
La prima e più certa notizia che si ha sulla famiglia di Gaetano Donizetti appare nello Status Animarum della parrocchia di S. Grata inter vites di Borgo Canale, dov’egli viene battezzato il 3 dicembre.

Da questo documento risulta che Ambrogio Donizetti, nonno di Gaetano, negli anni compresi tra il 1779 e il 1785 abita in ædibus Milesi, in prossimità della parrocchia. Non è chiaro né l’anno né il luogo della sua nascita, ma Ciro Caversazzi, che compone la tavola genealogica della famiglia Donizetti – esposta al Museo Donizettiano – afferma che sarebbe nato nel 1732.

È certo invece che Ambrogio Donizetti convola a nozze due volte, dapprima con Rosalinda Cereda e, dopo la morte di questa, con Maria Gregis. Dalla prima ha quattro figli, tra i quali è compreso Andrea, futuro padre di Gaetano; dalla seconda, nove. Andrea, quarto figlio di Ambrogio nato il 20 dicembre 1765, si unisce in matrimonio il 1° febbraio 1786, a 21 anni non ancora compiuti, con Domenica Nava, sua coetanea e concittadina. Dalla loro unione nascono sei figli: Giuseppe (1) (1788-1856), anch’egli musicista, Maria Rosalinda (1790-1811), Francesco (1792-1848), Maria Antonia (1795-1823), Domenico Gaetano Maria (1797-1848) e Maria Rachele (21 marzo- 5 aprile 1800).
Gaetano è dunque il quinto figlio di Andrea e Domenica.
(1) Corista in S. Maria Maggiore e nei teatri cittadini, nel 1815 entrò nell’esercito del Regno di Sardegna come capomusica. Assunto come «Istruttore generale delle Musiche Imperiali Ottomane», rimase a Costantinopoli fino alla morte (1856) essendo stato nominato pascià, colonnello onorario della Guardia Imperiale Ottomana, e generale di brigata dal successore di Mahmud II, il sultano Abdul Medjid.

All’epoca della nascita di Gaetano, da non molti mesi Bergamo non apparteneva più alla Repubblica veneta di S. Marco. Dopo un dominio durato ininterrottamente per quasi tre secoli, con la prima campagna napoleonica d’Italia la città era entrata a far parte della Repubblica Cisalpina. Gaetano nacque dunque cittadino di questo recentissimo stato, poi divenuto Repubblica Italiana (1802-1805), e infine Regno d’Italia (1805-1814), sempre con a capo Napoleone.


Verso la fine del ‘700 risiedono in Borgo Canale numerose famiglie di tessitori; anche Andrea – il padre di Gaetano – è operaio nel settore.
Nel 1808 Andrea, assunto in qualità di custode e portinaio del Monte di Pietà di Bergamo, sito in Piazza Nova (l’odierna piazza Mascheroni), si trasferisce con la famiglia in un nuovo alloggio nelle vicinanze del luogo di lavoro, lasciando quindi la vecchia casa di Borgo Canale.

Anche la moglie Domenica collabora nel sostentamento della numerosa famiglia: nel 1816 figura nei protocolli della Congregazione di Carità come cucitrice, lavoro svolto insieme alle due figlie sopravvissute.

Per i tre maschi papà Andrea nutre qualche ambizione; per Gaetano aspira addirittura agli studi di giurisprudenza, se dobbiamo prestar fede a una lettera spedita dal compositore all’impresario Alessandro Lanari il 6 agosto 1833: “… sappi che io […] doveva far l’avvocato e per quella via m’incamminarono li miei genitori….”.
In un primo tempo, infatti, Andrea si oppone alla decisione del figlio di intraprendere la carriera teatrale, ma successivamente se ne convince, regalando al figlio, in segno di riconciliazione, il raschietto d’osso oggi esposto in una vetrina del museo.
I due genitori muoiono a poche settimane di distanza l’uno dall’altro: il padre il 9 dicembre 1835, per affezione tubercolare, mentre la madre il 10 febbraio 1836, per insulto apoplettico.

Donizetti, impossibilitato a seguire personalmente le esequie, incarica l’amico Antonio Dolci di tutte le cure e spese necessarie che valgano a dimostrare la gratitudine di un figlio.
FORMAZIONE E APPRENDISTATO (1806-1821)

Dobbiamo in massima parte a Johann Simon Mayr (Mendorf, Baviera, 1763 – Bergamo, 1845), compositore e didatta di fama europea, se il genio di Donizetti si è potuto esprimere al meglio.
Le Lezioni Caritatevoli di Musica, da lui fondate nel 1806 (2), sono una scuola professionale con scopi benefici, germinate dallo spirito riformatore ed egualitario dell’illuminismo e della massoneria (eretta dunque nel quadro delle attività assistenziali promosse dal governo dopo la caduta degli antichi regimi e la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici) di ispirazione romantico-risorgimentale (Mayr, dalla documentazione di polizia, ne risulta iscritto).
Le Lezioni Caritatevoli di Musica sono di fatto il primo conservatorio di musica dell’allora Regno d’Italia (3).
Con questi principi Mayr intende, oltre che dare un’istruzione e quindi un futuro ai figli delle classi meno abbienti, fornire di validi cantori professionisti la cappella musicale della Basilica di S. Maria Maggiore, da lui stesso diretta.
(2) A questo impiego stabile, Mayr affiancò quello parallelo di operista, che lo portò a Venezia, Milano (1800-1814) e in altre città del Regno d’Italia, nonché a Trieste (1801), Vienna (1802-1803), Roma (1808), e soprattutto a Napoli (1813-1815 e 1817). Nel 1807 ebbe da Napoleone la proposta di diventare «maestro e direttore del teatro e de’ concerti» della corte imperiale. Fino all’avvento di Rossini, Mayr senza dubbio fu il più stimato operista attivo in Italia.
(3) L’eccellenza dei risultati raggiunti dalla scuola di Bergamo poté essere constatata nel 1811 anche ad altissimo livello politico: dopo aver assistito in forma ufficiale ai suoi saggi finali, i ministri dell’Interno e della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia ne trassero la convinzione che i metodi didattici mayriani dovessero venire adottati in tutto lo stato.

Il regolamento della scuola prescriveva infatti, quale ineluttabile condizione, il possedere una “bella voce” adatta al coro di voci bianche per le funzioni religiose che avevano luogo in basilica. Donizetti fanciullo, quando nell’aprile 1806, accompagnato dal padre, chiede di esservi ammesso, non possiede una gran bella voce, se la commissione esaminatrice così lo giudica: “Ha buon orecchio, la voce non è particolare e sarebbe admissibile per la prova de’ tre mesi” (4).
Nel primo rapporto sull’andamento scolastico, datato 13 settembre 1806, Mayr, pur riconoscendo diligenza, buona disposizione e progressi nella lettura musicale, conferma che la voce è difettosa di gola. Passati i tre mesi di prova, il maestro bavarese, che già intuisce il talento del ragazzo, fa ogni sforzo per trattenerlo in scuola, anche se in contrasto col regolamento da lui stesso dettato: permette così al promettente allievo di rimanere alle Lezioni Caritatevoli per ben nove anni, sino all’ottobre 1815. Questo è infatti l’anno che segna il primo distacco del giovane Donizetti dalla città natale.
(4) Gaetano Donizetti si preparava ad affrontare la professione musicale in qualità di cantante, esibendosi nelle cerimonie religiose che si svolgevano in S. Maria Maggiore, nei saggi pubblici di fine anno scolastico (iniziati nell’agosto 1808 con La creazione di Haydn, e poi proseguiti anche con piccole opere vere e proprie), in qualche concerto straordinario.

Ben presto però Mayr si rese conto che questa carriera non faceva per lui. Piuttosto, il ragazzo dimostrava attitudini per la composizione (5):
“Dotato di propensione, talento e genio per la composizione…”: sono queste le parole utilizzate da Mayr in una supplica alla Congregazione di Carità per descrivere il talento del suo allievo, nell’intento di ottenere per lui una borsa di studio che gli permetterà il completamento degli studi a Bologna (dove rimase dall’ottobre 1815 al dicembre 1817 a studiare contrappunto e fuga) sotto la guida del celebre Padre Mattei, la più solida e perfetta, che vanta al giorno d’oggi l’Italia.
Padre Stanislao Mattei (1750-1825), frate minore, prima allievo e poi successore del più famoso Padre Giovan Battista Martini alla direzione del Liceo Filarmonico di Bologna, fu il più grande teorico e didatta nell’Italia del suo tempo. Oltre a Donizetti fra i suoi allievi d’eccezione figurano Giovanni Battista Velluti, Giovanni Pacini, Francesco Morlacchi, Giovanni Tadolini e, grande fra i grandi, Gioachino Rossini.
Sui metodi didattici di Mattei si ha qualche notizia proprio da quest’ultimo, suo allievo tra il 1806 e il 1810: Padre Mattei con la penna in mano aveva pochi uguali in abilità, ma d’altra parte era terribilmente taciturno; gli si doveva strappare dalla bocca per forza ogni spiegazione verbale. Quando chiedevo delle spiegazioni, mi rispondeva sempre: è uso di scrivere così.
(5) L’attitudine per la composizione è testimoniata da alcune sue acerbe prove: qualche pagina destinata al consumo domestico (una delle quali addirittura pubblicata a Milano da Ricordi, e certo grazie all’interessamento di Mayr), pezzi sacri da chiesa. Informato delle scelte del fratello minore, all’inizio dell’estate 1815 dall’isola d’Elba (dove si trovava al seguito di Napoleone in esilio) Giuseppe Donizetti così scriveva al padre, approvando la decisione: «Direte a Gaetano che mi fa piacere che diventi matto per la musica».

A Bologna Donizetti si specializzò negli studi superiori di composizione (per i quali ottenne premi scolastici) e sempre più familiarizzò con la composizione teatrale, facendosi apprezzare dall’ambiente musicale bolognese, nel quale ebbe modo di introdursi grazie alle lettere di presentazione del suo maestro Mayr.
Sfumata a fine 1817 la prospettiva di un primo impiego lavorativo ad Ancona, Donizetti lascia Bologna nel novembre dello stesso anno, facendo ritorno a Bergamo dove rimane sino alla fine del 1821: ad attenderlo è un’attività di compositore d’occasione, alla continua ricerca di scritture teatrali; collabora intanto con Mayr in veste di compositore di musica sacra e scrive, nel contempo, una gran quantità di musica strumentale da camera (quartetti, musica per pianoforte solo e a quattro mani, ecc.), eseguita nei migliori salotti cittadini dove è introdotto dal suo maestro.
Allo stesso tempo offre un saggio – per la prima volta – nel campo teatrale a livello professionistico.
Il bagaglio tecnico che Donizetti acquisisce grazie a tanti anni di alacre studio con Mayr e con Padre Mattei è sufficiente per permettergli di cimentarsi nel genere musicale più ambito e redditizio per un musicista della sua epoca: il melodramma. Tale propensione era comunque già emersa durante gli anni di studio a Bologna: risale infatti al settembre 1816 la composizione della sua prima opera, Il Pigmalione, atto unico per tenore e soprano su libretto di ignoto, rimasta non rappresentata sino al 1960.

Nel carnevale 1818 al teatro bergamasco della Società la compagnia dell’impresario Paolo Zancla (nella quale spiccavano la primadonna Giuseppina Ronzi De Begnis e suo marito, il basso Giuseppe De Begnis) rappresentava Agnese di Paer e La Cenerentola di Rossini. Certo per interessamento di Mayr, a Donizetti fu data la possibilità di scrivere alcuni pezzi per le cosiddette ‘beneficiate’: cioè le serate all’interno della stagione, stabilite per contratto, nelle quali i cantanti principali presentavano il meglio del loro repertorio col diritto di trattenere per sé l’utile del botteghino.
I brani del giovane compositore dovettero accontentare sia i De Begnis, sia il pubblico, se Donizetti fu sollecitato a seguire la compagnia a Verona, con la speranza di poter scrivere qualcosa di più impegnativo. Anche se ciò non avvenne, Gaetano si procurò un significativo ingaggio per la successiva stagione autunnale, in cui avvenne il suo debutto.
Zancla gestiva infatti a quell’epoca anche un teatro minore di Venezia, il S. Luca, per il quale Donizetti fu posto sotto contratto per la composizione di un’«opera semiseria spettacolosa». La stesura del libretto (Enrico di Borgogna) venne affidata ad un altro bergamasco e allievo di Mayr, Bartolomeo Merelli (1794-1879), più tardi famoso impresario, già in contatto con Donizetti almeno fin dall’autunno precedente.
Dopo il debutto (6) (14 novembre 1818) ed alcune repliche dell’opera, Merelli e Donizetti presentarono al pubblico anche la farsa Una follia, andata in scena con più successo.
L’esordio teatrale di Donizetti avvenne dunque sotto gli espliciti auspici di Mayr.
(6) Pur trattandosi del lavoro di un giovane esordiente, l’esito della serata è soddisfacente: un articolo apparso sopra un giornale dell’epoca giudica l’opera regolare, ragionata, ed opportunamente vivace e briosa (Nuovo Osservatore Veneziano, 17 novembre 1818).

Nelle stagioni successive, la carriera di Donizetti proseguì in teatri di secondo piano, e nei generi d’opera ugualmente meno importanti, cioè il semiserio e il buffo: con Le nozze in villa probabilmente a Mantova nel carnevale 1819 (o forse a Treviso, teatro Dolfin, nella primavera 1820), e al teatro S. Samuele di Venezia nel carnevale 1820 – dal 26 dicembre 1819 – con Pietro il Grande, kzar delle Russie. Su libretto del marchese Gherardo Bevilacqua Aldobrandini, scenografo e occasionalmente poeta teatrale, l’opera era tratta da una commedia francese di Alexandre Duval ben nota in Italia col titolo di Il falegname di Livonia. La stampa veneziana registrò con simpatia la conferma di quel giovane compositore, che in quell’opera dimostrava la sua piena e a tratti perfino originale assimilazione dei grandi modelli rossiniani.
Appena avviata, la carriera di Donizetti minacciava però d’interrompersi bruscamente a causa del servizio militare. Il governatore austriaco di Milano aveva fatto richiamare le classi 1795-1800, e dunque Gaetano ricadeva in pieno nel provvedimento. Nel dicembre 1820 sia lui, sia l’amico Dolci riuscirono ad evitare l’arruolamento grazie ad una possibilità prevista dalla legge: sborsando una congrua somma, si poteva essere stabilmente rimpiazzati da un sostituto.
A entrambi, che non lo avevano di certo, il denaro necessario fu fornito da Marianna Pezzoli Grattaroli, la quale mecenatescamente ritenne che non si dovessero sprecare quelle due giovani promesse musicali.
L’ASCESA: ROMA, MILANO, NAPOLI (1822-1838)
Intanto da parte di Mayr continuava l’attiva promozione dell’allievo: per Donizetti il 1821 è l’ultimo anno di permanenza nella città natale; risalgono infatti a giugno le prime trattative per la definizione del contratto con l’impresario Giovanni Paterni, riguardo un’opera seria da rappresentarsi al Teatro Argentina di Roma. Si rivelerà questo un contratto fortunato: Zoraide di Granata, andata in scena il 28 gennaio 1822, piace sempre più al pubblico romano, tanto da portare addirittura in trionfo l’incredulo compositore la sera della terza rappresentazione.
Questo primo soggiorno a Roma serve a Donizetti, oltre che a farsi conoscere professionalmente al di fuori del Lombardo-Veneto, anche a stringere rapporti con persone che avranno un’influenza sulla sua vita futura: il letterato Jacopo Ferretti, suo futuro librettista, la famiglia Carnevali e la famiglia Vasselli.
Il primogenito di quest’ultima, Antonio (confidenzialmente, Toto), sarà da allora suo intimo amico, e la sorella più giovane, Virginia (tredicenne nel 1821), nel 1828 diventerà addirittura sua moglie.

Il successo di questo esordio romano, la cui notizia si sparge velocemente per tutta la penisola, frutta a Donizetti nuovi contratti. Da Napoli il celebre impresario Domenico Barbaja gli propone la scrittura di due nuovi lavori, tra cui La zingara, tenuta a battesimo entusiasticamente il 12 maggio 1822 al teatro Nuovo.
Seguiranno le commissioni di una farsa per il teatro reale del Fondo (dedicato al repertorio comico e semiserio), La lettera anonima (29 giugno 1822), di un’opera semiseria per La Scala di Milano (Chiara e Serafina: 26 ottobre 1822), ed infine di una grande opera seria per il maggior teatro reale napoletano, il San Carlo (Alfredo il Grande: 2 luglio 1823).
Tuttavia, le incomprensioni e le difficoltà incontrate nella professione teatrale gli fanno scrivere in una lettera del 1825 a Simone Mayr: “Guardan la gente di teatro come infami e perciò nessuno di noi si cura […] Già il mestiere del povero scrittore d’opere l’ho capito infelicissimo sin dal principio, ed il bisogno solo mi ci tiene avvinto”.
In effetti, a prescindere dal valore musicale, la riuscita di un’opera in quegli anni è legata ad un’infinità di frangenti, quasi sempre non controllabili dal compositore: il cast di cantanti, il valore del libretto, la professionalità dell’orchestra, l’effetto delle scene, il periodo scelto per la rappresentazione. Donizetti nel 1827 mette in berlina il particolarissimo mondo teatrale scrivendo l’opera buffa Le convenienze e inconvenienze teatrali.
A questo punto, la sua carriera di operista è ormai definitivamente avviata: un primo, brillante traguardo di qualità lo conseguirà con l’opera comica L’aio nell’imbarazzo (Roma, teatro Valle, 4 febbraio 1824), notevole anche come riuscita ricerca di nuove strade rispetto ai dominanti modelli rossiniani, che s’impongono per circa un ventennio (7).
(7) Gli anni che vanno dal 1822 al 1830 coincidono con un periodo di estenuante lavoro per Donizetti: dopo aver pagato con le prime opere un tributo al “rossinismo” dilagante, emerge nel compositore bergamasco lo sforzo della ricerca di un linguaggio sempre più personale. Pur nella loro discontinuità, opere come Emilia di Liverpool (1824), Gabriella di Vergy (1826), L’Esule di Roma (1827), Il Paria (1828), Il diluvio universale (1829-’30), Imelda de’ Lambertazzi (1830) contengono elementi notevoli che aprono spiragli evolutivi nella drammaturgia musicale donizettiana.

Direttore del teatro Carolino di Palermo con un contratto annuale a partire dal marzo 1825, Donizetti si trasferì nella città siciliana curando l’allestimento di opere proprie e altrui, e tenendovi a battesimo il titolo serio Alahor in Granata (7 gennaio 1826).
Tornato a Napoli, nel 1827 si legò contrattualmente all’impresario dei Teatri Reali partenopei Domenico Barbaia, assumendo la direzione del teatro Nuovo.
Iniziò allora la lunga stagione napoletana di Donizetti, destinata a protrarsi fino all’ottobre 1838. Vi si situano avvenimenti famigliari centrali come il citato matrimonio con Virginia Vasselli (1828), e lutti non meno fondamentali quali la scomparsa via via di tre figli neonati, e infine (30 luglio 1837) della stessa moglie, durante un’epidemia di colera.

Professionalmente, questi sono gli anni in cui verrà chiamato alla cattedra di composizione nel Real Collegio di Musica, e durante i quali coltiverà una vivace e curiosa apertura nei confronti di nuove direzioni drammatiche: il mélo romanzesco (Otto mesi in due ore, teatro Nuovo, 13 maggio 1827), il teatro nel teatro (Le convenienze ed inconvenienze teatrali, Nuovo, 21 novembre 1827), la sperimentazione morfologica su larga scala (L’esule di Roma, Il paria, Fausta: teatro S. Carlo, rispettivamente 1 gennaio 1828, 12 gennaio 1829, 12 gennaio 1832), l’opéra-comique (Gianni da Calais, teatro del Fondo, 2 agosto 1828; Gianni di Parigi, 1831), la sensibilità romantica (Elisabetta al castello di Kenilworth, S. Carlo, 6 luglio 1829), il sublime biblico (Il diluvio universale, S. Carlo, 28 febbraio 1830).

Intanto, due grandi successi milanesi (entrambi su libretti di Felice Romani) posero Donizetti nel novero dei più importanti compositori europei d’opera italiana. Il primo di essi è Anna Bolena, andato in scena al teatro Carcano di Milano il 26 dicembre 1830 e considerata la vera svolta nella produzione donizettiana; l’altro, L’elisir d’amore (grande capolavoro del genere buffo), presentato a Milano, alla Canobbiana il 12 maggio 1832.
Lo straordinario successo di Anna Bolena, primo melodramma veramente “romantico”, fu di importanza capitale per l’avvenire di Donizetti, facendolo entrare di colpo nel novero dei più importanti operisti della sua epoca.

La vicenda dell’infelice moglie di Enrico VIII permise a Romani e Donizetti d’innestare i profili psicologici dei protagonisti su di uno sfondo storico in grado di dare verità e concreto spessore alle vicende rappresentate: nella Milano in cui era da poco uscito il romanzo a base storica I promessi sposi (1827), Anna Bolena dovette parere un suo analogo melodrammatico quanto a tinta, scontri tra i personaggi, conflitti interiori (ma solo in parte quanto all’ipoteca religiosa).

Il delizioso idillio campestre dell’Elisir d’amore metteva a frutto le frequentazioni dell’opéra-comique transalpino, incrociandolo con la tradizione comica goldoniana. Donizetti se ne avvantaggiò reinventando formulazioni melodiche e strutture, ma al momento buono dando saggio anche di un’infallibile intensità patetica che, collocata in nodi cruciali della vicenda, sa diventare anche grande leva drammatica.

Se questi capolavori incoronarono Donizetti drammaturgo musicale, inaugurarono anche una stagione ricchissima di titoli che costituiscono altrettante pietre miliari del teatro romantico italiano. Già le fonti letterarie di alcuni di essi sono eloquenti: Byron per Parisina (Firenze, La Pergola, 17 marzo 1833) e Marino Faliero (Parigi, Théâtre Italien, 12 marzo 1835); Victor Hugo per Lucrezia Borgia (Milano, La Scala, 26 dicembre 1833); Schiller per Maria Stuarda (1834); Walter Scott per Lucia di Lammermoor (Napoli, S. Carlo, 26 settembre 1835). Ad essi possiamo aggiungere Gemma di Vergy (Milano, La Scala, 26 dicembre 1834), Belisario (Venezia, La Fenice, 4 febbraio 1836), Roberto Devereux (Napoli, S. Carlo, 29 ottobre 1837), Maria de Rudenz (Venezia, La Fenice, 30 gennaio 1838), Poliuto (1838).

Si tratta perlopiù di drammi storici a tinte forti, foschi e grondanti sangue, con ambientazioni frequentemente notturne, cupe, spesso gotiche. I loro protagonisti sono preda di passioni violente, dilaniati da esplosioni di furore, spesso visionari. Le figure femminili offrono una galleria superba della voce e del personaggio di soprano: il tenore romantico vi trova i suoi prototipi in Ugo (Parisina) ed Edgardo (Lucia di Lammermoor). Baritoni e bassi si pongono spesso come antagonisti di contese senza vincitori, tragicamente disastrose per tutti. In questo panorama di rovine senza speranza fa eccezione Poliuto, dalla conclusione non meno funesta ma che, nella prospettiva religiosa della fede santificata dal martirio, attinge il suo riscatto se non altro ultraterreno.

Oltre a trovare i colori adatti, le delineazioni psicologiche giuste, il ritmo teatrale e i colpi di scena più efficaci, Donizetti piegò i propri mezzi tecnici e il suo stile per assecondare ed esaltare la natura drammatica di quei testi, sperimentando soluzioni nuove ed ardite. In qualche caso saggiò anche orientamenti di gusto fondati sulla mescolanza romantica degli stili e dei livelli espressivi: come mostrano Il furioso all’isola di San Domingo e Torquato Tasso (Roma, teatro Valle, 2 gennaio e 9 settembre 1833), e soprattutto Lucrezia Borgia. Altrove diede ulteriori prove di avvicinamento allo stile francese non solo in repertori minori e in campo comico (Il campanello e Betly: Napoli, teatro Nuovo, 6 giugno e 24 agosto 1836), ma anche nel gran genere serio (L’assedio di Calais: Napoli, S. Carlo 19 novembre 1836).
L’APOGEO: PARIGI E VIENNA (1838-1844)
Donizetti fu chiamato insieme con Bellini nella capitale francese, su indicazione di Rossini, che vi condirigeva il teatro che presentava opera italiana (il Théâtre Italien).
Mentre Bellini vi tenne a battesimo I Puritani, Donizetti compose Marino Faliero, dramma storico di forte spessore politico (molto ammirato tra gli altri da Giuseppe Mazzini, che vi vide un esempio di nuovo teatro musicale impegnato sul versante civile).
Rientrato a Napoli, Donizetti vi realizzò alcune delle vette massime della sua produzione seria: Lucia di Lammermoor, che ottiene un memorabile trionfo al Teatro San Carlo la sera del 26 settembre 1835), Roberto Devereux (1837), Poliuto (1838).
Giunto nuovamente a Parigi – 21 ottobre 1838 – Donizetti inizia un periodo di attività intensissima: le prove di Roberto Devereux (27 dicembre) e di Elisir d’amore (17 gennaio 1839) al Thêatre des Italiens, la rielaborazione di Lucia di Lammermoor, data al Thêatre de la Renaissance il 6 agosto 1839, la trasformazione dello sfortunato Poliuto in Le martyrs all’Opéra (10 aprile 1840), la composizione di Lange de Nisida (trasformata poi in La favorite), l’elaborazione di Le duc d’Albe, la creazione ex-novo dell’opéra-comique La fille du régiment (11 febbraio 1840), La favorite (Opéra, 2 dicembre 1840), Rita.
Ma questo fu anche un periodo di avversità, sventure e disagi psicologici. La scomparsa della moglie Virginia (30 luglio 1837) è causa di un periodo di profonda crisi; il divieto, da parte della censura, di rappresentare Poliuto, in quanto soggetto religioso e con un martire cristiano come protagonista. A questo incidente con la bigotta amministrazione borbonica si aggiunse l’insoddisfazione professionale per la mancata nomina a direttore del Real Collegio di Musica (Conservatorio di Napoli) dopo la morte del vecchio e venerato maestro Zingarelli, a cui succede Saverio Mercandante. Tutto ciò convinse Donizetti, nell’autunno 1838, a lasciare Napoli per Parigi, accettando le proposte che da tempo gli venivano dalla capitale francese.

Il ventaglio di proposte era ampio – dall’opera comica e seria italiane, all’opéracomique e al grand-opéra -, distribuito nelle maggiori sale teatrali parigine.
La concorrenza del nuovo arrivato era temibile: non si limitava infatti a presentarsi come campione del genere italiano nella sala teatrale tradizionalmente deputata a questo repertorio (il Théâtre Italien), ma entrava a competere coi musicisti locali sul loro stesso terreno, dando prova di pronta e felicissima assimilazione dello stile francese sia sul versante leggero, sia su quello del grande dramma storico.
Ciò non mancò di disturbare i settori più ‘nazionalisti’ della capitale, cui diede voce ad esempio il compositore (e giornalista) Hector Berlioz, che mise causticamente in rilievo tale frenetica attività con un articolo pubblicato nel Journal des débats nel 16 febbraio 1840: “Pensate un po’: due grandi partiture per l’Opéra, Les Martyrs e Le duc d’Albe; altre due per la Renaissance, Lucie de Lammermoor e L’ange de Nisida, due per l’Opéra-Comique, La fille de régiment e un’altra di cui non si conosce il titolo; e poi un’altra ancora per il Théâtre-Italien: queste sono le opere che nel giro di un anno saranno scritte o rielaborate dallo stesso autore! Il signor Donizetti ha l’aria di volerci trattare da paese conquistato, la sua è una vera e propria guerra d’invasione. Non potremo più parlare dei teatri lirici di Parigi, ma dei teatri di Donizetti”.

Donizetti replica a questa accusa prima con una dignitosa lettera apparsa su Le moniteur universel, poi si sfoga scrivendo il 20 aprile 1840 all’amico Innocenzo Giampieri di Firenze con un tono sottilmente ironico: “Leggesti il Debats? Berlioz? Pover uomo… ha fatto un’opera, fu fischiata, fa delle sinfonie e si fischia, fa degli articoli… si ride… e tutti ridono, e tutti fischiano, io solo lo compiango…ha ragione… deve vendicarsi…”.
Per Donizetti, come per ogni altro compositore dell’epoca, l’invito a comporre per il Thêatre de L’Opéra di Parigi rappresenta il culmine della carriera. Tuttavia, una volta esauriti i contratti in corso, Donizetti spera di ritirarsi ancora all’acme della carriera, prima di iniziare l’inevitabile declino.
Il protrarsi del suo soggiorno a Parigi – dovuto a vari motivi, tra i quali l’elaborazione di Les Martyrs che si trascina per un anno e mezzo – e la conseguente accettazione di nuovo lavoro, finisce per scatenare un’ondata di panico fra i suoi concorrenti francesi, abituati a ritmi di lavoro ben più tranquilli.

Due impegni coi teatri di Milano (Scala) e Vienna (Porta Carinzia) fecero allontanare temporaneamente Donizetti da Parigi.
Nel primo, il 26 dicembre 1841 debuttava Maria Padilla, scabrosa tragedia che dovette essere edulcorata per ragioni di opportunità.
A Vienna, altra capitale della musica e della cultura europea, Donizetti ottiene la soddisfazione di avere finalmente una sua opera in prima assoluta; l’occasione gli viene fornita da Bartolomeo Merelli, un tempo suo primo librettista, ora potente impresario alla Scala di Milano e al Kärntnerthortheater di Vienna. L’opera in questione, dedicata all’imperatrice Maria Anna Carolina, è Linda di Chamounix (opera semiseria essa pure di argomento ai limiti del decoro, caricata di forte polemica morale e sociale, e dai toni talora manzoniani): rappresentata il 12 maggio 1842 con enorme successo, frutterà al compositore, anche la nomina a Kammerkapellmeister und Hofkompositeur (maestro di cappella e di camera, e compositore di corte) presso la corte imperiale di Vienna.
Causa questo nuovo incarico, il maestro prese a dividersi tra Vienna, coi suoi impegni a corte e nei teatri cittadini, e Parigi.
Dopo aver riscosso un altro grandioso successo presentando il 3 gennaio 1843 al Théâtre Italien di Parigi l’opera buffa Don Pasquale (perfetta commedia da camera in cui Donizetti raggiungeva il culmine della sua abilità di finissimo drammaturgo comico-sentimentale, sapiente e vivacissimo inventore di soluzioni musicali, evocatore di atmosfere e tocchi psicologici), il 5 giugno a Vienna commuove il pubblico del Kärntnerthortheater (teatro viennese di Porta Carinzia) con Maria di Rohan (moderna tragedia in costume e dal taglio scenico inusuale, con personaggi che incarnano in pieno tipi vocali e teatrali che saranno alla base del melodramma verdiano), serata a cui è presente l’intera famiglia imperiale giunta appositamente dalla residenza estiva di Schönbrunn.
Significativa l’osservazione del critico della Allgemeine Wiener Zeitung: “…crediamo che Donizetti abbia voluto dare ad un’opera che egli ha scritto per tedeschi quell’aura di serietà e dignità che sono così vicine al carattere tedesco”.
Anche se un poco altezzosa, l’osservazione del critico è fondamentalmente giusta: grazie alla grande capacità di adattamento e assorbimento di diversi stili che lo contraddistingue, nella maturità Donizetti sa assimilare e fare proprio il gusto del pubblico straniero al quale di volta in volta si rivolge, fornendo quasi sempre “prodotti” che assecondano le aspettative.
Ma il vero testamento artistico di Donizetti si può considerare il monumentale grand-opéra in cinque atti Dom Sébastien, eseguito a Parigi (Opéra) il 13 novembre 1843. Opera di vasta concezione (monumentale affresco storico dalle tinte strumentali raffinate, con profili melodici ricercati e spesso sorprendente nel taglio scenico-compositivo) non ottiene però il consenso che Donizetti aveva sperato: un grandioso successo lo ha invece nell’allestimento di Vienna del 6 febbraio 1845, in una nuova versione tradotta in tedesco.
LA MALATTIA E LA MORTE (1844-1848)
Anche se di forte fibra, sin dalla fine degli anni Venti Donizetti a più riprese ha le prime avvisaglie della terribile malattia – un’infezione luetica (sifilide) – che anzitempo l’avrebbe portato alla tomba; ma è durante l’inverno 1843-’44 che la salute del compositore ha un improvviso tracollo.
Tutto il 1844 e parte del 1845 saranno caratterizzati da una decadenza fisica sempre più rapida, che avrà il culmine con la crisi dell’agosto 1845: il compositore è preso a Parigi da un improvviso svenimento, da cui ha grosse difficoltà nel riprendersi.

Purtroppo le scelte mediche successive, autorizzate dal nipote Andrea (frattanto mandato dal fratello Giuseppe da Costantinopoli a Parigi), non faranno che rendere irreparabile la situazione.
Un consulto di tre medici si tiene il giorno 11 agosto. Fra i tre è presente il dottor Philippe Ricord, noto per i suoi studi sulla sifilide.
Il 28 gennaio 1846 i dottori Juste-Louis Calmeil, il già citato Ricord e Jean Mitivié tengono un consulto finale che ha come risultato l’esortazione di un pronto ricovero del paziente in una clinica per alienati mentali, dal momento che Mr. Donizetti n’est plus capable de calculer sainement la portée de ses déterminations et de ses actes, come risulta dal referto.
È così che Donizetti viene ricoverato per oltre sedici mesi, contro la sua volontà, nella clinica per alienati mentali del dottor Mitivié a Ivry, poco distante da Parigi, dove le sue condizioni mentali, anziché migliorare, peggiorano sempre più velocemente.
Solo dopo molte pressioni di amici ed estimatori si ottenne di sottrarlo a condizioni di vita così penose e di ricoverarlo in un appartamento meno squallido, sempre a Parigi.
Dopo un lungo e travagliato iter burocratico curato da Andrea, nipote del musicista giunto appositamente da Costantinopoli, Donizetti può infine essere rimpatriato.

Accompagnato in treno fino a Colonia via Bruxelles, e in battello da lì a Basilea risalendo il Reno, compie il tratto alpino in carrozza, proseguendo poi per Bergamo, dove giunge la sera del 6 ottobre 1847, accolto nella casa della baronessa Rosa Rota-Basoni, sua amica e ammiratrice da oltre dieci anni e da lei già più volte ospitato.

Viste le condizioni generali del malato, appare subito evidente che tutto quello che si può ormai fare è mantenere attive le funzioni biologiche; non si rinuncia, comunque, a cercare di stimolare la memoria del musicista.

Giovannina Basoni, figlia della baronessa, passa ore e ore al pianoforte, lo stesso che Donizetti aveva personalmente scelto e fatto spedire per lei da Vienna nel 1844 – ed oggi esposto presso il museo donizettiano -, attenta ad ogni più piccola reazione del maestro all’ascolto della sua musica. Su quel pianoforte è appoggiato il dipinto eseguito da Giuseppe Rillosi quando il male, ormai nella sua fase più acuta, aveva prodotto conseguenze devastanti, e che oggi campeggia nel salone principale del palazzo, a ricordo degli ultimi giorni vissuti a Bergamo dal Maestro.

Si reca da lui anche il tenore Giovanni Battista Rubini – da tempo ritiratosi nella sua villa a Romano di Lombardia per cantare in duo con Giovannina -, ma apparentemente Donizetti non manifesta alcuna reazione. Rare volte riesce a pronunciare qualche parola spezzata, impossibile da comprendere.
Pochi giorni prima della morte del compositore, la baronessa chiamava in casa il pittore Giuseppe Rillosi affinché eseguisse un ritratto all’illustre ammalato.

Ai primi di aprile le condizioni del musicista hanno un pauroso tracollo. È Giovannina Basoni a raccontarne la fine in una lettera all’amica Margherita Tizzoni delle Sedie: “… Durante la sera del 5 la febbre ridivenne più forte. Nella mattinata del 6 si incominciò a praticargli l’alimentazione indiretta fortificata da rossi d’uovo. Il 7 e l’8 il signor Donizetti andò sempre più declinando in uno stato d’agonia. Il giorno 8 aprile 1848, alle 5 del pomeriggio, l’illustre ammalato rese l’estremo respiro, assistito dal sacerdote, attorniato da mia madre, da me, dal suo intimo amico Dolci e dal suo affezionatissimo domestico”.

I solenni funerali hanno luogo l’11 aprile 1848: la salma di Donizetti viene tumulata nella cripta della cappella della nobile famiglia Pezzoli presso il cimitero di Valtesse, sobborgo di Bergamo.

Qui vi rimane fino al 1875, quando, in occasione della prima commemorazione ufficiale del Maestro, le sue spoglie vengono traslate nella Basilica di S. Maria Maggiore, insieme a quelle di Simone Mayr.


In basilica gli viene dedicato un monumento, opera di Vincenzo Vela, mentre la città dedicherà al suo nome un teatro (in origine Teatro Riccardi) e l’Istituto musicale.

A memoria del compositore, oltre al nome della via (un tempo via Gromo), nei pressi dell’ingresso di palazzo Scotti furono collocati un medaglione con la sua effige e una targa commemorativa.

Il pianoforte, diversi elementi di arredo e i documenti, oggi si trovano all’interno del Museo Donizettiano.

Nel palazzo resta solo il ritratto di un maestro già sofferente a causa dello stadio avanzato della malattia, dipinto da Giuseppe Rillosi.
Il “mito” Donizetti è cominciato e ben presto la sua città natale gli tributerà il suo principale teatro.

LE OPERE PRINCIPALI
Anna Bolena
Opera seria in due atti su libretto di Felice Romani, composta nel 1830. Esposti il libretto originale della prima rappresentazione al Teatro Carcano di Milano (26/12/1830), un bozzetto originale di scenografia (1830), l’avviso teatrale per la prima rappresentazione all’Imperiale Teatro di Corte di Porta Corinzia in Vienna (26/02/1833) e la riproduzione di una pagina della partitura autografa (1892)
Elisir d’amore
Opera buffa in due atti su libretto di Felice Romani, composta nel 1832. Esposti il libretto originale della prima rappresentazione al Teatro della Canobbiana di Milano (12/05/1832), tre bozzetti originali di scenografia (1832) e la riproduzione della partitura d’orchestra autografa
Marin(o) Faliero
Opera seria in tre atti su libretto di Giovanni Emanuele Bidera (con alcune modifiche di Agostino Ruffini), composta tra il 1834 e il 1835. Esposto il libretto per una rappresentazione al Teatro Comunale di Ferrara, primavera 1839
Linda di Chamounix
Opera semiseria in tre atti su libretto di Gaetano Rossi, composta tra il 1841 e il 1842. Esposti la riproduzione di una pagina della partitura autografa (1892) e una riduzione per canto e pianoforte
Lucia di Lammermoor
Opera seria in tre atti su libretto di Salvatore Cammarano, composta nel 1835. Esposti la riproduzione della partitura d’orchestra autografa (1941), il libretto per una rappresentazione al Teatro Riccardi di Bergamo nell’estate del 1838 e il frontespizio della prima edizione francese dello spartito in riduzione per canto e pianoforte
Il Pigmalione
Opera in un atto, su libretto di autore ignoto, composta nel 1816. E’ la prima opera teatrale di Gaetano Donizetti, rappresentata postuma nel 1960 a Bergamo
Enrico di Borgogna
Opera semiseria in due atti, su libretto di Bartolomeo Merelli, composta nel 1818. Segna l’esordio di Gaetano Donizetti come operista
Zoraide di Granata
Opera seria in due atti, su libretto di Bartolomeo Morelli (prima versione); rimaneggiato poi da Jacopo Ferretti (seconda versione), composta tra il 1821 e il 1822. Rappresenta il primo notevole successo del giovane Gaetano Donizetti
L’ajo nell’imbarazzo
Opera buffa in due atti, su libretto di Jacopo Ferretti, composta nel 1824. E’ nota anche col titolo Don Gregorio, versione napoletana successiva trasformata in farsa.
Ugo, conte di Parigi
Opera seria in due atti, su libretto di Felice Romani, composta tra il 1831 e il 1832.
Belisario
Opera seria in tre atti, su libretto di Salvatore Cammarano, composta tra il 1835 e il 1836
Poliuto
Opera seria in tre atti, su libretto di Salvatore Cammarano, composta nel 1838. La proibizione da parte della censura napoletana induce Donizetti a trasformarla in Les Martyrs e a metterla in scena a Parigi, Opéra, 1840.
La fille du régiment
Opéra-comique in due atti, su libretto di Jules-Henry Vernoy de Saint-Georges e Jean-François-Alfred Bayard, composta nel 1839. E’ la prima opera data in lingua francese; la versione ritmica italiana del libretto fu curata da Calisto Bassi.
Dom Sébastien, roi de Portugal
Grand-opéra in cinque atti, su libretto di Eugène Scribe, composta nel 1843. Successivamente rielaborata in lingua tedesca insieme al librettista Leo Herz.
Rielaborato da (riferimenti essenziali)
Fondazione Bergamo nella Storia
Profilo biografico a cura di Paolo Fabbri (per la Fondazione Donizetti)