Scorci di vita bergamasca ai tempi delle Muraine: un viaggio fra le porte daziarie all’alba del Novecento

Quando nel 1428 la Serenissima s’impossessò di Bergamo, i borghi che si erano allungati fino al piano erano già protetti da una cinta muraria, che  Venezia provvide a rafforzare e completare tra il 1430 e il 1435.

Tommaso Frizzoni, Bergamo vista da occidente, 1795. In primo piano, la muraglia che cingeva i Borghi, lambita esternamente dalla Roggia Serio (in origine Fossatum Communis Pergami), oggi in gran parte interrata

Erano le Muraine, una cortina fortificata con merlatura guelfa, scandita da pusterle e portelli dotati di ponti levatoi, torresini e fossato esterno, forse troppo fragile per garantire una sicura difesa ma certamente più che sufficiente per definire una cinta daziaria attraverso la quale Venezia impose un pesante balzello: su ogni merce, sui servizi, sui titoli di proprietà e sulle attività esercitate dentro quel fragile recinto.

Caselli daziari ovunque

Anche in tutto il territorio il Senato Veneto aveva disposto un sistema di riscossione collocando caselli presso tutti i ponti: sui fiumi Brembo, Serio, Oglio, Cherio e loro derivazioni, dove ogni persona che veniva nel distretto bergamasco doveva pagare in base alla provenienza, se a piedi o a cavallo, naturalmente eccetto coloro che avevano il lasciapassare del Papa, dei Cardinali, delI’Imperatore, dei Duchi, dei Baroni e di altri Principi, di quanti erano “privilegiati dal Serenissimo Dominio” e di chi portava “Biava sopra il mercato”.

Casa Bottagisi a Redivo (Valle Brembana): l’edificio è stato a lungo ritenuto sede della Dogana Veneta. C’era il “dacio della semination del Guado” (pianta erbacea), il “dacio della Gratarola” (compravendita di animali), il “dacio del Pizzamantello” (legumi), il “dacio de’ banditi” (banditi dal territorio)… (Ph A. Fumagalli)

Le colonne di Prato in città

In città, nel 1620, per tassare i partecipanti all’annuale “Fiera di S. Alessandro” i limiti di franchigia erano stati fissati ponendo due colonne marmoree (le “colonne di Prato”) all’imbocco della strada per S. Leonardo, dove rimasero fino alla notte fra il 3 e il 4 giugno del 1882, quando, ormai vecchie e malridotte, vennero rimosse alla chetichella.

La spesa per il loro restauro era stata preventivata in trecento lire del tempo, ma i reggitori della cosa pubblica, per insensibilità o per spilorceria, non ritennero che fosse il caso di aprire la borsa e in gran segreto le cedettero gratuitamente a un capomastro, il quale le smontò e se le portò via nottetempo, essendo stato consigliato di non procedere alla demolizione di giorno per non incontrare le resistenze dei cittadini.

All’indomani del misfatto, l’Eco di Bergamo commentava: “Quel buttarle giù di notte e portarle via alla chetichella ha del misterioso. Si direbbe che chi le abbatteva avesse coscienza di commettere una brutta azione e cercasse il velo delle tenebre. Perché una guerra così esiziale alle innocentissime colonne di Prato?”.

Il campo di Marte nel 1880 in una foto di Andrea Taramelli. Sullo sfondo, all’imbocco di via XX Settembre (di fronte all’attuale via Borfuro), le due colonne di “Prato”, che funsero da limite daziario fino al 1882, indicando il limite della zona franca della Fiera 

Un bel mattino, durante il carnevale del 1898 le due colonne ricomparvero al loro posto. I primi cittadini accorsi attoniti ed increduli non tardarono ad avvedersi che le colonne erano di cartapesta. Alla beffa corrispose il giorno stesso la diffusione di un foglietto stampato, recante una poesia dialettale anonima, scritta per la circostanza da Luigi Citerio, il quale ammoniva le autorità comunali al rispetto delle antichità:

Töt chèl ch’è  vècc me rispetàl!  e ‘ndo ‘l se tròa l’è méi lassàl. Oe del Cümü, per carità la ròba nosta lasséla stà!…” 

Le colonne di “Prato” all’imbocco dell’omonima contrada (oggi via XX Settembre). Costituivano un punto di riferimento per i cittadini ma”Furono demolite con grettezza inqualificabile, come scrisse Davide Cugini (Racc. Gaffuri)

Arrivano i Francesi: dalle porte ai cancelli, ma tutto è ancora tassato

Fatto sta che alla fine del Settecento arrivarono i Francesi e nel frattempo la Città Bassa era cresciuta. Per facilitare il transito dei carri nei punti di maggior passaggio, le anguste porte fortificate medioevali vennero sostituite da cancelli, sempre affiancati dai caselli del dazio: la vecchia muraglia difensiva era quindi rimasta in piedi come cinta daziaria, che ben conosciamo grazie al generoso bagaglio grafico e fotografico dell’epoca.

La porta daziaria di Santa Caterina e il ponte sul torrente Morla nella tempera del pittore Giuseppe Gaudenzi (serie di angoli e tipici edifici cittadini dipinti verso il 1895-1900)

Bergamo si trascinava con riluttanza nel retaggio degli antichi balzelli, che costringevano chiunque volesse valicare la barriera – dal cittadino comune al benestante – a sborsare denaro per tutto ciò che si portava con sé.

Tra Porta Broseta e Porta Osio (Racc. Gaffuri)

Nessuno poteva superarla senza dover sottostare al controllo dei dazieri, che stazionavano lungo i cancelli proprio laddove un tempo erano state le porte medioevali frugando ovunque: dal carico del carro alla sporta della massaia e con tanti saluti alla ‘privacy’. Pagava il dazio l’operaio per il salamino scovato nel fagotto sul braccio, la massaia per il cesto di verdura, il contadino per il sacco di patate.

Tra via Broseta e via S. Lazzaro (Racc. Gaffuri)

“Gente che con poca creanza e meno riguardi metteva le mani addosso a tutti e a tutte, ficcandole col loro ispido mostaccio nelle ceste, nelle gerle, nei bauli, nei cassetti del landò signorile, come in quelli dei calessi o sotto il sedile dei barocci, dentro le diligenze e sopra i carretti di legna o di vettovaglie”.

Via S. Lazzaro (Racc. Gaffuri)

“Con una verga di ferro sforacchiavano involti di biancheria, sacchi e ceste di ortaggi e balle di fieno o fascine di legna da ardere. Dispute, litigi, ingiurie, parolacce, frizzi, moccoli davano empito drammatico a quest’azione farsesca di fastidiosi controlli”.

Costoro (i Finanzini), riconoscibili per una speciale divisa, alloggiavano in un apposito corpo di guardia a lato delle porte, con il compito – tra l’altro – di chiudere i cancelli la sera (d’estate verso le 21 e d’inverno alle 18) e di riaprirli il mattino seguente dopo le otto.

La porta daziaria di Sant’Antonio verso Borgo Palazzo, nella tempera del pittore G. Gaudenzi

Nei pressi delle porte esistevano diverse locande con stalli, proprio per ospitare gli inevitabili “ritardatari”: curiosando nei vecchi cortili di Borgo Palazzo o appena fuori Borgo San Leonardo, si possono ancora rintracciare gli antichi stalli, con tanto di anelli d’ancoraggio fissati alle pareti per assicurare i cavalli alla cavezza.

Prima metà dell’Ottocento: arrivano gli Austriaci e Bergamo è in odore di modernità

Nel 1837, con notevole lungimiranza e volendo creare un ingresso monumentale e nobile alla città degli affari, gli austriaci avevano aperto la barriera di Porta Nuova, assegnando ai propilei la funzione di caselli del dazio, con indubbio vantaggio economico, viabilistico e di decoro.

Nell’anno successivo si era tracciata la Strada Ferdinandea, la moderna arteria che da Porta Nuova si collegava a Città Alta attraverso la porta di Sant’Agostino: un viale di imponenti proporzioni (venti metri di larghezza più cinque pedonali con alberature di alto fusto), così nominato in onore dell’imperatore Ferdinando I d’Austria in visita a Bergamo nei giorni 18-20 settembre 1838, divenendo viale Vittorio Emanuele dopo l’Unità d’Italia.

La barriera di Porta Nuova.  La ripresa è stata effettuata tra il 1890 e il 1901: è posteriore al 1890 perché sono visibili i binari del tram ed è giunta l’energia elettrica a sostituire i lampioni a gas. Non va oltre il 1901 poiché esistono ancora i cancelli daziari (Raccolta D. Lucchetti)

A questa felice scelta era seguita la costruzione della stazione ferroviaria (1857), in perfetto asse con la Ferdinandea, verso la quale venne prolungato il nuovo viale.

I propilei di Porta Nuova e la chiesa delle Grazie, allo “start” della Strada Ferdinandea

Lungo l’arteria che rappresentava il prorompere della modernità e ormai proiettata nel nuovo secolo, Bergamo aveva così realizzato il cardine fondamentale su cui avrebbe impostato la città futura. Ma, a tale scopo, c’era ancora qualche ostacolo da superare.

Porta Nuova ai tempi del dazio in una ripresa anteriore al 1887 (datazione dedotta dalla presenza dei lampioni a gas e la mancanza dei binari del tram) (Raccolta D. Lucchetti)

Le Muraine sul finire dell’Ottocento: un ostacolo allo sviluppo della città

Dopo l’unità d’Italia, superate le inevitabili difficoltà del passaggio tra l’amministrazione austro-ungarica e quella del nuovo stato, Bergamo stava registrando una notevole crescita economica, con le sedi delle istituzioni pubbliche ormai scivolate dalla città sul colle al piano, al quale i bergamaschi guardavano per il futuro della città.

Città Alta prima della realizzazione della funicolare. L’isolamento del vecchio nucleo sul colle non si è arrestato nemmeno dopo la sua costruzione; le cattive condizioni igienico-sanitarie degli edifici indussero a provvedere attraverso un piano di risanamento, affrontato a più riprese (Racc. Gaffuri)

In quell’ultimo scorcio dell’Ottocento, cresceva vertiginosamente una diffusa voglia di modernità: Bergamo doveva crescere e lo spazio ideale era giù in basso, dove i primi urbanisti cominciavano a studiare strade e nuovi quartieri per mettere ordine tra i borghi.

La porta daziaria di via Cologno, ora G. Quarenghi, nella tempera del pittore G. Gaudenzi

Restavano tuttavia due grosse questioni da risolvere: quella del complesso semi-abbandonato della Fiera, di cui ancora non si sapeva cosa fare (e la felice soluzione arriverà più tardi, utilizzandone lo spazio per il nuovo centro), e quella delle Muraine, una specie di camicia di forza che rinserrava i borghi e ostacolava i commerci.

Gli storici edifici della vecchia Fiera

 

Una fase della demolizione degli edifici dell'antica Fiera - poco dopo la Grande Guerra - per far spazio al nuovo centro di Città Bassa progettato dall'architetto romano Marcello Piacentini. Nel lungo periodo della demolizione, non mancavano mai i curiosi
Una fase della demolizione della Fiera nel 1920 per far spazio al nuovo centro di Città Bassa progettato dall’architetto romano Marcello Piacentini. Nel lungo periodo della demolizione, non mancavano mai i curiosi

Immaginatevi la città stretta entro una cinta che non andava oltre Porta Nuova e che finiva da un lato all’inizio di Borgo Santa Caterina e dall’altro all’incrocio di via Broseta con via Palma il Vecchio. Un perimetro angusto, segnato materialmente da un vecchio muro lungo il quale le aperture dei cancelli erano poco più di una dozzina, costringendo chi la valicava a pagare anche solo per la sporta del pane.

E si capisce come Bergamo, città tipicamente mercantile, si sentisse stretta dentro l’antica cerchia.

Le case della ricca borghesia mercantile sorte tra Otto e Novecento lungo via Torquato Tasso

Lungo il recinto i cancelli sbarravano tutti gli sbocchi verso l’esterno: via Broseta, via Osio, Cologno, S. Bernardino, Porta S. Antonio, Borgo S. Tomaso, via Tre Armi, perfino il lungo e solitario budello del vicolo Lapacano.

Anche Porta Nuova era sbarrata da lunghi e grossolani cancelli, sebbene gli austriaci avessero già fatto demolire l’angusto portello pedonale delle Grazie, facilitando con ciò il transito dei carri e, di conseguenza, gli scambi.

G. Rudelli, il Portello delle Grazie al Convento di S. Maria delle Grazie (demolito nel 1829) con la torretta di sorveglianza e il ponte sulla Roggia Serio, osservati dal Prato di S. Alessandro

Fuori la cerchia delle Muraine i carri con le merci seguivano una sorta di circonvallazione lungo un percorso, consolidatosi col tempo, che ricalcava fedelmente il perimetro dell’antico muro: via Palma il Vecchio – via Previtali – via don Palazzolo – via Tiraboschi – via Camozzi – via Frizzoni – via Cesare Battisti: in fin dei conti seguito ancora oggi.

Ma il transito dei carri verso l’interno della città era perennemente ostacolato dalle anguste strade dei borghi e dall’esiguo numero dei caselli che ostruivano, impacciavano e infastidivano la circolazione, irretivano tutta la città quasi fosse un grande reclusorio di delinquenti pericolosi:

“Chi non li ha visti, quei cancelli, non può farsi un’idea della loro arcigna fisionomia ostile. Anche a esservi abituati, incutevano timore e fastidio” (1).

La porta daziaria di via San Bernardino, nella tempera del pittore G. Gaudenzi

E mentre i tram contribuivano a togliere dall’isolamento le periferie e sul colle di San Vigilio stava per nascere un quartiere-giardino, già si intravedevano i vantaggi edilizi che l’abbattimento delle Muraine avrebbe comportato nella città bassa, dove i nuovi ricchi pregustavano le eleganti villette proposte da un’immobiliare nel quartiere di S. Lucia .

Via al Paradiso, oggi S. Lucia, nel nuovo, omonimo quartiere (inizi Novecento)

C’era una gran fame di spazio, di nuove aree per costruire e per tracciare strade e quasi ci si esaltava per la fine del vecchio.

Il quartiere di S. Lucia con i nuovi villini all’inizio del Novecento

Giù le Muraine!

Fu dunque a furor di popolo che Bergamo decretò l’abbattimento della secolare cerchia di mura attorno ai borghi, sacrificata, quasi simbolicamente, al passaggio tra l’Otto e il Novecento.

Alle voci isolate – “Aboliamo la cinta daziaria. Demoliamo le Muraine. Abbasso il Medioevo!” – nell’ultimo decennio dell’Ottocento era subentrato un vero e proprio coro. I primi a tuonare contro dazio e vecchie mura erano stati i commercianti, estenuati dai continui controlli e dai balzelli, e con voto unanime dell’intera amministrazione allo scoccar del 1900 venne finalmente ABOLITO IL DAZIO per la Città di Bergamo.

Era allora sindaco il conte Gianforte Suardi, che, come deputato votò le indennità parlamentari per non impedire la partecipazione al governo delle classi popolari; e votò pure per il suffragio universale, vantandosene in un pubblico comizio. E se a Bergamo e in Bergamasca la pellagra fu finalmente debellata, fu merito anche suo come presidente per vent’anni della Commissione antipellagrologica. E fu lui, oltrettutto, ad avere la prima idea del nuovo centro di Bergamo (2).

I nostri predecessori salutarono con comprensibile gioia ed entusiasmo l’apertura dei cancelli delle porte, e con essa la riconquistata libertà di movimento dentro e fuori i Borghi. Bergamo poteva finalmente proclamarsi “città aperta” e quasi non sembrò vero ai cittadini di poter superare i propilei di Porta Nuova senza dover sottostare a nessun controllo.

L’abbattimento delle Muraine fu ufficialmente festeggiato nella notte fra il 31 dicembre 1900 e il 1° gennaio 1901, salutando il nuovo secolo con molte iniziative che coinvolsero tutta la città, dove botti di bottiglie stappate non si contavano.

Le cronache raccontano che sul Sentierone, dalle 23 a mezzanotte vi fu un concerto della banda Donizetti e poi un corteo sonoro lungo via XX Settembre fino a Piazza Pontida dove si tenne un concerto della banda San Giuseppe, seguito da un corteo sonoro fino ai vecchi caselli.
In Piazza Vecchia e per le vie di Città Alta vi fu un concerto della banda di Stezzano e dopo l’una, un po’ ovunque l’esibizione della Fanfara Garibaldi. Ma non solo: nei giardini pubblici, a mezzanotte vi furono fuochi d’artificio.

Come fu deciso di abolire la barriera daziaria, sembrò che Bergamo volesse cancellare ogni traccia dell’antico muro che ricordava il medioevo; così i nostri avi, travolti dall’entusiasmo, in quella fatidica notte di Capodanno del 1901 presero a demolire cancelli e portelli.
Per un certo periodo i cancelli rimasero spalancati, poi anch’essi vennero rimossi.

La città che si rinnova: demolizione di vecchie case in via Cologno (Racc. Gaffuri)

 

La città che si rinnova: demolizione di vecchie case in via Cologno (Racc. Gaffuri)

In seguito vennero coperte tutte le rogge che scorrevano davanti alle Muraine: nel 1930 circa, la roggia del fiume Serio, tra la torre del Galgario e la Porta S. Antonio. E le due vie (dentro e fuori le Muraine) formarono una sola carreggiata. Infine nel 1963 fu coperto anche il torrente Morla, da S. Caterina al largo del Galgario.

1916: la Roggia Serio nell’attuale via Frizzoni (allora via Pitentino), alla curva presso la torre del Galgario, lungo la Strada di Circonvallazione. Proprio a quest’altezza, il torrente Morla dava il cambio alla Roggia Serio, il canale che ricalcava il confine segnato in età comunale con il “Fossatum communis Pergami”, segnando a lungo il limite estremo della difesa sul margine esterno della cinta muraria e sulle vie principali che conducevano  al di fuori

Sparirono così, sotto i colpi di mazze e picconi, chilometri di muro, e con esso le piccole torri che scandivano a intervalli regolari il suo lungo perimetro.

La cappelletta dedicata ai morti della peste in Via Palma il Vecchio, al momento della demolizione delle Muraine

Per celebrare la fine della barriera daziaria venne anche data alle stampe una cartolina con la città vista da Porta Nuova e rappresentata tra una simbolica catena spezzata. Una cartolina “disegnata” senza problemi; problemi che invece dovettero affrontare gli editori di cartoline fotografiche”…

Quasi certamente questa cartolina fu spedita il giorno stesso della sua emissione (annullo postale del 2-1-1901). Chiaramente simbolica la catena spezzata; come se l’eliminazione dei cancelli avesse abolito il dazio…” (Domenico Lucchetti “Bergamo nelle vecchie cartoline)

“.. Per commemorare il lieto evento si voleva promuovere anche una cartolina fotografica con Bergamo priva dei cancelli daziari rimasti al loro posto ancora per un po’. Che fare? Risolse il problema, con uno stratagemma fotografico, l’editore milanese Fotocromo, mostrando il consueto acume commerciale dei ‘cartolinisti’. Si prese una precedente cartolina (sempre con Bergamo vista da Porta Nuova) della casa editrice bergamasca Libreria Tacchi (non sappiamo se compiacente o meno) e si eliminarono i cancelli con un ritocco abbastanza abile; e la cartolina ebbe successo, tanto che circolò per parecchi anni” (3).

“(annullo postale del 20-12-1899). Fototipia. Questa bella veduta di Porta Nuova fu liberamente usata da diversi editori. Uno di questi, Daniele Legrenzi, giunse persino a farne un’edizione senza cancelli daziari (previo abile ritocco) quando questi furono eliminati il 31-12-1900” (D. Lucchetti – “Bergamo nelle vecchie cartoline”)

Altre cartoline documentarono il procedere delle demolizioni, di cui era stata incaricata la Cooperativa lavoranti muratori.

Il rimpianto per quanto non c’è più

Della cinta murata medievale delle Muraine non restano oggi che pochi tratti, come in via Camozzi e in via Lapacano, mentre altri furono inglobati edifici e ogni tanto, quando ci sono dei lavori, se ne trovano le tracce.

Un tratto di Muraine in via Tiraboschi (cerchiato in nero), lambite dalla roggia Serio; vennero atterrate nel corso degli anni ’60 quando la roggia fu interrata. Nella mappa del 1816 del Manzini il tratto in questione si nota chiaramente

 

Scorcio di via Tiraboschi, affiancata dalla Roggia Serio (Raccolta D. Lucchetti, Museo delle Storie di Bergamo)

E’ dunque difficile immaginare come poteva essere la Bergamo Bassa murata e turrita poco più di un secolo fa, e ancor di più immaginare l’insieme delle due città – alta e bassa – protette da un antico perimetro murario.

La municipalità decise invece di risparmiare una delle due torri rotonde del circuito, quella del Galgario, che si distingueva dalle altre torrette anche per la sua mole: è ancora lì, con il gran traffico che le passa accanto.

Il ricordo più vistoso che resta delle Muraine è la torre del Galgario, l’unica delle due torri  tonde sopravvissuta allo scempio dell’abbattimento. A fianco della torre, usata per sostenere un curioso traliccio per i cavi dell’energia elettrica, un pezzo dell’antico muro sta sparendo sotto il piccone

Ancora a distanza di mezzo secolo l’ingegner Luigi Angelini deplorava l’abbattimento totale delle Muraine definendolo un “misfatto”, così come Umberto Zanetti definì quella demolizione “improvvida e vandalica”: “Non sempre i patres conscripti hanno amato i monumenti della loro terra, non sempre sono stati consci della responsabilità che potevano assumere innanzi alla storia della loro città. Vandalismo inutile quello dell’abbattimento delle Muraine”.

Nel boschetto alle spalle del monumento a Gaetano Donizetti è sopravvissuta una porzione delle antiche Muraine

Ma è quanto avvenne anche nelle altre città lombarde: a Milano, a Brescia, a Como, a Cremona, anche se fu Bergamo la prima in assoluto ad abbattere pressoché completamente la frontiera tra extra muros e la città (l’ultimo tratto delle Muraine fu demolito solo nella seconda metà del febbraio del 1901 e al Lapacano i lavori erano ancora in corso sul finire dell’anno).

I portici dell’antica Piazza della Legna

Il Comune, con il senso di parsimonia tipico del tempo, deliberò di fare buon uso delle pietre squadrate che si allineavano a mucchi lungo il tracciato delle Muraine, destinandole alla costruzione del muro di cinta del nuovo Cimitero monumentale.

Borgo Santa Caterina nel 1920. Qui si trovavano le trattorie delle Tre Corone, dell’Angelo, del Gambero e della Scopa. Luigi Angelini (nato in questo Borgo) ricordò che una sera, rientrando con i genitori da uno spettacolo circense di Piazza Baroni, avendo trovato chiusi i cancelli daziari dovette passare eccezionalmente dalla casa dei dazieri

Abbattute le secolari mura che dividevano materialmente, economicamente e moralmente la città, si era presentata come un’assoluta necessità studiare un coordinamento generale dell’espansione cittadina. Fu perciò definito un sistema stradale concentrico (anello di via Verdi, via Camozzi, via Mai), che alla fine del Novecento era ancora sostanzialmente immutato.

IL CIRCUITO DELLE MURAINE

La cinta daziaria correva lungo il perimetro delle Muraine che circondavano i Borghi. La bassa muraglia si raccordava alle mura di Città Alta (dapprima a quelle medievali ed in seguito a quelle veneziane) nei pressi  di Porta Sant’Agostino da un lato e di Porta San Giacomo dall’altro.

Pietro Ronzoni, Complesso di Sant’Agostino: veduta meridionale dal Baluardo di San Michele, 1837 (Milano, Quadreria dell’800): le Muraine si innestavano all’altezza dell’attuale Parco di S. Agostino correndo parallele alla Noca e piegando al termine di via S. Tomaso

Partendo dal Parco di S. Agostino la muraglia scendeva in direzione dell’Accademia Carrara racchiudendo Borgo San Tomaso fin verso il ponte di Borgo Santa Caterina, che ne rimaneva escluso, diviso dalle acque della Morla.

Da lì, seguendo il corso del torrente giungeva alla torre del Galgario, dove la Morla dava il cambio alla roggia Serio fiancheggiando la muraglia per tutto il rettilineo che, oltrepassato il portello del Raso lungo l’attuale via Camozzi, Porta Nuova e via Tiraboschi, piegava per via Palazzolo profilando il limite meridionale del borgo di San Leonardo, a sud delle vie Quarenghi, San Bernardino, Moroni e Broseta.

La cinta daziaria delle Muraine raffigurata in in una mappa del 1901, costeggiate da una Strada cosiddetta di Circonvallazione, e lambite esternamente dalla roggia

Da via Broseta la cinta risaliva fino al vicolo Lapacano – di cui seguiva il tracciato -,  salendo gradualmente per ricongiungersi con le mura sotto San Giacomo al Paesetto, al termine di via Tre Armi.

La cortina delle Muraine del Lapacano nel 1884, in una incredibile e rara testimonianza lasciataci dal fotografo Cesare Bizioli. La cortina muraria del Lapacano collegava Porta Broseta alla torre tonda del Cavettone, dove  la roggia Serio si univa alla roggia Curna che proseguiva verso l’ospedale per mezzo di un canale, parallelo alle mura, in luogo dell’attuale via Nullo (Patrimonio Lucchetti-Museo delle Storie di Bergamo – Ph rielaborata da Gianni Gelmini nel suo prezioso lavoro dedicato alle Muraine)

 

Antica via Lapacano sul colle, dove il toponimo è scomparso. Nella piana è ancora visibile un tratto superstite delle mura del Lapacano dove, nonostante le ferite inferte anche in epoca recente, quattro merlature ricostruite campeggiano uno accanto all’altra, mentre lo spessore delle mura è evidente grazie alle feritorie da balestra che si affacciano sulla strada

IN VIAGGIO FRA LE PORTE DAZIARIE

Borgo Santa Caterina: il borgo resta fuori 

Attraverso la porta di Santa Caterina si accedeva direttamente al borgo, escluso dalle Muraine, che seguivano in questo tratto il corso del torrente Morla.

Il Ponte di Borgo S. Caterina nell’Ottocento con l’omonima porta e il casello daziario, di notevoli dimensioni data l’importanza della porta. L’immagine riprende gli edifici di via San Tomaso, con in testa l’alloggio del comandante delle guardie daziarie. Sulla parete di destra un manifesto  annuncia uno spettacolo di burattini con Gioppino, da tenersi in via Pignolo

La cinta daziaria, questione di tasse a parte, era causa di non pochi inconvenienti per i cittadini. Borgo Santa Caterina, per quanto molto popoloso, non era mai stato compreso entro la cerchia delle Muraine.
In epoca medievale alcune torri ne difendevano gli accessi dalla campagna (al Maglio del Rame c’era una stongarda), ma non godeva della sicurezza rappresentata dalle mura.

La barriera daziaria di Porta Santa Caterina (già borgo di Plorzano). Il luogo è angusto ma vi passava il tram a cavalli (non c’è ancora la linea aerea di quello elettrico) che, dopo una stretta curva si dirigeva verso Borgo Santa Caterina (foto Rodolfo Masperi) – (Raccolta Lucchetti)

All’epoca del dazio ciò aveva i suoi vantaggi perché il borgo poteva commerciare con le valli senza tante limitazioni, ma la prospettiva cambiava quando calava la notte e gli agenti daziari, non effettuando più nessun controllo, sbarravano i pochi varchi. Bastava un’urgenza, la richiesta di un medico o un incendio: non si poteva passare dalla città al borgo se non dopo aver rintracciato l’agente del dazio per fargli aprire il cancello.

Il vecchio ponte di S. Caterina e l’imbocco di via San Tomaso (Racc. Gaffuri)

Nell’immagine seguente, le Muraine sono state abbattute e via Baioni ha guadagnato in spazio, ricavando notevoli vantaggi per il traffico con la Valle Brembana.

Se l’edificio d’angolo tra via C. Battisti e San Tomaso non è mutato, quello sull’altro lato è stato rimodernato. Al di là del ponte, la Morla è ancora scoperta, segno che non è iniziata la realizzazione di viale Giulio Cesare (in origine dedicato alla regina Margherita), che conduce allo stadio.

Il Ponte di Borgo S. Caterina a fine anni ’20, inizio anni ’30: il cancello daziario e gli edifici annessi sono già stati demoliti ed è anche scomparso il ponte di vecchie pietre sopra la Morla, ora scavalcata da un ponte in cemento (ma sono visibili gli archi del vecchio ponte), sul quale sta transitando il tram. Nel 1963 fu coperta anche la Morla, da S. Caterina al largo del Galgario

Il tracciato delle Muraine seguiva l’andamento del muro che delimitava l’alveo del torrente dal lato di via Cesare Battisti.

Il nuovo ponte di S. Caterina sovrasta le arcate del ponte antico

Il massiccio muro verso la Morla serviva per proteggere le abitazioni dalle piene del torrente, causa frequente di notevoli danni.

La torre del Galgario: la torretta evitò il piccone

La torre del Galgario, l’unica sopravvissuta delle due torri rotonde delle Muraine (l’altra era quella del Cavettone, a nord del Lapacano), rischiò l’abbattimento ben due volte: la seconda negli anni Quaranta, perché si sosteneva che la sua mole ostacolasse il traffico.

Davanti alla torre scorre la roggia Serio, alimentata dalle acque del fiume Serio con una presa situata ad Albino. Le Muraine sono già state demolite. A destra, l’antica muraglia proseguiva verso la porta di borgo S. Caterina, seguendo in questo tratto il corso del torrente Morla

Il 28 febbraio 1949, dalle colonne del “Giornale del Popolo”, l’architetto Pino Pizzigoni ammoniva a non commettere l’ennesimo delitto urbanistico. Sottolineava in particolare che la torre è l’unico ricordo storico della prima cinta esterna medioevale della città, più vecchia quindi delle Mura veneziane, e che fosse di per sé un elemento di decoro cittadino. Fortunatamente l’appello fu accolto.

Porta S. Antonio: e Borgo Palazzo resta fuori

Porta S. Antonio, situata all’altezza dell’imbocco dell’attuale via Pignolo bassa (Raccolta Lucchetti)

Alla porta di S. Caterina seguiva la porta di Sant’Antonio, chiamata anche Porta del Mercato. Fu innalzata dove iniziava il borgo che più tardi prese il nome di Pignolo, a pochi passi dall’antica chiesetta di Sant’Antonio in Foris, posta all’inizio di Borgo Palazzo:  un borgo, quest’ultimo, esterno alle Muraine, ma importante luogo di transito e via di comunicazione con la città, lungo la via per Seriate diretta a Brescia e a Venezia.

Porta S. Antonio, all’imbocco dell’attuale via Pignolo bassa

Ai tempi della Serenissima, l’ingresso in città del nuovo Podestà avveniva proprio lungo questa arteria; il Capitano di Bergamo stava ad aspettarlo sul ponte della Morla in Borgo Palazzo, tutto imbandierato, adorno di drappi e festoni come le case di tutto il borgo. I due personaggi e il loro seguito, compresi i due trombettieri, sfilavano in abiti sgargianti tra le quinte di colori vivaci e i saluti della folla, avviandosi verso Città Alta che era il cuore politico e amministrativo di tutto il territorio.

Ancora Porta S. Antonio in versione colorata

Nel budello di Borgo Palazzo, nascosti nei grandi spazi interni ci sono ancora i cortili e i magazzini che  erano serviti per gli stalli, per gli alloggi, per depositare la merce destinata alla città o che da Bergamo doveva essere trasportata a Venezia. All’epoca della dominazione di quest’ultima, la dogana era ubicata addirittura nel Borgo di S. Antonio. Tutte le merci prodotte in Valle Brembana e Seriana e dirette verso Venezia, vi facevano capo: nella parte del Borgo più prossima alla città, esercitavano l’attività “diversi mercadanti di panni”; la parte più esterna, ossia “Borgo Palazo”, era abitata invece “da conduttori, cavallanti, ed da altre sì fatte zente”, scriveva il Capitano Pizzamanno nel 1560.

Porta S. Antonio. A lato si vede la roggia

Il commercio era situato dentro all’abitato; chi esercitava il trasporto si collocava invece più all’esterno, dove poteva tenere le stalle, le tettoie per i carri, le fucine per riparare i veicoli, i maniscalchi. L’andirivieni di viaggiatori, di commercianti, di “conduttori e cavallanti”, non poteva non concentrare nel borgo osterie e trattorie con alloggio e stallo.

Com’era invece la zona intorno agli anni ’50: tra il 1919 e il 1955 l’edificio sulla destra era stato adibito a Dormitorio pubblico e in seguito impiegato come “Asilo degli Ebbri”, cioè ricovero per gli amanti di Bacco, i quali, dopo essere stati raccolti per le vie della città dalle forze dell’ordine, venivano messi a letto dopo una doccia gelata. I nuovi edifici di quest’area, tra cui il supermercato PAM, sorsero dopo il 1967

Largo di Porta Nuova: via anche l’ultima traccia

I cancelli di Porta Nuova (Raccolta Lucchetti)

La scomparsa dell’antico muro fu determinante per le sorti dell’attuale via Camozzi. Quando venne scattata la fotografia che segue, si chiamava ancora via di Circonvallazione insieme alle vie Tiraboschi e Frizzoni, e ai tempi delle Muraine assorbiva il traffico di carri che si snodava al di fuori della barriera daziaria.

Poi quest’ultima fu abolita e la città cominciò ad impossessarsi degli spazi che si rendevano liberi. E così la via Camozzi, da strada periferica assunse a poco a poco le caratteristiche di una via cittadina, svolgendo un ruolo sempre più importante per lo sviluppo urbanistico del futuro centro.

La svolta decisiva avvenne con la copertura della roggia, che cancellò anche le ultime tracce della presenza delle mura: è evidente che i lavori siano stati portati a termine da poco, tanto che non si è ancora realizzato il nuovo fondo stradale.
I pali di legno della linea elettrica, collocati un tempo lungo la sponda della roggia, segnano il percorso del canale, ormai invisibile.

Il traffico lungo la via Camozzi, carretti a parte, è inesistente. Ma tra non molto vi transiteranno i tram per Borgo Palazzo, il cimitero e Seriate. Nel 1933 vi saranno collocati i binari tolti dal percorso via XX Settembre-via Tasso.

Si lavora alla sistemazione del largo di Porta Nuova. Si sta anche togliendo il traliccio di ferro

Nello stesso punto della fotografia, non molti anni dopo sarà collocata la fontana progettata dall’arch. Bergonzo (la “Zuccheriera”), poi spostata verso la sede del Credito Bergamasco.

Largo Porta Nuova con la “Zuccheriera” progettata da Bergonzo. In Via Tiraboschi si nota sulla destra una porzione dell’antica muraglia demolita entro il 1950

Il portello di via Zambonate: la città ci stava stretta

Il portello di via Zambonate – non una vera e propria porta bensì una stretta apertura – venne aperto nel corso dell’Ottocento per desiderio degli abitanti che avevano bisogno di rendere meno complicato e tortuoso il transito tra una località e l’altra dentro e fuori della cinta muraria. Era all’inizio della strada dal lato verso la via Tiraboschi (tra ‘800 e primi ‘900 via Circonvallazione), oggi quasi all’altezza dei grandi magazzini Coin.

I due piccoli edifici ai lati del cancello servivano alle guardie daziarie per ripararsi dalla pioggia durante la notte.

Il portello di Zambonate. Nel cancello, spalancato solo per il transito dei carri è aperto un passaggio per i pedoni, che venivano controllati dagli agenti del dazio

Dal portello di Zambonate le Muraine si allungavano a comprendere la grande appendice di Borgo S. Leonardo, con al centro il crocicchio di Piazza Pontida –  le “Cinque Vie” – che si diramano rispettivamente per via Quarenghi (verso la porta Cologno e quindi verso Crema e Cremona); la via S. Bernardino (verso la porta Colognola e quindi verso Treviglio); via Moroni (verso la porta Osio e quindi Milano); via Broseta (verso la porta Broseta e quindi Lecco e Como).

Un tratto delle “Cinque Vie” in borgo S. Leonardo, il “cuore pulsante” della città, in direzione, a sinistra, di porta S. Bernardino e, a destra, di porta Osio (attuale via Moroni)

E, dunque, da Porta Cologno (a sud di via Quarenghi alta)….

Porta Cologno, all’incrocio tra via Quarenghi e via Palazzolo, sulla strada per Crema e Cremona (Raccolta Lucchetti)

…le Muraine si dirigevano verso Porta S. Bernardino

Porta S Bernardino, all’incrocio tra via San Bernardino e via Previtali, sulla strada per Treviglio (Raccolta Lucchetti)

 

Porta S Bernardino

…per approdare a Porta Osio, dove Napoleone non arrivò:

Osserviamola: il casello di sinistra di porta Osio è stato sottoposto a restauro; le sue dimensioni sono immutate ed è oggi è ancora riconoscibile anche se è stato sopraelevato e trasformato in una abitazione con più appartamenti.

Porta Osio (sulla strada per Milano), all’incrocio tra via Moroni e via Palma il Vecchio

Al centro del varco, in linea con l’asta centrale del cancello, un daziere posa con il folto gruppo dei presenti, tra i quali si notano anche alcuni ciclisti.

A Porta Osio si sta costruendo un telaio da coprire con teli e festoni, forse per qualche festività (Raccolta Lucchetti)

La città si stava preparando per ricevere Napoleone. Dopo l’arrivo delle sue truppe il 25 dicembre del 1796, la cacciata dei veneziani pochi mesi più tardi e la fine dell’antico regime di San Marco con l’insediamento della nuova municipalità, Bergamo aspettava il condottiero, che se ne stava nel capoluogo lombardo e di cui era stato annunciato il viaggio attraverso la Bergamasca.
Sarebbe dovuto arrivare per la strada di Milano: l’augusto ospite e la sua scorta sarebbero stati attesi all’ingresso della città, allora rappresentato da porta Osio (all’incrocio tra via Moroni e via Palma il Vecchio).

“La diligenza per Milano a Porta Osio”, ovvero Il casello daziario di Porta Osio in un dipinto (1830) di Costantino Rosa. In età napoleonica le porte furono sostituite da cancelli affiancati dai caselli del dazio

In vista dell’arrivo di Napoleone fu dato incarico all’insigne architetto Giacomo Quarenghi di realizzare un arco di trionfo e si pensò anche di trasformare la porta.

Il progetto (affidato all’architetto Giacomo Quarenghi, dell’arco di trionfo da erigersi in porta Osio, la cui costruzione era prevista per l’arrivo imminente a Bergamo di Napoleone Bonaparte. Progetto che non fu  realizzato

Napoleone poi rinunciò a venire: dell’arco furono gettate solo le fondamenta, in quanto alla porta, l’idea non ebbe seguito.

Gli edifici attigui a Porta Osio con il fabbricato semicircolare ancora esistente

Porta Broseta: la seggiola del daziere

Tale porta chiudeva a nord la muraglia del Lapacano, via (allora) di Santa Lucia Vecchia, e a sud via Palma il Vecchio, a quel tempo Strada di Circonvallazione Osio-Broseta.

All’altezza dell’incrocio con le vie Nullo e Palma il Vecchio, Porta Broseta nell’Ottocento, sulla strada per Lecco e Como (Raccolta Lucchetti)

Le due costruzioni dei caselli del dazio sono scomparse da tempo. Sul lato destro di via Broseta (per chi guarda) recentemente è stato abbattuto un edificio, sostituito da uno dal disegno molto moderno e che vuole forse, richiamare l’antica barriera.

Dovevano essere personaggi discreti gli agenti del dazio di guardia alle porte cittadine. Nelle fotografie che si conoscono, compaiono ben di rado.
E pensare che sono immediatamente riconoscibili: giubba con bottoni dorati, berretto con visiera, cappottone fino ai piedi per gli ufficiali (ma pantaloni regolarmente stazzonati).

Porta Broseta

Ci piace però immaginare che la seggiola che appare accanto al pilastro del cancello di Porta Broseta sia quella del gabelliere, usata per un po’ di riposo nei noiosi turni di servizio.
Lui, dopo il voto del consiglio comunale che ha detto “basta con le gabelle”, se ne è andato. La sedia è rimasta.

Fuori porta Broseta compare, come per la barriera di Porta Nuova, il banco di un ambulante. Ma la foto è confusa e non consente di capire che cosa vende: sono sacchi di castagne?

La porta di via Tre Armi: fin sotto le mura venete

Da Porta Broseta, la muraglia si dirigeva verso il vicolo Lapacano e da lì risaliva verso l’alta città, andando a ricongiungersi alle mura del Paesetto sotto Porta San Giacomo, dove si conclude il nostro viaggio.

Al Paesetto, tra via Tre Armi e la salita dell’attuale via Sant’Alessandro

Ed eccoli gli agenti del dazio, distinguibili per la giubba con i bottoni dorati, berretto con visiera e, per gli ufficiali, il lungo cappotto che arrivava ai piedi.

La foto (1895) mostra l’ultimo varco nella muraglia: la porta daziaria di via Tre Armi al Paesetto presso porta S. Giacomo (Raccolta Lucchetti)

 

Accanto alla porta daziaria di via Tre Armi al Paesetto, s’innesca la rampa che conduce a Porta S. Giacomo (Raccolta Lucchetti)

L’assemblaggio delle due immagini precedenti dà l’idea dell’esatta ubicazione della Porta di via Tre Armi: il piccolo edificio all’inizio della rampa di porta San Giacomo era la casa del capo delle guardie daziarie; abbandonato da tempo, è stato recentemente trasformato in una caratteristica abitazione.

La Porta daziaria di via Tre Armi, affiancata dalla casa del capo delle guardie daziarie (Raccolta Lucchetti)

Da via Tre Armi passavano gli ortolani che portavano in città gli ortaggi coltivati negli orti attorno a Borgo Canale e sotto le mura, lungo le scalette del Paradiso e di Santa Lucia. Ma alle nove di sera, quando si chiudevano i pesanti portoni e i finanzieri montavano la guardia, anche in via Tre Armi così come in via Noca, con la complicità delle notti buie senza luna dalle mura fronteggianti venivano calate lunghe corde per issare sacchi e cesti ricolmi di commestibili, che grazie al cielo giungevano a destinazione “de sfross” – di frodo – gabbando con gran soddisfazione le ignare. sonnacchiose guardie del dazio.

Le“Mura del Lapacano” a margine delle case di S. Alessandro, ritraggono le case del “Paesetto”, ai piedi di Porta S. Giacomo (foto Cesare Bizioli 1885 – Raccolta Lucchetti)

 

Note

(1) Carlo Traini, “Pagine al vento”, dattiloscritto conservato presso la Civica Biblioteca di Bergamo.

(2) Alfonso Vajana, Uomini di Bergamo, in “Il Novecento a Bergamo – Cronache di un secolo”, 2013, Utet.

(3) Domenico Lucchetti, “Bergamo nelle vecchie cartoline”.

Riferimenti

Bergamo e la bergamasca nelle immagini tra Ottocento e Novecento. Supplemento a L’Eco di Bergamo corredato da 24 fascicoli. A cura di Pino Capellini (anno non indicato).

Pilade Frattini e Renato Ravanelli, “Il Novecento a Bergamo”, 2013, Utet.
Domenico Lucchetti, “Le porte daziarie”, in “Bergamo nelle vecchie fotografie”.

Pino Capellini, La ‘barriera doganale’ del ‘400 bloccava lo sviluppo della città di Bergamo” – L’Eco di Bergamo, 12-1-2004.

Bergamo negli anni del secondo conflitto mondiale: frammenti di memoria

Il 29 ottobre 1922 vi fu l’assalto al palazzo delle Poste e Telegrafi da parte dei fascisti, riassunto nelle parole dell’avvocato giornalista Alfonso Vaiana:

“Più laboriosa l’occupazione delle Poste e Telegrafi, alla quale potei assistere, poiché le informazioni su quanto si preparava… ignorate dalIa questura, erano arrivate in redazione: un ghiotto servizio per il giornalista! A mezzanotte (tra il 28 e il 29 ottobre 1922) sul Sentierone si aveva l’impressione di poter camminare nudi, ma era soltanto un’impressione: le tresende della fiera – situate dove sorgono gli attuali edifici del centro piacentiniano – erano animate; al portone degli uffici postelegrafici, qualche sentinella (guardie regie); qualche ombra umana incollata nelle zone d’ombra. Anch’io, in attesa, mi ero appostato in ombra. …In quella, sempre dalle tresende, intervenne a gran corsa il grosso, il quale iniziò una sparatoria. Vediamo un ferito (mortalmente) steso al suolo… portammo il ferito in questura”. L’apparire del ferito – la guardia regia Pietro Perrone – provoca una tremenda esplosione d’ira tra le guardie regie, che vogliono correre a vendicare il compagno. E questo è veramente il momento più drammatico di tutta l’azione. ll questore – che stava creandosi i titoli per il suo avanzamento alla questura di Milano – chiude il portone, sfodera la pistola e minaccia di morte chiunque tenti di uscire.  …la cronaca dei fatti fu improntata a verità ma anche ad austerità”.

lnizia cosi per l’Italia un triste periodo, caratterizzato da una sanguinosa guerra fratricida (1).

29 ottobre 1922 . I fascisti barricano il palazzo delle Poste e Telegrafi di Bergamo. Seguirono violenti scontri tra fascisti e socialisti

 

1942. Reduci da Klinura, dal fronte greco-albanese (Campagna di Grecia). I soldati bergamaschi sfilano in viale Roma, fra due ali di folla, davanti alla chiesa della Madonna delle Grazie. Sulla destra bambine in divisa; i bambini sulla sinistra (Museo delle Storie di Bergamo)

 

1942. Folla a Porta Nuova per accogliere i soldati al rientro dall’Albania: su uno striscione, steso tra i due propilei, campeggia la scritta “Voyssa”, una conquista italiana sul fronte albanese (Museo delle Storie di Bergamo)

 

1942. Bergamo, ritorno di militari dalla campagna di Grecia e Albania. Sui timpani dei propilei di Porta Nuova comparvero scritte inneggianti al conflitto (Museo delle Storie di Bergamo)

 

1944. Scritte antisemite su un negozio posto sul Sentierone. Il negozio verrà confiscato dall’EGELI  (Museo delle Storie di Bergamo)

 

1944. Manifesti della RSI sui muri di Bergamo (Museo delle Storie di Bergamo)

 

1944. Bergamo occupata dai tedeschi. Se nel primo conflitto mondiale i segni della guerra furono legati soprattutto al ritorno dei feriti e dei morti e alla terribile epidemia di “spagnola” che indusse a riaprire il Lazzaretto (tragico evento, di cui significativamente non abbiamo documentazione fotografica), il secondo conflitto portò la guerra, quella combattuta, direttamente nelle vie e nelle piazze di Bergamo (Museo delle Storie di Bergamo)

 

1941. Campo di concentramento di Grumello al piano

 

Bambini sull’erba del prato, nella colonia elioterapica, schierati dalle assistenti in modo da formare – vista dall’alto – la parola DUX. Immancabili sullo sfondo i saluti fascisti fatti da alcuni bambini (Museo delle Storie di Bergamo)

 

Una vista panoramica del Sentierone in una cartolina risalente agli anni 1939-’45 con in primo piano sulla destra il monumento ai Caduti fascisti demolito subito dopo l’aprile 1945. I fautori dei conflitti si mobilitarono per creare edifici sempre più grandiosi, che dovevano dimostrare la presunta superiorità bellica e, durante gli anni della dittatura, anche “razziale”. Sorsero nuovi monumenti, volti a ricordare i propri morti, ma soprattutto l’esigenza del “sacrificio per la patria” (Per l’immagine: P. Frattini, R. Ravanelli, Il Novecento a Bergamo, UTET, 2014)

 

L’Arengario, monumento fascista,chiamato “pà de saù”, in piazza Cavour

 

1942 circa. Il monumento alla rivoluzione fascista (Museo delle Storie di Bergamo)

 

1944. La Galleria Conca d’Oro funge da rifugio antiaereo

 

Tutti in posa per una foto-ricordo fra decine e decine di pacchi, con alimenti e vestiario, da spedire – come avverte la scritta – “agli internati in Germania, 3-12 gennaio 1944”. Una delle tante immagini di propaganda volute dalla Repubblica Sociale di Salò

 

1944 circa. Soldati tedeschi (Museo delle Storie di Bergamo)

 

1945. Bergamo, comizio del comandante Fletcher con i membri del CLN dopo la Liberazione (Museo delle Storie di Bergamo)

 

Fine aprile 1945. Due giovani partigiani in posa in uno studio fotografico.Nel 2012, un invito a ripercorrere i sentieri delle valli, in montagna, teatro della Resistenza. Quattro itinerari scelti dalla “Tavola della pace” come simbolo del sacrificio dei partigiani in lotta contro i nazifascisti. Soprattutto giovani, “che diedero la propria vita per la libertà” (Museo delle Storie di Bergamo)

 

Tutto il dramma dei profughi giuliano-dalmati dopo la seconda guerra mondiale. Un esodo, sottolinea nella sua opera Elisa Cattaneo, “troppo a lungo rimosso dalla coscienza nazionale” (da “L’esodo dei profughi giuliano-dalmati attraverso le carte dell’Archivio di Stato di Bergamo”, Sestante, Bergamo, 2012)

 

Il gruppo de Partigiani clusonesi (Archivio Cristilli), un’immagine nitida, “Limpida nella definizione e anche nei volti di quelle persone che non avevano incertezza. Quel tempo terribile aveva questo come pregio: si sapeva da che parte stare, o di qua o di là, amici e nemici, bianco o nero, a prescindere dal lato della barricata che si sceglieva o in cui per destino si finiva” (Giorgio Badoglio per Storylab)

 

Partigiani delle Fiamme Verdi sul Sentierone. La brigata “Fiamme verdi” era dislocata nella zona di Oltre il Colle e del Monte Arera. Fu tra le prime ad entrare in città

 

Il 27 aprile 1945 i partigiani sfilano sui due lati della strada in Borgo Santa Caterina. A più di un balcone e alle finestre sono esposte bandiere tricolori con lo stemma dei Savoia. Giorni storici e drammatici, quelli di fine aprile 1945 (Museo delle Storie di Bergamo)

 

“Insurrezione Aprile 1945 In Piazza Pontida”. A questa data i partigiani cercavano di stanare i fascisti rimasti in città

 

Aprile 1945. Sfilata dei partigiani in via Tasso, davanti alla scuola dei “Tre passi” (ora “Eugenio Donadoni”) e alla Prefettura

 

Aprile 1945. Sfilata dei partigiani in via Tasso

 

Un carro armato americano “salutato” da una folla esultante in via Broseta. Era il 29 aprile 1945 e il potente mezzo era diretto a Lecco (archivio fotografico dell’Istituto bergamasco per la storia del movimento di liberazione)

 

29 aprile 1945. Carro armato americano in via Broseta (archivio fotografico dell’Istituto bergamasco per la storia del movimento di liberazione)

 

La sconfitta del fascismo avrebbe portato alla distruzione dei monumenti più compromessi, come quello alla “Rivoluzione fascista” (in prospettiva l’Arengario, in un’immagine antecedente all’aprile 1945), ma in città permangono ancora oggi architetture e simboli del passato regime

Note

(1) Da Domenico Lucchetti, Bergamo nelle vecchie Fotografie, ” Il costume (ambiente e vita)”. Grafica Gutemberg, 1976.

Giovanni Signorelli detto “il Merica”: il cantastorie di Bergamo

1920: il cantastorie Giuseppe Signorelli detto Merica nei pressi del Duomo

Con il Merica, una tipica macchietta cittadina vissuta fra fine Ottocento e la prima metà Novecento, gli autori e le cronache del tempo ebbero di che sbizzarrirsi.

Era, nel ritratto che di lui fece Umberto Zanetti, “un omino dinoccolato alto si e no un metro, che cantava con una vocetta agra, in falsetto, accompagnandosi con una chitarra più grande di lui”.

La sua “lirica”, che sgorgava dal suo genio, commentò argutamente i fatti cittadini per tutto un cinquantennio di storia bergamasca, elevandosi dall’ebbrezza lieve dei vinelli delle colline o tra i purissimi aspri vapori del più autentico “trani”.

Rivendita di vini pugliesi in piazzetta S. Pancrazio (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)

Tutta Bergamo lo conosceva ma nessuno, proprio nessuno, sapeva il suo vero nome. “Merica” – spiegò una volta il “cantore” – per via di una bisavola che si chiamava Maria Degna Merita e che aveva gli tramandato il nome, storpiato “in forza di chissà quali occulte leggi di antonomasia matronimica”, scrisse Vajana.

Si sapeva che era nato in SanTomaso, in anni lontanissimi, e ch’era figlio di un poverissimo cocchiere.

Via S. Tomaso nel 1910, con la donna che ha appena attinto l’acqua dalla fontanella (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

La sua bruttezza, “quasi disdicevole”, lo anticipò sin da bambino. Tutto di lui promuoveva al riso: magro impiccato, era alto come un paracarro, aveva le gambe sproporzionatamente corte e storte, malgrado le impaludasse civettuolmente in un giacchettone sproporzionatamente lungo. La sua camminata insicura ed ondeggiante tradiva un difetto alle ginocchia, che scontrandosi si respingevano a vicenda. “Gambestorte” e “crapadrecia”, si era compiaciuto definirsi.

“Ol Merica” nel commiato di Vajana

Il busto striminzito reggeva un cranio dalla forma marcata e pressata alle tempie; un visetto da infante, dominato da uno strano naso sottile da cui si allungava una barbetta appuntita e scomposta. Due occhietti vivacissimi e pungenti, quasi da topo, rallegravano quella specie di viso mobilissimo.

Le cronache si accaniscono descrivendo una bocca, “dalle labbra turgide e di un rosso rancido”, somigliante a “una ferita da taglio inferto da uno spadone medioevale”. Povero Merica. Parlava biascicando e il suo balbettio gli lasciava delle vistose bolle bianche ai lati della bocca, che risucchiava con movimenti suoi particolari. Nonostante ciò, anche quando serrava i denti digrignando fino all’esasperazione, riusciva simpatico a tutti.

Tra una canzone e l’altra aveva trovato il tempo di portare all’altare…. – c’è chi dice quattro, c’è chi dice cinque e c’è chi dice sette – donne, e di vederle poi dipartirsi nel regno dell’eternità: curiosamente, aveva sempre pronunciato il suo ‘sì’ mentre l’altra parte era in fin di vita. Sicchè ogni rito nuziale si era trasformato in un rito funebre, al termine del quale, “ol Merica” offriva da bere agli amici.

Il passeggio in Fiera nel 1902

Le di lui descrizioni sono a dozzine, ma fra tutte, quella di Geo Renato Crippa – che ai tipi bergamaschi dedicò esilaranti e commoventi capitoli – è senz’altro la più ricca e gustosa: nessuno meglio di lui – grande conoscitore delle storie e delle “macchiette” della città – avrebbe potuto né ignorare né lasciarsi sfuggire l’occasione ghiotta di descrivere il Merica.

La madre, una brava donna, illudendosi di farne un bravo artigiano l’aveva affidato a un ciabattino di Borgo Santa Caterina non badando che nello stanzino del “padrone”, fra banchetto, forme, ferri, pece, corde e scarpe, facevan bella vista alla parete due chitarre (una abbastanza passabile, l’altra vecchia e tarlata ma di buon suono) che avevano attirato le amorose attenzioni del giovinetto.

Il ponte di Borgo Santa Caterina

Non appena il “principale” sortiva dal bugigattolo, il nostro cercava di addestrarsi alla bell’e meglio e appassionatamente, e quando udiva qualche suono azzeccato si agitava all’impazzata meravigliandosi, fino a quando, dagli e ridagli e straziando le povere corde all’infinito, finì col realizzare un sogno cullato per settimane e mesi: accordare chitarra e canto fino ad acquistare una certa abilità, che perfezionò con qualche strana maestria.

Scrisse Crippa che “Per non disturbare i suoi di casa – vivevano in una stanza sola in quattro – esercitarsi nel ‘cesso’, all’esterno di una loggetta, fu invenzione prelibata. Questo posto, diceva, era il suo conservatorio, la scuola primaria della sua ‘genialità’ musicale”. Vi canticchiava la notte, cercando di adattare motivi popolari a testi di sua invenzione “amorosi o romantici, scelti in racconti di quartiere o raccolti nella miseria dei rimbrotti, delle accuse, delle stravaganze e delle irriquiete denuncie d’un volto rattrappito”.

Sicchè, “spingerlo a farsi conoscere, dopo averne constatata la bravura, fu operazione infame di un gruppo di buontemponi, decisi a scortarlo nelle osterie, sullo sterrato di piazza Baroni al tempo della Fiera, davanti ai caffè dei signori e sul Sentierone”.

Città Alta domina sul Sentierone con la Fiera e l’Ospedale di S. Marco e la chiesa di S. Bartolomeo (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Gli rimediarono così una giacca degna del suo nuovo ruolo, “magari di velluto ed un cappello verde alpino con fior di penna”.

Il lato della Fiera sull’attuale Largo Belotti (da “Bergamo nelle vecchie fotografie – D. Lucchetti)

Scortato dalla feroce compagnia, fece la sua prima apparizione pubblica nel suo borgo in due locali “di pregio”: il “Gamberone” e l’Angelo”.

Entrato nelle sale, così conciato, gli urlarono di andarsene alla svelta.

Borgo S. Caterina. Nei pressi si trovavano, poco distanziate fra loro, le trattorie delle Tre Corone, dell’Angelo, del Gambero e della Scopa (in “Bergamo nelle vecchie fotografie” di D. Lucchetti)

Ma imperterrito, con i suoi imbonitori pronti a difenderlo – “gente conosciuta (un macellaio e due salumieri)” – cominciò timidamente a cantare accompagnandosi alla chitarra scalcinata e “dati due strattoni, iniziò la sua tiritera con energia infuocata. Risa reiterate, battimani, ‘forza’, salutarono la esibizione, mentre, stordito ed in lacrime, l’artista non sapeva se accettare i bicchieri di vino che gli venivano porti da diverse parti: un successo”.

1910 circa: scoricio di Borgo S. Caterina (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

Da quella sera la fama del “cantastorie” percorse l’intera città, dai borghi a Piazza Vecchia e poi ancora giù, in Viale Roma: nei trani, nelle osterie, nei caffè di periferia, lo attendevano, passandosi parola.

Il gioco delle bocce in una trattoria di Bergamo, 1890 (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)

E così il suo repertorio mutò con destrezza e dalle fiabe d’amore passò ad improvvisare i fatti cittadini, commentandoli come un Pasquino redivivo.

“Verdi” – scrisse Umberto Ronchi – lo avrebbe assunto come Rigoletto, un Rigoletto generoso, tutto lepidezza e fantasia improvvisatrice”.

L’ometto, agli applausi non ci teneva affatto; voleva soldoni lui, quelli di rame: solidi, pesanti, colla bella faccia di Vittorio Emanuele.

Ol Merica in una caricatura del “Giupì” (da L. Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa II – La Strada Ferdinandea, 1963)

Il castigamatti, “conquistava i suoi “affezionati” accusando prefetto, sindaco, amministratori, vigili, agenti del dazio, di non mantenere le promesse, di aumentare i prezzi delle derrate, di non pulire a dovere le strade, di impicciarsi in cose non di loro pertinenza, di permettere abusi nella applicazione delle tasse, nel non affannarsi a chiedere al governo di Roma il raddoppio della linea ferroviaria per Treviglio, di aumentare i tabacchi, il sale, i francobolli, i ‘trams’ e le cambiali.

Le giostre in tempo di Fiera (da “Bergamo nelle vecchie fotografie” – D. Lucchetti)

Bastava la pubblicazione di un manifesto con nuove ordinanze civiche o militari perchè il Merica, cantante analfabeta, chiesti ragguagli a conoscenti, schiattasse in imprecazioni e querele; uno spasso”.

1925 circa: il Sentierone (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

Quando la guerra chiamò il popolo a raccolta, imbracciò la sua chitarra come un mitra e con la sua vocetta agra intonò il suo canto di battaglia:

“Viva l’Italia

la gran nassiù

che la combàt

per la resù”.

Il rifugio antiaereo scavato in Piazza Dante

 

Porta Nuova nel 1940. Sulla fronte dei tempietti si legge: “Il passato è già dietro le nostre spalle. L’avvenire è nostro” e “Disciplina Concordia e Lavoro per la ricostruzione della Patria”

Tra gli avvenimenti accompagnati dal suo lieto e canoro commento, famosa è la nascita del nuovo centro cittadino e di tutti gli edifici che spuntavano come funghi a ridosso delle Mura.

La Fiera in demolizione (1922-’24) e la nascita del centro piacentiniano

 

La Fiera in demolizione (1922-’24)

Del rinnovamento sontuoso della sua Bergamo egli ne fu entusiasta, ma la sua gioia fu mortificata dalla tristezza che attribuì alle sue vecchie amiche Mura:

“Che’ diràl chèl curnisù

Quando l’vé la primaera?

Vederàl piö i farfale

a vulà sota la féra?”

Panorama di Bergamo, 1938

Per far posto all’allora palazzo della Banca Bergamasca, sorta in prossimità del chiostro di Santa Marta, venne schiantato un ippocastano che per quasi un secolo aveva assistito a tutte le vicende bergamasche. Si trattava del “piantù” nel Boschetto di Santa Marta, uno stupendo gigante alla cui ombra ristoratrice si erano ritemprati vecchi pensionati e ai cui romantici effluvi si erano confortati dalle sartine ai soldatini.

1920 circa: il centro direzionale della ‘Nuova Fiera’ (Da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Quando lo vide crollare con schianto formidabile, compose un brano memorabile:

“Nel bosch de Santa Marta

a gh’era ü vècc piantù

per mèt sö öna strassa d’banca

I l’à mandat a reboldù”

La “strassa d’ banca” era la Banca Bergamasca, fallita e poi occupata dal Banco Ambrosiano, sorta in luogo del complesso monastico di S. Marta.

Il Sentierone e i suoi rigogliosi giardini negli anni ’30

Le due statue poste ai lati dell’appena inaugurato Palazzo di Giustizia, Il “Diritto” e la “Legge”, furono invece così nominate:

“Gh’è dò bèle statue

sura ü pedestalì

la siura l’è padruna

chèl biòt l’è l’inquilì”

Il Palazzo di Giustizia in Piazza Dante, da poco edificato

Che le sue argomentazioni fossero in prosa o in rima nessuno se ne accorgeva: per le folle egli era la bocca della verità, il fustigatore, il difensore della poveraglia, l’inquisitore”,

“Bravo, bravo”, gli urlavano, soprattutto se avvinazzate.

La sua acredine degenerava in lamentela disperata verso gli amministratori dei luoghi pii – ospedali, manicomio,“Clementina” – verso i quali gridava come un ossesso a difesa di sordomuti e poveri ciechi, del brefotrofio e relativa “ruota” e di ragazze-madri. Non c’era modo di trattenerlo.

Il fronte della fabbrica cinquecentesca (demolita nel 1937) dell’Ospedale vecchio di S. Marco: oggi, del grande complesso un tempo parte del quadrilatero della vecchia Fiera, è rimasta solo la chiesa che porta lo stesso nome

 

Il Manicomio Provinciale entrò in servizio dopo che fu chiuso, nel 1892, il manicomio di Astino. La ripresa fotografica è anteriore al 1905 (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

 

Marzo 1915: il trasloco della Pia Casa di Ricovero delle “Grazie” (ex convento degli Zoccolanti ed ora Credito Bergamasco) al nuovo edificio della Clementina. Nelle “Grazie” subentrò l’ospedale militare della CRI (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

 

Il Piazzale Porta Nuova con l’ex convento degli “Zoccolanti”: Casa di ricovero “di Grassie” sino al 1915, poi ospedale militare della CRI. Annullo postale del 14 – 7 – 1919 (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” – D. Lucchetti)

Lo ammansivano assicurando che si sbagliava e con gran fatica lo invitavano a consolarsi: ringraziava e una volta placato soggiungeva, quasi ilare: ‘Vi canterò la storia della Girometta, quella che, per amore, di chiappe ne vendette una fetta’.

Un gorgoglìo, in fondo alla gola, lo quietava prima di sgusciarsela recriminando”.

La Fiera settecentesca e il Sentierone. serie, riservata al mercato francese, fu stampata in tricromia dall’Istituto Italiano d’Arti Grafiche nel 1905 ca. (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Con la fede e con i santi era però impossibile tendergli un agguato, e lo seppe, una sera, una certa Paola, famosa passeggiatrice, che tentandolo a sproposito ricevette in cambio una sberla ben assestata.

Sempre avvolto in un pastrano raccattato che gli arrivava alle ginocchia, continuò a cantare finché la voce non divenne fioca e scheggiata fino a ridursi in miseria: “dopo il giro col piattello in mano, notava i pochi centesimi raccolti, borbottava sostenendo che egli non meritava di esser schiavo o sottomesso ad alcuno, ma degno di rispetto nel suo intenso lavorìo di giudice delle malefatte altrui, che egli rivelava da cittadino cosciente ed ardito. Non scherzava lui e non mentiva, o buffoni”.

Persa quasi totalmente la vista, si aggirava per le vie della città accompagnato da una povera fanciulla, anch’essa mezza cieca, perpetrando tristemente “i racconti di giorni perduti, di sindaci morti da anni, del dazio sparito, di denari senza valore e di inutili bazzecole”.

Ebbe però un lampo di poesia alla morte di Antonio Locatelli, scomparso in un agguato in Africa mentre era in missione a Lekemti compiendo voli di ricognizione per far sì che le truppe italiane non cadessero nelle imboscate delle milizie dei Ras finanziati dagli inglesi.

1920 ca. Questa cartolina, con Antonio Locatelli ed il suo inseparabile S.V.A., non è una vera e propria cartolina commerciale, ma è interessante poichè sul retro porta il visto della “censura fotografica” militare. La più grossa impresa sportiva di Locatelli fu la “prima trasvolata delle Ande”. Compì l’impresa di andata e ritorno tra il 31 luglio ed il 5 agosto 1919, effettuando anche il primo servizio di posta aerea tra l’Argentina e il Cile” (da “Bergamo nelle vecchie cartoline” di D. Lucchetti)

Atterrato in una radura, fu ucciso a tradimento con tutto il suo seguito e del suo corpo non si seppe più nulla “e per ciò, come degli antichi eroi, ben si può dire che il suo corpo, forse arso, trapassò nei leggendari empirei del simbolo”. Ebbe a dire Bortolo Belotti.

Era il 1936 e per Bergamo fu un terribile trauma; anche il Merica, ormai vecchio e misero, lo pianse con dolore sincero.

“Il cuore, consunto, gli dettò una geremiade, mezzo angosciosa, mezzo gloriosa. Forse fu la sola e garbata elegìa sfociata in devoto dolore; la balbettava piangendo, sicuramente affranto:

Me pianze, me pianze,
l’è mort, l’è mort, ol poèr Tunì.
I la brüsat i nigher,
selvaggi de nu dì.
L’era grand e bu, mei del pà bianc.
Bel, bel coma un angelì.
Me pianze, me pianze, ol me poer Tunì”

Morì con un rammarico, quello di non saper comporre musica (“Potevo diventare un Donizetti”…). La morte lo colse all’inizio del 1943 dopo una breve malattia e fu annunciata da un necrologio dell’”Eco”: una colonna e mezza che l’avvocato Alfonso Vajana volle dedicare al povero cantastorie di San Tomaso.

Il Merica l’aveva invitato a comunicare la sua dipartita ai suoi ignari cittadini, nel momento in cui avrebbe per sempre posato la sua chitarra stanca: “Io lo compresi e lo feci con tenerezza. Del resto se l’era meritata…..: aveva servito, a modo suo, parecchie generazioni di bergamaschi, prodigando molto canto, attimi di serenità ed un po’ di sorriso”.

Contenendo a stento la tristezza, nell’angusta prigione del suo corpo breve e storto.

 

RIFERIMENTI

Geo Renato Crippa, Il “Merica, in “Bergamo così (1900 – 1903?)”.

Alfonso Vajana, “Uomini di Bergamo”, Vol II. Edizioni Orobiche, Bergamo.

Gli antichi cimiteri fuori le Muraine e lo scomparso cimitero ottagonale di Valtesse, dove plebe e nobiltà si davano la mano

E’ all’Editto di Saint-Cloud, emanato in Francia nel 1804, che si deve la nascita dei moderni cimiteri, imposti da Napoleone per motivi d’igiene e di salute pubblica.

Secondo le nuove disposizioni, che recidevano di colpo la tradizione secolare di seppellire i defunti all’interno delle chiese, nelle loro adiacenze e nei sagrati (“Coemeterium Plebis”), il seppellimento doveva ora avvenire in appositi recinti da collocarsi fuori dalle mura cittadine: nascevano così i cimiteri civici,  che ancora chiamiamo “campisanti” a ricordo del loro antico uso.

Il Foppone agli inizi del Novecento. All’uso secolare di seppellire i defunti all’interno o nei pressi delle chiese, si contrapposero eccezioni dovute a gravi pestilenze, come la peste del 1630, quando i morti vennero sepolti nei cosiddetti “fopponi”, grandi fosse poste generalmente fuori dall’abitato. Il Foppone di S. Agostino, all’esterno delle mura medievali ma dal XVI secolo compreso nelle mura veneziane, era comunque abbastanza decentrato rispetto alla parte più popolosa del centro storico. Venne colmato solo agli inizi del Novecento con detriti, forse derivanti dall’abbattimento del tratto di via Beltrami

In seguito alle nuove disposizioni, attuate dal 1 maggio, nel 1810 a Bergamo sorsero ben tre cimiteri, tutti fuori dalle Muraine: quelli di Santa Lucia, San Maurizio e Valderde.

Il piccolo cimitero pentagonale di Santa Lucia si trovava nell’attuale via Nullo, tra le vie Broseta e Lapacano nell’area a lungo occupata dalla sede dell’Enel ed oggi da un lussuoso complesso residenziale.

Via Nullo negli anni ’20: la sede della Società Elettrica Bergamasca, poi Enel

Ma nel 1813, ritenuta inadatta la sua localizzazione, il cimitero venne dismesso e sostituito dal nuovo camposanto di S. Giorgio, costruito alla Malpensata.

La cortina delle Muraine del Lapacano nel 1884, in una incredibile e rara fotografia. Il Lapacano, cortina muraria che collegava Porta Broseta con la torre tonda del Cavettone (uno dei pochi luoghi in cui le Muraine medioevali sono ancora visibili, inglobate in un condominio) rappresentava in epoca medioevale un punto importante del circuito difensivo delle Muraine. Proprio in corrispondenza dell’attuale Lapacano si incrociavano due corsi d’acqua (utilizzata a scopo difensivo e per muovere macine e telai): la roggia Serio si univa alla roggia Curna, che proseguiva verso l’ospedale per mezzo di un canale che correva parallelo alle mura, in luogo dell’attuale via Nullo (fotografia eseguita da Cesare Bizioli – Patrimonio Lucchetti-Museo delle Storie di Bergamo – rielaborata da Gianni Gelmini nel suo ultimo e prezioso lavoro dedicato alle Muraine)

Il cimitero di San Giorgio si trovava tra la chiesa e il grande parcheggio della Malpensata, dove si tiene il mercato del lunedì. Venne dismesso circa un secolo dopo (qualcuno afferma nel 1904, quando entrò in funzione il Monumentale di viale Pirovano, ed altri nel 1909) ma restò presente fino agli anni ’40, e “pare che, nell’interludio fra la dismissione e la traslazione, diverse tombe siano state profanate” (1).

In ogni caso, il cimitero “ebbe qualche monumento artisticamente pregevole con cappelle di enti e associazioni religiose e civili: fra le tombe private ricorrevano i nomi più noti di commercianti e industriali facoltosi. Vi erano pure lapidi commemorative di associazioni patriottiche che, come la tomba Ortolani, opera di Luigi Pagani, vennero trasferite al Cimitero Unico” (Tancredi Torri, in “Archivio Storico Lombardo, 1960).

Il cimitero di San Giorgio, alla Malpensata. Quando entrò in funzione il grande Cimitero Unico della città, i carri funebri vi portavano le spoglie esumate percorrendo la strada del Conventino. Dopo la dismissione del cimitero l’area  si trasformò nel nuovo mercato del bestiame, trasferitosi dal Foro Boario (Piazzale degli Alpini) verso il 1915, non più agibile per la costruzione di nuovi edifici. Inoltre, nel piazzale della Malpensata stazionarono periodicamente dapprima il circo equestre e successivamente i baracconi della Fiera di Sant’Alessandro, qui trasferiti dal prato tra viale Vittorio Emanuele e Piazza della Libertà per la costruzione dei palazzi dell’INPS e della Camera di Commercio

Il cimitero nella piana di San Maurizio, dalla forma tondeggiante, sorse in un luogo dove esisteva una antica chiesa cimiteriale, che in seguito venne ceduta alle monache benedettine del vicino convento di San Fermo, di cui ancor’oggi possiamo ammirare la piccola chiesa.

Un’irriconoscibile via San Fermo con la sua chiesetta documentata dal 1154

 

Il cimitero monumentale di Bergamo in costruzione

 

Il Cimitero Unico nella prima metà del Novecento. A sinistra dell’immagine si riconosce ancora chiaramente la forma rotonda dell’antico cimitero di San Maurizio, unico sopravvissuto dei tre piccoli cimiteri costruiti a Bergamo agli inizi dell’Ottocento perchè inglobato nel  nuovo impianto del Cimitero Monumentale di Bergamo e destinato da allora alle sepolture dei bambini

 

Il “Cimitero dei bambini” nel 1963, cresciuto sull’area dell’antico cimitero di San Maurizio

 

La rotondità dell’area cimiteriale riservata ai bambini è ancora perfettamente leggibile lungo il perimetro del campo (foto dell’autrice, datata 02/11/2018)

Il cimitero ottagonale di Valtesse, sulla strada per la Valle Brembana, fu costruito in luogo dell’attuale Campo Utili, in via Baioni, e doveva servire, oltre a Valtesse, Città Alta e le sue adiacenze (Borgo Canale, Castagneta e Fontana).  E’ già riportato, nella sua forma ottagonale, nella mappa del Comune di Valtesse del 1810.

Bergamo, 1916 – Giuseppe Manzini. Cimitero ottagonale di Valtesse (in alto verso sinistra, parallelo al riquadro del Lazzaretto, quest’ultimo evidenziato in nero)

Dismesso il cimitero di Santa Lucia, gli altri tre restarono in funzione fino agli inizi del Novecento, ossia fino a che non entrò in funzione il grande Cimitero nella spianata di S. Maurizio, nell’attuale viale Pirovano.

Mappa di Bergamo nel 1869. Si possono notare due dei quattro cimiteri ottocenteschi di Bergamo: a Santa Lucia (ovest) e Valtesse (nord)

La soppressione dei piccoli cimiteri si era resa necessaria oltre che per l’espansione della città, anche per motivi di igiene pubblica.

Già nel 1887 la relazione sanitaria, lamentando la gravissima condizione dei cimiteri di San Giorgio e di Valtesse, invitava a risolvere la situazione prima che si verificassero pericolose conseguenze. Il cimitero di San Giorgio aveva esaurito il terreno utile per le tumulazioni, mentre in quello di Valtesse la condizione del sottosuolo costituiva una perenne e grave minaccia alla salute: nei periodi di pioggia eccessiva, le casse galleggiavano “nell’acqua che si scarica nella Morla prima che questa attraversi due popolose borgate”.

La Morla in piena a Valverde. Ancora nel 1936, in un tardo pomeriggio di primavera, dopo una giornata afosa vi fu un temporale proveniente da est veramente impressionante. Venne fortemente colpita la zona Borgo S. Caterina, tanto che oltre alle case e alle cantine allagate affiorarono sul terreno le ossa del vecchio cimitero di Valtesse, Il grave episodio fu causato dallo straripamento dei torrenti Tremana e Gardellone, confluenti della Morla (fotografia di Carlo Scarpanti)

Il problema di un nuovo cimitero, insieme a quello della realizzazione dell’acquedotto e della rete fognaria, erano ormai improrogabili per la tutela della salute dei cittadini.

Il Cimitero monumentale di Bergamo intorno al 1910 (Raccolta Lucchetti)

La decisione (8 giugno 1896) della municipalità di costruire un nuovo grande cimitero in grado di accorpare tutti gli altri pose fine ad ogni questione: il piccolo cimitero di San Maurizio venne da subito incorporato nel grande Cimitero Unico (e se ne rintracciano le antiche memorie nelle colonne d’ingresso al cimitero dei bambini e sulle lapidi di  illustri pittori apposte sulle pareti dietro la Chiesa di Ognissanti), quello di San Giorgio alla Malpensata vi confluì nel 1904 (o nel 1909 secondo taluni, comunque ancora presente negli anni ’40), mentre quello di Valtesse fu l’ultimo ad essere dismesso, lasciando nella memoria collettiva una flebile traccia.

Negli anni ’40 del Novecento, il barbone Gattinoni detto “Gatinù”, si era accasato in una cappella del cimitero di San Giorgio, alla Malpensata, appartenente alla Famiglia Piazzoni: “una sontuosa cappella gentilizia tutta marmo, colonnine e fregi. In un loculo aveva sistemato il suo cucinino; in un altro la sua branda”. L’uomo, che portava uno stravagante cilindro spelacchiato con penna di fagiano, a causa della sua ostinazione a lasciare il suo personale “dormitorio”, fece ritardare la demolizione del cimitero:  la nobile famiglia proprietaria della Cappella, venuta a conoscenza del fatto “era intervenuta in comune e aveva ottenuto di lasciare il pover’uomo in pace…Effettivamente il barbone non morì nella cappella gentilizia e così il Cimitero potè essere completamente demolito.” (il virgolettato proviene da “Il Novecento a Bergamo”)

 

IL CIMITERO DI VALTESSE

La data di nascita del cimitero di Valtesse è solo deduttiva, ma di fatto dal 1812 i registri della parrocchiale di Valtesse portano l’indicazione “novo cemeterio” e certamente nel 1816 la sua forma definitiva era compiuta.

Un emozionante ricordo Cimitero di Valtesse, dalla forma ottagonale, sorto lungo la provinciale per la Valle Brembana, soppresso negli Anni ’20 (Foto Domenico Lucchetti)

Si trattava di un cimitero “consorziale” di cui per oltre un secolo gli abitanti di Valtesse dovettero condividere promiscuamente l’uso con quelli di Città Alta e adiacenze (Borgo Canale, Castagneta e Fontana).

Nel lungo corso di questa forzata convivenza, la ripartizione delle spese di manutenzione, suddivise in base al carico della popolazione delle due parti, fu motivo di contrasti continui tra Bergamo e Valtesse: proteste, querimonie e ricorsi di uno o dell’altro degli interessati.

Bergamo, 1891. Mappa Wagner & Debes. In alto a sinistra, a margine, è visibile l’ottagono del Cimitero di Valtesse

I contrasti si inasprirono al punto che nel 1852-’53 Valtesse arrivò a scegliere un terreno “di prima classe” di fronte all’entrata del camposanto consorziale e a far redigere un progetto per un proprio cimitero. Iniziativa che non ebbe seguito.

La diatriba si trascinò per decenni (durante i quali si pensò anche di cedere cimitero al Comune di Bergamo) e si chiuse solo nel 1904-’05 con la costruzione del grande Cimitero Unico, quando cioè vi confluirono Città Alta e le zone “satellite”, permettendo alla popolazione di Valtesse di mantenere l’uso esclusivo del cimitero ottagonale fino al 1925, anno in cui il Comune di Valtesse insieme a Redona e Colognola venne accorpato a quello di Bergamo (2).

1920 – Bergamo, Via Maggiore del Comune di Valtesse (oggi via Giovanni Maironi da Ponte). L’edificio a sinistra è il Municipio di Valtesse, come indicato dalla targa affissa sulla cancellata. La zona è posta all’incrocio con l’attuale via Bruno Buozzi

 

1920 – Bergamo, Via Maggiore del Comune di Valtesse, guardando verso Città Alta

Trascorso il periodo legale e rimosse le salme,  il primo gennaio del 1942 si diede avvio alla demolizione e nel volgere di pochi anni nulla restò della graziosa cinta ottagonale con le cappelle in stile ottocentesco, del portale, degli stessi monumenti che lo ornavano.

Il Cimitero di Valtesse da via del Roccolino nel 1930. La cappella visibile sulla destra era riservata alle monache di Santa Grata. Figura in primo piano la signora. Angela Bensoni, di Valverde, classe 1919, vissuta sicuramente sino a pochi anni or sono

Nell’interludio tra la chiusura e la demolizione, il poeta Vittorio Polli e l’amico Sandro Angelini, “curiosi e accesi per la novità del sito”, si recano a Valtesse:

“stupiti dall’atmosfera ritornammo a guardare le croci e a leggere le lapidi, sostammo timorosi davanti a un cancello aperto, prendemmo paura per le grosse lucertole che si muovevano sotto i cespugli”.

Bergamo, 1910 ca., panorama su Valverde e Valtesse ripresi da Porta Garibaldi già S. Lorenzo

Ne è scaturita la splendida e suggestiva evocazione del cimitero “fatto d’un perfetto ottagono col muro di cinta coperto di coppi; adornato di cappelle gentilizie, rotonde, quadre, esagone, con lunette e timpani di chiaro stile neoclassico.  Intorno le colline della città, una parte di Bergamo di intatto fascino e una campagna verdissima e serena.”

In quanto alla nuova destinazione delle povere salme, sappiamo quel poco che don Enrico Mangili, parroco di Petosino, rilasciò in un libro dedicato alla storia e le origini di Valtesse, pubblicato a puntate da L’Eco di Bergamo, dal 20 febbraio al 12 marzo del 1942:  “Le salme per le quali i parenti fecero richiesta vennero esumate e trasportate altrove. Furono pure levate le salme dei soldati caduti in guerra e trasportate nella Cappella” (3).

“Portarono via qualcuno, ceneri e ossa; infine restò abbandonato. Un giorno se ne andò la donna custode con il suo tavolino. Furono lasciati aperti i cancelli delle cripte e il cancello d’ingresso. Ferro ruggine, pietre spezzate, sfaccendati che giravano, innamorati impudici di notte dietro il muro. Città alta guardava, indifferente a tanta rovina.” (Particolare del Cimitero di Valtesse nell’acquaforte di Sandro Angelini e testo di Vittorio Polli)

Smarriti nell’oblio i nomi e la memoria dei tanti che vi trovarono eterna pace, a poco a poco se ne perdeva il ricordo mentre restava un grande prato che più tardi sarebbe stato destinato a campo di Marte.

 

“ERAVAMO UN COMUNE AUTONOMO E AVEVAMO IL NOSTRO CIMITERO. POI IL CAMPOSANTO DIVENNE UN CAMPO DI GRANO E SFAMO’ UNA FAMIGLIA”

Primi anni ’50: chiesa di Valverde con alle spalle l’area dell’ex cimitero di Valtesse e lo stabilimento Sace. Sull’area dell’ex cimitero non è ancora stato realizzato il campo sportivo: è questo il periodo in cui il campo venne coltivato a grano

“Ancora negli Anni Cinquanta noi di Valtesse ci consideravamo un paese a parte e non un quartiere di Bergamo. In fondo eravamo stati comune autonomo fino a una ventina di anni prima… Il nostro territorio comprendeva un’area vasta: Monterosso, Conca Fiorita, San Colombano…

Eravamo un comune agricolo, collinare. E avevamo il nostro cimitero, in quella che per noi era la nostra periferia, verso Bergamo, in via Ruggeri da Stabello, quello che poi è diventato il campo sportivo militare Utili e quindi adesso centro sportivo credo comunale.

Panoramica dell’area di Valtesse, San Colombano e Monterosso (edificato nel 1960). A sinistra, prospiciente la Sace, il Campo Militare Utili, appena realizzato sull’area dell’ex Cimitero (la ripresa è del 1958)

Era un cimitero in piena regola che accoglieva i defunti del Comune di Valtesse e, per lungo tempo, anche quelli di Città Alta. Finchè un certo giorno, era il 1929, venne decretato che non si poteva più seppellire i morti nel nostro cimitero, ma che bisognava confluire nel cimitero di Bergamo, il monumentale. Le sepolture esistenti restavano per gli anni decisi nei diversi contratti, dopo di che bisognava riesumare le salme. Di fatto il nostro cimitero – che aveva ospitato anche i resti illustri di Gaetano Donizetti e Simone Mayr, per esempio – venne chiuso definitivamente nel 1941 e le salme riesumate portate al Cimitero di via Borgo Palazzo. A quel punto, riesumate le salme, il cimitero divenne un nuovo pezzetto di campagna e venne dato da coltivare proprio alla mia famiglia, prima di diventare successivamente un campo sportivo. Il campo dei morti, seminato a frumento, diede alla nostra numerosa famiglia modo di vivere” (4).

Valtesse, area ex-cimitero: operai al lavoro per la bonifica del campo

 

Via Baioni e lo stabilimento Sace nel 1947

 

Il campo sportivo Utili e la Sace intorno al 1960. I pendii  della Maresana, ancora verdissimi, sono pressochè disabitati

 

I MORTI ILLUSTRI

Il cimitero di Valtesse si distingueva per i molti nobili che risiedevano nell’Alta Città e dunque non c’è da stupirsi se questi ultimi, ormai privati insieme alle famiglie di maggior censo di arche più o meno monumentali all’interno delle chiese, venissero seppelliti accanto ai plebei.

E così nel piccolo e modesto cimitero i nomi illustri si univano a quelli dei  compagni della vita e a molte coppie di sposi – “finiti quasi insieme, per armonia di sentire” – nonchè agli artisti. Giacquero qui anche le monache di Santa Grata, che avevano una propria dignitosa cappella e i loro nomi erano indicati al mondo così:

“Signora Idelfonsa… Morta di 50 anni.”

Giuseppe Daldossi, il cui padre, dipendente comunale, si occupò della demolizione del cimitero, raccontò che quando si demolì la grande cappella delle suore del monastero di Santa Grata, “la Madre Badessa volle che nell’esumazione dei corpi (traslati poi al Cimitero Unico) si procedesse nei dovuti modi: a tal fine chiamò a collaborare il portinaio-sacrista del monastero, che a tempo perso faceva l’armaiolo in un piccolo laboratorio annesso alla sua abitazione.

Nel procedere all’apertura dei loculi, si poté constatare con grande meraviglia che la consistenza delle bare, tutte costruite con legno massiccio e ti tale spessore che, a detta dell’esperto portinaio-sacrista, potevano ancora essere utilizzate – pur a distanza di tanti anni, in alcuni casi più di un secolo – per fare calci di fucile. Le bare all’interno erano state tra l’altro rivestite da una specie di catrame, per cui i corpi delle suore apparivano mummificati”.

Giacquero anche, nel cimitero di Valtesse, Simone Mayr e il suo allievo Gaetano Donizetti, poi traslati sotto le volte di Santa Maria Maggiore.

L’ 11 aprile del 1848 la salma di Gaetano Donizetti veniva deposta nella Cappella della nobile famiglia Pezzoli, dove rimase fino al 26 aprile 1875. A quella data, esumati i resti del grande musicista e quelli del suo maestro  Simone Mayr, vennero rese ai due illustri musicisti solenni onoranze che si conclusero con la deposizione delle loro ossa in S. Maria Maggiore.

Monumento funebre a G. Donizetti in Santa Maria Maggiore (Bergamo, Taramelli, riproduzione datata 1890 circa)

 

La solenne cerimonia della traslazione di Donizetti e del maestro Mayr nella basilica di S. Maria Maggiore – 1875

 

La solenne cerimonia della traslazione di Donizetti e del maestro Mayr nella basilica di S. Maria Maggiore – 1875

Nel cimitero di Valtesse ebbero ancora sepoltura i maestri Antonio Cagnoni ed Alessandro Nini; le loro ceneri  il 27 ottobre 1925 furono trasferite al Famedio cittadino.

Miniatura del poeta Pietro Ruggeri da Stabello eseguita da Faustino Boatti nel 1831 ). Il poeta, padre della poesia vernacola bergamasca, venne sepolto nel cimitero di Valtesse nel gennaio 1868. “Poveretto! Lui, un amante delle liete brigate, lui che tanto aveva riso e fatto ridere, negli ultimi anni della sua vita, si vide un po’ alla volta abbandonato da tutti gli amici e gli ammiratori dei tempi più lieti. Ma non perdette per questo il suo buon umore che conservò fino negli ultimi istanti. Morto in una stanzetta di una casa situata in Via Mura in Borgo S. Caterina. Un ristrettissimo corteo di amici lo accompagnò all’ultima dimora in una fredda scialba giornata del gennaio 1858: e la sua salma andò confusa con tutte le altre nella fossa comune. E lì giacque nel più assoluto oblio per dodici anni finché qualcuno pensò a ricordarne la memoria con un modesto ricordo” (5)

 

Cimitero Monumentale di Bergamo. Le lapidi di tre illustri pittori bergamaschi, un tempo sepolti al piccolo cimitero di Valtesse, i cui resti sono andati dispersi: Marco Gozzi, Vincenzo Bonomini e Pietro Ronzoni. Le tre lapidi sono apposte sul muro di cinta posto dietro la Chiesa di Ognissanti e confinante con via Serassi. Probabilmente furono portate al Monumentale poco prima che il cimitero di Valtesse venisse demolito. Notate la tavolozza in pietra sopra la lapide centrale  (foto dell’autrice, datata 02/11/2018)

“Dispersi andarono invece i resti degli storici Giovanni Finazzi e Agostino Salvioni, dei pittori Marco Gozzi, Vincenzo Bonomini  e Pietro Ronzoni, dello scultore Luigi Carrara, del melodico poeta romantico Samuele Biava de’ Salvioni la cui lapide tombale lo ricordava come “non ultimo dei pensatori che auspicarono il Risorgimento italiano”, del naturalista Giovanni Maironi da Ponte (del quale non fu possibile l’identificazione della salma), dei giureconsulti Gaspare Carcano e Luigi Tiraboschi, di Gaetano Alberigo da Rosciate “che ebbe sotto diversi governi cariche di rilievo” e di Giovanni da Rosciate con il quale si è spenta questa famiglia bergamasca celebre per il suo Alberico, del prof. Elia Zerzi che “raccolse e illustrò la flora bresciana”, del prof. Giuseppe Venanzio matematico, fisico, filosofo; del prof. Pietro Luigi Dahm insegnante di tedesco al liceo e dell’ing. Cesare Noris pure insegnante di discipline matematiche, del medico Federico Maironi da Ponte”… E l’elenco dei sepolti in oltre un secolo di storia potrebbe continuare per pagine e pagine.. (6).

Autoritratto ironico del pittore Vincenzo Bonomini (Bergamo 1757 – 1839), autore dei famosi sei pannelli Macabri realizzati prima del 1816 e  conservati attorno all’abside dell’altare principale della Parrocchia natia: quella di Santa Grata inter vites in Borgo Canale. Con questa sarcastica rielaborazione del memento mori, Bonomini ci ammonisce ricordandoci che al di là della condizione sociale, dell’età, dell’intelligenza e del credo di ognuno, la nostra mortalità ci accompagna in ogni istante della nostra vita

A proposito di Bonomini, Roberto Bassi-Rathgeb negli anni Cinquanta scriveva che “in uno di quei vagabondaggi fuori porta che talvolta ci si concede volentieri per evadere alcuni momenti dal rumore della città, mi accadde di passare nelle vicinanze del piccolo cimitero abbandonato di Valtesse; uno squallido camposanto ingoiato oggi dalla vicina Bergamo in continua espansione, che apriva malinconicamente la sua cinta in rovina al visitatore curioso e desideroso di un intimo senso di pace. Fra quelle tombe appena segnate tra le erbe cresciute da tempo senz’ordine, presi a camminare quietamente senza provare l’oppressione della solitudine, giacchè i nomi sui cippi e sulle lapidi facevano dell’ex camposanto una piccola città silenziosamente abitata da individui affiancati in perenne armonia. Orbene, mentre mi aggiravo presso il lato meridionale del muro di cinta, a pochi passi dal punto dove fu il primo tumulo di Gaetano Donizetti, vidi i frammenti d’una lastra funeraria che giaceva al suolo, abbandonata ormai da ogni pietà umana. La curiosità mi fece chinare. E lessi l’epitaffio: ‘A Vincenzo Bonomini, valente pittore morto il 17 aprile 1839 all’età di ottantatre anni, e all’unica sua figlia Maria Luigia, morta il 14 ottobre 1850 nell’età di diciotto anni, Maria Annunciata Bonomini nata Colombi – moglie e madre desolata – ha posto implorando il riposo dei giusti.

Cimitero Monumentale di Bergamo. La lapide di Vincenzo Bonomini qui trasportata dal Cimitero di Valtesse (foto dell’autrice, datata 02/11/2018)

I nomi di altri artisti, come il Ronzoni e il Gozzi, che poco prima avevo letto sulle loro sepolture, non mi avevano suscitato un particolare interesse; una strana emozione invece mi colse nel trovarmi d’improvviso di fronte a Vincenzo Bonomini proprio in un luogo che per un certo perido della sua vita era stato l’ambiente dei suoi pensieri, fino a disegnare gli uomini, nelle manifestazioni della vita quotidiana, sotto forma di scheletri, quasi fosse la cosa più naturale di questo mondo! E tutto ciò senza lo spirito cupo e sarcastico di molti artisti stranieri, ma con un fare del tutto bonariamente ironico”.

 

IL “POER NADALI” E LA “COMAR DE ALTESS”

Il parroco di Valtesse scrisse che fuori del recinto cimiteriale, specialmente ai lati del viale d’accesso, dal 1848 al 1851 venivano sepolti i patrioti che l’Austria abbatteva col piombo nelle fosse del Castello di San Vigilio o sugli spalti di S. Agostino, o che più ignominiosamente impiccava sulla spianata della Fara per delitti comuni: supplizio che avrebbe dovuto essere riservato soltanto ai peggiori delinquenti, ma che l’Austria applicava anche ai disertori, ai renitenti della leva oppure a coloro che avevano contravvenuto alla legge marziale del 1848 per detenzione e occultamento di armi: tutti per maggior parte provenienti dal contado.

Tra costoro si trovavano anche delinquenti comuni. Apparteneva a questi ultimi il “pòer Nadalì”, che condannato dal tribunale austriaco al capestro per gravi reati, prima di subire il supplizio fece ammenda delle proprie colpe ricordando la sua disgraziata giovinezza di trovatello e invocando ed ammonendo i genitori a vigilare sui propri figli.

Il pentimento o l’innocenza si questo bandito commosse il popolino, che a lungo invocò indulgenza nelle preghiere, recando fiori e accendendo ceri sulla sua tomba anonima, posta all’entrata del cimitero di Valtesse.

Sereno Locatelli Milesi ne raccontò la rocambolesca storia:

“Ecco, lontano, quasi ai piedi del colle, la Chiesa Prepositurale di Valtesse… che si profila fra il verde. Vedi il vecchio Cimitero? Vuoi sentire la storia del “Povero Nadali?“

Ascolta:

Il Nadali è stato un famoso – tanto famoso che di lui neppure si ricorda il cognome — delinquente dei primi dell’800, reo convinto di numerose grassazioni e di parecchi omicidi, e come tale condannato alla pena del capestro.

Impiccato sovra uno spalto della Fara, prima di passare il collo nel laccio fatale, aveva ottenuto di concionare gli intervenuti allo… spettacolo: e rivolgendosi specialmente alle madri di famiglia aveva raccomandato ad esse di vigilare l’educazione dei figlioli: perchè lui, povero Nadali, non si sarebbe trovato in quelle belle condizioni se la madre sua non lo avesse abbandonato a se stesso, ai pericoli della strada, alle insidie delle cattive compagnie.

Sotterrato in questo Cimitero, fuori del sacro recinto — come era costume del tempo — la sua fossa è stata per molto tempo meta costante del popolino, che recava tributo di fiori, di ceri e di preci, ritenendo per fermo che il Nadali fosse diventato poco meno di un santo.

Molti anni dopo, quando, per allargare il Cimitero, si dovette abbattere la cinta e provvedere al nuovo scavo, non si trovo più traccia della salma: il popolino gridò al miracolo: il Nadali, dopo aver ottenuto la grazia di entrare in Paradiso, aveva ottenuto anche quella di entrare nel Cimitero…”.  (7).

Pure in terra non sacra – aggiunge il parroco – venne sepolta certa Bongiani, meglio nota come la ‘comàr de Altess’, famigeratamente celebre al tempo dei nostri nonni.

Questa donna esercitava la professione di levatrice nel comune di Valtesse e godeva di molta stima e considerazione, finchè, per caso, venne scoperto che essa capeggiava una banda di rapinatori che di notte, sulla strada che corre poco lontano dal cimitero e allora del tutto isolata, aggrediva e derubava i carrettieri o altri passanti. Arrestata, subì il capestro nel 1851.

“Confortava i condannati nelle estreme ore, una caratteristica figura di sacerdote, Don Fantino Premerlani (Don Fantì), spirito altamente patriottico, originale e arguto tipo bergamasco, negli ultimi anni della sua vita bibliotecario alla Civica. Anch’egli – nel 1890 – ebbe estremo riposo nel cimitero di Valtesse.

Quanta pietà, quante dolorose vicende, quante lagrime, quanti ricordi, quante leggende intorno a questo triste luogo, avvolto ormai nell’oblio, nell’inesorabile oblio dei vivi” (8).

Oggi l’impronta dei nostri passi scivola distrattamente su quelle antiche memorie, posate a mo’ di selciato sulla breve gradinata che dal Mercato delle Scarpe conduce in piazza Angelini.

La scalinata di raccordo tra Piazza Mercato delle Scarpe e Piazza Angelini (allora piazza Pendezza), selciata da porzioni di lapidi provenienti dal demolito cimitero di Valtesse

 

Porzioni di lapidi provenienti dal demolito cimitero di Valtesse, posate sul selciato della gradinata tra piazza Mercato delle Scarpe e piazza Angelini.

Chissà quante volte, senza nemmeno saperlo, abbiamo calpestato i nomi di coloro che senza distinzione dì età e di ceto sociale si sono tenuti per mano nel mesto cimitero adagiato all’ombra della città antica.

 

NOTE

(1) Marco Cimmino, Il mistero di via Lapacano, dove le Muraine dividevano città e campagna

(2) “Al principio del regno d’Italia Valtesse contava 1008 abitanti. La sua guardia nazionale era formata da una compagnia con 110 militi attivi: aveva 71 elettori ammínistrativi e 19 politici inscritti al collegio di Bergamo. La sua Congregazíone di carità disponeva di un capitale di circa venti mila lire. A quel tempo esso formava ancora comune a sè: ma colla legge del 1935 sulla unificazione dei comuni esso è stato di nuovo riaggregato a Bergamo e non ne rimase distinto che nel campo ecclesiastico” (don Enrico Mangili, “La storia e l’origine di Valtesse”, cit. In bibliografia).

(3) P. Tosino, “La storia e l’origine di Valtesse” – Pubblicata a puntate da L’Eco di Bergamo, dal 20 febbraio al 12 marzo 1942.

(4) “Il grano del cimitero”, in: (A cura di) Paolo Aresi, “Bigio Long e gli altri – Storia e storie della gente di Valtesse,Valverde, Monterosso e Conca Fiorita”. Comune di Bergamo, Circoscrizione 4.

(5) P. Tosino, “La storia e l’origine di Valtesse”, cit.

(6) “Non sappiamo se alcuno si ricordò del patriota e scrittore Pasino Locatelli, e quale sorte toccò alla sua lapide tombale che portava l’epigrafe da lui dettata (…)”. Fra i sacerdoti:  “il primo che vi ebbe sepoltura fu il parroco di Valtesse, Valsecchi Gio Battista da Rossino, defunto il marzo 1820. Abbiamo poi tra i tanti, il sac. Antonio Cefis vice bibliotecario della Civica Biblioteca, il sac. Prof. Vincenzo Bonicelli insegnante per trentotto anni fisica al seminario, il sac. Paolo Fumio valentissimo nell’arte oratoria, Don Benedetto Mazzoleni pro cancelliere episcopale, ecc.”. “Nel periodo della dominazione austriaca vi ebbero sepoltura notabilità di quell’amministrazione; così, nel 1831, un Ernest Richeler von Binnenthal e l’anno dopo il command. K. Und K. Cav. Di Maria Teresa e S. Anna di Russia di II classe, Ludwig Freihew von Schonnermarck”. Vi ebbe sepoltura anche il poeta Rovetta (“La storia e l’origine di Valtesse”, P. Tosino, cit.).

(7) Sereno Locatelli Milesi, “La Bergamasca”, Edizioni Orobiche, Bergamo.

(8) P. Tosino, “La storia e l’origine di Valtesse”, cit.

FONTI

Luigi Volpi, “Memoria del Cimitero di Valtesse” – In memoria di Luigi Agliardi Presidente dell’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Bergamo (Comunicazione fatta all’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Bergamo nella seduta del 6 dicembre 1952). Il libro è stato stampato nel novembre 1952, in 371 copie numerate, dalla Stamperia Conti di Bergamo, via XX Settembre. 21 esemplari contrassegnati con lettere dall’A alla Z e 350 esemplari numerati dal N. 1 al N. 350. Esemplare 92.

Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo – Istituto di Studi e Ricerche, “Storia Economica e Sociale di Bergamo – Fra Ottocento e Novecento – Lo sviluppo dei servizi”.

Sereno Locatelli Milesi, “La Bergamasca”, Edizioni Orobiche, Bergamo.

(A cura di) Paolo Aresi, “Bigio Long e gli altri – Storia e storie della gente di Valtesse,Valverde, Monterosso e Conca Fiorita”. Comune di Bergamo, Circoscrizione 4.

P. Tosino (pseudonimo di don Enrico Mangili, parroco di Petosino), “La storia e l’origine di Valtesse” – Pubblicata a puntate da L’Eco di Bergamo, dal 20 febbraio al 12 marzo 1942.

Memoria del Cimitero di Valtesse, di Vittorio Polli

Il Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

Il ricordo che Vittorio Polli ci ha lasciato attraverso questa testimonianza legata al piccolo Cimitero ottocentesco di Valtesse, oltre a costituire di per sè un frammento assai prezioso di storia cittadina, rappresenta – seppur con il tono mesto ed elegiaco della narrazione – un minuscolo spaccato della sensibilità collettiva nei confronti della morte nel periodo romantico, così ben analizzata dallo storico e filosofo francese Philippe Ariès nel suo I luoghi della morte in Occidente. Dal medioevo ai giorni nostri (1).
L’Ottocento è caratterizzato infatti da una sensibilità nuova, che non tollera più l’indifferenza tradizionale nei confronti dei morti ma che vede piuttosto l’insorgere del sentimento della pietà verso i defunti (da cui poi scaturirà la venerazione della tomba, con relativi flussi migratori verso i cimiteri), che possiamo ampiamente rintracciare nel presente racconto.

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

“Scompaiono anche i cimiteri: i morti, le lapidi, i cespugli sempreverdi; e dove un giorno eran le tombe si ritrova un terreno arato.
Da quando nel cimitero non si sotterra più nessuno, incomincia la vera morte. L’erba devasta; corrono ramarri e lucertole, signoreggiano cespi di verde sulla terra grassa; le arenarie si sfaldano, le parole gemono colore sul marmo bianco, il muschio si abbarbica alle pietre, i ferri diventano rossi di ruggine, l’oro delle corone volge al vecchio.
Croci sbilenche, ferri storti, cancelli aperti, muri scrostati: resiste il silenzio, non c’è segno di passo umano. L’uomo è tenuto lontano dalla paura e dai fuochi fatui.
La distruzione la compiono il vento, l’acqua, la ruggine, gli animali che vivono coi morti marciti sotterra.
Non c’è ancora chi ruba a questo punto dell’agonia del cimitero; la paura e i fuochi fatui tengono lontana la mano sacrilega del malfattore.

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

Dopo, i ricordi posti dai vivi non saranno più ricordi, ma solo nere lacrime sulle lapidi, lacrime di pioggia, cose destinate a perire.
Gli angeli tagliati nella lamiera, battuti nel ferro per le sepolture dei fanciulli lasceranno cadere di mano il violino, le lunghe trombe e così sarà spenta la musica loro dedicata e la tenerezza delle madri per i figli perduti.
Le evocazioni dei trapassati, scolpite nella pietra, svaniranno per sempre ai nostri occhi, che riconoscevano in queste cose atteggiamenti di anime e dolori.
Le parole incise nella pietra per i morti sono le stesse che vorremmo per noi, rimpianto e ricordo, quando saremo passati di là. Chi non ha immaginato attraverso la lettura degli epitaffi il morto disteso nella bara? C’è scritta l’età, il nome, il cognome, la famiglia, la sua vita e la sua serenità di morto. In posizione supina, gli occhi chiusi, le mani tenute sul petto dal nero rosario. Gli occhi chiusi e il volto sereno di chi muore nel proprio letto.
A Valtesse è tutta gente morta così, di autentica crudele malattia. Repentina, improvvisa, prematura; forse lunga, sopportata con rassegnazione. Ma non c’è il morto della strada, della guerra e della folgore; non c’è l’ucciso dalla barbara mano di altro uomo.
La grande parte di questa gente appartiene a un mondo tramontato, a un’epoca in cui si moriva nella casa dei padri, confortati dal pianto del medico e dei familiari. E allora si poteva dormire il sonno eterno.
Non ci sono i giustiziati della politica; la politica a quel tempo non usava la morte come mezzo d’affermazione nei pubblici poteri. Sono questi i morti dell’Ottocento, tutti con croce e rimpianto e la pace di Dio implorata per loro dai vivi, che avevan tempo e animo per pregare ogni sera.

Curiosi e accesi per la novità del sito, venimmo a Valtesse; stupiti dall’atmosfera ritornammo a guardare le croci e a leggere le lapidi, sostammo timorosi davanti a un cancello aperto, prendemmo paura per le grosse lucertole che si muovevano sotto i cespugli.
Non veniva in mente quell’altro cimitero dove riposano i nostri cari; altra cosa, nulla a che fare con Valtesse. Questi non sono più Giovanni, Luigi, Giuseppe, Ottaviano, non sono persone: è tutta un’epoca morta a Valtesse.
E così c’è rimasto per anni il desiderio che l’immagine di questo luogo non andasse perduta, che le riflessioni tratte nelle sere di Valtesse o nei pomeriggi assolati venisse comunicata a qualcuno, per un rimpianto o un ricordo.

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

Conoscemmo Valtesse dapprima alla superficie: sta morendo il cimitero, tra poco sarà un prato, non esisterà più.
Era una cosa quasi romantica che sopravviveva con le sue espressioni a un momento di barbaro gusto.
I vivi mostravano qui di voler bene ai morti; un bene semplice, costernato, rassegnato, dolente, secondo le età, i casi e il morbo. Angeli e trombe per i fanciulli, musica che immaginavamo suonata dalle stesse notti tranquille per questi adolescenti. Rugiada e fiori, erbe e cespugli, piccoli monumenti.

Il bene dei vivi e la soddisfazione dei morti era l’impronta di un’epoca. Senza tragedie, senza misteri; non dicevano i loro segreti e le probabili turpitudini commesse in vita e tutto era dunque lasciato alla fantasia, convogliata dalle parole delle lapidi, affettuose e tranquille.
C’erano le illusioni sull’uomo di scienza, sull’uomo di lettere, il vir praeclarus. C’erano chiari concetti di vita intemerata, di virtù elette, di operoso lavoro.
Integer vitae scelerisque purus.
Si vedevano pochi ritratti sulle tombe di Valtesse.
E allora il volto d’una giovane donna rapita a trent’anni, nel fiore della vita, dava l’emozione intensa che solo la morte sa provocare nei viventi. E la sposa che lasciò i diletti figli e l’inconsolabile sposo? Dove ritroveremo famiglie così dolcemente legate di affetto, e i sogni che facemmo su di loro? Sogni forse suscitati per noi stessi, quasi soltanto per noi e per la fine del nostro cammino su questa terra.

Quando il vento e la pioggia avranno tutto devastato, quando croci e cancelli saranno caduti, come sognare tanto commoventi storie? Piangendo qualche cosa che non c’è più, che non abbiamo più, sentiamo maggiormente il peso e l’orrore della nostra vita attuale con le sue svariatissime e nuove modalità per morire.
I morti dei nostri giorni, quelli che sono rimasti una notte per la strada infangati e abbandonati ci spaventano d’un tratto come se questa sorte toccasse proprio a noi l’indomani.
Qui ci stanno davanti lapidi con i medesimi nomi, che rappresentano varie generazioni di una stessa famiglia. Si richiamano negli uomini e nelle donne. Giuseppe di Pietro, Pietro nipote e Giuseppe pronipote, che “posero” e “lacrimarono”. Non macchia, non infamia, non delitto, in queste esposizioni: la morte era ancora quella dello scheletro con la falce, che colpiva l’imperatore e il contadino; era la naturale compagna del vecchio, l’eccezionale ventura del giovane.

Naturalezza nel morire; poi son venute sterminose guerre, odî di parte, sovrapposti agli orrori delle guerre, cosicchè ci meravigliamo di queste vite spente, di queste luci oscurate sulla terra e trasmigrate a vivere in cielo col buio della notte.
La pietà cristiana è palese e i morti hanno l’aria di buonanime consolate; i guerrieri caduti per l’indipendenza della patria si chiamano eroi e si trovano tutti in paradiso.
“In paradisum deducant te angeli…”
I morti delle guerre perdute, trovandosi con questi, si sentiranno meschini e umiliati, come chi ha gettato male la propria vita, la propria vita buttata via per nulla.

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

Se tocchi il ferro ruggine d’una corona o d’una croce, vibra. L’angelo custode del ragazzetto perito danza e muove le ali, gioca con l’anima candida di Carletto Rubis. Il canonico delle Grazie conversa con quello di Santa Maria; gli occhi d’un vecchio contadino contemplano la sua collina poco distante, la sua terra, conservata per gli anni della vita, sulla quale camminò, vide la primavera e faticò un suo sereno mestiere.
Una colonna sta perdendo il capitello; così mossa dalla sua posizione ordinata sembra scherzare coi pipistrelli della notte. L’aria fa cigolare un cancello, poi il rumore di qualche insetto, un rumore di essere vivo, ti fa voltare di scatto.
Nessuno più si cura del verde, dei fiori, dei sempreverdi; sono gli ultimi compagni di questi morti di un secolo e rifioriscono ogni anno e faranno così finchè non verrà qualcuno a strappare le più intime radici, profonde radici andate sotterra.

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

Sembrava un’elegia questa immagine visiva di Valtesse; poi vennero altri pensieri. Come fa la morte a scegliere i suoi soggetti? E’ proprio Dio che fa morire gli uomini? Il demonio ha forse tirato per i capelli qualcuno di questi che dorme “il sonno del giusto”.
Bisognerebbe vedere qualche segno. E le lacrime ci saranno anche per noi? Soavi lacrime di sposa innamorata, verrete a confortarci?
Guardiamo a questa gente di un’epoca piena e umana, perchè non sappiamo dove riposerà la nostra morte.
Il mondo di Valtesse è finito, non può più tornare. Ha reso felice qualche generazione, mentre oggi neppure i filosofi pensano più a che cosa sia la felicità.
C’è un modo per rendersi conto degli eventi, ed è il contrasto che esiste tra una epoca e l’altra e gli effetti sulla vita dell’uomo. Venimmo qui a cercare le spiegazioni perchè vedevamo un mondo tranquillo, addormentato per sempre, che permetteva di riflettere.

I morti di Valtesse sono quelli che hanno inventato la luce elettrica, la locomotiva, quelli di “Delagrange volerà”. Noi guardiamo queste conquiste, senza badare a quello che significano per noi. Che cosa faremo noi per i nostri pronipoti, come potremo incantarli con qualche cosa del genere quando verranno a vedere il cimitero di….. che cade in rovina?
Restiamo confusi, oscuramente presaghi di tristezze; il morto della strada ci rimprovera. Conta poco ormai la vita dell’uomo.
Questa gente ci ha lasciato una eredità libera e armoniosa di pensiero e di sentimenti; il sapere, l’invenzione aiutavano il benessere dell’uomo; la scienza serviva all’uomo per la sua vita materiale. Noi non abbiamo continuato in questa direzione.
Dopo di loro con le nostre lotte incivili e tutti i nostri eccessi, scienza e poesia balbettano sovente confuse incomprensibili parole; anche comode parole, crisi di civiltà.

In qualche parte del recinto si leggono queste parole; “Natura non facit saltus”: il pellegrino uomo ha camminato sulla strada del progresso lentamente col suo fardello; è arrivato quasi fino a noi, poi s’è fermato distratto da parole che non intendeva a pieno.
Noi ci sentiamo pungolare violentemente, non possiamo camminare più: preferiamo deporre il fardello e il bastone; siamo spinti a correre, a superarci e non sostiamo mai nelle dolci sere del nostro spirito.
E così il naturale sviluppo, non esiste; non ci insegnano nulla i paragoni del creato, i nove mesi per nascere, le foglie, le stagioni, il giro del sole, lo splendore lento e ordinato delle notti lunari. Ansanti siamo, bollenti, timorosi di restare indietro; desiderosi di rovesciare tutto con un colpo rivoluzionario e di trovarci d’un tratto in un immeritato paradiso.
Forse qui ci siamo disillusi di ciò che ci sta attorno in arte, in politica e costume, mentre sotto le zolle di Valtesse i morti borbottano un rosario:

“La nostra compagnia non sia discara
Stando coi morti a vivere s’impara.”

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

Il cimitero era fatto d’un perfetto ottagono col muro di cinta coperto di coppi; adornato di cappelle gentilizie, rotonde, quadre, esagone, con lunette e timpani di chiaro stile neoclassico.
Intorno le colline della città, una parte di Bergamo di intatto fascino e una campagna verdissima e serena.
I morti erano bene collocati, in questo piano dietro l’abitato. Agonizzavano pochi salici piangenti; non cipressi, piante d’altri climi, ma salici come un richiamo alla malinconia.
Chi erano questi morti? Giacquero qui i compagni della vita, i maestri e gli allievi come Simone Mayer e Donizetti, poi traslati sotto le volte di Santa Maria Maggiore. Giacquero molte coppie di sposi, finiti quasi insieme, per armonia di sentire.
C’erano i pittori Ronzoni, quel De Leidi che fu detto il Nebbia, il poeta Rovetta. Le monache di Santa Grata avevano una propria dignitosa cappella e i loro nomi erano indicati al mondo così:

 “Signora Idelfonsa… Morta di 50 anni.”

Valtesse non fu mai ingrandito, ampliato, rimodernato; nacque una forma geometrica, si riempì di croci, di angeli custodi, di cappelle, di marmi; quando fu completo non raccolse più nessuno; vegetò dimenticato coi suoi morti e anche loro furono dimenticati. Ingrassò una flora lussureggiante e molte lucertole; poi cominciò a sfaldarsi, divenne un gran disordine di vita vegetale.
Portarono via qualcuno, ceneri e ossa; infine restò abbandonato. Un giorno se ne andò la donna custode con il suo tavolino. Furono lasciati aperti i cancelli delle cripte e il cancello d’ingresso. Ferro ruggine, pietre spezzate, sfaccendati che giravano, innamorati impudici di notte dietro il muro.
Città alta guardava, indifferente a tanta rovina.
Non lumi, i morti non eran più visitati. Forse dimenticanza di parenti, forse tutti perduti anche loro, e triste oblio di nipoti e pronipoti. Non avevano più senso neppure le lapidi, non era più vivo l’affetto e tutto il cimitero di Valtesse andava perdendo il suo tono vero, il suo ordinato sapore neoclassico che rappresentava un’epoca.

C’era un cippo storto che faceva un riassunto con queste precise parole:

“Porgete la mano a noi, poveri morti”.

Ma loro continuavano a dormire il sonno del giusto: tutta gente da paradiso.
Erano veramente discesi nella terra nera in comunione intima primordiale. Intorno al loro volto fiorivano radici, con tenuissime barbe candide, forse più delicate dei fiori.
Un odore di terra fresca deliziava le ossa che restavano bianche e intatte vicine alla purificazione. Non era un mistero, ma la vera vita dei morti ritornati a Dio creatore per le strade profonde della terra.

Le nostre visite eran furtive, camminavamo ovunque quasi senza rispetto; dapprima le lapidi ci sembrarono battute di spirito; poi venne una affettuosa riverenza, una curiosità ammirata e forse non inutili pensieri e riflessioni. Avevamo imparato a vivere coi morti. Così Sandro incise la sua acquaforte; e son già dieci anni.
E speriamo che questa memoria sia cosa opportuna; perchè se qualcuno ci chiedesse d’accompagnarlo a Valtesse, potremmo mostrargli soltanto un tratto d’erba più rigogliosa sul luogo del campo santo”.

Particolare del Cimitero di Valtesse in un’acquaforte di Sandro Angelini

 

Di Vittorio Polli.

Da: “Memoria del Cimitero di Valtesse”. In memoria di Luigi Agliardi Presidente dell’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Bergamo (Comunicazione fatta all’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Bergamo nella seduta del 6 dicembre 1952).

NOTE

(1) Ariès, con un metodo che potremmo definire induttivo, cerca attraverso fonti eterogenee (letterarie, religiose, giuridiche) di mettere in luce come nelle epoche precedenti ci si rapportasse alla morte al fine di comprendere i fenomeni collettivi, dinanzi alla fine della vita, che l’autore vede in prima persona nell’epoca a lui contemporanea.
Da questa ricerca uscirà come ogni periodo storico, inerente alla cristianità occidentale, sia stato caratterizzato da un suo specifico atteggiamento di fronte alla fine della vita che si basa su un preciso modo di concepire, vivere e sentire la morte.

Notizie relative alla fonte storica
La Tavola di Sandro Angelini è stata eseguita dalle Poligrafiche Bolis di Bergamo.

Il libro è stato stampato nel novembre 1952, in 371 copie numerate, dalla Stamperia Conti di Bergamo, via XX Settembre.
21 esemplari contrassegnati con lettere dall’A alla Z e 350 esemplari numerati dal N. 1 al N. 350. Esemplare 92.

La storica libreria Conti, Bergamo, via XX Settembre – 1930 ca. La libreria ha chiuso definitivamente i battenti nel 1970