LA SITUAZIONE URBANISTICA DI BERGAMO NEL DOPOGUERRA
Nella Bergamo del secondo Dopoguerra la “griglia urbana” della città attuale è già impostata, con le tre importanti arterie – consolidate dal centro piacentiniano -, che tagliano la città da est a ovest, susseguendosi dalla base del colle fino alla stazione, trasversali rispetto al grande viale ottocentesco di via Roma-viale Vittorio Emanuele: da via Garibaldi a via Verdi, da via Camozzi a via Tiraboschi, lungo il perimetro meridionale delle Muraine e della roggia Serio, e da via Maj a via Paleocapa, tracciate maggiormente a ridosso della linea ferroviaria.
Intorno a queste strade principali sono già impostate le vie minori, come le vie Paglia e Locatelli, sulle quali verrà definitivamente fissato il disegno della Bergamo contemporanea.
Un’intensa attività edilizia comincia ad interessare tutte quelle zone fino ad allora rimaste inedificate, comprese fra i borghi di Sant’Antonio e di San Leonardo, dove cambia completamente il volto di intere strade.
Anche in periferia bastano pochi mesi di assenza per ritrovare alcuni quartieri radicalmente mutati: e mentre si costruiscono strade, case, scuole e campi sportivi, si realizzano fognature e si coprono rogge, l’azienda dei trasporti si appresta a trasformare la rete tranviaria (al termine della seconda guerra mondiale articolata su nove linee, per uno sviluppo totale di oltre 40 km), rimpiazzando i vecchi tram con filobus a partire dalle linee principali che attraversavano il centro, e impostando a tale scopo un programma di trasformazione degli impianti in una rete filoviaria.
Negli anni Cinquanta tutti i tram sono ormai sostituiti da filobus e autobus. I filobus sono impiegati dentro la città: più agili rispetto al veicolo su rotaie, sono moto meno rumorosi e assai più comodi.
Anche il costo dell’impianto è di molto inferiore e, certamente, non si sarebbe mai fatto ricorso al tram per la nuova linea che era stata introdotta tra la stazione ferroviaria e Colle Aperto.
I filobus – verdi, con il muso curvo e i fari rotondi – sono dunque perfetti per la città, che presto vi si adatta senza rimpiangere i vecchi tram.
Entro la metà degli anni Cinquanta i traballanti tram sono ormai sostituiti da un moderno e celere servizio di filobus – impiegati solo dentro la città -, e autobus, utilizzati sia in città che in periferia, così come nei paesi della provincia.
Gli autobus vengono introdotti nel 1952 sulla linea 3, diretta a Campagnola, sulla 9 diretta a Boccaleone, e nel ’54 sulla linea 7 per Stezzano, anch’essa trasformata in autoservizio.
Nonostante venga redatto un Piano Regolatore per dettare precise norme di controllo, la crescita urbana di Bergamo comincia ad essere condizionata dalla forte spinta della speculazione edilizia e del potere economico, che si impossessano di tutte le aree del centro per tutti gli anni Cinquanta e fino agli inizi degli anni Sessanta (1).
Impossibilitata ad espandersi verso la pianura, a causa del tracciato della ferrovia (dove il previsto sovrappasso non verrà realizzato (2)), la Città Bassa inizia a mutare profondamente e ad espandersi massicciamente sia intorno al colle e sia radialmente fin verso le periferie.
ULTIMI SCAMPOLI DI VERDE IN CITTA’
Nella indimenticabile Bergamo di quel periodo, ancora nel ’52 lo spazio fra la cortina esterna delle mura e piazza della Libertà è però ancora formato da prati e fabbricati disordinati e posticci; in quest’area, centralissima e fondamentale per lo sviluppo del centro, vi sono ancora grandi spiazzi erbosi: in piazza della Libertà, in via Locatelli, dietro via Masone, in viale Vittorio Emanuele, dove di lì a poco sorgeranno i palazzoni che congestioneranno il centro (3).
Ancora nei primissimi anni Cinquanta, la zona di Valtesse, San Colombano e la Conca Fiorita – che si estende dalla caserma Seriate a Valtesse, oggi così satura di abitazioni -, sono una verde propaggine della Maresana.
Anche il Campo di Marte è uno spiazzo per gli armenti di passaggio, e si appresta a diventare un quartiere residenziale con i moderni palazzi di via Suardi (aperta nel 1948 dopo la realizzazione di via Bronzetti nel 1940, a completare il sistema stradale concentrico definito nel 1900) e il complesso degli edifici popolari di via Codussi.
IL 1954: L’ANNO DELLA SVOLTA
Ma è il 1954 l’anno della svolta, lo spartiacque in cui il centro, soprattutto per iniziativa di privati, sta assumendo il suo volto definitivo con la nascita di importanti edifici alcuni dei quali “rivoluzionari” per Bergamo, perché ne modificano sia le caratteristiche estetiche – lanciando peraltro un segnale di gusto – che l’andamento altimetrico, che fino ad allora aveva mantenuto una modesta linea di rispetto riguardo la visuale della città alta.
Gli architetti che stanno cambiando il volto di Bergamo, tracciandone l’impronta, sono Luciano Galmozzi, che inizia a lavorare nell’immediato dopoguerra, insieme a una decina di altri architetti tra i quali Pizzigoni, Sacchi, Sandro Angelini, Spini ed Enrico Sesti, tutti consapevoli di segnare, in modo forte, il futuro dell’abitare a Bergamo.
Fra le nuove costruzioni innovative, compare il “grattacielo” che ospita il negozio Rinaldi in via Camozzi, nato dalle idee dei pittori Erminio Maffioletti e Domenico Rossi e realizzato su progetto di Enrico Sesti (4).
Dopo il grattacielo di via Camozzi, sorge la casa alta dieci piani in via Tiraboschi, su progetto degli architetti Luciano Galmozzi e Massimo Boschetti. L’edificio forma una sorta di quinta prospettica che chiude in parte l’allineamento che da via Camozzi giunge al largo di via Spaventa.
Di nuova concezione anche alcuni negozi, come il mobilificio Pozzi in viale Roma, su disegno dell’architetto Panigada e l’oreficeria Fumagalli in via XX Settembre, progettata all’architetto Enrico Sesti.
Al 1954 risale anche il palazzo della Borsa Merci, in piazza della Libertà (a lato della ex Casa Littoria, sull’area dove a lungo erano soliti accamparsi i circhi equestri), definita ammirevole dall’architetto Nestorio Sacchi: “una grande, splendida testimonianza di quanto sa esprimere di geniale l’operosa gente bergamasca”.
NASCONO NUOVI QUARTIERI POPOLARI
Lontani dal centro, negli anni Cinquanta e Sessanta nascono nuovi quartieri popolari.
Quartieri “autosufficienti” e dunque più facilmente controllabili in rapporto alle nuove conflittualità sociali emerse in quegli anni: i quartieri di Valtesse a nord-est, al di là dei colli della Città Alta, di Monterosso a est (quartiere C.E.P.), di Longuelo a ovest e di Celadina a sud-est, dove la periferia, illusa, si offre per i quartieri moderni.
Ed è proprio a Longuelo e a Valtesse che, al di là delle previsioni del piano, si indirizzano notevolissime aliquote dell’espansione cittadina, rendendo necessaria l’elaborazione di successive varianti.
Nuovi quartieri nascono anche in viale Venezia, Loreto, Zanica, Colognola.
A sud di Colognola sorge l’unica delle zone industriali previste dal piano (5), e per la quale nel 1956 si istituisce la linea 6, decretando la massima estensione della rete filoviaria che arriva a comprendere sei linee su circa 19 km di rete bifilare.
IL NUOVO VOLTO DI BERGAMO
Nella Bergamo che cambia volto, fra la legislatura del 1946 e quella del 1956, l’amministrazione comunale mena fra l’altro il vanto di aver edificato e attrezzato nuove palestre; allestiti campi da gioco per tennis, schettinaggio e pallavolo; realizzato il Campo Utili di via Baioni.
Oltre all’aver riformato il servizio delle nettezza urbana “che ora è certamente fra i più moderni e i più rispondenti alle esigenze dell’igiene fra quanti esistono nel nostro Paese”, ha predisposti concretamente i piani per la realizzazione di un nuovo macello pubblico e di un nuovo mercato del bestiame, già esistenti nell’area dell’attuale Piazzale degli Alpini, antico Foro Boario.
Il Comune ha inoltre acquistato trentamila metri quadrati di area a Boccaleone, offerti allo Stato per la costruzione di una nuova caserma, prendendo in viva considerazione la necessità di un carcere giudiziario moderno in luogo del vecchio e inadatto carcere di Sant’Agata; ha ampliato e rinnovato in gran parte la pubblica illuminazione, realizzato nuove strade, costruiti ponti, coperto rogge, costruito nuove scuole e case per i meno abbienti; eseguito il primo tronco della grande arteria di circonvallazione.
Ha ripreso i lavori per il risanamento di Città Alta, abbattendo case malsane in via San Lorenzo, ricostruendole con la cura di non alterare il volto di Bergamo antica.
IL MOTORE TRIONFA
Nello stesso periodo, e cioè dopo la metà degli anni Cinquanta, il parco veicoli dell’azienda municipalizzata di Bergamo è ormai interamente costituito da mezzi su gomma: 44 autobus e 24 filobus e due funicolari.
Le linee, urbane ed extraurbane, arrivano a 18, per una lunghezza di oltre 80 chilometri.
I collegamenti accorciano le distanze, anche culturali, tra i luoghi della città, dove prendono vita intere aree, e tra la città e le zone di provincia, dove il trasporto a motore sta prevalendo dietro gestione di società private in continua espansione.
Così, mentre nel 1957 viene soppressa l’ultima linea tranviaria (quella che collegava Bergamo a Ponte San Pietro), l’Amministrazione comunale costruisce la Stazione delle autolinee, affidandone la gestione all’Azienda municipalizzata.
IL BOOM DELL’AUTOMOBILE
Con gli anni ’60 e il miracolo economico, grazie alla diffusione di massa della ricchezza arriva il boom della motorizzazione, e mentre la produzione automobilistica diviene l’industria trainante del paese, il numero dei mezzi privati in circolazione in tutta la provincia di Bergamo passa dai 13.914 veicoli nel 1950 ai 100.668 nel 1962.
Nel ’55 arrivano le prime Fiat 600 e poco dopo le 500, simboli indiscussi dell’ottimismo messo in circolo dal miracolo economico, e con l’automobile, anche in città il traffico viene regolato con una nuova segnaletica.
L’Azienda municipalizzata concentra ora l’attenzione sugli autobus perché non dovendo dipendere da rotaie o da reti di alimentazione possono godere di una maggiore libertà di movimento e di una manutenzione più semplice.
Nello stesso tempo l’antesignana dell’ATB deve affrontare l’accanita concorrenza delle automobili, sempre più diffuse grazie al “boom economico”.
LE FUNICOLARI SI RINNOVANO (TRAMONTANO LE “PANORAMICHE”)
Tra il ’63 e il ’64, dopo decenni di onorato servizio le vecchie “panoramiche” della funicolare per Bergamo alta escono totalmente di scena e l’impianto, già rinnovato nel ’22, viene totalmente rifatto.
Viene inoltre ammodernata la stazione su viale Vittorio Emanuele II.
Nel 1988, scaduta la concessione governativa, le due vetture vengono sostituite da altre molto più funzionali e capienti. Ma soprattutto s’interviene sull’intero sistema di trazione e sugli impianti di sicurezza: sarà l’ultimo importante restauro, a distanza di un secolo dalla prima corsa, cui seguiranno a cadenze regolari revisioni generali dell’impianto. Lo stesso avverrà nel 1991 per la funicolare di S. Vigilio.
“AVANTI C’E’ POSTO!” STA PER DIVENTARE UN RICORDO
Nel 1967 inizia il declino dei filobus, con la sostituzione graduale delle linee con autobus.
Tuttavia nel ‘75 vengono acquistati ancora alcuni filobus, che vengono rimessi in servizio per qualche anno ancora (6), finché nel ‘78 verrà soppressa l’ultima linea filoviaria.
Non in grado di reggere la competizione con l’automobile, il trasporto pubblico locale entra in crisi, sia per la rapida diminuzione della domanda che per l’aumento dei costi per le aziende, dovuto principalmente all’innalzamento delle retribuzioni e degli organici. Nonostante ciò, l’Azienda municipalizzata è costretta a mantenere i propri servizi e ad ammodernare i mezzi.
La scelta fatta a livello nazionale rimane tuttavia quella di continuare a favorire la diffusione del mezzo privato, ripianando le perdite di tutte le aziende pubbliche di trasporto che continuano ad offrire il loro servizio, ma lavorando in perdita.
Così, mentre gli autobus iniziano a restare imbottigliati nel traffico, a Bergamo il numero dei passeggeri scende dai 29 milioni nel 1958 ai 23 di dieci anni dopo.
Questa politica si ripercuoterà inevitabilmente sull’ampliamento del debito pubblico nazionale e sull’aumento della congestione del traffico stradale, rendendo il mezzo pubblico sempre meno attraente agli occhi degli utenti, dato che la qualità del servizio offerta non può prescindere dalla situazione territoriale nella quale l’azienda si trova ad operare.
Per far fronte alla crisi l’Azienda dei trasporti avvia dei piani per ridurre i costi di gestione: viene così deciso di eliminare i bigliettai. I biglietti devono ora essere acquistati prima di salire a bordo e sui veicoli non si sentirà più echeggiare il familiare invito “Avanti c’è posto!”.
Oltretutto, per fronteggiare la difficile situazione di bilancio il Comune inizia anche a concedere all’Azienda municipalizzata la gestione dei parcheggi cittadini.
IL TRAMONTO DELLA FERROVIA DELLE VALLI… E NON SOLO
La crisi del trasporto pubblico su rotaia si riflette anche sui collegamenti provinciali. Sparisce il vecchio tram di Monza, popolarmente noto come “Gamba de lègn”. Ma la decisione più grave riguarda la chiusura delle Ferrovie delle Valli decretata nel 1967, il cui servizio viene totalmente rimpiazzato dai bus delle autolinee (parzialmente attivo già da una decina d’anni): la grave crisi della viabilità lungo le Valli risale, per buona parte, a quello stop ai “trenini”.
AGLI ALBORI DEGLI ANNI SETTANTA TRA CITTA’ E PERIFERIA
Alla fine degli anni Sessanta anche i nuovi quartieri confinati in periferia vengono raggiunti dalla continua espansione a fasce concentriche attorno ai colli della Città Alta, e la forma urbana diventa, come afferma Vanni Zanella, “sempre più complessa e inafferrabile” rivelando “i sintomi di un incoerente addensamento metropolitano”.
Se fino a quel momento la città è cresciuta aggiungendo sempre nuovi spazi urbanizzati da destinare alla residenza, all’industria e in quota minore anche alle attività commerciali, qualcosa comincia a cambiare e la città, pur continuando a costruire, inizia a rinnovarsi: accanto al centro cittadino novecentesco – con la sua concentrazione di uffici pubblici, banche e studi professionali – si sviluppa una rete capillare di esercizi commerciali di grande pregio. Allo stesso tempo, le vie storiche di penetrazione alla città, concentrano su di esse la quasi totalità dell’offerta commerciale per le aree periferiche, che ne sono sprovviste.
Come accade in altre realtà urbane della Lombardia, anche Bergamo comincia a mutare il proprio ruolo e le proprie funzioni alla scala territoriale: le industrie, costantemente alla ricerca di nuovi spazi, preferiscono uscire dalla città e insediarsi ai suoi margini o presso i comuni limitrofi, laddove l’acquisto dei terreni risulta più economico e la disponibilità di spazio garantisce la possibilità di future espansioni e la realizzazione di servizi a favore dell’utenza e dei lavoratori.
Pertanto cresce il numero degli edifici e delle fabbriche abbandonate, spesso di grandi dimensioni e a pochi passi dal centro, che restano in attesa di una nuova ridefinizione progettuale affinché possano assumere un nuovo ruolo all’interno della città.
In periferia, a volte in mezzo a campagne ancora coltivate, sorgono i primi grandi centri commerciali, posti lungo le più importanti vie di comunicazione: la Città Mercato di via Carducci, seguita da “Città Convenienza” e dal cosiddetto ”Pantheon” alla Celadina: il loro raggiungimento comporta un utilizzo sempre più diffuso dell’automobile, ribaltando tutte le consuetudini di vita praticate dagli abitanti della città del passato, mentre la città non smette di crescere e di espandersi, compressa entro i limiti fisici del piccolo territorio comunale.
ADDIO VECCHIO MONDO
Nonostante i filobus siano ormai quasi del tutto soppressi a favore degli autobus, Bergamo non vi rinuncia del tutto e nel 1975 ne acquista alcuni, che vengono rimessi in servizio per qualche anno ancora, Ma nel 1978 viene chiusa anche l’ultima linea filoviaria rimasta attiva la 2.
L’anno successivo l’azienda dei trasporti, pur rimanendo municipalizzata, cambia il nome in ATB: Azienda Trasporti Bergamo.
Ma l’automobile ha innescato grandi cambiamenti anche per la funicolare di San Vigilio, che rimasta immutata sin dal 1912, anno della sua entrata in servizio, vede ridursi radicalmente il numero dei passeggeri mandando in crisi il già stentato servizio fino ad allora utilizzato solo da qualche anziano abitante dei Colli e dai turisti.
Bloccato il 26 marzo 1976, l’impianto viene totalmente abbandonato, tanto che il grazioso edificio della stazione superiore, dopo ripetuti atti di vandalismo, nel 1983 viene distrutto da un incendio e il servizio è sostituito da autobus lasciando irrealizzata la ventilata opzione della cremagliera. Bisogna attendere il 1987 per l’avvio dei lavori di ristrutturazione che conclusi nel febbraio del 1991 hanno mutato radicalmente il volto dell’impianto.
LA NUOVA SEDE DELL’ATB
Nel 1998, un anno dopo i festeggiamenti per i novant’anni dell’Azienda, ATB abbandona la sede di Via Coghetti per trasferirsi nel nuovo complesso di via Monte Gleno progettato dall’architetto Attilio Pizzigoni e dall’ingegner Carlo Alberto Von Wunster ed ospitando gli uffici, la direzione, l’officina, il lavaggio, la mensa per i dipendenti, i magazzini e un grande deposito per gli autobus. Vent’anni dopo, 1° luglio 1999, per garantire un’offerta di qualità sempre maggiore e dare uno stimolo al settore del trasporto pubblico, la municipalizzata ATB si trasformerà in una Società per Azioni.
Ancora sul finire del Novecento, nonostante la forte crescita la Città Bassa si è mantenuta capace di mantenere una buona cultura del costruire e una diffusa consapevolezza della civiltà dell’abitare, tanto da meritarsi una favorevole citazione da “Le Monde” nell’85 e da essere citata l’anno seguente dal ministro della cultura francese quale esempio di corretta manutenzione urbana
Il resto è storia recente (7).
Note
(1) Lo studio del primo piano regolatore generale viene avviato dopo la seconda guerra mondiale, basandosi sulla legge urbanistica 17 agosto 1942. n. 1150. Il piano è studiato con la consulenza del prof. Muzio ed è redatto dall’arch. Morini con la collaborazione dell’arch. Nestorio Sacchi. Tale piano viene adottato dal Consiglio comunale di Bergamo con deliberazione del 10 febbraio 1951 e approvato dal Capo dello stato il 23 gennaio 1956. La revisione al PRG è quella degli anni 1961-1964. Secondo il PRG Muzio-Morini, le future espansioni avrebbero dovuto essere decise e pianifcate solo in base ai criteri dell’azzonamento (distinzione ordinata e ripartizione dei luoghi di lavoro, di ricreazione, di residenza creando così una forma estetica strutturata ed organizzata evitando così un accrescimento indifferenziato della città), basando le zone residenziali sulla previsione trentennale di 180.000 abitanti nel 1981 (contro i 108 mila esistenti all’epoca dell’estensione del piano) di cui 10 mila avrebbero potuto essere assorbiti dalla città esistente, mentre i successivi 65 mila dovevano essere collocati, da un lato in nuovi quartieri di espansione e, in parte, nella saturazione di quelli esistenti completandoli in modo ordinato.
(2) Il Primo concorso della ferrovia è bandito nel 1945 (si veda: Enrico Peressutti, Concorso per la sistemazione del Piazzale della Stazione di Bergamo, in Metron, n. 23-24, 1948). Nel PRG Muzio-Morini, il previsto sovrappasso su via Roma, in corrispondenza della stazione, avrebbe dovuto costituirsi come perno lungo il quale stabilire la nuova sistemazione residenziale a sud della città, fra la ferrovia e l’aeroporto di Orio al Serio. Era prevista al contempo la realizzazione di un sottopassaggio sull’asse via Giorgio Paglia, avente la funzione di collegare la città con lo scalo merci. La prosecuzione del viale Roma verso sud oltre la ferrovia non venne realizzata, così come il previsto sviluppo dell’abitato verso Orio al Serio. Il previsto collettore a sud della ferrovia, che avrebbe dovuto congiungere le provenienze da Lecco, Milano, Treviglio con quelle dalle Valli Brembana e Seriana e da Brescia, venne realizzato solo in parte, dall’ingresso autostradale sino a settentrione del cimitero urbano.
(3) A tale proposito si veda: Il concorso sull’area dell’ex-Ospedale di San Marco a Bergamo, in Urbanistica, n. 1, 1948.
(4) Nestorio Sacchi, Un segnale di gusto. La Rivista di Bergamo, dicembre 1953.
(5) Di tutte le zone industriali previste (a Petosino, Valtesse, a sud-est di Redona, a ovest di Seriate, a sud di Colognola, a ovest della provinciale per Milano verso Lallio), prende corpo solo la zona industriale a sud di Colognola.
(6) Va ricordato che sulla rete filoviaria, prima della soppressione, fu provato anche un Volvo B59 Mauri Ansaldo, matr. 1001, della rete di Rimini. Non fu l’unico filobus, furono provati anche un Fiat 668 AERFER dell’ATAN di Napoli, un Fiat 2401 e un Alfa Romeo 910AF Pistoiesi.
(7) Tra i fatti rilevanti che hanno caratterizzato l’attività del Gruppo ATB nel nuovo millennio, un ruolo centrale assume l’estensione del servizio di trasporto pubblico locale, dal 1 gennaio 2005, nei 28 Comuni della cosiddetta “area urbana” di Bergamo. Recentemente, attraverso la Società TEB (Tramvie Elettriche Bergamasche) ATB partecipa alla realizzazione della rete tranviaria. Il 9 ottobre 2006 ATB è protagonista di un’altra importante innovazione: il Consiglio Comunale di Bergamo affida all’Azienda anche le funzioni di Agenzia della Mobilità. ATB si presenta oggi come una realtà articolata che, partendo dal settore centrale del trasporto pubblico locale, ha assunto il profilo di un soggetto in grado di operare, integrandoli, nei diversi campi della mobilità.
Riferimenti principali
Graziola G Zaninelli S. “Il trasporto pubblico a Bergamo. ATB 1907-1997” Giuffrè Editore Milano Opuscolo edito da ATB per il centenario.
“Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.
Tra la fine del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento, grazie all’enorme sviluppo commerciale della Fiera e all’ascesa della nuova borghesia produttiva, il centro politico, sociale ed economico si sposta sempre più dalla città sul colle alla città bassa, dove nei borghi centrali di San Leonardo e Sant’Antonio così come in Borgo Palazzo e Borgo Santa Caterina, strade d’accesso alla città, l’insediamento delle manifatture e di altre attività produttive ha innescato un notevole incremento della densità residenziale.
E’ soprattutto nel corso della dominazione austriaca (1815-1859) che, divenuta centro degli affari, la città bassa si appresta ad acquisire un volto moderno con l’apertura di Porta Nuova e l’erezione dei Propilei (1837), simbolico ingresso monumentale alla città degli affari.
L’anno seguente, in occasione della visita a Bergamo di Ferdinando I d’Austria inizia la costruzione del primo tratto della Strada Ferdinandea (oggi viale Vittorio Emanuele II), la grande arteria che da Porta Nuova sale ad allacciarsi alla Porta di S. Agostino, venendo portata a termine nel 1857 con l’apertura verso sud del viale diretto alla Stazione Ferroviaria, eretta col primo tronco (1853-1857) del tratto Bergamo-Coccaglio in allacciamento alla Milano – Brescia.
Attorno al nuovo, monumentale viale si sviluppa un’intensa attività edilizia, che soprattutto dopo gli anni post-unitari porta alla formazione di un nuovo centro.
E anche grazie alla realizzazione della stazione ferroviaria, tutta l’area a sud delle Muraine ossia intorno all’attuale viale Papa Giovanni, comincia a cambiare volto in senso “urbano”.
Ma se la Ferdinandea rappresenta un primo passo per connettere le “due città”, il progressivo abbandono di tutte le funzioni pubbliche nella città sul colle e il declino che ne consegue, accendono la discussione da un lato sul risanamento di Città Alta, dove, nelle case sempre più fatiscenti si concentra il ceto più povero, e, dall’altro, sulla questione riguardo a un mezzo di trasporto collettivo di collegamento.
Le prime proposte vengono formulate mentre è ancora in corso la dominazione austriaca, come quella dell’ingegner Angelo Ponzetti, che nel 1856 propone una linea di tram a cavalli che partendo dall’antica Fiera raggiunga il palazzo del Municipio (attuale Biblioteca Angelo Mai) compiendo l’ultimo tratto dentro un tunnel lungo oltre 60 metri. Ma la soluzione viene scartata.
LE “CITTADINE” E LA DITTA CORNARO
Nel frattempo il servizio di trasporto nella città al piano si svolge tramite le carrozze a noleggio comunemente chiamate “Cittadine”, carrozzoni e calesse che dipendono in massima parte dalla ditta Cornaro, con gli stalli a palazzo Viscardini sul futuro viale della “ferrata”, attiguo alla casa già Caversazzi: quello stesso che intorno al 1890 sarò occupato dall’Albergo del Cappello d’Oro, sempre frequentatissimo da commercianti, rappresentanti e viaggiatori e da cui, prima del 1890 partivano le “diligenze”, solitamente a tre cavalli, dirette verso le valli.
Ma circolano anche i lenti pesanti carri delle ditte Brambilla e dei Fratelli Sala e le caratteristiche “giardinette” a cavalli dei vari alberghi di Bergamo, che all’ora dell’arrivo dei treni si portavano alla stazione per prelevare gli eventuali clienti.
La ditta Cornaro, oltre ad una fiorente “rimessa” di cavalli, aveva l’appalto delle casse da morto per i servizi del Comune. La pubblicità recitava: “CORNARO FIORENTO – Grande scuderia – Noleggiatore di cavalli – Servizio tram – Vetture per città e provincia – Cittadine di piazza – Impresa Pompe funebri per Città e campagna”.
Gli antichi carrozzoni funebri erano tutti pennacchi e veli neri svolazzanti, con certe forme barocche; il capo conducente con tanto di fez, dirigeva il lungo stuolo di accompagnatori. Poi il servizio Trasporti funebri è passato in viale Pirovano, alle dipendenze dirette del Comune.
TUTTI IN CARROZZA CON I PIONIERI DEL TRASPORTO: DALLA LOCOMOTIVA THOMPSON ALLA FUNICOLARE DI FERRETTI
Mentre la città bassa il trasporto si serve del tram a cavalli, per raggiungere Bergamo alta viene sperimentata nel 1872 una locomotiva di origine inglese, la “Thompson”, che sbuffando a fatica su strada, dopo alcune corse ed una serie di guasti finisce dal rottamaio.
Nonostante un primo fallimento, il desiderio di collegare Bergamo alta con la città al piano riceve una nuova spinta, e dopo tre proposte – subito naufragate – va a buon fine il progetto di funicolare presentato nel 1885 dall’ingegnere emiliano Alessandro Ferretti, che ottenuto il via per la sua costruzione sigla col Comune una convenzione grazie alla quale ottiene anche di poter avviare un servizio di trasporto nella città bassa, dove introduce il tram a cavalli.
Dal progetto alla realizzazione il passo è breve: il 20 settembre 1887 e dopo meno di un anno di lavori, l’impianto della funicolare, mossa da una macchina a vapore entra in funzione tra la stazione di viale Vittorio Emanuele II e piazza Mercato delle Scarpe, nel cuore della città alta, attraversando le mura veneziane.
La neonata rete di tram a cavalli è invece composta da due sole vetture per il collegamento tra la stazione della funicolare e la stazione ferroviaria lungo il viale Vittorio Emanuele, cui di lì a poco va ad aggiungersi la linea che corre tra Piazza Pontida e Borgo Santa Caterina, dove le guide di ferro vengono posate nell’ottobre del 1888: entrambe le realizzazioni vanno così a formare, su concessione del Comune, la prima rete di trasporti in città, inizialmente gestita dalla società costituita a tale scopo dallo stesso imprenditore: la Ferrovia Ferretti (1).
Di lì a poco, per vincere la pendenza di via Pignolo, sulla linea per Borgo Santa Caterina si dovrà aggiungere un terzo cavallo, oggetto di satire e sberleffi da parte delle cronache cittadine.
SI SPERIMENTA IL TRAM A VAPORE CON LE DUE VETTURINE “BREMBO” E “SERIO”
Ma l’ingegnere riserva nuove sorprese, e per sostituire il vecchio tram a cavalli progetta e costruisce due moderni tram a vapore, che chiama Brembo e Serio, facendoli marciare trionfalmente tra il capolinea della funicolare e la stazione ferroviaria, mentre i ragazzi la rincorrono facilmente emettendo grida di gioia.
Nonostante di questa invenzione si interessi anche la stampa nazionale, i bergamaschi non ne sono molto entusiasti: le carrozze sono lente, si guastano spesso e fanno registrare ritardi, tanto più che possono essere impiegate una alla volta non essendo disponibili punti di incrocio lungo la linea. Inoltre la partenza richiede un lungo preparativo per riscaldare le caldaie, ammorbando Piazza Cavour di fumo fuligginoso e puzzolente.
Ben presto i due vaporini vengono messi da parte e dopo un ultimo tentativo nel 1889 sono accantonati per tornare al tram a cavalli, mentre sulle linee provinciali le tranvie a vapore funzionano alla grande.
LE TRANVIE PROVINCIALI (A VAPORE) E LE FERROVIE DELLE VALLI (A TRAZIONE ELETTRICA)
Nel 1880 entra in servizio la tranvia a vapore Bergamo-Trezzo-Monza (il mitico “Gamba de lègn”, così chiamato per la sua andatura sobbalzante), che si affianca alle già esistenti linee Bergamo-Treviglio-Lodi e Bergamo-Soncino, attiva tra il 1884 e il 1931.
Le sbuffanti, piccole locomotive a vapore rimorchiavano attraverso la campagna altrettanto piccole carrozze e vagoni-merci. Ogni tanto avvenivano degli incidenti: la locomotiva deragliava e finiva nel fosso, ma mai con grossi danni. Oppure, quando non c’era legna a sufficienza e mancava la pressione, il tram si arrestava in aperta campagna. Capitava allora di dover dare una mano al manovratore-fuochista nel raccogliere un po’ di rami e di stramaglie per alimentare la caldaia. Un lungo fischio a conferma che la pressione era tornata normale, e la marcia riprendeva.
La stessa Porta Nuova era solcata in ampio giro dalle rotaie della vecchia tranvia a vapore diretta a Lodi.
Anche a Seriate l’arrivo del tram era un avvenimento, tale da giustificare la fotografia con il personale in posa.
La rete dei tram a vapore sul territorio provinciale si estenderà ulteriormente nel 1907, quando la linea Bergamo-Trescore Balneario (nata il 31 luglio 1902), che da Trescore arrivava anche a Sarnico, sarà prolungata fino a Lovere.
Fondamentale per l’economia delle due vallate è invece la costruzione delle ferrovie delle Valli Seriana (1884) e Brembana (1906), quest’ultima in stretto collegamento con lo sviluppo turistico di San Pellegrino, sull’onda del successo delle Terme e del Casinò.
1890: FERRETTI CEDE L’AZIENDA E NASCE LA SAFT
Ma, evidentemente, al ruolo del gestore Ferretti preferisce quello del progettista-imprenditore, se il 29 aprile del 1890, alla “modica” cifra di 449.000 lire cede l’intera azienda cittadina (funicolare e servizio di tram a cavalli) alla costituenda Società Anonima Funicolare e Tramvia (SAFT) (5).
L’anno successivo, su richiesta della Società Anonima Funicolari Ferretti si sbizzarrisce nel progetto di un’altra funicolare, quella per il Colle di San Vigilio, che però non verrà realizzata su suo disegno.
L’ELETTRIFICAZIONE DELLA FUNICOLARE
Ma è il momento dell’elettricità, e nel 1892, nonostante le vie siano ancora illuminate dai lampioni a gas lafunicolare per Città Alta diviene il primo mezzo pubblico a funzionare grazie ad essa.
L’ELETTRIFICAZIONE DEI TRAM CITTADINI
La nuova Società può ora estendere la trazione elettrica a tutti i tram cittadini e l’8 ottobre del 1898 viene inaugurata l’elettrificazione della linea tranviaria, che inizia a cigolare sulla linea 1, fra la stazione ferroviaria e la funicolare, facendo udire tratto tratto, più per prudenza che per necessità, la campanella d’allarme.
Nel 1904 verrà elettrificata anche la linea Piazza Pontida-Borgo Santa Caterina, che attraversava le vie XX Settembre e Torquato Tasso fino piazzetta Santo Spirito, da dove risaliva in via San Giovanni attraverso via Pignolo, già divenuta motivo di satira per l’aggiunta del terzo cavallo impiegato per la breve ma faticosa salita.
Nel frattempo si progettava un’estensione della linea con un prolungamento da piazzetta Santo Spirito a Borgo Palazzo.
Più tardi la linea di Borgo S. Caterina verrà prolungata fino alla fermata della ferrovia di Valle Brembana, la cui sede ospitava in parte le corse dei caratteristici “tram rossi” in servizio sulla linea extraurbana Bergamo-Albino, inaugurata il 17 dicembre 1912.
Le caratteristiche dell’impianto rimangono pressoché invariate ma in compenso migliorano le prestazioni. Le vetture, della portata di 24 persone, vengono tenute in servizio anche per buona parte delle ore notturne e i passeggeri aumentano di anno in anno: se nel 1892 sono 373.146, dieci anni dopo, nel 1902, il loro numero è quasi raddoppiato.
GIU’ LE MURAINE: LA MUNICIPALIZZAZIONE DELL’AZIENDA DEI TRASPORTI
Nonostante le migliorie introdotte dalla SAFT, il Comune di Bergamo ritiene insufficiente lo sviluppo del servizio rispetto alle mutate esigenze della città, che con la caduta delle Muraine (gennaio 1901) è pronta ad espandersi e ad aprirsi definitivamente ai mutamenti urbanistici e sociali del Novecento e che con l’abbattimento dell’ormai obsoleto complesso della Fiera si appresta a realizzare il nuovo centro, per il quale nel 1908 si bandisce un concorso nazionale vinto dall’ingegnere Marcello Piacentini, andando in esecuzione solo dopo la fine della guerra.
Dopo cinque anni di trattative tra il Comune e la SAFT per il riscatto del servizio dei trasporti ed il referendum istituito nel 1907, i cittadini si dichiararono largamente favorevoli alla municipalizzazione dell’Azienda di trasporto pubblico (2) e finalmente nel mese di novembre si costituisce l’AMFTE (Azienda Municipalizzata Funicolari e Tramvie Elettriche), che diviene proprietaria degli impianti e dell’esercizio.
NUOVE ARTERIE STRADALI IN CITTA’
Mentre la Città alta è divenuta un quartiere popolare sospeso tra la magia dell’arte ed il degrado, lo sviluppo della città rende necessario realizzare nuove arterie viabilistiche, trasversali rispetto alle direttrici storiche che scendevano dal colle come le dita di una mano aperta, lungo la quale si sviluppavano i borghi.
Si realizzano così tre collegamenti ad andamento est-ovest che completeranno la struttura urbana della città nuova: le vie GaribaldieVerdi, disposte alla base del colle ad aggirarlo, le vie Tiraboschie Camozzi che ricalcheranno l’andamento del perimetro meridionale delle Muraine e della roggia Serio, e infine le vie Paleocapa e Mai (quest’ultima realizzata entro il 1892), tracciate maggiormente a ridosso della linea ferroviaria.
La nuova trama viaria, che rompe in diversi punti la cortina edificata dei borghi, va ad avvolgere la città, indirizzando lo sviluppo urbano secondo canoni completamente diversi.
L’ESPANSIONE DELLA RETE (PENSANDO AI QUARTIERI POPOLARI)
In linea con i progetti che stavano prendendo corpo sulla trasformazione del centro di Bergamo, l’Azienda municipalizzata inizia ad espandere la rete (sulla base di alcune linee preesistenti), raggiungendo anche i quartieri sorti nelle località limitrofe alla città (soprattutto lungo l’asse di via Broseta, via Borgo Palazzo e Borgo Santa Caterina), arrivando a contare nove linee tranviarie urbane e suburbane (per un estensione totale di oltre 40 km) e registrando una sensibile crescita dei passeggeri, che nel 1910 superano ormai il milione di unità.
Tra il 1907 e il 1912 venne quasi raddoppiata la lunghezza della rete, mentre il numero delle carrozze circolanti passa da undici a ventidue. Non solo, vengono istituite linee per i borghi non ancora raggiunti dal servizio, tenendo conto in particolare delle esigenze della classe operaia, per la quale stanno sorgendo i primi quartieri popolari.
Nel 1910, per la periferia sud-ovest della città la linea di Borgo Palazzo (Cimitero) viene prolungata fino a via Previtali.
Vengono pure posati nuovi binari tra il centro (Piazza Cavour) e la Malpensata, dove sono sorte le case popolari di via Carnovali.
Prima dello scoppio della guerra l’Azienda aveva provveduto a portare la linea di via Broseta fino a Loreto e fu anche raggiunta la zona di Santa Lucia dove, su iniziativa di privati stava sorgendo un nuovo quartiere residenziale e dove negli anni Trenta sorgerà il nuovo ospedale intitolato alla Principessa di Piemonte (futuri, e ormai ex, Ospedali Riuniti).
Nel frattempo viene inaugurato il secondo impianto di risalita della città, per garantire il collegamento tra Città Alta e il Colle San Vigilio: il primo caso in Italia e forse anche in Europa. Uno dei primi e più illustri passeggeri sarà, nel 1913, Hermann Hesse, futuro premio Nobel per la letteratura.
Intanto il motore a scoppio muove i primi passi e cominciano a circolare le prime automobili, per ora appannaggio esclusivo delle classi più abbienti.
GLI ANNI DEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE, CON SEI MILIONI DI PASSEGGERI
Nel corso della Prima Guerra mondiale, soprattutto tra gli anni 1916 e 1918, Bergamo ha un ruolo molto importante di retrovia ed anche se il conflitto blocca ogni progetto di espansione del servizio, il numero dei passeggeri sfiora i sei milioni. In questo difficile momento storico, sulle vetture compare il primo personale femminile.
Viene solo prolungata la linea di Borgo Palazzo al complesso della nuova Casa di Riposo della Clementina, trasformata in ospedale militare.
I duri anni della prima guerra mondiale e il conseguente prolungato blocco delle tariffe indeboliscono le casse dell’azienda dei trasporti (AMFTE), che si trova ad affrontare una difficile situazione economica. Completato nel 1926 il programma di ampliamento extraurbano, non verranno più effettuate opere di particolare rilievo. Resterà sulla carta, ad esempio, il progetto di istituire una linea lungo il Viale Giulio Cesare (allora Regina Margherita) per servire lo Stadio Comunale inaugurato nel 1928. La stessa fine farà la proposta al Comune di un piano per introdurre autobus a motore per nuovi collegamenti, come quello per Valtesse.
DOPO IL PRIMO CONFLITTO MONDIALE: IL RINNOVO DELLA FUNICOLARE PER CITTA’ ALTA E GLI ANTESIGNANI DEI FILOBUS
Terminata la Grande Guerra, nel 1919 la linea di Borgo Palazzo viene portata fino a Seriate (già servita dalla tranvia a vapore per Romano e Soncino), dove è sorto un grande stabilimento tessile con turni che iniziano di primo mattino, permettendo agli operai di raggiungere più comodamente il posto di lavoro.
Tra l’agosto del 1921 e l’ottobre del 1922 l’AMFTE può finalmente rinnovare radicalmente la funicolare di Città Alta, il cui servizio si è rivelato un successo: tra il 1900 e il 1920 il numero dei passeggeri trasportati è salito da mezzo milione a un milione e mezzo.
Per la temporanea chiusura dell’impianto è istituito un servizio sostitutivo di vetture filoviarie, tra le prime utilizzate in Italia, che dalla stazione ferroviaria arrivano fino a Colle Aperto, dove si mpiegano due filobus Zaretti, uno dei quali sarà successivamente ceduto alla filovia Châtillon-Saint-Vincent. Si tratta del primo mezzo di trasporto moderno che percorre il viale delle mura: come tali trabiccoli riescano a superare la salita per Città Alta, non è dato sapere, ma i bergamaschi non rinunciano all’avventura.
I TRAM ESCONO DAI CONFINI DELLA CITTA’ E NASCE IL DEPOSITO DI VIA COGHETTI
Entro il 1926, per facilitare gli spostamenti dei numerosi lavoratori alle dipendenze delle tante aziende sorte nel territorio, l’Azienda municipalizzata intraprende un piano di espansione della rete oltre i confini comunali.
Nel 1925 si aggiungono così i collegamenti con Colognola, poi allungati fino a Stezzano (dove faceva capolinea nella piazza centrale) nonché il collegamento con Ponte San Pietro.
La linea per Ponte San Pietro, partendo da via Gallicciolli passava per Piazza Pontida e proseguiva sino a Loreto; dopo una breve salita sino al colle che ospitava la colonia elioterapica raggiungeva Longuelo e quindi Curno; sottopassata la ferrovia Bergamo-Lecco i tram giungevano al capolinea di Ponte San Pietro, all’inizio del paese.
Nel 1925 viene inaugurato il deposito di via Coghetti, capace di ospitare fino a centro vetture. All’interno della rimessa sono posate delle rotaie che permettono ai tram elettrici d’essere rimessati fino alle pensiline. Nella struttura trovano posto anche gli uffici e le officine per la manutenzione dei veicoli e successivamente i capannoni ospiteranno i filobus e gli autobus.
DALLA ROTAIA AL FILOBUS E POI ALL’AUTOBUS: VIA I TRAM DAL CENTRO
Agli inizi degli anni Trenta, con la realizzazione del nuovo centro cittadino per ragioni di decoro e soprattutto per decongestionare le anguste vie XX Settembre e Tasso, si rende necessario spostare tutte le linee tranviarie che passano per il Sentierone.
La rotaie vengono rimosse e riposizionate lungo un tracciato più esterno: la nota strada di circonvallazione, che corre lungo le vie Camozzi e Tiraboschi, appena al di là delle antiche Muraine.
Dal centro sono già stati tolti i binari del tram a vapore Bergamo-Soncino, mentre il capolinea dello storico tram Bergamo-Albino finisce con l’essere fissato nei pressi della torre del Galgario: per uscire dalla città i convogli bianchi e rossi, prima di proseguire per la Valle Seriana utilizzano le rotaie dei tram cittadini lungo le vie Cesare Battisti e Borgo Santa Caterina.
Nel 1930 è stato inaugurato il nuovo Ospedale Maggiore di Bergamo, raggiunto dalla linea 2 lungo le vie Garibaldi e Statuto, che con la Rotonda e le strade adiacenti, un tempo orti e aree agricole intercluse tra i borghi, sono le arterie progettate negli anni Venti dall’addetto agli uffici tecnici comunali ing. Giuseppe Chitò, qualificatesi architettonicamente con le costruzioni in stile liberty e successivi innesti in stile razionalista.
Mentre in via Monte Ortigara, negli anni 1933-’35 è sorta la casa-cubo progettata da Pino Pizzigoni, che la elegge a residenza.
Entro il 1937, altre linee in esercizio sono la 3 (da Porta Nuova a Campagnola), la 9 (Porta Nuova-Esperia), la 10 (Piazza Sant’Anna-Gorle-Scanzorosciate-Negrone, lungo il percorso della tranvia Bergamo-Trescore-Sarnico.
Terminata la seconda guerra mondiale e ritornata la normalità, il sistema tranviario di Bergamo è completamente da rifare in quanto vetture, rotaie e attrezzature, rimaste per anni senza manutenzione, sono per lo più fatiscenti.
L’AMFTE, decide perciò di sostituire gradualmente i tram con filobus sulle linee principali che attraversano il centro cittadino.
Al tempo stesso iniziano a circolare anche gli autobus.
La soppressione definitiva della rete tranviaria ha luogo nel 1957 con l’ultima corsa sulla linea 8 per Ponte San Pietro.
Per ora Bergamo sta ancora tutta nel palmo di una mano e mantiene la sua eleganza un po’ ritrosa trovando coronamento nella bellezza di Città Alta. A poco a poco quell’equilibrio si romperà ed anche i trasporti dovranno adeguarsi. Ma lo vedremo alla prossima puntata.
Note
(2) Nel gennaio del 1887 la Ferrovia Ferretti ottenne, oltre alla concessione della funicolare, anche quella dell’intero servizio di trasporto pubblico cittadino, per una durata di 80 anni. La funicolare di Bergamo Alta fu terminata nel medesimo anno, entrando in servizio il 20 settembre 1887. Per la firma del contratto tra la Ferrovia Ferretti e il Comune, Luigi Pelandi (Op. Cit.) riporta la data del 1° gennaio 1887, “col deposito di L. 20.000, quale cauzione. A Ferretti spetta, oltre alla gestione dell’intero sistema di trasporto, anche la costruzione dell’impianto della funicolare. Era allora sindaco il conte Gianforte Suardi.
(2) L’esito del referendum istituito nel 1907 registra un importante consenso popolare, espresso dai 2791 sì contro 111 no su un totale di 2.950 votanti (il 46% degli aventi diritto al voto in quanto nelle liste elettorali erano iscritti solo i capifamiglia, mentre le donne erano escluse.
Bibliografia
Graziola G Zaninelli S. “Il trasporto pubblico a Bergamo. ATB 1907-1997” Giuffrè Editore Milano Opuscolo edito da ATB per il centenario.
Giovanni Cornolò e Francesco Ogliari, La funicolare Bergamo Bassa – Città Alta (1887 – in esercizio), in Si viaggia… anche all’insù. Le funicolari d’Italia. Volume primo (1880-1900), Milano, Arcipelago edizioni, 2004, pp. 144-181, ISBN 88-7695-261-6.
Pino Capellini, La funicolare di Bergamo Alta, Bergamo, Arnoldi, 1988.
Luigi Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea. Collana di Studi Bergamaschi, a cura della Banca Popolare di Bergamo.
Il compianto teatro intitolato a Eleonora Duse nacque nel travagliato clima del Ventennio, durante il quale, nonostante la crisi generale e in un momento poco adatto a trovare denaro, Bergamo sentiva il bisogno di un nuovo teatro dove poter rappresentare opere liriche e lavori drammatici; un teatro che avesse minori pretese rispetto al massimo della città e maggiori agi rispetto al Nuovo.
L’idea della sua realizzazione era sorta nel 1925 da un gruppo di amici che aveva avviato una raccolta fondi per l’acquisto di un terreno “adatto alla bisogna”, che fu trovato alla Rotonda dei Mille, il quartiere più signorile ed elegante della città.
Il gruppo, che nel frattempo si era allargato, aveva trovato considerevoli appoggi nel Consiglio di Amministrazione ed in particolare nel presidente avvocato Cavalieri, un esperto in tema di aziende teatrali, che coadiuvato da Giulio Consonno diede vita alla Società del teatro: un poderoso sforzo economico che aveva spinto “La Rivista di Bergamo” a invitare la cittadinanza ad associarsi affinché ne fosse curato ogni dettaglio.
Il progetto fu affidato agli ingegneri Stefano Zanchi e Federico Rota e la costruzione al cavalier Donati, che si impegnarono a risolvere tutti i problemi di visuale, servizio, comodità ed acustica. La gestione del teatro fu quindi affidata a Giulio Consonno, impresario del Nuovo ed amante delle scene (nonché nonno paterno dell’attore Giulio Bosetti), che per anni aveva gestito il Donizetti.
Nella primavera del ‘27, a lavori ancora in corso l’ampiezza della costruzione si profilava già nella sua mole imponente e al suo completamento, Bergamo si dotava finalmente di un teatro degno di una città in via di costante progresso, che, “per decoro e per ampiezza” poteva “essere invidiata da molte città superiori alla nostra per la disponibilità finanziaria e per popolazione”, sentenziava L’Eco.
La vita del teatro fu breve ma intensa, come la passionale e tormentata avventura fra la Divina e il Vate, Gabriele D’annunzio, che suggerì l’intitolazione a Eleonara Duse, attrice simbolo del teatro moderno.
L’INAUGURAZIONE
L’inaugurazione, sul finire del 1927, fu preceduta da un mare di polemiche: le opere da rappresentare, in serate diverse (24, 25, 26 e 27 dicembre) erano tutte di D’annunzio (La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, Parisina e Francesca da Rimini) e tutte messe “all’indice” perché erano considerate immorali ed offendevano fortemente la coscienza dei cattolici. La scelta poi di effettuare l’inaugurazione la vigilia di Natale, rendeva il contrasto ancor più manifesto.
Fu dunque la Voce di Bergamo a descrivere la serata dell’inaugurazione, durante la quale la sala presentò un magnifico colpo d’occhio: le poltrone erano occupate da quanto di più eletto e aristocratico contava la città – il fior fiore – ed erano presenti molti critici di giornali nazionali. Alle 21 in punto l’orchestra intonò la Marcia Reale e Giovinezza, ascoltate in piedi e calorosamente applaudite dal grande pubblico della platea e delle logge. Tra un atto e l’altro il pubblico si scambiava le impressioni su nuovo teatro – tutte favorevoli -, distribuito negli ampi corridoi, nella sala per fumatori e nel buffet.
Solo un neo, ma enorme: l’acustica. Che comunque non impedì il susseguirsi di famose stagioni liriche, concerti, operette, spettacoli musicali vari e di prosa.
La lirica debuttò subito dopo le opere dannunziane con le due opere in cartellone, l’Aida e La Bohème, opere affascinanti, degne di una vera inaugurazione tanto da gareggiare con quelle che si davano al Donizetti ed in grado di penetrare nell’animo popolare per la ricchezza del sentimento e per la “provata teatralità”. Il maestro direttore e concertatore era Mario Terni, forte di un glorioso passato in molti teatri.
“Soprattutto da non confondere con quelli fin qui offerti abitualmente, in modo improvvisato, al Nuovo”, scriveva L’Eco.
E fu un successo strepitoso.
IL TEATRO
Un teatro splendido, fra i più grandi d’Italia, ricavato in un palazzo alto 26 metri e presentato alla vigilia dell’inaugurazione come rispondente ai migliori criteri di modernità e di sfruttabilità. E ciò a partire dalla notevolissima capienza: un’ampia platea con due “barcacce” e doppio ordine di logge e galleria, per oltre 2500 posti a sedere (stimati sino a 2700) fra poltrone e sedie e circa 300 posti in piedi.
Il palcoscenico, spaziosissimo, disponeva di tutti i moderni mezzi di illuminazione, di montaggio e scarico delle scene. i camerini per gli artisti, comodi e aerati, erano muniti di impianti sanitari quali si convenivano in ogni miglior teatro. I sistemi di riscaldamento e di areazione erano attualissimi ed anche l’illuminazione rispondeva ai più moderni criteri artistici dell’epoca. “Chi visita il teatro non può non provare un senso di ammirazione ed esserne letteralmente affascinato”, scriveva ancora L’Eco.
SERATE DI GLORIA
Data la scatola scenica, il Duse era in grado di ospitare qualsiasi spettacolo e poté annoverare non poche serate di gloria, che alla fine del Novecento facevano ancora rimpiangere calde lacrime a Mimma Forlani – ma ovviamente non solo – per la sua distruzione: “Qui vi era una stagione lirica, qui arrivarono le vedette del varietà, qui nel 1933 danzò e cantò la mitica Josephine Baker; qui i bergamaschi ascoltarono la prima esecuzione in Italia della Rapsodia in blu di Gershwin e qui diedero l’addio al grandissimo giocoliere Enrico Rastelli”.
Giulio Consonno, impresario del teatro, si avvalse per gli spettacoli della consulenza e dell’appoggio dell’illustre Suvini Zerboni di Milano, società che deteneva i maggiori teatri della città meneghina, di Roma e Pavia, e i cui rapporti con la società degli autori erano tali da assicurare a Bergamo, al pari delle città più importanti, il migliore e più aggiornato repertorio drammatico italiano e francese, con la minor spesa.
Vi si esibirono artisti del calibro di Tito Schipa, considerato tra i maggiori tenori di grazia della storia dell’opera, la soprano e attrice Margherita Carosio, la mitica Paola Borboni e Alberto Semprini, pianista e direttore d’orchestra inglese naturalizzato italiano, mentre nel 1938 Gianandrea Gavazzeni vi diresse l’orchestra della Scala per commemorare Antonio Locatelli.
Memorabile la serata del 17 aprile 1934, quando il compositore bergamasco Giuseppe Carminati, “un bergamasco puro sangue, del contado”, presentò coraggiosamente in anteprima mondiale l’opera Il Corso, attesissima in città e seguita sin dalle prove dai quotidiani cittadini, di cui il critico Pinetti ebbe a dire fosse “scritta tutta di getto: con il cuore….. col solo intento di piacere al pubblico e prima di tutto al pubblico bergamasco”.
Impegnato a concertare l’opera il maestro De Vecchi, con un ottimo complesso orchestrale di 50 elementi e con artisti di non comune rinomanza, come il tenore Vito Binetti, il soprano Delia Sanzio, il baritono Angelo Pilotto, il basso Romeo Molisani, il mezzosoprano Rina Gallo e il baritono bergamasco Igilio Caffi.
Nel 1930 andò invece in scena una delle operette più famose, Il cavallino bianco, con la compagnia di Arturo ed Emilio Schwarz e fece letteralmente impazzire Bergamo: scesero anche dalle valli e salirono dalla Bassa per godersi quello spettacolo di lusso.
Da allora e per diversi anni l’operetta è stata di casa al Duse; in particolare con gli spettacoli della compagnia formata da Nora De Rios (ballerina, attrice e cantante) e da Nino Gandusio (capocomico brillante e pirotecnico vissuto nei suoi ultimi anni a Bergamo): una coppia dal vastissimo repertorio, ideale per questo genere teatrale.
Le storie del teatro ricordano poi che il Duse ha ospitato spesso manifestazioni di un’arte, quella oratoria, divenuta poi appannaggio dei talk show televisivi. In particolare sul suo palcoscenico sono passati tutti i maggiori uomini politici della primissima Repubblica, da Giuseppe Saragat a Giovanni Malagodi, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Ugo La Malfa, Arturo Michelini…. ma non solo.
Ma nel 1928, poco dopo la sua inaugurazione, al Duse era stato portato persino il circo, a Bergamo sempre gradito e tanto atteso. Era il Circo Equestre Fratelli Cristiani, che segnò l’inizio della rappresentazione con capriole, salti mortali, schiaffi, pedate, lazzi e grida di clown e nani; poi apparvero il grande giocoliere inglese Kremberser, le originali danzatrici auree che saltavano su un filo, una briosa cavallerizza spagnola, gli acrobati, tre bravissimi fratelli somiglianti “come gocce di rugiada”, i cani ammaestrati e le belve.
Un cenno particolare, secondo le cronache merita anche un cantante di secondo piano, Antenore Reali, perché fu abile a ridurre al minimo l’inquietudine del pubblico in platea e nelle gallerie in occasione del terremoto che la sera del 15 maggio 1951, con due forti scosse, sgomentò la città.
GLI INCONTRI DI PUGILATO AL DUSE
A lungo furono di casa, al Duse anche gli incontri di boxe, e ciò a partire dal novembre del 1928: una tradizione ereditata dal teatro Nuovo, dove il primo incontro risaliva al 1913. Incontri di pugilato si tenevano anche presso la “sala Vittoria” in piazza S. Spirito, nella palestra dell’Atalanta in via Verdi, al Teatro Sociale, al cinema varietà Augusteo in via Anghinelli (Borgo Palazzo) e al Teatro Minerva del dopolavoro Ferrovieri.
Tra l’altro, nei sotterranei del Duse c’era una palestra di pugilato, a spese della Bergamo Boxe, una società fatta nascere da Anselmo Ravanelli – delegato provinciale della federazione di pugilato – con il determinante appoggio finanziario di Giulio Balzer. A carico della società e grazie al sostegno di ditte bergamasche vi era anche la voce “spese varie” per aiutare economicamente i giovani pugili, bravi ragazzi per lo più di umile famiglia, che la Società contribuiva a mantenere “sulla retta via”, in quel momento storico particolare.
Negli anni Trenta sul ring del Duse debuttò il sedicenne Aldo Minelli, fratello del più famoso Livio, e una schiera di sostenitori di Boccaleone fece un tifo assordante; il pugile è ricordato anche in una serata dove il teatro fece sold out con un gran tifo dal loggione, tanto che alle due di notte c’era ancora gente che commentava l’incontro all’esterno del teatro.
Il fratello, Livio Minelli, vi aveva debuttato da professionista nel 1940, portando a Bergamo il titolo Europeo ed Italiano dei pesi Welter il 4 marzo del ‘49 per poi partire per una tournée negli Stati Uniti.
GLI INQUILINI DEL PALAZZO (E UN GIORNO SPUNTO’ TOTO’)
L’attore Giulio Bosetti, nipote del cavalier Giulio Consonno, era nato proprio in un appartamento del palazzo che ospitava il teatro, il 26 dicembre del 1930, a tre anni esatti dall’inaugurazione. Da bambino seguiva tutte le compagnie che suo nonno portava a Bergamo: da Ruggero Ruggeri a Elsa Merlini, da Renato Cialente a Dina Galli e alla Wandissima della rivista: ovvio che avesse il teatro nel DNA, mentre il fratello, avendo scelto la carriera di medico, nei primi anni Cinquanta andò in Corea come volontario.
Accanto all’appartamento dei Bosetti, al primo piano, c’era quello del nonno, Giulio Consonno.
Alla fine del Novecento ingegnere in pensione, da bambino anche Mario Casirati ha abitato nel palazzo del Duse, al terzo piano: dal 1939 alla demolizione dell’edificio, con una parentesi nel ‘43, quando dovette sfollare con la famiglia perché l’appartamento era stato requisito dai tedeschi.
Il suo primo lavoro di ingegnere lo fece calcolando i cementi armati della doppia rampa del parcheggio aereo del nuovo edificio che prese il posto del Duse.
Alcune finestre davano su via Crispi, la sala aveva un balcone che si affacciava sul parco di palazzo Frizzoni, con le scuderie non ancora abbattute, mentre sull’allora via Mazzini, oggi Garibaldi, v’era uno splendido colpo d’occhio su Città Alta.
Proprio la finestra della cucina dava sul monumento a Garibaldi. “Nata in Piazza Vecchia con il monumento a Garibaldi sotto casa, mia mamma se lo ritrovò di nuovo sotto casa quando nel 1939 si trasferì nel palazzo del Duse”.
Sempre al terzo piano abitavano il dottor Giraldi, presidente del tribunale, e i proprietari del bar.
Al piano di sotto c’erano la famiglia del dottor Elio Leni e due sorelle sarde, le signorine Batzella: Maria era un’apprezzata e temuta insegnante dell’Esperia. Parenti di Saragat, il 26 dicembre del ‘64 avevano festeggiato l’onorevole, eletto presidente della Repubblica.
L’ingresso agli appartamenti era in via Crispi; alle scale si accedeva attraverso una porta che si apriva nel lungo “corridoio” che metteva in comunicazione con il palcoscenico per lo scarico e il carico del materiale di scena.
Nel corridoio, dai ragazzini chiamato pomposamente “cortile”, si giocava a pallone: a Mario Casirati, unico maschio della cricca, si aggiungevano le due figlie del portiere, la figlia del Cavalier Consonno, le tre figlie del dottor Leni e le tre figlie – un po’ più grandicelle – del proprietario del bar, cui si aggregavano spesso le tre figlie del dottor Ciabò, che abitavano all’angolo di via Tasca con via Cucchi: tutte costrette a giocare a pallone dal Casirati, che nel frattempo era diventato abilissimo nel lavorare a maglia (!).
Un giorno…
“…stavamo al solito giocando al pallone quando nel “corridoio” passò Totò per raggiungere il palcoscenico. Si fermò e scambiò con noi un paio di calci al pallone, che in realtà era una palla di gomma. A un certo punto Totò ‘inventò’ una rovesciata volante e spedì la palla nelle scuderie di palazzo Frizzoni. Toccò poi a me andare a recuperarla affrontando gli arcigni e temutissimi vigili urbani di guardia alla sede municipale”.
Negli anni Trenta, in un appartamento del palazzo risiedeva anche l’ingegner Arturo Scanzi, direttore o gestore del teatro Duse, con la moglie Maria Paganoni e i figli Marialuisa (nata nel 1920) e Claudio.
L’ing Scanzi, sin dalla sua apertura nel 1922 deteneva anche la proprietà del Cinema Diana, le cui locandine per un certo periodo rivestirono interamente la facciata del palazzo che ospitava il Duse.
In seguito la direzione del Diana passò al marito di Marialuisa, Gianfranco Ripamonti, poi divenuto direttore del Cinema Centrale, chiuso negli anni ‘70.
La figlia di Marialuisa, Antonella Ripamonti, racconta che dall’appartamento si accedeva al teatro ed era possibile vedere il palcoscenico, ma che i genitori facevano in modo che la porta restasse sempre chiusa per evitare che la ragazzina potesse assistere a peccaminosi spettacoli di varietà. La ragazza però, con alcune compagne di scuola aveva trovato un modo per guardare di nascosto attraverso un buco nella porta, e quando la tresca fu scoperta venne punita adeguatamente dai genitori.
FRA DECLINO E MOMENTI DI GLORIA
Dopo aver ospitato a lungo opere liriche e spettacoli di prosa, cominciò un lento declino, ma ancora con bagliori violenti, tanto che l’anno di grazia arrivò nel 1963, quando la chiusura del Donizetti per lavori di ristrutturazione portò al Duse i migliori spettacoli lirici.
Formidabili colpi di coda fra le migliori rappresentazioni di prosa, incontri di pugilato e avanspettacoli con cinema e varietà, chiaro sintomo di decadenza, che contrassegnò gli ultimi giorni di vita del teatro, ormai additato con la la pessima reputazione di “tempio del peccato”.
Soprattutto famoso il Duse, negli anni ‘50/’60, per le riviste con Carlo Dapporto, Walter Chiari, Totò, Renato Rascel, Macario, la Wandissima e tante altre vedettes, ai tempi in cui le soubrettine venivano chiamate “donne di spolvero” per l’eleganza e la presenza scenica.
Nell’ultimo periodo, all’uscita degli “artisti” non era infrequente che si appostasse il gruppo dei vitelloni, allora assai noto in città, per attendere le girls del balletto; otto ragazze (alcune anche donne mature) che senza il cerone sul viso, senza le lunghe ciglia finte, senza il rossetto marcatissimo, senza l’ombretto attorno agli occhi, senza – a volte – la parrucca bionda e senza la luce dei riflettori, erano per lo più una delusione.
Ad accompagnarne il declino, le proiezioni cinematografiche ricordate da Giorgio Bocca, quando il sabato sera e la domenica i valligiani calavano al cine-teatro, “dove i programmi variavano su un unico tema: ‘Baraonde di donne capovolte in trasparenza’. ‘Atomicamente nude’. ‘Nudevolissimevolmente’. ‘Grazia Yunko nei sexy peccati capitali’. E altre follie” (1).
Per un certo periodo I film venivano proiettati poco prima che si alzasse il sipario per una Lucia di Lammermoor.
VERSO LA FINE
Fra un lento declino e formidabili colpi di coda, il Duse abdicò ufficalmente con la rappresentazione serale della domenica che precedette il 4 marzo del 1968, La signora è da buttare, con Franca Rame e Dario Fo.
Con un titolo a caratteri cubitali “L’Eco” ne annunciava la scomparsa aggiungendo: “E’ l’ultima volta che vediamo la facciata del Duse, di questo vecchio edificio che la rapida trasformazione della città ha da tempo condannato”: una facciata che sul finire del Novecento Luciano Andreucci descriveva con toni nostalgici (“di colore grigio, austera, sobria, elegante, ornata con decorazioni in bassorilievo, per un palazzo di notevole pregio artistico e architettonico”), ma che altrove era considerata un esempio piuttosto scolastico di struttura neoclassica, dall’aspetto di insieme triste e dimesso, più che severo e importante, come forse era nell’intento dei suoi progettisti.
In quei giorni si stavano innalzando le impalcature che presto avrebbero coperto la vista del teatro, sulla cui area sorse quell’edificio avveniristico dalle ampie superfici vetrate, sorto due anni dopo prendendo il nome dal vecchio teatro e fra mille polemiche, in quanto per molti non armonizzava con l’aspetto degli altri edifici.
Agli inizi di marzo vennero rimosse quasi tutte le strutture del palcoscenico e buona parte delle poltrone della platea. In seguito si diede il via alla vera e propria demolizione. Senza pietà.
Il Duse chiudeva così definitivamente i battenti dopo oltre quarant’anni di onorata attività; una decisione presa da tempo. La sua abdicazione lasciava la bocca amara a coloro che fino a pochi anni prima avevano vissuto i suoi momenti gloriosi e che ricordavano il suo ruolo importante nella storia della musica e della prosa bergamasca, il tempo il cui il teatro ospitava i più rinomati circhi equestri e le personalità più famose del mondo dello spettacolo, dello sport, della politica.
Scriveva indignato e perplesso un lettore del Giornale di Bergamo al direttore prima della demolizione: “Ma proprio nessuno difende ‘sto teatro? E non c’è forse una legge che tutela i teatri nelle città? Nessuno però se ne interessa, in testa sindaco, assessori e consiglieri comunali”.
Contro la demolizione protestò anche un collaboratore de L’Eco, Guerrino Masserini, che chiedeva “perché mai tocca al bel palazzo del teatro d’essere abbattuto quando ci sono, anche vicinissime (come nelle vie Sant’Orsola e Borfuro ndr), tante case a un piano cadenti e in cattive condizioni. E poi finiamola di definire ‘vecchio’ questo teatro! Ha da poco superato i quarant’anni, non già i cento! Ma è ora di dare del ‘vecchio’ a tutto ciò che si avvicina al mezzo secolo”.
Alcune delle costruzioni che gli erano sorte attorno nello stesso periodo vennero demolite nel quadro di un piano di riordino urbano facente capo al neoclassico Palazzo Frizzoni (oggi sede municipale), ideato per portare a compimento l’isolato a cavallo tra via Garibaldi e il Sentierone.
Ma furono in molti a rimpiangere la sua perdita e ancor’oggi il suo ricordo è evocato con tanta nostalgia.
Note
(1) Giorgio Bocca, Fratelli Coltelli. 1934-2010. L’Italia che ho conosciuto. Feltrinelli.
Riferimento principale
“Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.
IL PRIMO MONUMENTO ALL’ALPINO, DAVANTI ALL’ACCADEMIA CARRARA
Per risalire al primo monumento dall’Alpino presente in città bisogna tornare al 1921, quando il Comando del 5° Reggimento Alpini proveniente dalla caserma Mainoni di Milano viene inserito nella 2ª Divisione alpina di stanza a Bergamo, dove prende possesso della Caserma Camozzi, in via S. Tomaso.
Via che tra l’altro certuni dicono chiamarsi, all’epoca, “via della Milizia”, anche se – a quanto risulta dallo Stradario storico – si chiamava come oggi, mentre “piazza della Milizia” (questa l’effettiva definizione) esisterà come tale solo dal 1929 venendo abolita almeno dal ’49.
Nel corso del trasferimento il 5° Reggimento porta con sé il proprio monumento, che solo dopo un anno sarà innalzato di fronte alla caserma Camozzi nella piazzetta antistante l’Accademia Carrara.
Nel frattempo, in previsione dell’arrivo del 5° Alpini, gli alpini bergamaschi, perlopiù ufficiali che avevano combattuto nella Grande Guerra si fanno promotori della fondazione di una Sezione bergamasca dell’ANA (Associazione Nazionale Alpini), e dopo una riunione nel salone al primo piano del Cappello d’Oro il gruppo bergamasco delle penne nere è ufficialmente costituito, invitando ad aderire tutti gli alpini ed ex alpini di Bergamo e provincia.
Il primo atto della neonata Sezione è l’invito a tutti i soci a prendere parte in corpo alle onoranze che saranno tributate di lì a tre giorni al 5° Reggimento, durante la cerimonia di inaugurazione del monumento e della targa intitolata a Gabriele Camozzi, che verrà apposta sulla parete dell’omonima Caserma alla presenza del Re Vittorio Emanuele III.
L’opera, realizzata nel 1915 dallo scultore milanese Emilio Bisi, ricorda un’episodio particolare della campagna di Libia, avvenuto nel 1912 nei dintorni di Derna (Darnah), città della Libia nord-orientale.
In quell’occasione, l’alpino Antonio Valsecchi della Val San Martino, rimasto senza munizioni insieme ai compagni del Battaglione Edolo, fronteggiava l’attacco dei nemici scagliando pietre e massi.
Il bronzo volle perciò rievocare l’eroico episodio, raffigurando l’alpino nell’atto di lanciare una grossa pietra, aiutandosi con entrambe le braccia.
Finalmente, il 15 giugno del 1922 il monumento viene solennemente inaugurato, alla presenza di Sua Maestà Vittorio Emanuele III.
Nonostante ciò, il peregrinare del monumento non è terminato. Nel 1926 infatti il 5º Reggimento deve riprendere la strada per la Brigata alpina di Milano portando appresso l’opera; opera che dopo diversi spostamenti verrà definitivamente collocata ai Giardini Valentino Bompiani, in via Vincenzo Monti (zona Pagano) (1).
Dal canto loro gli alpini bergamaschi non si rassegnano alla perdita di un’opera, il cui significato ha ormai oltrepassato la commemorazione dei Caduti della Guerra di Libia per divenire simbolo degli alpini Caduti in tutte le battaglie.
A lungo coltivano il proposito di erigere un monumento all’Alpino a ricordo dei loro compagni in Bergamo, formulando voti in occasione di adunate ed assemblee. Dalla mozione presentata il 24 febbraio 1957 al Consiglio Sezionale per l’erezione di un nuovo monumento, risulta che per la sua realizzazione – sempre procrastinata per problemi attinenti l’attività della Sezione – gli alpini avevano avanzato diverse proposte: chi lo voleva eretto nei giardini prospicienti il palazzo dell’Istituto Tecnico e chi ne escludeva l’erezione persino in una piazza; altri ancora avevano pensato ad un’opera di maggior imponenza, che unisse il fine prefissato all’utilità e alla valorizzazione artistico-turistica della città.
Non era possibile, per gli alpini, tradurre in cifre il contributo di sangue “della nostra gente bergamasca”. Realizzando l’iniziativa essi avrebbero “placato le ombre dei nostri Caduti spesso dimenticati” e lasciato “ai figli dei nostri figli il ricordo di una pagina di gloria e di sacrificio”.
Nel 1957 finalmente venne assunto un formale impegno da parte dell’assemblea sezionale, in ottemperanza al quale il Consiglio direttivo diede corso alle pratiche dando vita a un Comitato (3), nominando una Commissione tecnico-artistica (4) e indicendo un regolare bando di concorso nazionale (2 maggio 1957) per la scelta del progettista e dello scultore che avrebbe dovuto occuparsi esclusivamente della realizzazione dell’opera.
I progetti dovevano pervenire entro il 31 dicembre 1958, in quanto inizialmente l’anno fissato per l’inaugurazione del monumento era il 1960.
Nel bando il Comitato voleva dare alla città un’opera che esprimesse qualcosa di nuovo pur ricalcando lo spirito antico. Avrebbe perciò dovuto associare elementi simbolici a quelli ornamentali, traendo ispirazione, “sia pure in una vastissima gamma di possibilità espressive, dalla secolare tradizione alpina della gente orobica”, al fine di “suscitare nel pubblico un senso di rispetto e di ammirazione per il largo contributo che le genti bergamasche hanno dato in pace e in guerra alla formazione dei reparti alpini”.
DAL CONCORSO ALLA POSA DELLA PRIMA PIETRA
La partecipazione al concorso fu imponente: ben 40 artisti inviarono dalle più diverse parti d’Italia i loro bozzetti, nessuno dei quali fu ritenuto rispondente allo spirito e alla lettera delle direttive impartite. Si indisse quindi un concorso di secondo grado tra i sette artisti che avevano presentato le opere di maggior pregio, dividendo fra di essi i premi stabiliti nel bando, quale contributo per i nuovi bozzetti da presentare.
In questa seconda fase la commissione trovò l’opera che rispondeva ai requisiti richiesti, ma non tralasciando di suggerire alcune modifiche.
Vincitore fu un collettivo composto dallo scultore bolognese Peppino Marzot, dagli architetti Giuseppe Gambirasio, bergamasco, Aurelio Cortesi, di Parma, Nevio Parmeggiani, di Bologna. Al secondo e al terzo posto si classificarono rispettivamente lo scultore Giuseppe Cassani e lo scultore Giancarlo Marchesi.
Scelto il bozzetto, nel 1959 si provvide a dare corso all’esecuzione dell’opera, d’intesa con il comune di Bergamo, che convinto della nobiltà del monumento metteva a disposizione una delle migliori zone della città bassa – il Giardino Lussana – e prestava ogni sua possibile collaborazione.
Non per nulla, il sindaco Tino Simoncini era un alpino; alpini erano molti assessori e consiglieri comunali ed alpini si sentivano un po’ tutti i membri dell’amministrazione della città dei Mille, della città capoluogo di una provincia che tanti suoi figli aveva dato e continuava a dare ai reparti alpini.
Lo spirito e la solidarietà alpina (circa diecimila gli associati) con l’ausilio del Comune di Bergamo, dalla Provincia, di alcune banche, altri Enti e privati, ne permisero la realizzazione (5).
Per assicurarsi che il terreno fosse atto a sopportare il peso del monumento, si dovette ricorrere a un’indagine da parte di esperti del Politecnico di Torino, dopodiché, con la posa della prima pietra avvenuta il 31 gennaio 1960 alla presenza delle autorità cittadine, malgrado i problemi tecnici e soprattutto di carattere finanziario il desiderio degli alpini diveniva realtà.
Per desiderio di tutte le sezioni alpine bergamasche l’inaugurazione del monumento venne fatta coincidere con la 35ª Adunata Nazionale degli alpini, prevista a Bergamo per il 1962. Per Bergamo sarebbe stata la prima adunata.
Nel momento in cui la statua era in fusione, qualcuno si accorse che sul cappello dell’alpino mancava la famosa “penna” e si dovette provvedere in gran fretta.
18 MARZO 1962: L’ INAUGURAZIONE DI UN MONUMENTO DA OSSERVARE CON IL CUORE
Nessun altro monumento cittadino ebbe un tale concorso di folla, neppure quello dedicato a Donizetti. Gli alpini giunti a Bergamo furono, secondo la voce ufficiale dell’ANA, 70.000; altri ne contarono 80.000, altri ancora 100.000; tutta la città fu un brulicare di cappelli alpini che la invasero gioiosamente da ogni parte d’Italia e con ogni mezzo.
La 35ª Adunata nazionale dell’Associazione Alpini si era aperta ufficialmente il 17 marzo – giorno antecedente la cerimonia d’inaugurazione -, con l’omaggio del Consiglio Direttivo al monumento innalzato a Cassanno d’Adda all’ideatore delle milizie alpine e fondatore del Corpo, Giuseppe Domenico Perucchetti.
Nello stesso giorno, il Consiglio depose corone d’alloro alla Torre dei Caduti e al monumento ai Fratelli Calvi e in Comune si svolse un ricevimento ufficiale durante il quale il sindaco, avv. Costantino Simoncini, espresse tutta la simpatia e l’affetto della città per gli alpini.
Alpini che per due giorni furono i padroni assoluti di Bergamo, tanto che non c’era via o piazza dove non si vedessero penne nere. Sul loro incontenibile entusiasmo – che travolse transenne, forze dell’ordine, cordoni e quant’altro potesse tenere la gente lontana dagli alpini – si regolò la stessa vita cittadina. E l’organizzazione venne messa a dura prova.
La mattina del 18 marzo tutti i gruppi alpini si riunirono in località Conca d’Oro per organizzare e dare vita alla grande sfilata che durò oltre quattro ore. Considerato il gran numero di persone giunte in città venne stabilito di iniziare le cerimonie con l’inaugurazione del monumento, cui doveva poi seguire il corteo: l’inverso di quanto in genere si faceva per l’inaugurazione dei monumenti.
Alle 9,15 circa di quel 18 marzo, una quarantina di minuti dopo rispetto all’orario stabilito, per il ritardo dell’aereo che trasportava l’allora Capo del Governo Fanfani e il ministro della Difesa Andreotti, cominciò la grande manifestazione, alla presenza delle massime autorità della città e dell’ANA.
Davanti al monumento era stata eretta una vasta tribuna e, fra questa e il monumento, l’altare da campo. Sulla sinistra erano schierati i reparti di truppa alpina e d’artiglieria da montagna del 5° con relativa banda nonché un reparto del 68° Rgt. Fanteria.
Attorno all’altare erano sistemati i gonfaloni comunale e provinciale, il labaro nazionale dell’A.N.A. con le 209 medaglie d’oro, quello della sezione di Bergamo e del Nastro Azzurro, bandiere, labari, fiamme e gagliardetti di tutte le associazioni patriottiche e d’arma, e dei 160 gruppi della sezione di Bergamo.
Mons. Piazzi, vescovo di Bergamo, dopo aver dato lettura del telegramma inviato per l’occasione agli alpini da S.S. Giovanni XXIII° e vergato dal Card. Cicognani, benedì la bronzea figura dell’alpino che si inerpica per il camino, delimitato dalle due alte guglie. Subito dopo, l’ordinario militare mons. Pintonello celebrò la santa messa.
Al termine il presidente della sezione di Bergamo, dott. Gori, rivolto un breve saluto alle autorità ed agli alpini e fatta una sintesi della storia del monumento, lo consegnò ufficialmente alla municipalità; il Sindaco, ringraziando, garantì che sarebbe stato custodito “come una cosa cara, con l’amore che si riserva ai simboli di una passione accompagnata dai fremiti dell’emozione profonda”.
Ebbe quindi inizio la grande sfilata aperta dalla bandiera del 5° Reggimento seguita dal colonnello La Verghetta, dalla fanfara del 5°Alpini, da un gruppo di alpini con le più vecchie uniformi e dal battaglione d’onore formato da una compagnia di alpini e una batteria di artiglieria da montagna. Il battaglione di formazione dell’Orobica più che aprire la sfilata dovette fendere un corridoio tra la folla per poter defluire agevolmente sul percorso stabilito.
Subito dopo, veniva il labaro dell’Associazione Nazionale portato dalla medaglia d’argento Angelo Mora, alpino di Schilpario e scortato dal Presidente nazionale avv. Erizzo, dal segretario Nobile, dagli alpini che nel 1919 fondarono a Milano l’Associazione Alpini e da tutto il Consiglio Direttivo.
Il corteo continuava con il gonfalone di Bergamo decorato della medaglia d’oro al valore risorgimentale accompagnato dal sindaco Simoncini – ufficiale alpino medaglia d’argento – e dai membri della Giunta comunale; appresso seguivano i rappresentanti delle associazioni d’arma con i labari; quindi i mutilati e gli invalidi di guerra.
Iniziò poi la sfilata dei “veci” in congedo delle diverse sezioni.
I primi ad aprire la sfilata furono gli alpini della sezione di Zara, di Fiume e di Pola, tre città italiane per le quali combatterono tutti i “veci” del ‘15-’18; essi portavano uno striscione che a fatica riusciva ad avanzare in mezzo alla folla: “Gli alpini della Dalmazia e dell’Istria, vivi e morti sono qui”.
Ad essi facevano seguito gli alpini che si trovavano all’estero, delle sezioni di Montevideo, del Belgio, della Svizzera e della Francia. Mentre non erano ancora spenti gli applausi per queste penne nere, scoppiò fragoroso l’entusiasmo per gli alpini della città di Trieste, la città che ha maggiormente sofferto per unirsi alla madrepatria.
Il monumento venne sentito come un giusto tributo d’onore e di amore verso i compagni, che per la Patria avevano immolato la vita, dall’Africa alle due grandi guerre mondiali del ‘15-’18 e del ‘40-’45. Venne pensato per ricordare e celebrare l’eroismo e il sacrificio di migliaia di bergamaschi che nei reparti alpini hanno combattuto e sofferto per la Bandiera Italiana e di tutti coloro che in ogni tempo hanno compiuto e compiono il loro dovere da alpini.
Per quattro ore gli alpini di tutte le sezioni d’Italia sfilarono in corteo lungo il Viale Vittorio Emanuele e viale Roma, l’attuale viale Papa Giovanni, fra due ali compatte di folla plaudente e commossa.
A due anni dall’inaugurazione del monumento, l’opera si completò nel modo più degno, intitolando il Giardino Lussana a “Piazzale degli Alpini”.
Note
(1) Secondo Gualandris (Op. cit.) fu nel 1938 che il monumento ed il Comando ripresero la strada per Milano, da cui dovettero ripartire nel 1946 perché il Comando era stato trasferito a Merano. Gli alpini di Milano però chiesero ed ottennero che in quella città venisse inviata una copia del monumento e, da allora, rimase della metropoli lombarda in via Pagano.
(3) Commissione composta dal dott. Giovanni Gori, presidente; dott. Guglielmo Abate, segretario; rag. Renzo Cortesi, tesoriere. Inoltre, dal magg. Vittorio Galimberti; l’avv Giovanni Rinaldi; i ragionieri Giacomo Bertacchi, Gerolamo Dominoni, Aldo Farina, Giuseppe Maffessanti, Cesare Omboni; i dottori Antonio Leidi, Livio Mondini, Alessandro Valsecchi (Arnaldo Gualandris, Op. cit.).
(4) A componenti della commissione tecnico-artistica furono nominati il Presidente della sezione bergamasca dell’Associazione Alpini, dott. Giovanni Gori, i due vice presidenti magg. Vittorio Galimberti e rag. Giuseppe Maffessanti, il consigliere nazionale dott. Antonio Leidi, lo scultore Mingozzi, professore della Brera di Milano, il prof. Trento Longaretti, direttore della Scuola d’arte dell’Accademia Carrara, l’arch. Giuseppe Pizzigoni, per designazione dell’ordine degli architetti e l’ing. Federico Rota, allora presidente dell’ordine degli ingegneri (Arnaldo Gualandris, Op. cit.).
(5) Il piano finanziario predisposto per reperire i dieci milioni dei quindici preventivati, riguardava esclusivamente gli iscritti dell’associazione alpini di Bergamo. L’onere gravante su ognuno di essi ammontava a lire 1.000, da versarsi anche in più rate, purché entro il 1960 (anno fissato in un primo tempo per l’inaugurazione del monumento). Per i rimanenti 6 milioni il Consiglio pensava a contributi di enti e privati. Ma dopo la scelta del bozzetto, le modifiche apportate allo stesso e l’adozione dei materiali più rispondenti ad un’opera di tanta importanza, la spesa lievitò notevolmente raggiungendo, con la sistemazione anche dei giardini, la cospicua somma di 48.000.000 (A. Gualandris, Op. cit.). In un bollettino dell’ANA l’ammontare fu invece di 46.000.000, raccolti interamente tra gli alpini bergamaschi.
Riferimenti
Arnaldo Gualandris, Monumenti e colonne di Bergamo, a cura del Circolo Culturale G. Greppi. Bergamo, 1976 (con introduzione di Alberto Fumagalli).
Con la dominazione austriaca (1815-1859), a Bergamo si avviano i primi consistenti processi di mutamento della città in senso moderno, che segnano un periodo di forte espansione economica e di una gestione della cosa pubblica esemplare dal punto di vista del’efficientismo amministrativo e della organizzazione urbana.
Nella prima metà del secolo, con l’ascesa della nuova borghesia produttiva lo “scivolamento” della città al piano si fa più consistente, portando a compimento le trasformazioni della struttura urbana già avviate nel periodo napoleonico.
Dal 1732 l’antichissimo mercato di Bergamo, posto a metà fra i borghi, può finalmente avvalersi di una Fiera stabile in muratura, disposta su un’area quadrata con 540 botteghe. Verso sud il Sentierone, parallelo alle Muraine, diventa un’arteria per il collegamento dei borghi.
Con l’erezione dei Propilei in stile neoclassico nel 1837, nella Barriera daziaria delle Grazie viene aperto il varco di Porta Nuova, rappresentando simbolicamente l’ingresso monumentale alla città degli affari.
L’anno successivo (1838), in occasione della visita a Bergamo di Ferdinando I d’Austria inizia la costruzione del primo tratto della Strada Ferdinandea (futuro Viale Vittorio Emanuele), che, partendo da Porta Nuova laddove s’incontrano le due spine dei borghi che da Città alta si protendono al piano, sale con un lungo rettilineo tagliando gli orti e i grandi broli dei monasteri fino alla Porta di Sant’Agostino.
Grazie alla Ferdinandea, da un lato viene superata quella frattura con Città Alta creata a partire dal 1561 con la costruzione delle mura veneziane e, dall’altro, si viene a creare una vera e propria arteria moderna, che presto diverrà la spina dorsale intorno alla quale verrà ridisegnato l’intero volto della città.
Nel 1857, quando la ferrovia raggiunge Bergamo viene eretta la Stazione Ferroviaria – in asse con Porta Nuova – e lo scalo merci.
Demolita la quattrocentesca chiesa di S. Maria delle Grazie – che avrebbe impedito la prosecuzione assiale del viale -, la Strada Ferdinandea viene prolungata verso sud fino alla stazione (chiamandosi in questo tratto viale Napoleone III), completando la spina dorsale della futura “Città Bassa”, attorno alla quale si sviluppa una intensa attività edilizia ed urbanistica che, soprattutto dopo gli anni post-unitari, porterà alla formazione di un nuovo centro.
Intanto con l’800 si va sempre più consolidando il trasferimento delle sedi del potere amministrativo e statale nei pressi della Fiera, con la costruzione di edifici pubblici di corrente tardo-neoclassica disposti lungo il corso che unisce i due borghi centrali, quello di S. Leonardo e quello di S. Antonio, che ancora si configurano come il margine netto di passaggio tra l’urbano e la campagna.
Nel frattempo la finanza bergamasca si evolve e modernizza attraverso lo sviluppo del sistema bancario e la collocazione di nuove sedi, mentre alla fine del secolo si osserva la costruzione del Manicomio e del Ricovero (1892), del Cimitero monumentale (1896) e del Teatro Donizetti (già Teatro Riccardi). Decisivo per l’espansione della città sarà l’abbattimento delle Muraine nel gennaio del 1901, mentre la discussione sulla Fiera darà luogo alla costruzione del centro piacentiniano.
L’AREA DELLA STAZIONE
Il monumentale, sovradimensionato rettifilo intitolato a Napoleone III (oggi viale Papa Giovanni XXIII), espressivo di un’epoca caratterizzata dal monumentalismo neoclassico e dalla moda del passeggio, viene delimitato da filari e alberature che ne evidenziano il ruolo e l’importanza.
Le mappe catastali del 1853 e del 1866 depositate presso l’Archivio di Stato di Bergamo documentano le trasformazioni avvenute nell’area a sud del monastero delle Grazie: una zona ancora fortemente rurale (se si esclude il monastero, due case coloniche, le fabbriche del Salnitro e per la filatura del Cotone nonché un piccolo deposito per le bestie infette), che, come detto, con la scelta localizzativa della Stazione Ferroviaria e la creazione del grande viale Napoleone III – prosecuzione della Ferdinandea -, manifesta il primo segno di apertura a sud della città.
Gli spazi ad est del viale, sul sito dell’attuale piazzale degli Alpini, vengono riorganizzati mediante la creazione della Piazza d’Armi (nota come “Campo di Marte” e luogo di esercitazione militare), in funzione della quale, sull’estremità orientale, in corrispondenza dell’attuale via Foro Boario viene costruita la struttura del “Bersaglio” con il suo lungo corridoio di tiro.
Per creare la piazza d’Armi, viene deviata e canalizzata la roggia Morlana, di cui abbiamo una bella testimonianza.
L’esigenza di donare una nuova funzione agli spazi e ai luoghi della città bassa richiede una nuova collocazione degli usi esistenti e pertanto, in seguito al nuovo progetto della sede della Provincia nel 1865 il Mercato del Bestiame viene trasferito nella Piazza d’Armi, proseguendo il suo lungo itinerare, vecchio quanto la storia della città.
Nasce da qui la denominazione di Foro Boario (in latino Forum Boarium o Bovarium), toponimo mutuato da un’area sacra e commerciale dell’antica Roma collocata lungo la riva sinistra del fiume Tevere, tra i colli Campidoglio, Palatino e Aventino, che prese il nome dal mercato del bestiame che vi si teneva.
I MERCATI DEL BESTIAME NEL TEMPO
Se in antico i mercati si tenevano nell’antica “Platea S. Vincentii” (attuale area del Duomo), dove a cadenze fisse affluivano i prodotti del territorio (sale, biade, formaggi, ferramenta e panni, bestiame…), con lo straordinario sviluppo commerciale nel periodo della dominazione veneziana il mercato cittadino si frazionò in alcune piazze che nella loro attuale denominazione ancora richiamano l’antico ruolo merceologico: Mercato del Fieno, Mercato del Pesce, Mercato del Lino (ora piazza Mascheroni), Mercato delle Scarpe, dove – afferma Luigi Volpi – si teneva il mercato degli asini e dei buoi, spostato nel 1430 a Porta Dipinta.
Nel Duecento in tutta la città solo una beccheria gestita dal Comune era autorizzata alla macellazione e alla vendita e doveva essere già localizzata nell’attuale via Mario Lupo nelle botteghe di proprietà dei Canonici di San Vincenzo. Dopo due secoli le beccherie erano quattro, di cui una in borgo Pignolo, una in San Leonardo e una in Sant’Antonio.
la “Domus Calegariorum”, in piazza Mercato delle Scarpe, ospitava anche il Paratico dei Beccai (macellai), dove oggi sorge il palazzo della funicolare.
Intanto nella città al piano, già prima dell’anno Mille, in coincidenza con le festività del santo patrono si teneva una grande fiera annuale nel Prato di S. Alessandro, dove con il tempo confluirono tutti i mercati della città, divenendo ben presto un centro economico e finanziario di grande importanza nel circuito delle fiere cittadine italiane ed europee: tanto che alla metà Cinquecento, grazie alla sua grande capacità produttiva Borgo S. Leonardo sembra già somigliare a una piccola città nella città, mentre cresce la tendenza al trasferimento di funzioni sempre più importanti del centro cittadino – la Città alta – verso la città Bassa (trasferimento che aumenterà significativamente con l’erezione delle mura veneziane, erette fra il 1561 e il 1595, ritrovando nuovo vigore nel Sette/Ottocento).
Nel vasto prato di S. Alessandro, la scarsa durata della manifestazione commerciale (pochi giorni alla fine di agosto), non pretendeva strutture o infrastrutture speciali, se non terreno sgombro ed acqua; ma il sistema di seriole e rogge già esistente e perfezionato nel Quattrocento garantiva il buon funzionamento del periodico affollarsi, oltre che di merci, anche di bestiame, qui presente sin dal 1579 in un mercato settimanale; nel 1593 i Rettori concessero che si tenesse i primi quattro giorni della prima settimana intera di ogni mese.
Anche se non è semplice stabilire come fosse distribuito tale mercato, è noto che in fiera, insieme alle più svariate mercanzie locali affluiva il bestiame allevato nella pianura e nelle valli, da dove scendevano in gran numero animali provenienti da zone specializzate in allevamenti: cavalli da Selvino, pecore da Clusone e Parre (1), muli (dei quali si faceva molto uso nelle miniere per il trasporto del minerale, del carbone, del ferro, ecc.), buoi e vitelli dalla valle Seriana, per i quali si conservava libera una determinata zona.
Da una relazione fatta dagli ispettori della Repubblica Veneta nel 1591 si parla di un mercato dei cavalli lungo la strada che va dal borgo di S. Antonio a S. Leonardo, mentre Gelfi allude per quel periodo ad un mercato del bestiame, specialmente bovino, che si teneva i primi tre giorni della prima settimana del mese (2).
Il bestiame diretto in città sostava nella piana di Valtesse (in antico detto Tegies o Teges per le sue tettoie atte al ricovero delle bestie), dove in parte doveva essere allevato.
Nel Settecento, presso il Prato di S. Alessandro si tenevano due mercati del bestiame: uno a maggio e l’altro dal primo all’otto novembre, in occasione del “mercato dei Santi” (il terzo dei mercati annuali cittadini insieme a quelli di S. Antonio e S. Lucia), dove veniva commerciato “bestiame d’ogni specie ed in copiosa quantità”. Più tardi il governo napoleonico dispose l’allontanamento del mercato del bestiame dalla zona del Sentierone, con la dichiarata volontà di migliorare le porte di accesso alla Fiera, come vetrina della città moderna.
Tralasciando le tante notizie contraddittorie riportate dalle fonti per l’Ottocento, una una carta del 1809 attesta il Mercato dei Cavalli tra il Portello delle Grazie e il Teatro Riccardi (oggi Donizetti), mentre nella Pianta del 1816 disegnata dal Manzini l’indicazione generica di Mercato del Bestiame compare tra l’attuale Prefettura e l’allora Teatro Riccardi (3), non molto distante dal vecchio Campo di Marte (Piazza d’Armi).
Dopo la metà dell’Ottocento, in previsione della costruzione della sede della Provincia si realizzò un nuovo Mercato del Bestiame presso la nuova Piazza d’Armi, nel grande prato che presto assunse il nome di Foro Boario: un’ampia zona che comprendeva l’area dell’attuale Piazzale degli Alpini e della Stazione delle Autolinee.
IL FORO BOARIO, IL MERCATO DEL BESTIAME E IL MACELLO
Come osservato, nel 1857, con l’erezione della Stazione Ferroviaria e l’apertura dell’attuale Viale Papa Giovanni XXIII la città aveva aperto un varco verso sud, continuando quell’opera di rinnovo urbano che era cominciata nel 1837 con l’apertura della Porta Nuova e l’erezione dei Propilei – ingresso monumentale e qualificato alla città degli affari -, seguita immediatamente dall’apertura della Strada Ferdinandea.
Tutta l’area a sud delle Muraine iniziava ad assumere una nuova configurazione, cambiando il volto di un’area che da rurale si apprestava a diventare “urbana”.
Attraverso le mappe del 1876 e del 1892, leggiamo le trasformazioni avvenute nella zona, che riscontriamo anche nelle tante immagini giunte a noi.
Dal 1865 il nuovo Mercato del Bestiame occupa dunque la Piazza d’Armi presso la Stazione, e suddiviso in Mercato dei Cavalli, dei Bovini e dei Suini (4), attira una vivace folla di compratori e venditori, animando tutta la zona.
Una bellissima fotografia di Cesare Bizioli, risalente al 1885, rende bene l’idea della collocazione del Mercato, posto in corrispondenza dell’attuale piazzale degli Alpini.
Almeno dal 1876 si inizia a tracciare la via del Macello (attuale via A. Maj) fino alla rogge Nuova e Morlana, ed entro il ’92 la via sarà completata, delimitando il lato nord del piazzale con il nuovo fronte del Macello comunale (1890), che possiamo ammirare nelle splendide immagini che seguono.
Intanto, entro il 1876, all’imbocco del piazzale della Stazione sorge il piccolo bar-ristorante intestato a Luzzana Maddalena, poi divenuto Albergo Stazione ed oggi sede di Mc Donald, in Piazzale Guglielmo Marconi.
Alla soglia del 1892 il Foro Boario, dopo la copertura delle rogge e alcuni accorpamenti compare nella sua massima estensione, con le due gradinate che lo delimitano verso il viale per superare il dislivello e il fronte est corrispondente all’attuale via Foro Boario delimitato dal muro dell’ex-Bersaglio.
All’interno, compare la tettoia per l’alloggiamento dei cavalli, realizzata nel 1889 ed in seguito ridimensionata.
Mentre il grande viale e l’area del Foro Boario acquistano via via una loro definizione, a sud è comparso l’edificio della Ferrovia della Valle Seriana (1882-1884 circa) ed entro il 1906 sarà realizzato quello liberty della Valle Brembana, rappresentando una nuova opportunità economica e un
ulteriore radicamento della centralità di Bergamo nel contesto
montano.
Nel 1892 la via Paleocapa è ancora da attuare ma già delineata, con in testa il nuovo Palazzo Dolci, eretto in stile eclettico all’incrocio con il viale della Stazione.
Oltre il viale della Stazione si sta delineando la passeggiata in continuità del viale stesso con alcuni edifici sparsi .
Verso la fine dell’Ottocento, sul lato orientale è quasi completamente aperta la via Foro Boario, impostata sul sito dell’antico Bersaglio, a collegare l’area del Macello con la Stazione Ferroviaria.
Agli albori del Novecento, la qualificazione architettonica di tutta l’area ulteriormente viene favorita dalla realizzazione in stile liberty della Stazione della Valle Brembana (1904-1906 arch. R. Squadrelli).
Nel frattempo in viale Roma emergono, in posizione frontale al Foro Boario Casa Paleni (1902-1904), commissionata da Enrichetta Zenoni Paleni a Virginio Muzio e dalla ricca facciata in stile liberty.
Emerge poi per la compattezza anche se con una composizione più rigida la Casa del Popolo, progettata inizialmente da Virginio Muzio (scavi e posa della prima pietra risalgono al 1904), ma variamente realizzata da Ernesto Pirovano e completata nel 1908, anno della sua inaugurazione.
Dagli inizi del Novecento, anche se in tutto il territorio bergamasco la zootecnica restava una una coltura piuttosto povera e poco evoluta, il Mercato del Bestiame era diventato il principale della Lombardia, grazie alla posizione strategica delle città che catalizzava la produzione proveniente soprattutto dai distretti montani.
Ogni settimana venivano messi in vendita circa 15.000 cavalli, 2.000 fra muli e asini, 25.000 bovini adulti, 2.000 vitelli, 3.000 tra pecore e capre e 3.000 suini (l’afflusso nel corso dell’anno variava a seconda dell’andamento stagionale).
Il mercato, però, serviva soprattutto per l’esportazione, dato che la popolazione operaia era vegetariana “per necessità”, causa le scarse disponibilità economiche (5).
Tuttavia, verso il 1915, quando il Foro Boario perse la sua agibilità a causa della costruzione di nuovi edifici, il Mercato del Bestiame venne trasferito alla Malpensata, a quei tempi estrema periferia. Nel frattempo, in occasione delle celebrazioni del centenario del Donizetti (1897) si faceva strada l’idea di riqualificare architettonicamente ed urbanisticamente sia il viale Vittorio Emanuele e sia il Foro Boario, porta d’ingresso alla città dalla stazione: i lavori per la costruzione dell’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II e del giardino antistante (attuale piazzale degli Alpini) si avvieranno a partire dal 1921.
Intanto il Consiglio Comunale decideva di concentrare diversi mercati presso il Foro e nel 1909 deliberava di adattare 1.700 mq da destinare ad un eterogeneo “Mercato delle verdure”, da tenersi parallelamente al Mercato del Bestiame. Si commerciavano prodotti come latticini, granaglie (frumento, granoturco, orzo, segale), riso, lenticchie, fagioli e patate, che costituivano l’alimentazione principale per la maggior parte delle persone (6): con la riqualificazione del Foro Boario, il Mercato delle verdure dovette confluire – se non tutto, almeno in parte – presso la struttura a pianta ellittica del Mercato ortofrutticolo, costruita su progetto di Ernesto Pirovano (1913-16), con l’affaccio principale su via S. Giorgio. Sotto i suoi porticati liberty avveniva la vendita quotidiana di frutta e verdura, mentre l’edificio principale ospitava gli uffici di controllo e i depositi merci.
IL CICLODROMO/IPPODROMO E BUFFALO BILL
Alla fine dell’Ottocento, fuori la vasta area del Foro Boario, verso l’attuale via Fantoni venne realizzata la struttura del Ciclodromo, teatro di sfide fra corridori ciclisti anche stranieri – dove di certo non mancavano le scommesse – utilizzato anche come Ippodromo.
Nelle intenzioni della società che lo gestiva (la “Società Bergamasca di Sport e Ciclodromo”) avrebbe dovuto essere un grande impianto sportivo, il primo in città per le riunioni velocipedistiche.
La struttura, presente nelle piante dell’epoca, dovette restare in uso per una ventina d’anni, dal momento che in una cartina del 1920 non è più evidenziata.
In un secondo momento, un altro Ippodromo sarà realizzato nell’area tra l’ex Lazzaretto e i Celestini, da dove dovrà sloggiare nel 1928 per l’erezione dello Stadio Brumana: nella seconda piantina infatti l’Ippodromo accanto al Lazzaretto compare in concomitanza con la struttura del Ciclodromo presso il Foro.
Gli avventori erano accolti all’ingresso da una facciata posticcia, dipinta in stile neogotico su di un rivestimento in legno, con la denominazione della Società in bella mostra.
La pista ebbe un ospite d’eccezione, Buffalo Bill, che all’inizio del secolo si esibì in città per ben due volte (compreso il 1906) a distanza di pochi anni, offrendo uno spettacolo ricco di connotazioni esotiche, non solo con indiani d’America ma anche con cosacchi, arabi, africani… Vi fu anche la singolare sfida con un ciclista bergamasco, Perico, e dopo un’emozionante gara, il grande cow boy a cavallo batté il concorrente in velocipede.
Nel 1906, lo show si svolse in una struttura coperta (un tendone da circo?), sfruttando l’energia di un potente generatore elettrico. I dettagli di questo evento sono descritti minuziosamente da L’ Eco di Bergamo del 3 maggio 1906.
IL MERCATO DEL BESTIAME ALLA MALPENSATA: NASCE IL MERCATO DEL LUNEDI’
Verso il 1915 dunque, il riassetto di tutta l’area del Foro Boario e la costruzione di nuovi edifici avevano dato luogo al trasferimento del Mercato del Bestiame nell’allora periferico piazzale della Malpensata, reso agibile in seguito alla recente dismissione del Cimitero di San Giorgio, che si trovava tra la chiesa omonima e il piazzale.
E fu grazie al nuovo Mercato del Bestiame, che si teneva il lunedì, che si consolidò l’usanza di allestire alla Malpensata il grande ed eterogeneo “mercato del lunedì”, dove sino a poco tempo fa si smerciavano i prodotti più svariati.
Il lunedì, giorno di mercato, i primi a riversarsi in città erano i mandriani provenienti dal contado, che si davano di turno e di cambio ogni qualche lunedì; viaggiavano sistemati per lo più su carri e carretti trainati da cavalli e talvolta da muli, stracolmi di bovini destinati al macello o al mercato che lo concerneva.
“Tentavano l’avventura nella città e i meno timidi addirittura all’ingresso di quelle case un po’ riposte le cui vestali, come se li trovavano davanti, subito li portavano al lavandino del servizio annesso alle stanze fatali per un cautelare ‘rigoverno’. Un’operazione sempre opportuna prima degli abbandoni a mercenarie lascivie”.
Per le povere bestie, il viaggio verso Bergamo “era una tappa interlocutoria verso la soluzione finale che gli animali presentivano e denunciavano in lamentazioni struggenti; lamentazioni che nella bella stagione risvegliavano subito quei cittadini che dormivano con le finestre aperte. C’era poi anche il sottofondo, il grufolio dei porcelli contrappuntato, nel periodo pasquale, dai belati delle caprette che già vedevano il figlioletto sgozzato, arrostito e offerto in bella vista tra verdi grasèi e gialle polente”. A questi suoni si univano le urla dei venditori.
Dopo le bestie e i mandriani, al mercato arrivavano i mediatori – col fazzoletto al collo tenuto da un anello – i venditori e i rivenditori, così come gli acquirenti di granaglie e di concimi, gli allevatori con i loro esperti di fiducia, i rappresentanti delle ditte produttrici di attrezzi e macchine agricole.
Tutti armati di taccuini e di matite copiative, si allogavano ai tavolini dei caffè e delle mescite del centro, dove alcune osterie raccoglievano i mediatori delle valli ed altre quelli della pianura. Solitamente il Caffé Dondena (poi demolito) raccoglieva i subalterni, mentre i “padroni” si recavano al Cappello d’Oro, dove poi avrebbero pranzato.
Nel secondo pomeriggio, dopo aver congedato i mercanti ormai ubriachi (qualcuno diretto alla corriera ed altri a piedi, spingendo col bastone fino a casa le bestie acquistate), costoro prendevano la via di quelle case dove già avevano indugiato i giovani mungitori, aggirandosi in quei vicoli intorno a Piazza Pontida, dai nomi un po’ misteriosi (del Bancalegno, dei Dottori, di San Lazzaro, della Stretta degli Asini) dove “pulsava la presenza, domiciliare e lavorativa, di signorine o ex signore, talora anche un po’ sul declino, dai fascinosi nomi d’arte: la Parigina, la Sigaretta, la Fornarina, l’Avorio Nero, la Nuvola. Le favorite degli operatori del lunedì che più potevano spendere e che potevano anche concedersi una cenetta al Ponte di Legno” (7).
Quando il sole cedeva alla sera e si rinfrescava l’aria, Città alta si profilava nel cielo nitida e sola, ed estranea ai mercati del Borgo sembrava una gran dama, che dal suo balcone assisteva sorridente a una festa di paese.
Resistettero quei lunedì non troppo oltre l’ultimo dopoguerra.
Negli anni Cinquanta, specialmente in occasione del “mercato del lunedì” il palazzo della Borsa Merci fu a lungo sede di contrattazioni ed infine si pensò alla realizzazione di un nuovo Mercato del Bestiame e di nuovo Macello pubblico.
LA TRADIZIONE DEL LUNA PARK
Come testimoniato dalle tante immagini giunte a noi, per molto tempo l’antesignano del Luna Park trovò la sua collocazione ideale nell’allora Piazza Baroni, sull’area oggi compresa tra il Palazzo di Giustizia e il Palazzo della Libertà, a pochi passi dai pazienti ricoverati presso il vecchio Ospedale di San Marco, a lungo costrette a condividere la promiscuità con gli schiamazzi e gli olezzi provenienti dall’area.
Era la parte riservata al divertimento della Fiera di Sant’Alessandro, che richiamava un gran numero di persone dalla provincia e dalle regioni vicine. Arrivavano giocolieri, saltimbanchi, piccoli circhi, ambulanti; meraviglie e attrazioni di ogni genere: le oche ammaestrate, la donna barbuta, il gorilla, la balena impagliata. Ma venivano presentate anche le meraviglie del secolo, compresa la fotografia, che un fotografo ambulante portò a Bergamo poco dopo l’invenzione di Daguerre.
Con l’abbattimento della Fiera verso la fine degli anni Venti, il Luna Park trovò una sede più idonea presso il Foro Boario, dove – racconta Luigi Pelandi – si ergeva solitamente un grande anfiteatro a mo’ d’arena e dove soprattutto durante il periodo della Fiera si combinavano delle ascensioni con il globo aerostatico, esercizi di acrobazia, esibizioni ginniche, corse di cavalli, ed altro ancora.
In seguito, per un breve periodo si posizionò nei giardini della Casa del Popolo (sede odierna de L’Eco di Bergamo) e successivamente, per un certo periodo (verosimilmente nel dopoguerra) dovette sostare nel grande campo incolto che si estendeva tra l’attuale piazza della Repubblica e viale Vittorio Emanuele.
Agli albori degli anni Cinquanta, la costruzione del palazzo dell’INPS e la riqualificazione del piazzale costrinsero i baracconi della Fiera di Sant’Alessandro a trasferirsi sul piazzale di terra battuta della Malpensata, dove periodicamente, da qualche tempo doveva stazionare il Circo equestre, di cui si conserva una testimonianza.
Una fotografia datata 1957/58 – Elefanti alla “Zuccheriera” di Porta Nuova – attesta per quegli anni la presenza di un Circo equestre nelle vicinanze del centro; l’abbigliamento estivo dei bambini lascia supporre che la ripresa sia stata eseguita in primavera, in occasione dell’allestimento del Circo alla Malpensata.
In occasione della sistemazione del piazzale della Malpensata, messo a punto nel ’64, il Luna Park della festa patronale di Sant’Alessandro si trasferì presso il Piazzale della Celadina, dove rimase per una cinquantina d’anni finché di recente non venne spostato in un’area adiacente.
LA RIQUALIFICAZIONE DEL FORO BOARIO E LA COSTRUZIONE DELL’ISTITUTO TECNICO VITTORIO EMANUELE II
Mentre la nascita, tra il 1882 e il 1906, degli edifici delle Ferrovie delle Valli rappresenta un primo segno di qualificazione architettonica dell’area, sull’ampio piazzale si realizzano interventi tesi a razionalizzare e concentrare diverse attività, destinando – come detto – 1700 mq del foro per il Mercato delle verdure.
Con le celebrazioni del centenario del Donizetti (1897) comincia tuttavia a farsi strada un progetto di più ampio respiro, teso a riqualificare il viale Vittorio Emanuele e il Foro Boario, che costituiscono la porta d’ingresso alla città dalla stazione.
La decisione di collocare sul sito il nuovo palazzo per accogliere l’Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II (concepito come embrione di una cittadella degli Studi), realizzando il nuovo giardino pubblico antistante, sarà determinante nella definizione dell’attuale area del piazzale.
Dopo la posa della prima pietra il 23 settembre 1913 alla presenza del re Vittorio Emanuele III, l’edificio verrà costruito in due diverse fasi, di cui gli studi riportano date discordanti.
Il progetto, che prevedeva per il complesso un’impostazione a C e a prospetto lineare con un corpo centrale emergente, fu affidato all’ing. Michele Astori, ma venne indetto un concorso di architettura per la facciata nel 1913, vinto da Marcello Piacentini. Luigi Angelini coordinerà i lavori, su cui poi interverrà con delle modifiche l’ing. Ernesto Suardo.
La prima ala venne terminata nel 1922 e completata nel 1934-1936 con la variante del corpo centrale disegnato dal Piacentini (8), mentre il complesso è completato nel 1936 e nell’ottobre dello stesso anno è inaugurata l’ala nuova (9).
Nel corso dei lavori del primo lotto il Comune realizza il primo impianto dei giardini pubblici che, seppur diverso rispetto al progetto iniziale (10), è ben evidenziato nelle foto aeree del 1924 con la rete geometrica dei vialetti e il parterre della sezione centrale che enfatizza l’architettura aulica e monumentale del nuovo edificio. Le due ampie piazzole ai lati erano destinate ad aree di sosta.
Mentre l’intero Foro si anima Foro con la presenza di alcuni chioschi e di strutture di svago, Bergamo cresce; di lì a poco, tra il 1933 e il ’36 verrà realizzata la nuova Stazione delle Autolinee, che si raccorderà al giardino pubblico – posto a una quota inferiore – mediante un’ampia gradinata di collegamento.
L’ARRIVO DELLA STAZIONE DELLE AUTOLINEE CANCELLA LA TORRE E LO STADIO “BARLASSINA”
Nel 1957 la stazione è sottoposta ad una complessiva ristrutturazione per la realizzazione della Stazione delle Autolinee, in occasione della quale viene innalzato il grande arco di sostegno in cemento e tiranti e della struttura delle pensiline: il terminal venne ritenuto all’avanguardia.
E’ probabilmente in questa occasione che viene demolita l’alta torre che sorgeva a lato del fronte sud-est dell’Istituto Tecnico, la cui collocazione si precisa in alcune immagini di repertorio.
La ritroviamo in altre due riprese eseguite probabilmente per immortalare la piena del torrente Morla del ’37 e del ’49.
Ed è probabilmente a causa della realizzazione della Stazione delle Autolinee che viene abbattuto il piccolo Stadio Barlassina (11) che sorgeva a fianco della F.V.B. e di cui è difficile reperire la data di costruzione.
Si è osservato che l’origine del nome Barlassina potrebbe derivare dall’arbitro più famoso degli anni Trenta, Rinaldo Barlassina – di origine novarese – scomparso a Bergamo nel 1946 per un incidente stradale. Se ciò fosse vero, il campo di calcio dovette perdurare solo per pochi anni in quanto il piccolo stadio, con il fondo in in terra battuta, venne demolito agli inizi degli anni Cinquanta.
La struttura occupava parte dell’area dell’attuale Stazione delle Autolinee e confinava con la FVB.
D’estate il campo ospitava il celebre torneo detto “Notturno”, poi sostituito dal “Palio 18 Isolabella” che negli anni ’50/’60 si teneva ogni sera d’estate e con grande affluenza di pubblico sul campo dell’Olimpia nell’Oratorio di Borgo Palazzo, a cui partecipavano – profumatamente pagati e sotto falso nome – anche calciatori professionisti (12).
IL DOPOGUERRA E LA NASCITA DEL “GIARDINO LUSSANA”
Nel Dopoguerra, tra i vari progetti avviati per la ricostituzione del patrimonio arboreo delle aree verdi pubbliche devastate durante la seconda guerra mondiale, si avvia quello del “Giardino Lussana”, nome che assume il giardino antistante l’Istituto Vittorio Emanuele II.
Dopo qualche variante apportata nel luglio del ’46 viene realizzato il nuovo giardino progettato da Luigi Angelini, con il viale in asse con la facciata dell’Istituto e l’aiuola centrale con piazzola. Le immagini raccontano la sua evoluzione.
Nel frattempo via Paleocapa va assumendo il volto attuale.
DAL MONUMENTO ALL’ALPINO AL DECLINO E ALLA RINASCITA DELL’AREA
Nella Bergamo da tempo privata di un monumento dedicato agli alpini ed in seguito alle pressanti richieste degli alpini bergamaschi, nel 1957 si decide finalmente di issare in città un nuovo monumento. Per la collocazione la scelta cade sul Giardino Lussana, ed in seguito a un concorso nazionale vengono affidate agli arch. Giuseppe Gambirasio, Aurelio Cortesi e Nevio Armeggiani la progettazione, la collocazione e la realizzazione dello slanciato monumentocon vasche d’acqua dedicato agli alpini, mentre la scultura bronzea dell’Alpino arrampicante è di Peppino Marzot.
La posa della prima pietra avvenne il 31 gennaio del 1960 e per desiderio degli alpini bergamaschi l’inaugurazione viene fatta coincidere con l’adunata nazionale degli alpini, che si terrà a Bergamo il 18 marzo del 1962.
L’altezza del monumento diventa un preciso riferimento urbano, accentuando maggiormente la centralità dell’impianto del giardino – titolato d’ora in avanti Piazzale degli Alpini -, a scapito della visione del palazzo dell’Istituto Tecnico.
Negli anni 80 inizia il declino della Stazione delle Autolinee, con l’aumento degli scippi, delle rapine e soprattutto dello spaccio di droga. La sala d’aspetto diventa un bazar dello spaccio e ostello per sbandati e clochard di ogni sorta.
Mentre crescono le retate e i presidi delle forze dell’ordine, e crescono le telecamere, si muove anche la solidarietà con l’istituzione del camper di Don Fausto Resmini e i volontari della Caritas. Nel 2010 iniziano i lavori per riqualificare il piazzale degli Alpini per la costruzione del moderno Bergamo Science Center (arch. Giuseppe Gambirasio e Marco Tomasi), finchè non si approda all’ennesimo restyling dell’area, frutto di storia recente.
VECCHI RICORDI DI VIA ANGELO MAJ
Nel 1953 il vecchio Macello comunale di via A. Maj fu spostato alla Celadina e poco dopo la sua demolizione fu costruito l’istituto Secco Suardo.
Nella stessa via, oggi trasfigurata, c’erano altre attività storiche come il Mulino Oleificio Callioni, la Trattoria del Bue Rosso e l’edificio del Monopolio di Stato. Quest’ultimo era stato costruito prima della seconda guerra mondiale e per tantissimi anni aveva mantenuto la stessa impostazione: tabacchi sulla destra, sale sulla sinistra, un ampio cortile ombreggiato da un grande fico al centro.
Poi i Monopoli arrivarono al capolinea, con l’affidamento della manifattura e della distribuzione del tabacco ai privati ponendo fine a una delle ultime testimonianze di quella che può essere considerata una vera e propria epopea.
Dopo la loro privatizzazione, avvenuta tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del nuovo secolo, nel giugno del 2005 lo storico deposito di via A. Maj è stato ceduto dallo Stato e destinato a complesso residenziale e negozi, evocando nel nome (Residenza Monopoli) i gloriosi trascorsi.
Pur pur non presentando alcun pregio artistico, l’intervento edilizio, eseguito su progetto dell’architetto Pietro Valicenti, ha mantenuto, ristrutturandolo, il fronte su via Maj perché legato al vincolo imposto dal vecchio piano regolatore. L’unica modifica ha riguardato l’ampliamento dei riquadri sulla facciata che sono stati rimpiazzati da ampie finestre.
Note
(1) A Bergamo la lana era prodotta e commerciata già dal Duecento e nel ‘500 Bergamo, Milano e Como, costituivano di gran lunga la principale area laniera italiana e una delle principali d’Europa, cosicché, nella seconda metà del ‘500, grazie al raggio d’azione internazionale dei potenti mercanti bergamaschi legati soprattutto alla manifattura della lana (settore fondamentale in ambito tessile bergamasco), la grande Fiera di Bergamo godeva del suo massimo splendore. La manifattura tessile legata soprattutto al settore laniero legato ai panni di lana della Val Gandino (una delle componenti essenziali della Fiera) si esaurì rapidamente con la caduta della Repubblica di Venezia, per gli ostacoli posti al commercio internazionale e dal ripetuto variare dei regimi doganali, che nel periodo napoleonico favoriscono i mercati francesi. Il settore laniero era ormai incapace di reggere la concorrenza lombarda, soprattutto milanese (da M. Gelfi, La fiera di Bergamo: il volto di una città attraverso i rapporti commerciali, Ed.Junior, 1993).
(2) M. Gelfi, Op, cit.
(3) M. Gelfi, Op, cit.
(4) Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo: Piazza Carrara, Piazzale Risorgimento, Piazzale Alpini. Luigi Pelandi (Op. cit.) afferma che nel 1857 al Foro Boario fu trasportato il Mercato bovino e, nel 1870, anche quello equino. Al mercato equino, Luigi Volpi (Op. cit.) aggiunge anche il mercato fessipede.
(5) LA S.A.B. AUTOSERVIZI – Più di cent’anni ma non li dimostra. Ricerca condotta da: Chiara Caccia, Stefano Negretti, Maria Grazia Pirozzi.
(8) Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo, Op, cit.
(9) A cura di Giovanni Luca Dilda, La sezione ottocentesca dell’archivio del Vittorio Emanuele II.
(10) La realizzazione dell’impianto, progettato dall’arch. Michele Astori, fu rimandata per via del conflitto mondiale e probabilmente non venne eseguita. Esso era impostato su un viale centrale ad enfatizzare la facciata del palazzo e un viale perpendicolare aderente alla facciata per dare continuità e attenzione alla visuale con città alta, ma non è chiaro se in un primo momento fosse stata adottata la soluzione del viale centrale. Il disegno è conservato presso la Civica Biblioteca Mai Bergamo. Nel 1923 la Giunta approvava un progetto di sistemazione a giardino «con piante, vialetti e pietre» di cui rimane un disegno (Comune di Bergamo – Area Politiche del Territorio – Concorso di Progettazione per tre piazze a Bergamo, Op, cit.).
“Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”. Di Pilade Frattini e Renato Ravanelli. A cura di Ornella Bramani – Vol. II. UTET. Anno 2013.
Mauro Gelfi, La fiera di Bergamo: il volto di una città attraverso i rapporti commerciali, Ed.Junior, 1993.
Luigi Volpi, Vecchie botteghe bergamasche. La Rivista di Bergamo (anno sconosciuto).
Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.
Luigi Pelandi, Passeggiando per le vie di Bergamo scomparsa – La Strada Ferdinandea – Collana di Studi Bergamaschi – A cura della Banca Popolare di Bergamo. Bergamo, Poligrafiche Bolis, 1963.
A Storylab e in particolare a Giuliano Rizzi, Adriano Rosa , Roberto Brugali, Adriano Colpani, Duccio Crusoe e Sergio Meli per Casa Benaglio-Nava in via del Macello e per alcune preziose informazioni concernenti il Luna Park, lo Stadio Barlassina, la torretta presso la Stazione, il Circo Togni alla Malpensata nonchè il Ciclodromo.