti 213 edifici che sorgevano sul tracciato della nuova fortificazione e nella zona di Borgo Canale, insieme ad 80 case, il 14 agosto 1561 fu distrutta la grande torre campanaria che rovinò sulla Basilica, la canonica e tutte le adiacenti costruzioni.
Tra gli edifici sacri venne atterrata anche le chiesa di San Lorenzo assieme alla chiesa parrocchiale di S. Giacomo, che sorgeva in prossimità della porta nella cerchia delle mura medievali. Vennero altresì demoliti il convento domenicano, la torre e la chiesa di Santo Stefano sul colle che sorgeva isolato dalla città, detto Fortino, compreso tra la via Sant’Alessandro alta e la scaletta della funicolare: anche in questo caso lo Sforza Pallavicino fece ricorso alle mine. Vennero scavato delle gallerie sotto il monastero e collocati barili pieni di polvere che nella notte dell’11 novembre del 1561 furono fatti esplodere e del grande complesso non rimasero che mucchi di rovine.
Commovente la scena dell’ultima messa solenne cantata nell’agonizzante Basilica. Era la domenica nona dopo la Pentecoste, il Pallavicino aveva provveduto 1800 fanti e cinquanta soldati a cavallo per mantenere l’ordine; il popolo stipava il tempio. Quando il diacono al Vangelo cantò et ut appropinquavit Iesus videns civitatem flevit super illiam, quasi fossero parole espressamente ispirate per la indeprecabile fatalità dell’ora, la folla compresa da terrore si abbandonò al pianto.
Il Cornaro, mentre i soldati si erano accampati nella chiesa, dopo aver fatto redigere l’inventario di tutti i beni tra il 4 e il 7 agosto, fece aprire l’arca che conteneva i resti del Santo alla presenza di sacerdoti e canonici; contemporaneamente i guastatori, eseguendo gli ordini di Sforza Pallavicino, Governatore Generale al servizio di Venezia, abbattevano la casa del Prevosto.
Il 10 agosto venne celebrata l’ultima messa con la gente mischiata ai soldati in armi. Sorsero problemi tra i canonici del Capitolo di S. Alessandro e quelli di S. Vincenzo sulla destinazione finale delle reliquie; il Vescovo intervenne con decisione e, dopo aver esposto alla devozione dei fedeli i resti santi (secondo la tradizione dall’alba alle quindici per gli uomini, dalle quindici fino al tramonto per le donne) e dopo aver constatato che le reliquie non erano mai state profanate, il 13 agosto decise di farle trasportare, con una mesta solenne processione notturna nel Duomo, insieme alle reliquie dei Santi Narno (primo vescovo di Bergamo) e Viatore (la tradizione riporta che si fece ricorso a due casse, divise con tanti tramezzi in ciascuno dei quali furono deposte anche le reliquie dei Santi Giacomo, Proiettizio, Giovanni ed Esteria).

Tra un’immensa folla lacrimevole composta da tutto il popolo bergamasco, vi erano anche i rettori veneti.
Dopo la traslazione, il 14 agosto la torre campanaria, che era stata messa in sicurezza con sostegni di legno impregnati di pece alla base, fu abbattuta dando fuoco ai legni. La torre rovinò sulla Basilica trascinando con sé tutto quello che ancora restava dell’antica costruzione.
“In questo giorno scoppiò la mina, precipitò la torre, e cadendo al basso sopra la cattedrale… ogni cosa distrusse (…) “L’insigne Canonica, Santa Basilica e antica Cattedrale di sant’Alessandro, che per 1200 e più anni era stata il decoro e la gloria della nostra patria, in quel funesto giorno cominciò, fra le rovine a deplorare la caduta dei propri privilegi, datosi principio a mandarla per terra con doglie e pianto per tutta la città” (padre Donato Calvi, Effemeridi, 14 agosto 1561).
COSA RIMANE DELLA BASILICA ALESSANDRINA
Con il crollo della torre, poco si salvò della basilica, anche se si dice che alcuni dei suoi altari furono reimpiegati; per lo più i materiali vennero abbandonati o riutilizzati per costruzione di fabbricati; sicuramente molti di essi furono reimpiegati per la costruzione delle mura ed è singolare la vicenda che riguarda le due grandi statue, raffiguranti Adamo ed Eva, situate ai lati dell’ingresso della Basilica Alessandrina.
Secondo l’abate Calvi, nel crollo dell’edificio andarono a pezzi ma ne vennero recuperate le teste e parte del busto per essere poi utilizzate nella costruzione delle mura e collocate di fronte al luogo dove si trovava la basilica e “ove pur sono di presente”, aggiunge sotto la data del 16 agosto.
Una fonte indica che i pulpiti attuali del Duomo furono ricavati dai marmi giacenti presso i depositi della M.I.A. – Pia Opera di Misericordia – e aggiunge che forse siano quasi tutti derivati dalla demolizione della Basilica.

Le dodici colonne che ornavano la Basilica alessandrina presero diverse direzioni: due vennero donate al Santuario di Caravaggio nel 1584, quattro furono adoperate per il portale del Duomo e da qui levate quando l’architetto Bonicello realizzò l’attuale facciata; altre vennero utilizzate per l’altare della basilica di Santa Maria Maggiore.
Una di queste, si dice sia quella fatta innalzare nel 1621 dal Capitolo della Cattedrale sul luogo dove sorgeva l’antica basilica: la colonna cui accennato in precedenza, che ancora si vede in prossimità delI’imbocco di Borgo Canale, alla quale fu data “più degna sistemazione” nel 1961, in occasione del quarto centenario della demolizione della Basilica.
La colonna risulta essere di granito di Numidia, lo stesso granito usato nella costruzione delle basiliche costantiniane di Roma. Una coincidenza che fa pensare ad un contributo imperiale per l’antico tempio paleocristiano.

Nel presbiterio della chiesa d iSant’Alessandro della Croce in Borgo Pignolo, a sostegno della mensa liturgica trova collocazione un’antichissima arca di pietra utilizzata, secondo l’iscrizione secentesca leggibile sulla parete esterna, come sepolcro per il corpo di Sant’Alessandro (e successivamente per quello di Santa Grata).
L’arca, monolitica e sobriamente decorata di semplicissime figure di pilastri, archi e colonne, proviene dalla distrutta basilica di S. Alessandro.
Collocata originariamente nella Basilica Alessandrina, poi nel monastero di Santa Grata, pervenne alla Parrocchia nei primi anni dell’Ottocento in seguito agli spostamenti causati dalle soppressioni napoleoniche. La sua attuale funzione rievoca in modo suggestivo consuetudini della Chiesa delle origini, che usava celebrare i riti liturgici sulle tombe dei martiri.
Marina Vavassori, archeologa epigrafista, afferma che il sarcofago di Sant’Alessandro fu in origine destinato a un bergamasco ignoto, abbastanza in vista, nella seconda metà del terzo secolo (250-300).
Il riutilizzo di antichi sarcofagi era una pratica diffusa ovunque, spesso utilizzata per accogliere i corpi dei martiri e dal momento che la basilica di Sant’Alessandro sorgeva nell’area dell’antica necropoli romana, non fu difficile trovare un sarcofago da reimpiegare.
Erasa l’iscrizione antica, perchè sparisse ogni traccia di paganità, l’arca era pronta per accogliere l’eroe della cristianità.

L’arca sepolcrale dipinta da Fabio Ronzelli nella Traslazione del corpo di Sant’Alessandro, (dipinto custodito presso la cattedrale di Bergamo), presenta una somiglianza impressionante con l’arca sepolcrale posta a sostegno della mensa liturgica nella chiesa di S. Alessandro della Croce.

E’ nuovamente Marina Vavassori ad informarci che in una Memoria conservata all’Archivio Diocesano di Bergamo, relativa alle spese fatte fra il 1688 e il 1714, si legge che nello scurolo del Duomo (chiesa ipogea) si trovavano “li marmi” dell’antica Cattedrale di Sant’Alessandro distrutta nel 1561, probabilmente lì trasferiti quando lo scurolo non era più attivo.
Ma già prima della demolizione della basilica alessandrina, “molte lapidi si erano disperse e spesso venivano riutilizzate” e se alcuni marmi erano epigrafati, spesso venivano utilizzati dall’altra parte.
Ricordiamo infine che alla Basilica alessandrina fu dedicato il nome della porta medioevale che dal versante occidentale dei colli dà accesso al centro storico (il Mazzi ritiene giustamente che le porte dovettero esistere nello stesso numero già nella cerchia romana). Denominazione riconfermata con la nuova porta cinquecentesca edificata dai Veneziani.

LA CROCE DI UGHETTO: IL SIMBOLO DELL’UNIFICAZIONE DEI DUE CAPITOLI
La croce di Ughetto, la grande croce processionale proveniente dalla distrutta Basilica alessandrina, si cela nei sotterranei del Duomo di Bergamo, dove una lunga e importante campagna di scavi ha recentemente portato alla luce la basilica paleocristiana di S. Vincenzo.
Si tratta dell’opera forse più rappresentativa del Tesoro della cattedrale, in origine arricchita da 34 reliquie miracolose, sigillate sotto la sua preziosa oreficeria.
La croce prende il nome dal suo principale esecutore, Ughetto Lorenzoni da Vertova, il quale l’ha realizzata nel 1386 per conto dei Canonici del Capitolo di Sant’Alessandro.
E’ questo il motivo per cui il Santo appare vistosamente abbigliato come un cavaliere medievale in sella al suo destriero, mentre sullo sfondo si staglia il profilo ideale della città di Bergamo, conquistata alla fede cristiana.

Nell’imminenza dell’abbattimento della Basilica alessandrina (1561), la croce di Ughetto venne portata in solenne processione nella chiesa di S. Vincenzo insieme – oltre ai paramenti sacri, organi, campane e corredo liturgico -, alle sacre reliquie: il Capitolo di S. Alessandro perdeva definitivamente la propria sede e da quel momento i due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro (ognuno composto da un collegio di canonici) si trovarono a convivere fino alla definitiva fusione sotto le insegne di S. Alessandro (avvenuta nel 1689, anno della posa della prima pietra della nuova cattedrale).
La croce fu rinnovata nel 1614, anno in cui fu sancita la provvisoria riunificazione dei due Capitoli di S. Vincenzo e di S. Alessandro: il restauro della croce è quindi la concreta manifestazione di questo tentativo di unità, tanto che la fisionomia originale della croce è stata stravolta e piegata a questo scopo.
In origine il recto esibiva il Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni, in alto un Angelo e ai piedi S. Alessandro a cavallo.
Il verso esibiva il Cristo glorioso tra i quattro evangelisti e ai piedi Santa Grata.
Nell’operazione di restauro (oltre alle vere e proprie aggiunte seicentesche) il Cristo crocifisso medievale è stato sostituito con un altro più recente, recuperato da una croce del Capitolo di San Vincenzo.

Inoltre, i materiali del paliotto d’altare fisso (la cui realizzazione risale al 1908) conservato presso il Duomo di Bergamo, provengono con tutta probabilità dall’antica Basilica alessandrina. Si tratta di una ferriatina e di piccole sculture ornamentali, a lungo utilizzati per decorare l’altare di sinistra della Cattedrale di San Vincenzo. Così come oggi si presenta la composizione prevede: nella parte centrale in basso Sant’Alessandro vessillifero; ai lati della ferriatina San Narno e San Viatore; alle estremità del lato a sinistra San Propettizio e San Giovanni Vescovo; a destra San Giacomo e S. Esteria. Tra i racemi emergono gli stemmi di San Pio X e del Vescovo Tedeschi.
Riferimenti principali
– Tosca Rossi,A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo, Litostampa istituto grafico, Bergamo, 2012, cm 21×28, pp. 244.
– Academia.edu – Fabio Scirea Il complesso cattedrale di Bergamo.
– Bergamosera – La Basilica alessandrina – Andreina Franco Loiri Locatelli.
– Alberto Fumagalli, Le dieci Bergamo. Ed. Lorenzelli.
– Bruno Cassinelli, “Il contesto urbano della corte ecclesiastica alessandrina”, in Bergamo e S. Alessandro, p. 131-138. Anno 1997.