Il ponte sulla Morla in Borgo Palazzo, la statua di San Giovanni Nepomuceno e le “macchiette”

Il ponte che ancor oggi regge validamente il traffico di via Borgo Palazzo fu costruito nel 1550, ma la presenza di un ponte sulla Morla, proprio là dove oggi sorge l’attuale, è sicuramente antichissima. Lasciamo stare la solita storiella di chi lo volle innalzato su ordine di Carlo Magno: quella di voler nobilitare edifici e monumenti attribuendoli a grandi personaggi del passato, era un’abitudine piuttosto diffusa.

In realtà, il ponte cinquecentesco fu rifatto al posto di un altro che aveva un livello più basso. L’ing. Fornoni nelle sue “Vicinie” precisa che, sul finire dell’Ottocento, in occasione dello scavo per una fognatura, ad oltre un metro al di sotto del piano attuale venne trovato il lastricato della strada antica: l’antico ponte era piantato a filo della casa sull’angolo con la via Madonna della Neve, per cui la strada era tutta letto del torrente.

La statua collocata sulla spalletta orientale del ponte risale al 1747 e rappresenta San Giovanni Nepomuceno, il santo polacco che, torturato e buttato nella Moldava dal celebre ponte Carlo IV di Praga, venne eletto patrono e protettore non solo (o non tanto) dei ponti, come si crede, bensì di tutte le persone in pericolo di annegamento. In seguito la sua protezione venne estesa anche ai confessori (il perché lo scoprirete leggendo la didascalia sottostante, che dobbiamo a Tosca Rossi).

Il ponte sul torrente Morla in Borgo Palazzo e la sua statua. San Giovanni Nepomuceno (Jan di Nemopuk, località presso Pilsen in Boemia) era il vicario generale dell’arcidiocesi di Praga e al contempo canonico della cattedrale di Praga, nonché predicatore alla corte di re Venceslao IV e confessore della regina Giovanna di Baviera. Visse nella seconda metà del XIV secolo e venne martirizzato nel 1393 per volontà dello stesso re, a cui rifiutò di svelare quanto detto dalla consorte durante la Penitenza. Il suo corpo venne gettato dal ponte Carlo IV di Praga nel fiume Moldova e secondo le diverse versioni riemerse il giorno successivo esibendo per alcuni una lingua dorata, a riprova della sua fedeltà nel rispettare i termini del sacro sacramento, per altri recando una corona di stelle attorno al capo. Da allora la sua protezione è rivolta a tutte le persone in pericolo di annegamento e successivamente estesa anche ai confessori

La sua storia così come il modo in cui venne martirizzato giustificano quindi la consuetudine di collocare una statua che lo ritrae sopra i ponti fluviali, intento ad adorare il Cristo crocifisso, messo bene in vista per la devozione di chiunque si trovasse a transitare in quei luoghi: oltre al ponte sul torrente Morla, a Bergamo e provincia molte sono le sue presenze, tra cui ad esempio sul ponte di Gorle o a Trescore Balneario.

Il nostro, realizzato in Pietra di Zandobbio ed elevato su un alto piedistallo, è privo di aureola ma calza il copricapo distintivo; è vestito dell’abito talare, della cotta e dell’almuzia impreziosita da un’alta fascia in pizzo, aperta sul petto e alzata alle estremità dal gesto che porta all’orazione visiva e mentale del Cristo.

La scolpì Giovanni Antonio Sanz (lo stesso che ritrasse le allegorie delle quattro stagioni e delle Arti Maggiori di Palazzo Terzi in Bergamo Alta) per esaudire il desiderio di un nobile residente nel borgo, il conte Gerolamo Albani (tenente maresciallo e cameriere della Chiave d’Oro di sua Maestà Imperiale), il quale, morto il 20 agosto 1747, lasciò per testamento che si ponesse una statua di San Nepomuceno, lasciando l’incarico al fratello Carlo.

La statua fu realizzata quello stesso anno, includendo il nome del conte nella specchiatura affacciata sulla via, recando la scritta seguente: PER TESTAMENTO / DEI CONTI / GIROLAMO ALBANI / I MARESCIALLO / CESAREO / MDCCXLVII.

IL PONTE E LE SUE “MACCHIETTE”, ANIME DEL BORGO

Borgo Palazzo ebbe i suoi personaggi e anche le sue macchiette. Figure pittoresche, che hanno lasciato una traccia nella cronaca spicciola e in qualche racconto. Una di queste, celebre nei primi decenni del Novecento, sia nel borgo che in tutta Bergamo, fu Giovanni Servalli detto “ol Barba”, “il principe delle macchiette bergamasche, principe lustrascarpe”, come definito dal giornalista Giovanni Banfi in un opuscolo del 1920. Anche il poeta Guerrino Masserini, “Ol Girù”, si è occupato del Servalli. Ma è il ritratto delicato di Geo Renato Crippa, a restituire a Servalli, al di là di ogni faciloneria, la dignità che gli spetta, quella cioè di un uomo sensibile e sfortunato.

Descritto come pazzoide e accattone dignitoso, con una gran barba profetica, il lustrascarpe ed attacchino Servalli era un oratore spassoso, incarnando a meraviglia la parodia oratoria. Con il suo berrettone calato sulla fronte e l’ampia palandrana, soleva intrattenere gli avventori nel recinto della vecchia Fiera, dove innalzava una tribuna improvvisata convinto di rivolgersi “al colto pubblico”, cui proclamava la propria nobiltà.

Giovanni Servalli presso la chiesa di S. Bartolomeo nella caricatura del talentuoso  Alfredo Faino, disegnatore alla Daumier nonché scultore. Del Servalli, la cosa più importante, consisteva nel suo vestiario. Dal cappelluccio con l’aletta corta, sino a certi calzari di tipo “biblico”, tutto era uno sfavillio di stagnole argentee o dorate, tali da farlo sembrare un cavaliere dell’era medievale che camminasse dopo una battaglia. Trovava queste carte presso drogherie e pasticceri, dalle suore di istituti educativi e conventini, dopo le feste dedicate alle loro fondatrici. Dopo le festività natalizie o pasquali, i negozianti lo rifornivano con ciò che, nelle vetrine, aveva sfavillato per una o due settimane. Qualcuno regalava persino qualche nastro colorato mandandolo in estasi, togliendogli, dalla gioia, il respiro che, in ultimo, aveva pesante

Sosteneva di essere un figlio bastardo della “gloriosa casa Giovanelli di Venezia” e di essere giunto in città da una grossa borgata di montagna, dove quella famiglia, un tempo di famosi commercianti s’era talmente avvantaggiata, in mercature nell’Oriente, da richiedere alla Serenissima titoli nobiliari e cavallereschi. Vantando l’appartenenza al lignaggio principesco, finiva col parlare di tutto, stralunando ogni tanto gli occhi e volgendosi impietosito al cielo, gesticolando con solennità, come un patriarca.

“Ol Serval” invita la popolazione a visitare la mostra di Alfredo Faino

I suoi discorsetti pomposi erano per lo più un caotico aggrovigliamento di idee d’ogni sorta, buttate fuori alla brava, con parole in lingua italiana non certo ossequienti ai precetti della Crusca. Non si potevano ascoltare alcune delle sue frasi senza abbandonarsi ad una irrefrenabile ilarità, scatenata dalla sua potenza comica e dalle inflessioni della voce, Il Servalli continuava allora il suo proclama sottolineando la serietà degli argomenti ed esclamando “L’è roba internazionale!”.

Agghindato di stagnole e nastrini, girava l’intera città rullando su un tamburello che gli era stato donato dai componenti della fanfara degli alpini. Circa gli itinerari da percorrere non sbagliava giorno ed ora: alla periferia di dedicava il mattino, ai borghi il pomeriggio, al tramonto raggiungeva il centro cittadino picchiando a più non posso il suo strumento. Di tanto in tanto emetteva una parola di saluto e se incontrava persone di sua conoscenza, ma molto rispettate e riverite, il rullio del tamburo prendeva tono solenne, seguito da silenzi ritmati durante i quali, da fermo, pronunciava cenni d’ossequio ripetuti con calma dignitosa. Possedeva, il Servalli, regole di galateo di sua invenzione, sostenute con toni tra il religioso e il melodrammatico.

Giovanni Servalli s’incammina verso il ponte della Morla con la lampada votiva. La caricatura è di Alfredo Faino, che ha eternato “Ol Barba” in gustosissimi bozzetti, in sapide caricature anche in creta e nei piccoli bronzi

Appena faceva buio, se ne tornava in Borgo Palazzo, suo dominio incontrastato, e all’imbrunire si recava al ponte della Morla reggendo una scala pioli, che saliva per accendere una lampada ad olio innanzi alla statua di San Giovanni Nepomuceno, protettore dei ponti e delle acque.

Giovanni Servalli è ricordato dalle cronache anche per la consuetudine di accendere ogni sera una lampada votiva ai piedi della statua del suo santo protettore, quella di San Giovanni Nepomuceno, sul ponte della Morla, in Borgo Palazzo. Chi narra che “ol Servàl” fosse devoto al santo dei ponti perché proteggeva la sua nobile miseria e chi attribuisce tale consuetudine al ricordo di un miracolo, ottenuto in passato, a favore della sola donna, “amata in purezza, poi, dopo un lustro, morta consunta in una corsia d’opedale, invocando il nome di quegli che fu il suo sogno incantato”. Gli fosse stato possibile, il Servalli avrebbe ornato quel luogo – dove negli anniversari recava qualche fiore – di ori e di gemme (caricatura di Alfredo Faino)

Soddisfatto della sua buona azione quotidiana, rincasava con la scala a spalla; la sua stamberga era luogo di abituale convegno di topi e di gatti, educati – diceva egli stesso – ad un fraterno vicendevole amore. Si seppe poi, allorché egli passò a miglior vita, come la sua povera dimora, che era accanto ad una stalla, fosse pulita ed in ordine, il giaciglio tenuto con cura, le casse e le cassette per riporre la sua roba, linde e divise con accuratezza, giornali e cartoni ammucchiati con esattezza in un angolo. Lo stanzone era illuminato da una finestra che dava su un’ortaglia e la porta aperta sul retro di un “cortilone” d’osteria, con gioco delle bocce, usato nel passato per radunare greggi e mandrie di passaggio. Il silenzio non veniva rotto che la domenica, le sere d’estate e nei giorni di mercato. Appeso a un chiodo pendeva il tamburo. Accanto un tascapane zeppo di libriccini e foglietti che celavano poesie e canzoni che il Servalli cantava nei giorni di sagra, sugli sterrati dei paesini o sui sagrati delle chiese. Dopo lo strazio subito da suo cuore, di pretesti amorosi egli non volle mai saperne: bastavano le storie di re e regine, principi e principesse, marchesi e conti, castelli, foreste, ruscelli, fonti, uccelli variopinti. Fiabe leggere leggere, oneste, dense di umanità, umili, trasognate e innocue. Di lui si conserva ancora un vivido ricordo.

Più modesto un altro personaggio, “ol Fioruna”, che percorreva il borgo e lo stradale di Seriate tutto infagottato con un cappellaccio a piuma, sempre scuotendo un campanello. “Trin trin ‘l passa ol Fioruna, che quando ‘l viasa al suna”.

Anche lui raggiungeva il ponte della Morla ma, mentre il “Barba” Servalli vi si attardava con la sua barba profetica per accendere il lume sulla statua del santo, il Fioruna, che viveva di carità e si sborniava di frequente, utilizzava il ponte, o meglio, uno dei suoi archi, per passarvi la notte. Morì nel vicino manicomio.

All’incrocio tra via Camozzi e l’asse Pignolo/Borgo Palazzo alla fine degli anni Cinquanta. L’edificio in primo piano sulla destra fu adibito tra il 1919 e il 1955 a Dormitorio pubblico. Successivamente venne impiegato anche come Asilo degli Ebbri, ovvero ricovero per gli amanti di Bacco, i quali, dopo essere stati raccolti per le vie della città dalle forze dell’ordine, venivano messi a letto dopo una doccia gelata…. I nuovi edifici, tra cui il supermercato PAM, sono sorti intorno al 1967

E poi c’era “ol Roco de Borg Palass”, che aveva una propria dimora all’Albergo popolare. Era sempre infagottato in vestiti più grandi di lui, con certe calzature scalcagnate. Lo si vedeva sempre correre borbottando frasi, certo, nell’intenzione di erudire i passanti sui fasti o insuccessi della sua grande Atalanta; poi via di corsa svettando a destra e a sinistra, stralunando gli occhi. Si accontentava di qualche pezzo di pane, che condiva con l’immancabile “repubblica” che otteneva facilmente e con larghezza dai bottegai della città. Non si lamentava mai di questa sua vita grama. Gli bastava essere libero di borbottare le sue preferenze atalantine.

Rocco girava trascinando le gambe, sempre malmesso, con un lungo pastrano anche in estate e si appoggiava a un bastone. Fuori dal suo borgo, la zona prediletta era quella dei giardini Donizetti. Fu ricoverato alla casa di riposo “Clementina” a spese del Comune e gli fu riservato un trattamento speciale. Gli fu anche assegnato un letto col televisore a fronte; e quando era in programma una partita dell’Atalanta, il vecchio Rocco tirava fuori un bandierone e lo sventolava a mo’ di sudario sul proprio letto

 

Il pittore Jannucci ha immortalato in questa caricatura le sembianze del Rocco, ai suoi tempi definito il più popolare tifoso dell’Atalanta. L’ultima macchietta cittadina, con lo smunto berretto da agente daziario, i vecchi giornali su braccio e le cianfrusaglie in saccoccia, il passo caracollante e il vociare sgraziato. Anche la sua figura appartiene ormai al mondo dei ricordi di casa nostra

Ultimo di questi singolari personaggi che si addentravano dalla periferia nei borghi, ma raramente per giungere fino in centro, fu il “Gioanì de Tor”. Doveva risiedere a Torre Boldone, o esservi nato, ma nessuno lo seppe mai con precisione. Era un ometto che portava anche d’estate un cappotto sdrucito e un largo cappello. Più alto di lui, un grosso bastone intagliato gli conferiva come una statura diversa. Scomparve improvvisamente. Un giorno nessuno lo vide più. Forse era più vecchio di quanto non si credesse ed era finito in qualche ricovero. O forse non gli era riuscito di superare qualche malanno dell’ultimo inverno. Oggi per lui, sull’asfalto, nel traffico, nella periferia senza più orti e pollai, non ci sarebbe più posto.

Le origini dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche e la facciata dipinta in via Masone

Per capire le origini dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, sono determinanti gli anni dal 1873, anno in cui sorge la società tipografica e casa editrice “Gaffuri e Gatti”, al 1893, anno della fondazione dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, sorto in via S. Lazzaro – in luogo dell’odierno “Triangolo” – e trasferito  dal 1965 nel nuovo impianto di via Zanica: un’azienda che negli anni ha saputo contraddistinguersi per una produzione di altissima qualità e di rilievo internazionale: un’avventura editoriale senza pari, costellata dalle brillanti scelte imprenditoriali di Paolo Gaffuri (1849 – 1931), figura lungimirante intorno alla quale si articola il prestigio dell’azienda.

Paolo Gaffuri in un ritratto eseguito il 25 ottobre 1896. Nato a Bergamo nel 1849 da una famiglia modesta, a dodici anni iniziò a lavorare come apprendista tipografo. Ben presto la passione per il libro e la lettura lo portarono ad acquisire una buona cultura accompagnata da una sensibilità artistica e una grande perizia nell’industria tipografica. Fu stampatore ed editore. Nel 1883 fondò l’Istituto italiano d’Arti Grafiche che, grazie alle sue capacità, giunse a conquistare fama mondiale

Prima di fondare l’omonima società, Gaffuri e Gatti avevano lavorato insieme nella tipografia Pagnoncelli, un’officina situata in via S. Alessandro, dove poi si stabilì la Libreria Greppi e dove “bazzicavano il Fachinetti, il can. Finazzi, i bibliotecari Dossi e Tiraboschi e Pasino Locatelli, Gabriele Rosa, il conte Lochis ed altri egregi studiosi del tempo. Colà stamparono i loro primi lavori Angelo Mazzi, Elia Fornoni, l’ing. Ponzetti, Elia Zerbini ed altri” (1).

Il negozio in cui sorgeva la tipografia Pagnoncelli in via S. Alessandro, fu poi rilevato dal Giuseppe Greppi nel 1892 insieme alla casa (in origine proprietà Sottocasa). Greppi vi dispose un fiorente laboratorio di legatoria e di fabbrica di cornici, aprendo una cartoleria divenuta poi cartolibreria. Il negozio era intitolato alla memoria del fratello, “Pietro Greppi”

Era una tipografia ottocentesca che portava avanti anche una propria attività editoriale e che per tenersi in vita sviluppava anche quella del commercio librario. In questa azienda Gaffuri era impiegato come commesso, mentre Gatti, come contabile.

Gaffuri aveva lavorato da Pagnoncelli a partire dal 15 settembre 1861, da quando cioè, dodicenne, era entrato come apprendista: nel 1864 era stato promosso a commesso della libreria con l’incarico di redigerne il catalogo.

Egli aveva iniziato una vera e propria formazione da autodidatta studiando sui testi a sua disposizione, in particolare il Manuel du libraire et de l’amateur de livres di Jacques Charles Brunet e l’Enciclopedia Pomba, oltre che leggendo i testi della libreria Pagnoncelli. E proprio il periodo formativo di Paolo Gaffuri rivestità un’importanza fondamentale nella fondazione e poi nella direzione dell’“Istituto Italiano d’Arti Grafiche”.

LA FONDAZIONE DELLA “GAFFURI E GATTI”

Ma un contenzioso tra Pagnoncelli e Bolis (2), che finì per indebolire entrambi gli editori, indusse Gaffuri a guardare altrove per individuare prospettive più sicure per il proprio futuro. La concomitante crisi finanziaria della tipografia Sonzogni di Bergamo alta, divenne per il ventiquattrenne Gaffuri e il suo collega Gatti, un’occasione per mettersi in proprio, e ai primi di agosto del 1873, entrambi lasciavano la tipografia Pagnoncelli per acquistare la tipografia Sonzogni, intraprendendo un nuovo cammino, quasi avventuroso, in un momento critico per la storia italiana.

Della tipografia Sonzogni, Luigi Pelandi specifica che si trattava di una piccola tipografia, che aveva i suoi torchi in via Gombito, di fronte alla scalinata di Piazza Vecchia

Neanche un mese dopo venivano definite le trattative per la modifica della ragione sociale della “Gaffuri e Gatti”, nata come società in nome collettivo e trasformata in accomandita semplice per l’ingresso di due soci accomandanti: i Fratelli Cattaneo, stampatori, e Federico Alborghetti (1825-1887), comproprietario-direttore del giornale “La Provincia Gazzetta di Bergamo” (nel 1877 trasformata definitivamente in “Gazzetta provinciale di Bergamo”, organo quotidiano del liberalismo moderato bergamasco).

Con l’ingresso dei nuovi soci, il capitale sociale della “Gaffuri e Gatti” veniva subito raddoppiato, passando dalle 16.000 lire iniziali a 32.000 lire. Dal 1° gennaio 1874 il giornale riportava il nome della nuova stamperia (3).

La nuova azienda definì subito la propria strategia editoriale e commerciale. Dal punto di vista delle scelte editoriali, le opere stampate nei primi anni erano prevalentemente costituite da studi di impostazione erudita e di argomento letterario, archeologico e artistico, e riflettevano chiaramente la fisionomia culturale degli autori, per lo più insegnanti e giornalisti. Si trattava di intellettuali attivi nelle istituzioni culturali cittadine, legati all’esperienza risorgimentale e caratterizzati da un orientamento politico liberale moderato, quasi sempre cattolici, attenti studiosi delle specifiche tradizioni culturali locali, delle quali si facevano nel contempo custodi e interpreti nel contesto postrisorgimentale (4).

NON SOLO TIPOGRAFIA: INIZIA LA STAMPA DEI CALENDARI (E SARA’ UN SUCCESSO)

Grazie all’esperienza maturata da Pagnoncelli, Gaffuri sapeva bene che per garantire sicurezza economica del neonato stabilimento tipografico, avrebbe dovuto da subito affiancare all’attività editoriale altre attività produttive e commerciali, fra le quali egli individuò la stampa dei calendari: un settore da cui era possibile ottenere commesse sicure e nel quale c’era carenza di offerta da parte dei concorrenti. Questo aspetto si rivelò fondamentale per il futuro professionale dello stesso Gaffuri (5).

Le ragioni principali di questa scelta dipendevano da una concomitanza di fattori. La crisi (6) della tipografia Sonzogni, rilevata da Gaffuri e Gatti, era stata innescata dalla perdita. all’inizio degli anni ’70, di una delle poche commesse sicure: la stampa della modulistica per le amministrazioni locali, fatto che costituì una ghiotta occasione per la tipografia dei F.lli Cattaneo (presente a Bergamo dagli anni ’50 ed ora consociata di “Gaffuri e Gatti”), che portò avanti tale attività diventando uno dei principali fornitori per le amministrazioni locali, dalle quali avevano ottenuto, quasi a condizioni di monopolio, anche la concessione della vendita dei calendari, che acquistavano sul mercato milanese per poi rivenderli nel territorio bergamasco,

Con la nascita della sua tipografia, Gaffuri aveva ottenuto dai consociati la stampa in proprio dei calendari, avvalendosi della litografia (di cui a quei tempi, a Bergamo, era attrezzata solo la tipografia Manighetti-Mariani).

La pubblicazione dei calendari si inseriva nel più ampio contesto della produzione, sia locale che nazionale, anche di almanacchi: un genere di largo consumo e di sicuro successo commerciale, anche grazie alle potenzialità didattico-divulgative insite in questo tipo di prodotti (Pelandi ricorda che il primo campionario di almanacchi eseguiti in litografia dai Gaffuri e Gatti è del 1877).

Alla produzione di calendari ben presto si affiancò la stampa di tappezzerie in carta, stampati per ufficio (block-notes, memorandum, ecc.) e altre tipologie simili, quali diari, ricettari, blocchi a sfoglio, ecc., e in particolare, dal 1878, i libri da messa e di preghiera, tutti prodotti che richiedevano attenzione anche all’aspetto grafico e decorativo.

Ne derivò un successo commerciale assai significativo. Per questo, accanto all’attività editoriale, la produzione tipografica commerciale finì per assumere un ruolo determinante nell’economia dell’azienda, che dal 1879 ebbe il suo primo rappresentante nel vicentino Pietro Robbioni.

L’ESPANSIONE DELL’ATTIVITA’ E IL TRASFERIMENTO DA BERGAMO ALTA A VIA MASONE

L’ampio ventaglio di prodotti rappresentati nel catalogo dell’azienda (cartoni per fotografi, attestati per scuole, assortimento di colli di bottiglie di vini e liquori, etichette e rubriche per cartoleria, sottomani in carta cerata, bordure in oro, chiaroscuro, a colori, a fiori, cartelli, campioni di fatture e cambiali, ecc.) consentì alla “Gaffuri e Gatti” di affermarsi e ampliarsi, tanto da cambiare la sede e trasferirsi da Bergamo alta a via Masone in Bergamo bassa, dove esisteva un vecchio stallazzo fra le case Piccinelli, di fronte all’attuale Palazzo delle Poste.

Casa Piccinelli in via Masone (Raccolta Gaffuri)

Preso in affitto lo stabile, la ditta ottenne che fosse rimesso a nuovo e ricoperto di dipinti a tempera e graffito dal pittore Giuseppe Carnelli, con allegorie rappresentanti le Arti Grafiche. Tale decorazione doveva fare intendere – per usare le parole di Luigi Pelandi – che là dentro l’arte della stampa in colore era coltivata e curata.

Facciata dello stabilimento “Gaffuri e Gatti” in via Masone, con le decorazioni  eseguite nel 1881 dal pittore Giuseppe Carnelli (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

 

Versione in b/n della facciata dello stabilimento “Gaffuri e Gatti” in via Masone (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

 

Particolare della facciata dello stabilimento “Gaffuri e Gatti” in via Masone, dipinta da Giuseppe Carnelli (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

 

Particolare della facciata dello stabilimento “Gaffuri e Gatti” in via Masone, dipinta da Giuseppe Carnelli (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

 

Particolare della facciata dello stabilimento “Gaffuri e Gatti” in via Masone, dipinta da Giuseppe Carnelli (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

L’autore dei dipinti, il pittore Giuseppe Carnelli (1838-1909), era definito da Luigi Pelandi “artista di natura e d’istinto, maestro di ogni tecnica pittorica, tanto che per lui non esisteva alcun segreto né per la tempera, né per l’affresco o per la pittura a olio”. Per almeno sette anni Carnelli eseguì cartelloni, disegni, litografie, coi quali contribuì a fare la fortuna dello Stabilimento. Il pittore risiedette a lungo in via Broseta al numero 27 e pressoché di fronte abitava nei suoi anni giovanili Paolo Gaffuri, amicissimo di Carnelli.

Carnelli Giuseppe autoritratto

Come afferma il Pelandi, agli inizi degli anni ‘60 del Novecento tali decorazioni erano già sparite e stavano sparendo anche quelle della casa vicina, già dei nobili Piccinelli, rappresentanti dei bambini che danzavano o giocavano, eseguiti dal pittore Alberto Maironi. La casa di via Masone, già adibita a tipo-litografia Gaffuri, divenne più tardi la Scuola Tecnica Principe Amedeo Di Savoia (7).

Casa Piccinelli in via Masone (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

Nella nuova sede la “Gaffuri e Gatti” poté finalmente aggiornare i propri impianti: dal 1880 si sviluppò quindi anche il settore cromolitografico.

Oltre alla vasta gamma proposta, a Gaffuri interessava affermarsi attraverso la qualità dei prodotti, sia commerciali che editoriali, che dovevano contemplare anche un fine estetico-educativo.

A questo scopo, accanto a incisori e stampatori tedeschi, egli chiamò a collaborare artisti e illustratori italiani di notevole rilievo, come Gabriele Chiattone e Cesare Tallone (all’epoca direttore dell’Accademia Carrara di Bergamo), o come i pittori bergamaschi Alberto Maironi e Giuseppe Carnelli, l’autore dei dipinti murali della sede di via Masone.

La “Gaffuri e Gatti” diventò così un’azienda all’avanguardia in Italia per la stampa cromolitografica e per il materiale illustrato in genere.

Sono suoi, infatti, i primi cartelloni murali per pubblicità italiani: quelli che pubblicizzano i pianoforti Ricordi e Finzi, i panettoni Bai e le Assicurazioni generali di Venezia. Sono della “Gaffuri e Gatti” anche le cromolitografie per il “Giornale per i bambini” uscito a Roma dal 1881 e diretto da Ferdinando Martini.

Manifesto pubblicitario dei pianoforti Ricordi e Finzi, disegnato da Aleardo Terzi (cromolitografia)

La qualità dell’illustrazione, dunque, divenne un aspetto centrale dell’azienda, tanto da suggerire già nel 1880 a Gaffuri, l’idea di realizzare una rivista illustrata di arte e letteratura, intitolata “La Cartella”, aperta a collaborazioni non legate all’ambito locale: un progetto non realizzato con la “Gaffuri e Gatti”, ma che anticipava idealmente la successiva esperienza di “Emporium”.

Nonostante i successi commerciali, le potenzialità dell’azienda dovettero però scontrarsi con le difficoltà di gestione e la sproporzione tra gli obiettivi che si volevano raggiungere e i mezzi finanziari a disposizione. Il successo commerciale degli inizi aveva infatti portato la “Gaffuri e Gatti” ad ampliare il capitale immobilizzato negli impianti, assumendosi con ciò un notevole impegno debitorio, non coperto dal capitale sociale, tanto che l’eccessiva esposizione finanziaria nel 1882 determinò la crisi dell’azienda.

A dieci anni di distanza dalla fondazione della “Gaffuri e Gatti e cioè nel 1883, i consociati F.lli Cattaneo rilevarono la società, ma, significativamente, mantennero il marchio e il nome dei predecessori come segno di continuità per un’azienda che si era fatta apprezzare sul mercato editoriale e tipografico.

Nacque così la “Fratelli Cattaneo successi Gaffuri e Gatti”, di cui Gaffuri, perduto il ruolo del socio, ne divenne il direttore, mentre – come ricorda Pelandi – Raffaele Gatti ritornò per pochi anni in Fiera, ove aprì una piccola tipografia ed un negozio di libri sulla fronte verso il Sentierone.

In tal modo Gaffuri si svincolava dalle questioni amministrative per potersi concentrare su ciò che più gli stava a cuore già dai tempi di Pagnoncelli: realizzare un vero e proprio progetto editoriale.

Litografi e stampatori dello stabilimento Gaffuri e Gatti con i prodotti del loro lavoro (20 aprile 1890)

Nonostante i fratelli Cattaneo intendessero passare in un futuro la nuova azienda ai nove figli, Gaffuri continuava a perseguire un obiettivo molto ambizioso: quello di svincolare la casa editrice dalla conduzione familiare dei F.lli Cattaneo per fondare una società per azioni anonima, dove i capitali di finanziatori esterni avrebbero consentito progetti di ben più ampio respiro. A tal fine, nel maggio del 1887 Gaffuri, attraverso una lettera-circolare rivolse un appello ai potenziali finanziatori, che conteneva già le premesse progettuali per l’istituzione di quello che, di lì a pochi anni, divenne l’IIAG. L’appello proponeva la costituzione di una società per azioni che, su base finanziaria solida, potesse rilevare l’azienda dei F.lli Cattaneo, dar luogo ad un potenziamento dell’attività tipo-litografica e, contemporaneamente, realizzare un più pieno e razionale uso degli impianti anche attraverso una rinnovata e solida produzione editoriale.

Giardino interno dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, in via S. Lazzaro (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

 

Giardino interno dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, in via S. Lazzaro (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

 

Giardino interno dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, in via S. Lazzaro (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

I F.lli Cattaneo, galvanizzati dal successo commerciale raggiunto e spinti dalla necessità di reggere la concorrenza, continuarono a ingrandire lo stabilimento, investendo una quantità di capitale superiore alle loro reali disponibilità, senza attuare un piano amministrativo che permettesse loro di tener sotto controllo la situazione economica, ma vivendo piuttosto alla giornata. Gaffuri vedeva chiaramente che tale politica societaria era destinata ad entrare in crisi non appena fosse diminuita la disponibilità del capitale finanziario. In pratica, l’azienda si trovava nella stessa situazione che, nel 1882, aveva determinato il passaggio dalla “Gaffuri e Gatti” alla società dei F.lli Cattaneo.

Veduta dalla terrazza dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, in via S. Lazzaro (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

A favorire la trasformazione della “F.lli Cattaneo successi Gaffuri e Gatti” in Istituto Italiano d’Arti Grafiche fu anche la questione della sede. I F.lli Cattaneo avevano una loro propria sede, e non avevano mai voluto accorpare in un unico stabilimento la loro azienda originaria con la ditta che avevano ereditato dalla “Gaffuri e Gatti”, la cui sede era nel centro di Bergamo.

Via S. Lazzaro, nei pressi dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

Così, quando la “F.lli Cattaneo successi Gaffuri e Gatti”, in fase di espansione, si era trovata nella necessità di trovare una sede più adeguata alle proprie necessità, i Fratelli Cattaneo si erano impegnati finanziariamente per acquistare nuovi locali dove trasportare gli impianti.

La storica sede di via S. Lazzaro dell’Istituto Italiano di Arti Grafiche (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

L’amministratore della F.lli Cattaneo, Augusto Coffetti, era riuscito a trovare uno stabile in via S. Lazzaro, occupato da un setificio bergamasco poi fallito. La nuova sede era spaziosa e conteneva macchine ed attrezzi per le officine di tipografia, litografia, legatoria, verniciatura, con officine di falegnameria e meccanica. Il personale, tra operai, impiegati e “artisti”, comprendeva 350 persone.

La storica sede di via S. Lazzaro dell’Istituto Italiano di Arti Grafiche, in una delle fotografie custodite nell’archivio della società

 

Panorama dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche in via S. Lazzaro (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

 

Istituto Italiano d’Arti Grafiche, via S. Lazzaro, 1907. Laboratorio all’aperto in piena luce per i Chimigrafi

 

terrazza fotografica e fotomeccanica dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche. Mancando l’illuminazione elettrica, per molte operazioni si utilizzava la luce del giorno (foto e testo Raccolta Lucchetti)

E così, all’inizio del 1892, “trovato l’edificio, preparato il piano per una metodica suddivisione delle officine, degli ateliers, dei reparti, occorrevano i capitali sufficienti per dar vita al nuovo organismo, all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche”. Tuttavia, proprio l’ampliamento aveva determinato ulteriori esposizioni finanziarie da parte dei Cattaneo, che non erano più in grado di sostenere i debiti contratti con le banche.

Il salone macchine tipografiche dell’Istituto (1890-1915)

 

Il reparto di Fotoincisione presso l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche

 

Fotoincisori dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche (6 giugno 1913)

Per Gaffuri era giunto il momento per realizzare quel passaggio da azienda familiare a società per azioni già ipotizzato nel 1887. Il primo passo in questa direzione furono i contatti intrattenuti da Gaffuri con Lorenzo Limonta, presidente della Banca popolare di Bergamo, che, dal canto suo, sondò accuratamente le reali possibilità di sviluppo della casa editrice.

L’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, via S. Lazzaro

 

Padiglione Arti Grafiche nel 1894 al castello sforzesco durante esposizioni Riunite

Primo tangibile risultato dell’incontro tra i due fu il fatto che venne subito sospesa la domanda di copertura dei crediti precedentemente avanzata dalla Banca popolare ai F.lli Cattaneo e, anzi, fu concessa una cospicua somma per portare a compimento la produzione di calendari e almanacchi, dal momento che la produzione era ormai giunta al milione di copie annue, considerate anche le esportazioni in America Latina.

Interno della legatoria dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche; la preparazione di una strenna per “La Patria degli italiani”, pubblicato a Buenos Aires per più di cinquant’anni (1890-1915) – (Raccolta D. Lucchetti)

Da parte loro, i Cattaneo avrebbero dovuto cedere l’azienda alla futura società qualora l’esercizio commerciale fosse risultato in attivo, come Gaffuri sosteneva. I Cattaneo tentarono in tutti i modi, nei mesi successivi, di evitare di dover cedere l’azienda, ma alla fine dovettero desistere.

Richard Vogel, il “primo stampatore litografo” dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, festeggiato per il 25° anno d’impiego (giugno 1902)

 

Lo zurighese Paolo Kohberg nella sala di cromatura (22 agosto 1909)

 

Il bavarese Augusto Fentsch, capo della sezione fotomeccanica

 

Gino Amati e Cesare Villa: due maestri di fotografia e di fotocromia, dipendenti dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche (Raccolta Lucchetti)

La costituzione della nuova società, denominata “Istituto italiano d’Arti Grafiche”, divenne ufficiale dal 24 giugno 1893, data del rogito notarile. Tra i fondatori figuravano undici nomi, provenienti dal mondo delle professioni di Bergamo e provincia, anche se i soci effettivamente sottoscrittori del capitale sociale iniziale furono solo cinque; tra i nomi figuravano naturalmente anche quelli di Limonta e Gaffuri, il quale ultimo venne nominato direttore generale. Luigi Caldirola ricoprì la carica di direttore tecnico e Giovanni Cottinelli quella di direttore amministrativo oltre ad esser nominato, poco tempo dopo, anche vicepresidente. Il primo presidente del consiglio d’amministrazione fu lo stesso Limonta, in carica fino alla morte, avvenuta il 15 novembre 1911.

Reparto disegnatori dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche. Come si evince dal nome stesso dell’istituto, intitolato alle Arti grafiche, la principale peculiarità dello stabilimento editoriale fondato a Bergamo nel 1893 fu la poligrafia artistica, nella quale l’IIAG riuscì ad acquisire una posizione d’eccellenza nelle tecniche della riproduzione a stampa (litografia, cromolitografia, fotolitografia, ecc.), potenziando e valorizzando il ruolo dell’illustrazione nelle sue produzioni editoriali, distinguendosi anche per l’attenta e spesso raffinata cura editoriale con cui venivano realizzati libri e riviste (Raccolta D. Lucchetti)

 

Don Clienze Bortolotti, direttore de “L’Eco di Bergamo” dal 1903 al 1925, in visita all’Istituto

Da questo momento iniziava una nuova vicenda per l’istituto editoriale, i cui sviluppi editoriali si intrecciano con l’esperienza della rivista illustrata “Emporium”, stampata a partire dal 1895, che si rivelerà, nel lungo termine, uno strumento efficace di propaganda dell’attività editoriale dell’Istituto. Una prova ulteriore, in tal senso, è costituita dal fatto che, nel 1892, cioè appena un anno prima della fondazione dell’IIAG, l’azienda diretta da Gaffuri aveva assunto la stampa della rivista illustrata “Arte italiana decorativa e industriale” diretta da Camillo Boito.

A partire dal 1895, con Arcangelo Ghisleri Gaffuri ideò e pubblicò presso l’Istituto, la rivista “Emporium”, che riscosse un notevole successo internazionale per la novità dei contenuti, la qualità della veste grafica, l’importanza data alle immagini, la vastità di orizzonti, implicita nel sottotitolo “Rivista mensile illustrata d’arte letteratura scienze e varietà”. La rivista uscì fino al 1964. Negli anni Venti divennero frequenti le copertine d’autore, firmate dal disegnatore; sempre diverse fino ai primi anni Trenta, rifletterono gli stili dell’epoca. Dal 1932 le copertine divennero solo grafico-pittoriche; dal 1937 riportarono fotografie di opere d’arte e dal 1942 non vennero più illustrate ma solo colorate per annata. Parteciparono alla realizzazione delle copertine i più importanti grafici e illustratori italiani: Giovanni Guerrini, Publio Morbiducci, Leonella Nasi, Giulio Cisari, Erberto Carboni, Diego Santambrogio, Giulio Rosso, e soprattutto Ugo Nebbia (sue le copertine di soggetto bellico) e Fortunato Depero

 

Il salone macchine tipografiche dell’Istituto (1890-1915)

 

Uno scatto leggermente diverso, eseguito negli stessi istanti

Del resto, l’attenzione all’aspetto artistico era non solo già stata posta pubblicamente con la qualità grafica di moltissimi prodotti della “Gaffuri e Gatti” prima e della “F.lli Cattaneo successi Gaffuri e Gatti” poi, ma reso evidente anche in termini visivi sulla facciata della vecchia sede di via Masone, decorata appositamente per mettere in evidenza proprio le “Arti grafiche”. Ricorda Luigi Pelandi che al nuovo, complesso organismo, quando dovette assumere l’aspetto commerciale di un’azienda “anonima”, fu dato il nome di “Istituto”, perché le istituzione delle “Arti Grafiche” vi dovevano trovare costante asilo, inserendo il beneficio commerciale e industriale su di un costante progresso tecnico di tutti i rami coltivati. Quello che altrove sarebbe stato superfluo, qui fu sentito indispensabile.

Istituto Italiano d’Arti Grafiche

Gaffuri diresse l’istituto fino al 1910. Raccolse una collezione, dispersa tra l’Accademia di Brera, la sede milanese del Touring Club Italiano e la Biblioteca Angelo Mai, che “deve essere considerata come una fonte importante, e in larga parte inesplorata, di informazioni sull’editoria popolare” (8).

La regina Margherita in visita all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche nel 1906 (Raccolta Gaffuri, Biblioteca Civica di Bergamo)

 

1913: visita del re Vittorio Emanuele III all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche. Questa fotografia, probabilmente eseguita da Cesare Villa, fu consegnata al re prima che lasciasse l’Istituto. Data l’epoca – scrive Lucchetti – il fatto è da ritenersi eccezionale (Raccolta di cartoline  D. Lucchetti)

 

Il re Vittorio Emanuele III in visita all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche (1913)

 

Due ali di folla, con bandiere, applausi e grida di “Viva il re”, al passaggio a Porta Nuova del corteo con l’auto – scortata dai carabinieri in bicicletta – con Vittorio Emanuele III in visita alla città  il 23 settembre 1913. In quell’occasione, il re presenziò anche all’inaugurazione del monumento a Cavour; alla posa della prima pietra dell’lstituto Tecnico in foro Boario e alla Cappella Colleoni, quando egli domandò: “in quale sarcofago è il corpo del condottiero? Nessuno gli seppe rispondere e nacque cosi il dilemma del cadavere scomparso, avallato da una sommaria ispezione (da “Fotografi pionieri a Bergamo” di Domenico Lucchetti. Foto di Don Giuseppe Locatelli  

Nonostante i brillanti successi in termini culturali e in seguito a rilevanti cambiamenti nella gestione della società, nel 1915 Gaffuri venne licenziato dalla società da lui stesso creata, sostituito da Ezio Sangiovanni. Grande fu il suo rammarico: “Sortirò dall’azienda che ho creata, povero, cacciato con le forme più odiose […] espulso come un ingombro, perseguitato […] poi sarà quel che sarà per me e per l’Istituto”, scriveva con amarezza il 25 febbraio di quello stesso anno ad Arcangelo Ghisleri.

Foto ricordo degli impiegati a Paolo Gaffuri (26 giugno 1915)

 

L’uscita dei lavoratori per la pausa pranzo

Bergamo, a riconoscenza delle sue grandi capacità imprenditoriali e editoriali che portarono la cittadina al centro dell’editoria lombarda, gli intitolò una via nel quartiere di Loreto. La morte lo colse nel 1931 e la casa natale lo ricorda in un’epigrafe.

NOTE

(1) Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. III. Il Borgo S. Leonardo”. Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1965 (Collana di studi bergamaschi).

(2) Come spesso accadeva a quei tempi, accanto all’attività tipografica e ad una propria attività editoriale, per tenere in vita l’azienda, soggetta alla dura concorrenza del mercato locale, la Pagnoncelli sviluppava anche quella del commercio librario. Ma tra il 1868 e il 1871, gli editori Pagnoncelli e Bolis si contesero la stampa dei quotidiani locali e la relativa concessione degli Atti giudiziari. Contenzioso che finì per indebolire entrambi gli editori e indusse Gaffuri a cercare prospettive più sicure per il proprio futuro (Anna Martinucci. Università degli studi di Milano, “Le origini dell’Istituto italiano d’arti grafiche: per un’illustrazione di qualità”).

(3) Luigi Pelandi scrive che dopo l’acquisizione della tipografia Sonzogni, “La società Gaffuri e Gatti prese in affitto otto botteghe in Fiera dal signor Marco Spinelli. Esse vennero subito adattate ad uso officina ed ivi collocati i banchi di tipografia, il materiale ed i torchi già Sonzogni. In altra tresenda, e precisamente di faccia all’Intendenza di Finanza, era venuta ad installarsi una piccola tipografia per la stampa della “Provincia Gazzetta di Bergamo”, amministrata da Licurgo Spinelli, un buon patriota, ma catttivo amministratore. Il dottor Felice Alborghetti, direttore e comproprietario del giornale, propose ed ottenne dalla nuova società la gestione e la stampa del periodico; infatti il 1° gennaio del 1874 il giornale porta il nome della Stamperia Gaffuri e Gatti” (Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Banca Popolare di Bergamo. Co-Editore: Edizioni Bolis. Bergamo, 1963. Collana di studi bergamaschi).

(4) Tra i titoli di questi primi anni si possono ricordare: Pasino Locatelli, I casi di Bernardo Strozzi: pittore genovese, 1875, appartenente alla collana “Nuova collezione di novellieri contemporanei”; Antonio Tiraboschi, Usi pasquali nel Bergamasco, 1878; Emile Zola, Il Capitano Burle, prima traduzione italiana di Augusto Barattani, 1881; Elia Zerbini, Angelo Mai e Giacomo Leopardi, 1882. Tra i testi stampati nel catalogo “Gaffuri e Gatti” figurano anche pubblicazioni d’occasione, come il volume del 1875 dedicato a Gaetano Donizetti e Johann Simon Mayr, tipiche glorie culturali locali da valorizzare nel contesto nazionale (Anna Martinucci. Università degli studi di Milano, “Le origini dell’Istituto italiano d’arti grafiche: per un’illustrazione di qualità”).

(5) Pelandi ricorda che “ad incisore litografico della nuova sociatà era stato assunto un recluso delle carceri di S. Francesco, certo Dolfin, condannato per fabbricazione di biglietti falsi. Abilissimo disegnatore, il recluso fece scuola al primo gruppo di incisori bergamaschi, i quali ben presto diedero prove di buon gusto e di padronanza del nuovo sistema di riproduzione, tanto che dai calendari a semplici ornamenti si passò ben presto a quelli a figura ed a composizione” (Luigi Pelandi, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Op. Cit.).

(6) La vita precaria delle tipografie locali era caratterizzata da un’alternanza di passaggi, scanditi da cessione ad altri tipografi o da successioni ereditarie. Prima di diventare “Gaffuri e Gatti”, la tipografia Sonzogni aveva attraversato varie fasi: nata nel 1804 come tipografia di Ignazio Duci, questi l’aveva ceduta a Luigi Sonzogni, al quale era succeduta la figlia Angela sposata Salvi. Per il sostanziale disinteresse del marito di quest’ultima (Domenico Salvi detto “Fidelì”, specifica Luigi Pelandi) e per incapacità organizzativa, la tipografia Sonzogni aveva perso, all’inizio degli anni ’70, una delle poche commesse sicure: la stampa della modulistica per le amministrazioni locali, attività svolta già durante la dominazione austriaca. La stampa della modulistica venne immediatamente colta come occasione di lavoro dalla tipografia di Pietro Cattaneo, presente a Bergamo dagli anni ’50, che pubblicava un giornale locale per conto di Pagnoncelli (Anna Martinucci. Università degli studi di Milano, “Le origini dell’Istituto italiano d’arti grafiche: per un’illustrazione di qualità”).

(7) Luigi Pelandi, “Attraverso le vie di Bergamo scomparsa. II. La strada Ferdinandea”. Op. Cit.).

(8) Edoardo Barbieri, Francesco Novati e l’editoria popolare, in Produzione e circolazione del libro a Brescia tra Quattro e Cinquecento. Atti della seconda Giornata di studi: ” Libri e lettori a Brescia tra Medioevo ed età moderna”, Brescia, Università Cattolica del Sacro Cuore, 4 marzo 2004, a cura di Valentina Grohovaz, Milano, Vita e Pensiero, 2006, p. 146.

Da: Anna Martinucci. Università degli studi di Milano, Le origini dell’Istituto italiano d’arti grafiche: per un’illustrazione di qualità.

Enrico Rastelli, bergamasco, il più grande giocoliere del mondo

A solo una settimana dal suo ultimo trionfo sulle scene del Teatro “Duse”, Enrico Rastelli, il più grande “jongleur” del mondo, moriva improvvisamente a Bergamo, a soli trentaquattro anni d’età.

La notizia non fu creduta, tanto inattesa e inverosimile apparve a chi lo aveva visto, poche sere prima, pieno di vita, di gaiezza, all’apice della sua forma artistica, trascinare la folla a un delirante entusiasmo.

Enrico Rastelli (1896-1931), il giocoliere bergamasco ribattezzato “l’ottava meraviglia del mondo” dalla stampa americana di inizio Novecento, è considerato il più grande“jongleur” di tutti i tempi. Simbolo degli anni Venti, fu velocimane fenomenale e signore dell’equilibrio, mito della giocoleria dalla fama pari a quella di Houdini nell’illusionismo

Non poteva essere possibile, non era giusto che una tale, fiorente vita, fosse tanto bruscamente troncata. E una teoria immensa di popolo, tutta Bergamo, dal più altolocato cittadino al più umile, si recò in mesto pellegrinaggio alla sua villa di via Mazzini per vederlo ancora, serbando nel cuore la speranza che la Morte, inesorabile sempre, si fosse una volta tanto sbagliata.

Bergamo, 1932: Villa Rastelli. Alla fine degli anni Venti, dopo aver attraversato l’Europa e l’America, grazie alla fortuna accumulata Rastelli aveva fatto costruire una sontuosa villa a Bergamo, in via Mazzini 9, oggi via Garibaldi, dove si era stabilito con la moglie e I tre figli. Si dice che da diverso tempo, la villa, posta a pochi passi dall’ex Istituto Matteo Rota (oggi Presidio sanitario), sia abitata dalla famiglia Praderio, nota in Bergamo per il negozio di lane in via XX Settembre, e che fu per un certo periodo molto trascurata(Foto Ogliari)

Ed invero, a vederlo là, nel suo letto, calmo, sereno, quasi sorridente, pareva a tutti che dormisse, che riposasse, in una delle brevi soste del suo lavoro febbrile, e che da un momento all’altro dovesse alzarsi e riprendere la serie fantastica dei suoi esercizi.

Enrico Rastelli nel sonno della morte, dal dipinto del pittore Ghirardelli (Foto Ogliari)

Ma le sue mani, le sue miracolose mani che avevano saputo infrangere le più possenti e rigide leggi della statica e della gravità, ceree, conserte, immobili, avvinte da una sottile coroncina di madreperla, si portavano nel silenzio della tomba il segreto della loro arte inimitabile.

Le mani di Rastelli (Foto Hehmke Winterer)

Che cosa fosse l’arte di Enrico Rastelli si può riassumere in una parola: miracolo.

Chiunque abbia visto il suo “numero”, eseguito con palle di gomma e di cuoio d’ogni dimensione, con bastoni e piatti, a cui sapeva imprimere i movimenti più inverosimili e diversi, non troverà esagerata la parola.

Se altri artisti presentavano più o meno elegantemente difficilissimi esercizi di acrobazia sul cavallo, al trapezio, alle pertiche, tripli salti mortali, volteggi nel vuoto, nessuno esibiva una personale impronta che distinguesse l’uno dall’altro; ciò che invece eseguiva Rastelli, non poteva essere fatto che da lui.

Il lancio delle candele (Foto Robertson)

Egli era riuscito, attraverso un particolare studio ed una pratica quotidiana di lunghi anni, a rendere i suoi esercizi inimitabili e ad ottenere in ciascuno di essi la massima prestazione; nessuno mai, prima di lui, aveva raggiunto una tale perfezione: in questo consisteva la sua peculiarità, ed egli incominciava il suo numero là dove altri si sarebbero accontentati di arrivare.

E ciò che maggiormente meravigliava il pubblico era la semplicità, la sobrietà e la spigliatezza con cui agiva, sicché il suo lavoro sembrava un gioco e non dava affatto l’impressione della sua enorme difficoltà.

C’era dunque l’arte, del sentimento in quello che apparentemente sembrava puro meccanismo.

Apprezzato per il candore e sorriso che il pubblico adorava, Rastelli, oltre che dal pubblico e dalla critica, fu stimato anche dai colleghi artisti per la sua disponibilità a dare qualche consiglio su come preparare un esercizio, o a regalare qualche attrezzo che a lui non serviva più (Ph Museo delle Storie di Bergamo)

Figlio e nipote di artisti circensi, scritturati nei circhi russi, aveva trascorso l’infanzia in parte con i genitori in giro per il mondo e in parte a Bergamo con gli zii materni e dove fu avviato allo studio del violino.

All’età di cinque anni aveva provato per la prima volta ad imitare il padre, dimostrando una precoce vocazione, contrastata da Papà Rastelli, equilibrista ed acrobata, che forse pensava a quali difficoltà si dovessero vincere per eccellere in quel genere di esercizi.

Enrico Rastelli a 5 anni.  Figlio di Alberto – equilibrista ed acrobata – e Giulia Bedini, era nato il 19 dicembre 1896 in Russia, a Samara sul Volga, dove il padre era in tournée con il Circo Ciniselli

Ma il desiderio di intraprendere la professione circense aveva preso il sopravvento e giovanissimo volle raggiungere ii genitori a San Pietroburgo, dove iniziò a  partecipare ai loro spettacoli in qualità di acrobata.

Nel frattempo coltivava segretamente la passione per la “giocoleria”, tenendo in equilibrio, lanciando e a riprendendo palle, cerchi, piatti, forchette, coltelli, cappelli, birilli, bastoni: non ci volle molto perché presto diventasse  l’amico e il signore di quegli oggetti umili, casalinghi talvolta, che dovevano ubbidire ciecamente alla sua volontà.

Compreso lo straordinario talento del figlio i genitori crearono il Trio Rastelli, in cui la piccola famiglia italiana si esibiva in un ‘numero’ di giocoleria ed equilibrismo.

Un giorno, mentre, camuffato da ragazza si esibiva in un ‘numero’ di trapezi, la parrucca gli rotolò a terra, con grande divertimento del pubblico. Ferito nell’orgoglio Enrico decise fermamente di darsi alla sua passione: la giocoleria; ma l’agilità degli equilibristi aerei e degli acrobati avrebbe avuto una grande importanza per la sua futura carriera.

Ben presto cominciò a coltivare il desiserio di emergere fino ad oscurare la fama di tutti i giocolieri che lo avevano preceduto. Iniziava così, per Enrico Rastelli, una vita oscura di fatica e sacrificio, attraverso un’applicazione intensa e continua. Più tardi, con quel lavoro avrebbe mantenuto i suoi vecchi e, a sua volta, si sarebbe fatto una famiglia.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

I suoi modelli? L’americano Kara e il francese Pierre Amoros, una combinazione di fantasia e abilità, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo.

Enrico Rastelli alle prese con una palla da rugby

L’artista trascorse la giovinezza tra la Russia e l’Oriente, dove ebbe modo di perfezionare la sua formazione. Prese lezioni di danza da Vaslav Nijinsky e scoprì, grazie al giocoliere giapponese Takashima, i giochi di Awata: su un bastone tenuto tra i denti, faceva rimbalzare, o teneva in equilibrio, una o più palle.

Enrico Rastelli: il più grande giocoliere del mondo

Rastelli entrava in scena con un kimono dai ricami sontuosi, sotto il quale indossava un completo di seta bianca. Alla sacralità del gesto appresa dagli orientali, fu capace di affiancare la spettacolarità occidentale e una velocità di esecuzione mai vista prima di lui.

Rastelli ha rivoluzionato il genere con la sua innovazione – compresi palloncini e bastoncini che ha preso in prestito a giocolieri giapponesi -, ma anche per la durata più lunga del suo numero

 

Rastelli in kimono (manifesto)

In Russia nel 1915, all’età di diciannove anni debuttava come solista nel circo Truzzi, ai tempi in cui quel mondo ai giocolieri preferiva di gran lunga gli acrobati e i domatori.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

Nello stesso anno superò il record di nove palle detenuto dal giocoliere francese Pierre Amoros, riuscendo a giocolarne dieci: “Nessuno può immaginare quanta fatica ciò mi sia costato! Il pubblico non si accorse nemmeno che io giocavo con una palla di più, ma i miei colleghi lo capirono”.

Enrico Rastelli in alcuni suoi “numeri” (Foto Sacchi)

L’allenamento gli costava una fatica immensa. Il suo esercizio richiedeva una fissità estenuante di attenzione che logorava i nervi e creava una paurosa anemia. Pallido, esangue, eseguiva il suo “numero” con uno sforzo terribile, che ad ogni esercizio lo lasciava prostrato.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

Ma anche un giocoliere può soffrire di quell’allucinante amore che è l’amore per l’arte, e giocolare esige un lavoro costante e tenace. Per imparare a mantenere l’equilibrio anche durante il sonno, si obbligò per un periodo a dormire su una branda appesa alle corde del bucato.

Rastelli e il numero delle tre palle verticali (Foto Atelier Stone)

Sapeva che in nessun mestiere la scala dei valori è così chiara e nettamente suddivisa come nel mestiere del jongleur, per il quale Strehly, il più grande storico della vita e del lavoro del circo, nel 1905 aveva stabilito una gerarchia, seguita a tutt’oggi dagli specialisti del genere: tenendo due oggetti in aria si è un bambino; tenendone tre si è, talvolta, il papà di quel bambino; ma è a partire da quattro palle che un giocoliere comincia ad essere degno di questo nome; a cinque è bravissimo; a sei si è maestri; a sette si è fuoriclasse. A otto palle credo che sia impossibile arrivare”.

La ruota con sei palle

Se il celebre Kara, il più famoso giocoliere dell’Ottocento, faceva roteare in aria sette palle, Enrico Rastelli al Palazzo d’Estate di Bruxelles superò quella barriera di ben due punti, immettendo nella ruota dieci oggetti. Egli aveva dunque conquistato il record mondiale. E lo tenne insuperato fino alla morte. Per riuscirci si allenava dalle 6 alle 12 ore al giorno – senza nemmeno fermarsi quando parlava -, e ciò fino a pochi giorni prima di morire.

“Rotondo, muscoloso, ondulato modellato con sottili attaccamenti, il viso come una mela rosa, il naso appena a malapena agganciato per affermare il maschio, Rastelli sorrise, incantato, volteggiato, balzò, instancabilmente. Le traiettorie variavano in ampiezza, distanza di forza, come intervalli. Era coperto di sudore ma si inchinò, ridendo, senza nulla di istrionico e ricominciò dopo ogni bravo, a donarsi di nuovo senza riluttanza, con la prodigalità degli ingenui eroi che non sanno contare sulla vita. E andò a ballare, come Tristan o Zarathustra, orgoglioso di aver superato Kara , il più famoso giocoliere che manipolava sette oggetti mentre lui ne maneggiava dieci … ” (Dr. A. Thooris)

Nel 1917 sposò Henriette Price, una funambola che aveva dovuto corteggiare per qualche anno prima che il padre di lei, un famoso clown, acconsentisse al matrimonio.

Henriette Price, moglie di Enrico Rastelli, componente di una famiglia circense (Foto L’Art Foto – Budapest)

Con l’arrivo della rivoluzione e della guerra, Rastelli e la sua famiglia furono costretti ad abbandonare Pietroburgo, perdendo quasi tutti i loro averi dopo un viaggio avventuroso fino a Odessa (1919), dove riuscirono a imbarcarsi sulla nave italiana “Roma”, inviata dal governo per recuperare i connazionali. Tornarono così in patria, dove però Rastelli era quasi uno sconosciuto.

Ritratto d’Enrico Rastelli, giocoliere italiano, 1920

La svolta che diede il via al suo successo mondiale avvenne nel 1921. Il giocoliere, scritturato in quel momento dal circo Gatti & Manetti, fu notato dall’agente inglese Henry Sherek, che lo ingaggiò per una tournée nei più importanti teatri di varietà europei, tra cui l’Alhambra di Parigi e l’Olympia Hall di Londra.

Questi ingaggi, che segnarono il passaggio dal circuito dei circhi quello dei teatri di vaudeville (un genere teatrale nato in Francia a fine Settecento, molto simile ai teatri di varietà), lo indussero a cambiare stile, giocolando contemporaneamente con cinque palloni da calcio.

E fu nel 1922, all’Alhambra di Parigi, che avvenne il suo grande battesimo. Aveva allora venticinque anni e il suo nome era pressoché ignorato dai parigini, appassionatissimi del genere ma anche molto intransigenti.

Rastelli alla Tour Effeil. La Francia dove Rastelli spopola e strappa contratti da favola è quella che nel 1928 sarà in grado di produrre un numero di automobili sei volte superiore rispetto al 1913. A Parigi Enrico fa in tempo a vedere la Tour Eiffel usata come supporto luminoso per l’enorme pubblicità della Citroen (Foto Lorelle)

Il successo fu trionfale. Folle enormi trassero a vederlo, di lui si occupò tutta la stampa proclamandolo senza indugio il primo giocoliere del mondo. Già fin d’allora si presentò con il famoso esercizio degli otto piatti lanciati in aria e ripresi, tenendo un bastone ed una palla in equilibrio sulla fronte.

Ma la sua arte non si limitava alla velocimania: egli complicò i suoi esercizi con equilibrismo ed acrobazia, dando appunto con questo la sensazione dell’impossibile.

I bergamaschi ricordano lo strardinario esercizio che consisteva nello stare sdraiato sulla schiena, con un’ampia stella in metallo girante sulla punta d’un piede, un anello girante attorno all’altro piede, un’altra stella su un bastone in bocca, nel contempo facendo volteggiare tre bastoni con le mani stando su un supporto roteante.

Egli era infatti anche un maestro di “combinazione” di stili, come giocolare con sei piatti facendo girare un cerchio con un piede e saltando la corda girata da due assistenti, anche se la base dei suoi “numeri” restavano i pezzi fondamentali – cerchi, bastoni, palle, piatti – lanciati nella “ruota”, quasi sempre combinati tra loro.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

 

La scelta di questi oggetti – i più adatti ad essere afferrati e lanciati – era una peculiarità che lo distingueva dagli altri giocolieri della sua epoca, che erano soliti giocolare con oggetti di uso quotidiano.

(Eingeschränkte Rechte für bestimmte redaktionelle Kunden in Deutschland. Limited rights for specific editorial clients in Germany) *19.12.1896-13.12.1931+Varietekünstler, Jongleur, Italienbei Übungen im Hof der ‘Scala’ in Berlinundatiert (Photo by ullstein bild/ullstein bild via Getty Images)

Riuscì in tal modo a raggiungere un livello tecnico notevolmente al di sopra di quello dei suoi contemporanei, arrivando a giocolare con otto piatti, otto bastoni e dieci palline.

circus artist rastelli Opera di Immanuel Giel. L’ influenza di Enrico Rastelli è sentita ancor’oggi, con la maggioranza dei giocolieri che si limitano ad usare i pezzi fondamentali dell’artista: soprattutto clave (che sostituiscono i bastoni), anelli (che sostituiscono i piatti) e palline

Dopo aver spopolato in Europa, per Rastelli arrivò il momento degli Stati Uniti: nel dicembre del 1922 firmò un contratto con Herbert Marinelli, uno degli agenti più famosi d’America. Per 750 dollari a settimana e con il nome ben evidenziato in cartellone, fece una tournée nel circuito di sale Keith-Albee.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

Ebbe un immediato, grandissimo successo e si esibì nei più importanti teatri di varietà americani, compreso il celebre Palace di New York, dove i giornali lo definirono l’”ottava meraviglia del mondo”.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

Capitava a volte che qualcuno, tra il pubblico americano, salisse sul palcoscenico per controllare le palle ed i bastoni per constatare che non vi fossero trucchi: “Spesso volevano toccare me per assicurarsi che non fossi cosparso di gomma arabica. Se volessero capire che qui non c’è né miracolo né trucco! Un artista ha bisogno di talento e allenamento, nient’altro!”, affermava Rastelli.

Enrico Rastelli (Museo delle Storie di Bergamo)

Una volta ritornato nel vecchio continente, i teatri di varietà di tutta Europa fecero a gara per accaparrarsi il meraviglioso giocoliere che entusiasmava con I suoi “triks”; tra i tanti, anche il Wintergarten di Berlino – un esempio illustre dell’affascinante teatro vaudeville, vero e proprio ‘tempio’ per il mondo dello spettacolo, che lo accolse il 1 agosto 1926 nel leggendario Giardino d’Inverno.

Rastelli e la moglie

A Berlino si presentò al pubblico – che aveva prenotato i posti un mese prima – con tre piatti nella mano destra, due nella sinistra, uno in bocca, e due appoggiati alla cintura. Poi, in un attimo, gli otto piatti si staccarono dal suo corpo, salirono, rotearono in aria, composero tra la sua mano e il cielo del palcoscenico un cerchio magico, continuando in questa candida danza per venti secondi, per quanti cioè egli poteva, teso nello sforzo, tenere il fiato e reggere così questa giostra suprema. Per giungere a questo egli si era allenato sei anni, per quattromila ore.

E proprio qui, nel leggendario, antico Giardino d’Inverno, venne ritratto in una fotografia – perfetta sintesi della sua arte – che finì sulle locandine dei teatri di mezza Europa.

Debutto berlinese di Rastelli al Wintergarten, il 1 agosto 1926. La foto, prodotta su lastra di un bellissimo viraggio seppia, “ha la leggerezza dei film di Truffaut. I palloni di cuoio cuciti a corda, le braccia tese in equilibrio, le dita delle mani larghe a fermare l’aria. Una coreografia tutta sua, collezione di gesti assoluti, ridotti all’essenziale. Nello sforzo immane con cui, per un tempo che al pubblico doveva sembrare lunghissimo, lui si prende gioco della forza di gravità. Teatro puro, bellissimo. E lui irresistibile, con addosso qualcosa di elegante e insieme infantile. E una continua meraviglia negli occhi, con cui domina il vertice atletico-estetico di quello strano rito finale, punto d’arrivo di chissà quante iperboli, orbite, parabole e traiettorie. Esercizio di stile, certo, ma non gratuito” (da L’Eco di Bergamo, C’era una volta un mito, Op. Cit. nei Riferimenti)

Rastelli ottenne un successo dietro l’altro, sia di pubblico che di critica, e attirò l’attenzione di artisti e intellettuali del tempo: le sorelle Vesque, illustratrici, lo ritrassero in alcuni disegni;

Enrico Rastelli, juggler, at the Cirque Medrano, October 1930. Gouache on paper by Marthe and Juliette Vesque (1930)

il direttore della sezione teatrale del Bauhaus, Oskar Schlemmer, raccomandò ai propri studenti di studiarne gli allenamenti;

Rastelli (Ph Weitzmann)

lo scrittore Joachim Ringelnatz gli dedicò una poesia; e ancora: “Divenni superbo come un bimbo quando a Parigi il poeta René Bizet mi disse: ‘Lei ha istinto e naturalezza prodigiosi, come le foche del capitano Winston!’”.

Un’intervista per la radio dopo il lavoro nel camerino a Monaco di Baviera (Foto A. Gulliland)

 

Rstelli a Berlino all’UFA, fra la moglie del primo ministro d’Ungheria Contessa Bethlen e il Regisseur Joe Max

 

Rudolf_Heinisch, Der Jongleur Rastelli

Acclamato, celebrato in tutti i continenti, ormai ricco a milioni, l’artista italiano fu fotografato in ogni posa, sia durante i suoi esercizi, sia nella vita quotidiana; perfino dentro la vasca da bagno mentre leggeva il giornale tenendo in equilibrio un pallone sulla testa.

Popolare come nessuno in un mondo che ancora non conosceva la televisione, fu anche testimonial pubblicitario per diversi prodotti: calze di seta – capo d’abbigliamento che il giocoliere indossava in scena –, palloni, sigarette, addirittura macchine da scrivere.

Locandina pubblicitaria

Rastelli e la moglie ebbero tre figli: Elvira (1919), Anna (1921) e Roberto (1929).

La signora Rastelli con le figlie Elvira (1919) e Anna (1921)

Ogni estate tornavano a Bergamo, per trascorrere del tempo con i due vecchi genitori e i bambini, che egli non voleva portare in giro per il mondo perché potessero studiare e fare, un giorno, una vita differente dalla sua.

Enrico Rastelli con la sua famiglia (Foto Ferrari)

Nella torre della bellissima villa liberty di via Mazzini, Enrico allestì il proprio laboratorio personale, dove si divertiva a costruire gli attrezzi che poi avrebbe utilizzato in scena, a fabbricare piatti e bastoncini di legno, a colorare nuove palle.

Le ville liberty di via Mazzini (oggi Garibaldi) nel 1920

A chi gli chiedeva se a Bergamo dedicasse del tempo anche al riposo, Rastelli rispondeva perentorio: “Oh mai più! Mi metterò a giocolare all’aria aperta, nel mio giardino. Mi eserciterò a nuove idee, a nuove difficoltà.

(Eingeschränkte Rechte für bestimmte redaktionelle Kunden in Deutschland. Limited rights for specific editorial clients in Germany.) *19.12.1896-13.12.1931+Varietekünstler, Jongleur, Italienmit seiner Frau beim Waschen und Trocknen der Bälleundatiert (Photo by ullstein bild/ullstein bild via Getty Images)

Riposare, non mi dice proprio niente. Io voglio gettare palle in aria, fare un salto e riprenderle a volo”.

Rastelli a Bergamo (Foto Gentili)

Inoltre l’infaticabile giocoliere proseguiva i lunghi, quotidiani, allenamenti presso il teatro Duse, davanti alla platea vuota, alla presenza solo dei vecchi genitori, mentre i suoi bambini scoprivano finalmente qual era il lavoro di quel papà che era sempre lontano e che arrivava, con quei birilli e quelle palle di gomma, diritto diritto dall’America.

Il teatro Duse nel 1930. Forse la fotografia più antica in circolazione

Il genio di Rastelli si manifestò non solo nella ferrea disciplina con cui si allenava, ma anche nella curiosità insaziabile che lo portava alla continua ricerca di idee su cui costruire ‘numeri’ sempre nuovi. Nel 1930 debuttò in Germania come giocoliere ‘calciatore’.

1930: Enrico Rastelli in Germania (Archivio Federale Tedesco)

Con palle di cuoio cucito, eseguiva i suoi incredibili esercizi come se fosse su un campo di calcio: si faceva lanciare uno dopo l’altro una ventina di palloni senza toccarli con le mani, se li faceva passare dal calcagno alla nuca, di qui al ginocchio, dal ginocchio alla testa e li lasciava infine cadere a piombo, per calciarli con violenza nella rete allestita in fondo al palcoscenico.

In ogni esercizio c’era del meraviglioso che faceva pensare a qualche influsso magnetico che egli comunicasse ai suoi strumenti di lavoro: vederlo riprendere le palle di cuoio sulla testa, sulla nuca, sulle guance, sulla punta delle dita, su piedi, sui polpacci, in posizione verticale, prono, supino, seduto, e fermare la palla al punto giusto, privandola d’ogni suo minimo movimento, sembrava che fosse possibile solo in virtù di nascoste calamite o che addirittura le palle avessero una sensibilità ed obbedissero ciecamente al volere del loro padrone…. Il numero durava circa un’ora, in cui non un attimo di riposo, non una minima sosta: e un brio, una leggerezza, un’eleganza affascinante. E si può dire che un applauso solo accompagnasse tutto il tempo del suo lavoro il miracoloso artista. Ogni altro numero del programma impallidiva di fronte al suo, la gente non veniva che per lui, per il suo Rastelli.

Dopo l’ennesimo successo clamoroso, Rastelli fu invitato come ospite d’onore in diverse manifestazioni sportive: in un cine-documentario lo si vede in campo con i giocatori dell’Atalanta mentre fa passare agilmente il pallone dalla testa alle spalle e alla schiena, senza che questo rovesci a terra.

Rastelli con l’allenatore Simmy Hogan delle squadre nazionali

Le grandi metropoli se lo contendevano, i grandi impresari lo accaparravano con cifre favolose, sicuri del suo enorme successo e dei colossali guadagni.

Nel 1929 Rastelli era di nuovo al di là dell’ Atlantico, scritturato dal grande Zigfield per le sue “Follie di Broadway”, il massimo riconoscimento cui un attore di music hall o di circo possa aspirare (paga: circa 16 milioni di oggi alla settimana).

Tornò in Europa alla fine dell’ estate, anticipando di poche settimane il tuono di Wall Street e la serie di tempeste a catena che poco dopo avrebbero terrorizzato l’Occidente.

L’ADDIO

Nel 1931 si presentò finalmente l’occasione per uno spettacolo in Italia, dove Rastelli non si esibiva da 10 anni e dove la sua notorietà non era così grande come nel resto del mondo. Tornare, celebre, davanti al nostro pubblico che di lui, italiano nomade, doveva così poco rammentare, fu per lui una grande gioia.

Firmò un contratto con la ditta Suvini-Zerboni: il debutto era previsto per i primi giorni di dicembre proprio nella ‘sua’ Bergamo, al teatro Duse, che scelse come prima tappa della tournée. Poi sarebbe stata la volta di Milano.

Pochi giorni prima che arrivasse in Italia, durante una rappresentazione tenutasi a fine novembre al teatro Apollo di Norimberga, uno spettatore gli aveva lanciato con eccessiva violenza il pallone che lui doveva fermare con un bastoncino tenuto tra i denti.

Enrico Rastelli (Foto Studio Lorelle). Con un bastoncino, stretto tra i denti, Rastelli riceveva delle palle lanciate dal pubblico. Una di queste però, scagliata con troppa violenza contro il bastoncino, gli procurò una ferita

Il numero riuscì ma Enrico venne lievemente ferito al palato, tradito e colpito da uno dei suoi strumenti.

Non riusciva ad arrestare l’emorragia, che continuò anche durante il viaggio verso Bergamo.

Arrivato a Bergamo si sottopose ad alcune visite mediche: gli fu diagnosticata l’emofilia e consigliato un periodo di riposo. Ma a dispetto delle precarie condizioni di salute decise di continuare: nella sua Bergamo, che tanto adorava, voeva tenere uno spettacolo di beneficienza per aiutare I bambini poveri della città.

Teatro Duse: il foyer. In questo teatro, a pochi passi dalla villa di Rastelli, si tenne ultimo spettacolo dell’artista i cui proventi furono devoluti ai bambini poveri della sua città

Il teatro era gremito di gente; un pubblico insolito era accorso, chiamato dalla sua arte e dalla sua generosità. Applausi frenetici e riconoscenti lo accolsero al suo comparire, sorridente e lieto. C’erano tanti bimbi, felici, che lo chiamavano a gran voce, e Rastelli si prodigò: voleva che quella fosse una memorabile serata.

Ma in quel corpo gracile di maestro di equilibri. la piccola, lievissima percossa aveva turbato il suo, di equilibrio.

Calato il sipario sull’ultimo applauso, egli si accasciò, infranto: lo sforzo supremo aveva spezzato il suo fragile involucro di nervi, l’ombra già scendeva su di lui. Egli forse sentì, in quell’istante, qualcosa cadere, qualcosa che più non ubbidiva. La morte aveva toccato Enrico Rastelli con una mano che era anche più leggera della sua di giocoliere, come per una macabra sfida. Rastelli pensava di guarire.

Quel miracolo di equilibrio che è l’esistenza si scomponeva e si disfaceva in un baleno, nel buio della notte. La sua vita terrena non doveva aver più luce, il suo breve viaggio era compiuto. La mano magica di Enrico Rastelli non si muoveva più.

La morte lo colse nella notte fra il 12 e il 13 dicembre nella sua casa di via Mazzini. Aveva 34 anni.

Enrico Rastelli nella camera ardente allestita nella villa di via Mazzini (Foto Solza)

Della sua inimitabile arte non restava che l’eco dello sfolgorante turbinio di oggetti in movimento che le sue mani fatate sapevano ricomporre in armonioso ordine.

Ma di lui rimaneva ben altro, e restava l’esempio raro di una vita tutta spesa per il lavoro e per la gloria, conquistata tenacemente, lentamente, giorno per giorno, rinunciando a tutto, in uno sforzo continuo e sfibrante di nervi, con la volontà tesa ad un unica meta. Vent’anni di lavoro silenzioso, oscuro, metodico, accasciante, ignorato da tutti senza di che la sua apparente magia sarebbe stata inattuabile.

Funerali Di Enrico Rastelli, 1931. Il corteo in partenza dalla villa di via Mazzini

Al lavoro aveva sacrificato tutto: la ricchezza, il lusso, le gioie familiari; ogni conquista nel campo della sua arte non era altro che una spinta a intensificare la sua fatica, ad aumentare il suo lavoro. Aveva assicurato ai suoi genitori, alla consorte e ai figli una vita serena nella pace della magnifica villa di via Mazzini; per sé non aveva riservato che l’arena di un circo o il palcoscenico di un teatro per lavorare.

Si era sempre vantato del suo nome, disdegnando allettanti pseudonimi; volle essere apprezzato solo per quanto valeva.

Ma i suoi concittadini non ignorarono che il fato lo aveva colpito proprio in quel suo gesto generoso, e con le loro preghiere lo accompagnarono nel viaggio Eterno e lo deposero nelle braccia del Signore.

Funerali di Enrico Rastelli – Il corteo funebre in via Garibaldi (Foto Gentili)

La scomparsa di Rastelli ebbe una potente eco, la notizia fu rilanciata dalle radio e dai giornali nazionali e internazionali.

Nel dare la notizia, in critico tedesco si fece prendere dalla commozione e scrisse che Dio, lassù, avrebbe concesso a Enrico Rastelli il privilegio riservato solo al migliore di tutti i giocolieri: continuare il suo numero anche in paradiso. Usando le stelle invece dei birilli.

Talloncino stampato a ricordo di Enrico Rastelli (Lucio Paleari per Storylab)

I funerali si svolsero a Bergamo il 15 dicembre: il corteo funebre, che partì dalla villa di via Mazzini, era gremito di artisti e di persone comuni. Migliaia di persone. Il centro della città fu chiuso al traffico, le lezioni nelle scuole furono interrotte per permettere agli insegnanti e agli alunni di rendere omaggio al meraviglioso giocoliere, i teatri osservarono un minuto di silenzio.

La moglie di Rastelli ripose nella bara anche due bastoncini di legno e una piccola palla, il simbolo stesso della vita del più grande artista di circo del ventesimo secolo.

Cimitero Monumentale di Bergamo. La salma di Rastelli portata dai compagni di lavoro (Foto Gentili)

 

Cimitero Monumentale di Bergamo. Il corteo funebre per Enrico Rastelli (Foto Piero Gentili by Getty Images)

Venne sepolto al Cimitero Monumentale nella cappella di famiglia, dove una statua a grandezza naturale lo ritrae con un pallone in equilibrio sul dito.

Turisti tedeschi rendono omaggio alla memoria di Enrico Rastelli nel suo mausoleo, a Bergamo

 

La targa funebre a Enrico Rastelli nel mausoleo dell’artista

Il mausoleo del giocoliere è ancor’oggi meta di pellegrinaggio per gli artisti circensi di tutto il mondo. E proprio lì il 23 dicembre del ‘56, nel venticinquesimo anniversario della morte, il presidente dell’Académie du Cirque, giunto appositamente a Bergamo da Parigi, tenne un discorso di commemorazione.

La delegazione del Circo Equestre Williams rende omaggio al monumento funebre di Enrico Rastelli, il 12 novembre 1959. La visita al cimitero di Bergamo è stata fino a pochi anni fa una tradizione consolidata per moltissimi artisti, soprattutto internazionali.. Quando la tournée li portava a Milano, non mancavano mai di venire nella città natale di quello che viene considerato il più grande giocoliere del mondo

 

Festival Internazionale Giocolieri, Trofeo Rastelli (1967) – (Archivio Franco Colombo)

 

Riferimenti

Enrico Rastelli, il piccolo mago bianco

Abat-jour, di Orio Vergani, Collezione Olimpia, Longanesi & C., 1973.

C’era una volta un mito, L’Eco di Bergamo , 14 giugno 1995.

Adriano Lami, Enrico Rastelli. La Rivista di Bergamo

Rastelli, Enrico

Egidio Borsatti, per tutti “Ciccio” nel ricordo di Pier Carlo Capozzi

DI PIER CARLO CAPOZZI

CICCIO E’ VOLATO VIA

Se n’è andato in silenzio, lui che ogni tanto, su e giù per la Corsarola di Città alta, cacciava urla improvvise che ti facevano sobbalzare.

Egidio Borsatti, per tutti “Ciccio”, 82 anni, sarebbe piaciuto un sacco ad Enzo Jannacci, ma anche a Robert Zemeckis: un personaggio, forse l’ultimo tra le Mura venete, con una storia intrecciata tra “scarp del tennis” e “Forrest Gump”, mentre la gente, nel suo pressapochismo irritante, lo etichettava come “fuori di testa” e si fermava lì.

Ciccio, in effetti, camminava su e giù, mani dietro la schiena, dalla Funicolare a Colle Aperto, e copriva chilometri su chilometri: quando sentiva il tempo, iniziava ad inveire contro qualcuno. I bersagli erano trasversali e molteplici: si andava da Galeazzo Ciano ad un gruppetto di ragazze, dal prefetto a chi gli gridava “Viva l’Italia”, da un amico che credeva tale alla donna che ne aveva tradito le attese. E qui la storia comincia ad uscire dalla nebbia del disagio per prendere contorni angoscianti.

Egidio era nato in Valverde nel 1930, figlio di una sarta e di uno scultore: il padre muore quasi subito e si trasferiscono alla Fara, dove resteranno per cinquant’anni e dove Egidio, ventenne, s’innamora perdutamente di una ragazza. Una passione tanto profonda quanto non ricambiata, forse anche per l’ostracismo del fratello maggiore che, con la morte del padre, s’era eletto capofamiglia.

Il disagio mentale di Egidio parte da qui, forse facilitato da una forma di autismo che lo porta ad isolarsi sempre di più, nonostante incredibili capacità di memoria legate a numeri e circostanze.

E, all’epoca, se dimostravi anche un piccolo problema a livello mentale, non badavano a spese, specialmente con gli elettroshock.

Quell’amore infelice è stato lo spartiacque della sua vita. “Che anca mi, mi go avu il mio grande amore”- canta Jannacci che adesso è lassù che lo aspetta per cucirgli addosso la ballata più adatta.

Alla Casa di riposo del Gleno, dove era ospitato da un anno, andava spesso a trovarlo l’Ivan, suo grande amico: è successo anche l’antivigilia dell’ultimo Natale e, dopo il pranzo, il tour per salutare tutti gli amici.

Fino all’anno scorso Egidio abitava in via Gombito 20, da dove domani, alle 10, partirà il corteo per il Duomo: l’appartamento in cui ha vissuto da solo è nel passaggio tra San Pancrazio e Mercato del Fieno. C’è un continuo viavai di gente fin su al terzo piano, dove si vede la Torre.

Ciccio ha il viso finalmente disteso e gli affanni sembrano davvero lontani anni luce. I tanti nipoti non l’hanno mai lasciato solo e tre di loro (Irma, Giovanna e Patrizia) sono ancora lì che gliela raccontano. A Pasqua aveva partecipato al pranzo con Irma, poi si era sentito male e si era spento poco a poco, senza mai lamentarsi.

Ciccio nel ritratto affettuoso di un amico di sempre, l’artista Carlo Scarpanti

Ordinatissimo, aveva il portafogli rigonfio di ricevute: erano i bollettini dei versamenti per molte associazioni assistenziali e benefiche, la Lega del Filo d’oro per prima e le Missioni subito dopo. In Posta, per questa attività, era conosciutissimo.

Ciccio era anche il sorriso e lo stupore fanciullesco quando ti consegnava a domicilio il giornale del pomeriggio, mandato da Franco (edicola della Funicolare), e tu gli offrivi un bicchiere di rosso. Adesso ha raggiunto il variegato esercito di macchiette di Città alta, da Sciabulù al Cüminèt, dal Girèla ai Valsecchi, da Costante al Pasqua.

Al Bar dell’Angelo chi vorrà incontrare ancora il sorriso di Ciccio lo potrà fare ad oltranza: è impresso sulla tela di un bellissimo ritratto, dono di un amico speciale.

Anche qui, guardandolo soprattutto col cuore, non si potrà non notare.

Che aveva due occhi da buono.

 

L’ADDIO A CICCIO

Questa volta è un percorso silenzioso. Ciccio sale da Piazza Mercato del Fieno verso il Duomo, attraversando via Gombito e Piazza Vecchia. Ciottoli familiari, conosciuti uno ad uno, calpestati migliaia di volte, sempre col passo cadenzato e le mani intrecciate dietro la schiena.

Un vecchio signore si toglie il cappello, una bambina si fa il segno della croce.

E’ l’ultima “vasca” sulla Corsarola per Egidio “Ciccio” Borsatti, accompagnato da un piccolo corteo di famiglia con in testa le sorelle Mina e Rosa. Ma sono in parecchi ad aspettarlo sul sagrato del Duomo e questa, anche per i suoi nipoti, è davvero una sorpresa. Ma è anche la dimostrazione di quanta bella gente ci sia ancora al mondo, capace di superare luoghi comuni e giudizi affrettati, in grado di capire dietro a qualche urlo cosa alberghi davvero nel cuore del prossimo.

Ciccio ritratto da Giuseppe Preianò

A salutare Ciccio c’è una Città alta incredibilmente trasversale, generazioni diverse legate dal filo della memoria e della condivisione, anche un tantino gelose di tutto quello che accade all’interno delle Mura. Perché qualche volta, in circostanze del tutto particolari, tirar su il ponte levatoio non è un atto di preclusione, ma un tentativo discreto di proteggere l’identità.

Ci sono i vertici della Cooperativa del Circolino al completo, col presidente Aldo Ghilardi (“Non ho mai conosciuto una persona più dolce e gentile di Ciccio”) e col suo predecessore Giuseppe Carrara. Ci sono Andrea Mandelli, restauratore, e Amerigo Lazzaroni, autentiche memorie storiche del borgo antico, c’è Chicco Facheris, falegname in Boccola e il burattinaio Vittorio Moioli detto “Bachetì”.

E ancora: Raffaele Scuri, fabbro in Mercato del Fieno e animo sensibile come il padre Piero, e Oreste Fratus, che si occupava delle scartoffie di Ciccio (“Era di una cortesia disarmante”).

E tante altre belle facce, tutte dipinte dal dispiacere.

La funzione è celebrata da monsignor Giuseppe Sala che si avvale di due “chierichetti” d’eccezione: il maestro Attilio Salvi e Gildo Mandelli, entrambi nel direttivo degli Ex alunni del Seminarino, un’altra storica istituzione per chi ha vissuto tra le Mura.

“Ciccio non è stato fortunato -esordisce don Sala nella sua splendida omelia- ma il Signore conosce i pesi e i mali dell’uomo perché il mondo è anche aspro e inospitale. E così l’avventura di Egidio è stata faticosa perché quest’uomo, che apparentemente gridava, aveva in realtà occhi mansueti.” In Duomo si avverte un clima di dolcezza nel dolore.

“Io non so com’è il Paradiso, ma se penso a Ciccio me l’immagino come una via Colleoni dove lui passeggia tranquillamente e distribuisce caramelle a tutti i passanti cercando di rincuorarli. Perché il segreto della vita, in fondo è tutto qui”.

E se è destino che anche lassù Ciccio debba andare avanti e indrè, non poteva essere più “calzante” l’ultimo regalo che gli hanno fatto le nipoti. Il desiderio l’aveva espresso lui, poco prima di volar via. E le voleva bianche. Chissà che faccia farà Jannacci a vederselo venire incontro. Il Ciccio, davvero, con le scarp del tennis.

Da:

“Città Alta, se ne è andato il «Ciccio» – La sua Corsarola lo ricorderà”. L’Eco di Bergamo, Mercoledì 03 Aprile 2013.

“In Duomo i funerali di Ciccio Borsatti – L’ultima vasca sulla sua «Corsarola»”. L’Eco di Bergamo, Venerdì 05 Aprile 2013.