Alla scoperta di piazza Mercato delle Scarpe

Osservando Piazza Mercato delle Scarpe da subito si coglie il carattere tipico della città, frutto della sovrapposizione e della compresenza di edifici di epoche diverse: il Duecento per le case torri di via alla Rocca, il Trecento per l’antica fontana vicinale e il palazzo della funicolare, il Quattrocento per la cisterna, il Cinquecento per la chiesa di San Rocco (eretta in luogo del quattrocentesco Tribunale dei Mercanti) e il Settecento di Palazzo Gavazzeni.

La piazza ha avuto nei secoli una funzione di primaria importanza in quanto rappresenta uno degli snodi chiave della viabilità all’interno del nucleo antico, essendo da sempre – data la morfologia del colle – punto di convergenza delle due direttrici principali che si diramano verso la pianura: verso Brescia e Venezia ad est, attraverso l’attuale via di Porta Dipinta – dove sorgeva la porta di levante – e verso Milano ad ovest, attraverso l’attuale via San Giacomo, dove sorgeva la porta di mezzodì: le due porte pertinenti la cinta muraria romana, la cui esistenza è attestata da una lastra in pietra di Zandobbio rinvenuta nel 1874 presso la chiesa di Sant’Andrea: l’iscrizione (I/II sec. d.C.) si riferisce alla spesa sostenuta da Crispus e dalla moglie Sedata per la costruzione di due porte e del probabile muro intermedio (1).

Via San Giacomo. Lo scheletro principale dell’attuale reticolo viario di Città Alta può ritenersi in tutto simile a quello arcaico e romano. Il suo disegno è in prevalenza dettato da un morbido adattamento alla forma del colle; la sua orditura si estende secondo trame che ricordano quelle di una foglia in cui le innervature principali rappresentano le vie per Milano (via San Giacomo), Brescia e la Valle Seriana (vie Porta Dipinta, Pignolo e San Tomaso), Valle San Martino e Como (via Borgo Canale), Valle Brembana (via e porta San Lorenzo): il collegamento con il territorio da cui la città trae alimento

Sviluppandosi all’estremità meridionale dell’antico decumano (asse viario principale della città) e ai margini del pianalto, la sua ampiezza doveva essere ben maggiore – non esistendo l’attuale Palazzo della Funicolare -, giungendo secondo Luigi Angelini sino alla linea della cinta murata che fiancheggiava l’antico vicolo degli Anditi (che si trovava al di sotto dell’attuale terrazza-restaurant del Palazzo della Funicolare, venendo poi tagliato dal percorso della funicolare): vale a dire ad oltre quaranta metri dal filo attuale.

Nel tondo, le cinque arcate dell’antico vicolo degli Anditi nella veduta di Alvise Cima (sovrimpresso in nero il tracciato delle mura veneziane). Si tratta di un percorso di ronda (ora quasi totalmente chiuso) facente parte della muraglia difensiva medioevale, tagliato dal percorso della funicolare alla fine dell’800 e di cui restano solo alcuni avanzi di muratura ad arco, appena visibili dietro le recinzioni di giardini privati. Data la conformità della collina, le mura  romane non dovevano essere molto distanti

In Età Comunale (nel periodo compreso tra XII e XIV secolo), dopo anni di degrado e sciacallaggio la città compì un radicale rinnovamento che toccò tutti i settori del vivere e dell’organizzazione, compreso quello della sicurezza e della difesa.

Il vicolo dei Franchetti, facente parte della strada degli Anditi

La posizione strategica e la contiguità con la centralissima (ed affollata) vicinia di San Pancrazio, di cui faceva parte, influì notevolmente sulla vivacità commerciale di piazza Mercato delle Scarpe così come sull’espansione dell’edificato che andava addensandosi immediatamente fuori le porte.

Piazzetta S. Pancrazio, antica corte altomedioevale, in cui si ritiene risiedessero le alte cariche longobarde tra il VI e l’inizio dell’VIII secolo nonché importante vicinia in epoca medioevale. Intorno al 1263 e nello Statuto cittadino del 1331 (che definisce nel dettaglio i singoli confini) la vicinia di San Pancrazio comprendeva tutta la zona intorno al crocicchio del Gombito, l’attuale Piazza Mercato delle Scarpe, via Solata, la piazza Mercato del Fieno (dove si trovava una fontana coperta) oltre naturalmente alla chiesa vicinale, in origine più piccola e diversamente posizionata. Quasi sempre adiacenti a stradette strette ed affollate, le piazze, cuore pulsante della vicinia, non erano solo luogo di mercato ma offrivano maggiori possibilità di passeggio e di incontro nel caotico viavai cittadino, oltre che occasione di confronto politico

 

In età medioevale lo sviluppo dell’edificato appena fuori le porte della città  richiede la realizzazione di “rezzetti”, vale a dire addizioni murarie, dotate di torri di cinta e porte-torri, che recingono le espansioni, divenute ormai consistenti. E’ questo il caso del rezzetto di Porta Sant’Andrea, lungo la strada orientale, mentre la breve espansione a Sud che comprende l’attuale parte iniziale di via San Giacomo è da intendersi come riallineamento e razionalizzazione del muro cittadino, che da porta Santo Stefano si riattesta a mezzogiorno, a porta San Giacomo, dando luogo alla nascita della vicina di San Giacomo della Porta

 

Giuseppe Rudelli, Le mura di S. Andrea

 

Lungo le Mura di Sant’Andrea, sulla strada orientale,  (Racc. Gaffuri)

Per il carattere strategico della sua posizione, che l’ha resa nei secoli punto d’afflusso della vita di Bergamo, piazza Mercato delle Scarpe è ritenuta primo ed unico mercato dell’antichissima città ed è ancor’oggi il polo generatore da cui si irradia la tessitura viaria disposta sul mosso declivio, il punto d’accesso per i turisti che giungono in Città Alta salendo da via Porta Dipinta o da via San Giacomo, mentre per via Gombito o per via Donizetti, per l’antica via Pendezza, per via Rocca o per via Solata si sale verso i quartieri alti della città.

Un polo tanto antico da guadagnarsi la denominazione di Forum (che ancora ritroviamo nello Statuto del 1331), affermatosi quando l’area su cui insisteva l’antico Foro romano non era ancora occupata dai grandi edifici pubblici dell’età comunale e quando la dimensione dell’abitato doveva apparire ancora modesta, sebbene già sviluppata nei rioni extra moenia o nei casolari dell’ambito agricolo circostante.

Piazza Mercato delle Scarpe nel 1920, ritenuta una delle più antiche piazze della città. La  limitata estensione è tipica delle piazze dell’Europa medioevale, dove neppure le cattedrali avevano dinanzi a sé superfici libere molto estese

Ricordata da Mosè del Brolo nel suo Pergaminus (1120-1130) e presto nominata Mercato Vecchio, nell’altomedioevo, era sede di un mercato nundinario, come si evince da un testamento del 928 in cui il vescovo Adalberto lascia ai Canonici di San Vincenzo, oltre ai redditi derivanti dalla fiera di S. Alessandro, anche i proventi di questo luogo di commercio, aperto nei giorni di sabato alle vendite e agli scambi (2).

Gli antichi statuti comunali prevedevano che nelle osterie non ci potesse essere più di un venditore salvo che si trattasse di esercizio tenuto in casa propria, in questo caso l’oste poteva essere aiutato dal figlio o dal fratello. Agli osti era fatto obbligo di vendere il vino con le misure imposte dal comune e chi avesse rifiutato di vendere nei limiti delle prescrizioni comunali era severamente punito; la vendita di vino inoltre non era permessa dopo il terzo suono della campana

Come centro vitale di scambi e di commerci il Mercato Vecchio aveva intorno edifici di attività commerciale, che potevano essere botteghe stabili (staciones) ricavate tra i portici chiudendo lo spazio tra una colonna e l’altra, “stalli” realizzati con assi di legno, banchetti oppure “dischi”, appartenenti alla vicinia, cui potevano aggiungersi delle strutture provvisorie, dove si commerciavano sia generi alimentari o comunque beni di prima necessità e merci più preziose.

Fruttivendolo sotto i portici: continua la vocazione commerciale del Mercato delle Scarpe (Ph Giuseppe Preianò)

Lo Statuto del 1263 informa che a sud della piazza sorgeva la Domus Calegariorum, la sede del Consorzio dei Caligari (Calzolai), ancora esistente nel 1331 al posto dell’attuale palazzo della Funicolare; in atti successivi rileviamo che in quella domus era ospitato anche il Paratico dei Beccai, ovvero dei Macellai.

Ed è possibile che queste corporazioni si riunissero in assemblea  presso l’aula della cattedrale di San Vincenzo,  utilizzata anche per i più diversi usi profani (adunanze dell’assemblea del Comune di Bergamo e di altri comuni della provincia; assemblee delle corporazioni o di associazioni; rogiti degli atti  notarili).

In epoca comunale le assemblee delle corporazioni (mestieri) si tenevano presso l’aula della cattedrale di San Vincenzo, utilizzata anche per i più diversi usi profani

Centro vitale di scambi e di commerci, il Mercato Vecchio era servito da una fontana trecentesca, con un arcone aperto sulla piazza.

Piazza Mercato delle Scarpe nel 1962, prima delle operazioni di recupero delle strutture essenziali della “Fontana Seca”, una sorgente-fontana romanica

Alimentata da una propria sorgente, è chiamata in documenti settecenteschi “Fontana secca” in quanto la modesta vena che scendeva dalla Rocca era esaurita ormai da tempo.

La Fontana o Fonte Seca (secca) fu incorporata dal 1491 nell’edificio del Tribunale dei Mercanti, distrutto nel Cinquecento per l’erezione di una cappella presto trasformata nella chiesa di San Rocco. Dopo aver ospitato un’installazione luminosa è oggi utilizzata come vetrina espositiva, mentre l’ambiente attiguo, oggi occupato dalla biblioteca rionale Gavazzeni, è ricordato intorno al 1775 come bottega di spezieria (Pasta, Pitture notabili in Bergamo)

 

Interno della trecentesca Fontana Seca

 

Prima delle operazioni di recupero delle strutture essenziali nel 1970, lo spazio della Fontana Seca è stato utilizzato anche come banco del lotto (Ph Giuseppe Preianò)

Analogamente, la vicinia di San Pancrazio aveva una sua fontana vicinale, ricordata dal Mazzi in luogo dell’attuale fontana cinquecentesca, e pure le vie Porta Dipinta, San Giacomo e Donizetti erano dotate di una propria fontana, che prendeva il nome dalla chiesa vicinale (chiese poi sostituite da edifici più imponenti). Con l’entrata in funzione dei moderni acquedotti nel 1880 per eliminare la piaga endemica del tifo, il loro impiego pratico quotidiano è venuto meno.

Fontana vicinale di San Giacomo, ancora esistente sotto la porta medioevale che collegava il traffico commerciale dalla pianura all’alta città

 

La Fontana di Sant’Andrea in via Porta Dipinta, risalente alla fine del XIII secolo, serviva all’approvvigionamento della vicinia di S. Andrea

 

Fontana vicinale di San Cassiano, in via Donizetti. Dal partitore del Mercato del Pesce l’Acquedotto Magistrale proseguiva il suo percorso al di sotto di via Donizetti, alimentando varie utenze e la fontana medioevale, con piccola cisterna, posizionata sul lato sinistro della via per chi scende verso la città nuova. L’acqua poteva essere prelevata da un rubinetto ora scomparso

DALLA DOMUS CALEGARIORUM A PALAZZO SUARDI

Intorno al 1353, sull’area già occupata dalla Domus Calegariorum et Becariorum Guidius de Suardis, che aveva ereditato dal padre il titolo di Conte Palatino (3) fece costruire l’attuale Palazzo della Funicolare, passato poco dopo alla famiglia Rota che lo rifabbricherà nelle forme attuali. Nell’Ottocento, divenuto proprietà del Comune, vi verrà realizzata la stazione superiore della funicolare per il collegamento fra la città alta e quella bassa (4).

Il palazzo edificato da Guidino Suardi a sud di Piazza Mercato delle Scarpe e rifabbricato nelle forme attuali dalla famiglia Rota, divenuto sede della stazione superiore della  funicolare. E’ caratterizzato dalle classiche aperture comunali alla base una per l’ingresso principale e le altre, probabilmente, per i negozi o i magazzini

In virtù della carica di Conte Palatino, ai Suardi e ai loro discendenti erano state accordate funzioni giudiziarie del più alto grado; funzioni – scrive il Mazzi – che potevano esigere una procedura di citazioni, come allora si usava, proclamate in pubblico in luoghi determinati.

Il Campanone, la torre cittadina per antonomasia, fu costruito dalla potentissima famiglia ghibellina dei Suardi durante le crude guerre di fazione, entrando poi in possesso del Comune di Bergamo. La sua architettura grezza e sommaria è tipica delle opere difensive gentilizie costruite in quel periodo

Per questa ragione Guidino Suardi costruì il palazzo, lo dotò di quello strano balconcino che ancor’oggi si vede sotto la finestra centrale della facciata – da cui annunciava sentenze e proclami – e pose al centro l’affresco con lo stemma della nobile casata, accesa sostenitrice del partito ghibellino dal Duecento in poi.

Dettaglio del palazzo eretto da Guidino Suardi in Mercato Vecchio (attuale piazza Mercato delle Scarpe). La ripresa risale alla fine dell’Ottocento

Nel cartiglio affrescato sulla facciata del palazzo è scritto: “VIM VI REPELLERE LICET” (è lecito reprimere la forza con la forza).

L’affresco riproduce lo stemma della nobile casata dei Suardi e l’effigie di Guidino Suardi con il copricapo rosso, posta dietro lo stemma del suo casato; attorno al cartiglio la scritta “VIM VI REPELLERE LICET” (E’ lecito reprimere la forza con la forza); sotto lo scudo spaccato con un aquila nera imperiale in campo giallo sopra e sotto un leone rampante campo rosso

L’edificio, che allora come oggi si sviluppava sulla piazza, sovrastava a sud le arcate di via degli Anditi, aveva un cortile centrale e, a meridione, altri corpi di fabbrica che sostituirono o inglobarono le case dei Terni.

Com’era il fronte sud del palazzo prima del rinnovo dell’arrivo della Funicolare. E’ ancora   visibile l’antico passaggio di ronda dell’antica via degli Anditi. Su questo versante, il palazzo primitivo aveva altri corpi di fabbrica che sostituirono o inglobarono le preesistenti case dei Terni

Proprio sul versante meridionale, il ritrovamento di un affresco quattrocentesco rivela che al primo piano del palazzo verso la pianura doveva esistere un ambiente dedicato alla preghiera, forse una cappella privata. Il soggetto, la Trinità con Cristo Crocefisso (verosimilmente un’immagine dedicatoria dipinta con tratto spontaneo da un buon artista, probabilmente  locale), riprende una tematica diffusasi nel XV secolo con Masaccio, rivelando con ciò una committenza colta. I fregi laterali e le affascinanti decorazioni presenti sulla parete ovest al piano terra dell’edificio, dovevano già esistere quando fu realizzata l’immagine sacra.

L’impianto medievale del palazzo è immediatamente riconoscibile nelle cinque arcate affacciate sulla piazza.

Il palazzo edificato da Guidino Suardi nel 1353, dalla fine dell’Ottocento stazione superiore della Funicolare, nel 1901. Ancor’oggi, con il suo aspetto severo di antico edificio, il palazzo conferisce alla piazza un’impronta di netto sapore medievale

L’effetto sfondato dato dalle scure imposte riecheggia la memoria dell’antico portico degli Orefici, dove sorgeva la bottega della famiglia Bustigalli.

Piazza Mercato delle Scarpe in una ripresa del 1910. Nella città medioevale i portici erano frequentissimi, soprattutto nelle piazze davanti alla chiesa vicinale ma anche ai crocicchi delle strade, costituendo insieme alle chiese la più rilevante fonte di reddito delle vicinie

E non è un caso che l’attigua vicinia di San Pancrazio, che nel medioevo costituiva un il ricco cuore mercantile della città, fosse detta “via degli orefici” (di cui S. Pancrazio era il protettore), per il gran numero di officine artigiane e di botteghe dedite a tale tipo di attività.

GUIDINO SUARDI E L’AFFRESCO DELL’ALBERO DELLA VITA IN S. MARIA MAGGIORE

Il Conte Palatino Guidino Suardì è l’autorevole personaggio inginocchiato ai piedi dell’affresco dell’Albero della vita (che egli stesso commissiona nel 1347) nella basilica di S. Maria Maggiore, dove occupa l’intera parete meridionale del transetto della chiesa, mentre la parte superiore è oggi nascosta da un dipinto secentesco di Pietro Liberi.

L’affresco dell’Albero della vita (oggetto della predicazione di San Bonaventura) nella basilica di Santa Maria Maggiore (basilica che costituiva una “chiesa doppia” con la cattedrale di San Vincenzo)

L’identità del personaggio ritratto nell’affresco è rivelata da un’iscrizione: “Dominus Guidius de Suardis”, uomo nobile e profondamente religioso, che ha ordinato l’esecuzione dell’affresco per sua devozione e, a sottolineare le proprie possibilità economiche, “suisque expensis”, a sue spese.

Fra le diverse immagini dei Santi raffigurati nell’Albero della vita, appare, ai piedi dello stesso il ritratto a figura intera di Guidius De Suardis inginocchiato, di dimensioni inferiori rispetto ai Santi, ad indicare un minor grado di dignità. Tuttavia, la rappresentazione di profilo secondo le convenzioni pittoriche del tempo attribuisce autorevolezza al personaggio, reso perfettamente riconoscibile dal meticoloso realismo del volto. Secondo la moda del tempo, l’abito presenta le sontuose maniche bordate di pelliccia, il cappuccio rifinito dal becchetto, un basso cinturone e una borsa, simbolo di ricchezza

Il fatto stesso che potesse disporre di un’intera parete della maggiore chiesa cittadina, la cappella civica voluta dal Comune, non lascia dubbi sulla considerazione di cui godeva presso le autorità civili e religiose del suo tempo (5).

Scritta apposta all’Albero della vita

PIAZZA MERCATO DELLE SCARPE, LA FONTE SECA E LA CAMERA DEI MERCANTI

E fu proprio alla fine del Trecento che la piazza acquisì l’attuale denominazione di Mercato delle Scarpe, in un periodo in cui le vie e le piazze, nei vari settori cittadini, erano nominate a seconda dei differenti caratteri merceologici che vi si svolgevano.

Ancor’oggi, le piazze dislocate lungo le attuali vie Gombito e Colleoni, asse viario principale della città, mantengono la loro spiccata vocazione commerciale, distinte per singoli settori merceologici: oltre a Piazza Mercato delle Scarpe, il Mercato del Fieno, il Mercato del Pesce  e Piazza del Lino, oggi Mascheroni

Solo per qualche tempo, scrive l’Angelini, la piazza prese il nome di Mercato delle Biade, forse per il mutato genere dell’attività commerciale che vi si svolgeva, e che poi che passò in un apposito fabbricato nella zona della Fiera, come appare in una nota incisione ottocentesca di Giuseppe Berlendis.

A sinistra il mercato delle granaglie in Piazza Baroni nei pressi della Fiera (costruito nel 1821 al posto del “tezzone” del salnitro) ed abbattuto nel 1838 per la costruzione della Strada Ferdinandea, attuale Viale Vittorio Emanuele II (incisione di Giuseppe Berlendis)

Dal 1491, nell’angolo a nord della piazza, sopra la Fonte Seca comparve la sede della Camera dei Mercanti, istituzione volta a regolare le attività di scambio in città, a riconferma della vocazione sostanzialmente commerciale della piazza stessa.

Spesso ricordata come Tribunale dei Mercanti, fin dal Quattrocento  incrementava la funzione giurisdizionale dei Consoli mercantili (giudici a tutti gli effetti, cui rivolgersi per ogni tipo di controversia commerciale), affiancando già dal secolo successivo il Podestà nell’amministrazione della città. In epoca napoleonica si evolse in Camera di Commercio e dopo aver mutato più volte sede trovò una sistemazione definitiva nella Città Bassa.

Ma in seguito all’epidemia di peste che aveva colpito la città nel 1513,  il locale occupato dalla Camera dei Mercanti fu trasformato in cappella come ex-voto alla Madonna, e la sede della Camera trasferita altrove. Solo dopo varie trasformazioni e vicissitudini la primitiva cappelletta fu dedicata a San Rocco,  invocato soprattutto contro la peste.  Dopo una lunga serie di traversie, venne definitivamente sconsacrata nel 1927, trovandosi oggi in condizione di notevole degrado ed abbandono.

L’ex chiesa di S. Rocco, inizialmente dedicata alla Madonna, sorge in luogo dell’antico Tribunale dei Mercanti, edificato sull’arcata della Fonte Seca, una sorgente-fontana trecentesca

LA CISTERNA QUATTROCENTESCA

Riferisce padre Donato Calvi che nel 1485, a causa della scarsità d’acqua che spesso affliggeva la città a causa delle sorgenti inaridite e per le poche piogge, il Maggior Consiglio elesse due delegati perché esaminassero la situazione e indicassero i luoghi dove costruire cinque pozzi o cisterne da destinare all’uso pubblico. Tra i luoghi scelti, una grande cisterna fu costruita su progetto dell’arch. Alessio Agliardi al di sotto del Mercato delle Scarpe, capace di contenere fino a 25.000 brente bergamasche, ossia qualcosa come 1.170 metri cubi d’acqua, “con beneficio singolarissimo della Città per tutte le contingenze”. Il serbatoio veniva alimentato dall’Acquedotto Magistrale che scendeva per via Donizetti e proseguiva per via Porta Dipinta.

La cisterna del Mercato delle Scarpe, all’imbocco di via Porta Dipinta (litografia di G. Elena eseguita verso il 1870. Racc. Sozzi Vimercati – Biblioteca Civica A. Mai)

L’acqua, prima di riversarsi nella cisterna era scaricata in un sistema di vasche di decantazione che circondano ancor’oggi la cisterna.

La cisterna costruita su progetto dell’arch. Alessio Agliardi sotto il livello di Piazza Mercato delle Scarpe nel 1485, per decreto del Consiglio cittadino

 

La “pigna”, oggi scomparsa, sopra la testata della fontana

L’EDICOLA LIGNEA

In angolo con via Rocca, sulla spalla dell’arcata medioevale della Fontana Seca è ancora presente una Madonna con Bambino circondata da angeli, racchiusi in un’edicola lignea sormontata da un timpano.

Il dipinto, dalla composizione aggraziata e dalle armoniose tonalità di colore, raffigura una dolce Madonna dal manto azzurro a risvolti chiari e abito rosso, con il Bimbo seduto in grembo e, in alto, due angioletti musicanti “di ricordo belliniano che ravvivano di gentile grazia lo spazio di un cielo a nuvolette bianche su fondo blu cobalto, tipico della pittura veneta del Rinascimento”: tutti elementi che fanno assegnare l’epoca di esecuzione al secondo decennio del Cinquecento (quando, a detta del Calvi, fu innalzata la chiesetta).

L’antica edicola lignea affissa sulla parete esterna della chiesa di S. Rocco (lato piazza Mercato delle Scarpe) con l’affresco raffigurante una Madonna con Bambino circondata da angeli, immersi in un paesaggio con arbusti e due pavoncelle nella parte bassa

“L’atteggiamento delle figure e soprattutto il tono veneto previtalesco del cielo e gli angeli musicanti rivelano la mano di artista bergamasco del primo Cinquecento influenzato dall’arte veneziana, forse di un Baschenis o di uno Scanardi per quel certo gusto paesano, oppure di un previtalesco oppure ancora, forse, di quel pittore brembano, Giacomo Gavazzi da Poscante che, in un polittico della chiesetta di S. Sebastiano in Nembro compose ai piedi della Madonna due angioletti che presentano analogie e affinità di segno e di forma con questo affresco” (6).

I PALAZZI NOBILIARI

Tra via Porta Dipinta e via S. Giacomo si registra un’elevata concentrazione di palazzi nobiliari, disposti lungo le due principali strade di accesso dalla Città Bassa al centro politico-amministrativo. Molti di questi palazzi, soprattutto nel caso di via Porta Dipinta, vengono realizzati a partire dalla fine del Cinquecento, occupando l’area resa disponibile dallo spostamento più a sud della nuova cinta muraria: quella veneziana.

Scorcio di piazza Mercato delle Scarpe nel 1908, con il settecentesco Palazzo Gavazzeni in primo piano, residenza del famoso direttore d’orchestra. Scendendo lungo la via Porta Dipinta s’incontrano palazzi costruiti a partire dal Cinquecento (Casa Bani, Palazzo Ponte, Palazzo Grumelli-Pedrocca, Palazzo Pesenti, Palazzo Moroni, Palazzo Pelliccioli, solo per citarne alcuni), mentre proseguendo per via Pignolo comincia la serie dei palazzi gentilizi sorti nel Cinquecento. Nel corso dei secoli, via Porta Dipinta ha perso gli affreschi esterni sulle case, che le donavano una nota tutta particolare. Al di là di qualche superstite traccia, resta solo la memoria nel nome della via, un tempo la strada per Venezia

Queste nuove aree edificabili erano rese particolarmente appetibili dalla posizione dominante verso la città bassa e la pianura e l’ottima esposizione solare, condizioni a cui si aggiungerà successivamente anche la possibilità di inglobare sotto forma di giardini e terrazze le aree libere alle spalle dei bastioni.

Lungo via San Giacomo Al n. 12 si innalza Palazzo Radici e ai n. 18 e 20 si incontra Palazzo Colleoni. Sul lato destro si trova Palazzo Polli-Stoppani, edificato attorno al 1500 su progetto di Pietro Isabello e poi ristrutturato nel XVII secolo; venne acquistato da Vittorio Polli nel 1960 per farne  la residenza principale sua e di sua moglie Anna Maria Stoppani. Fu costruito aggrappato direttamente sulla roccia di Città alta, godendo anche dell’accesso diretto ad una fonte d’acqua. In vista della porta, sull’angolo a sinistra si innalza l’imponente Palazzo Medolago Albani, edificio di stile chiaramente neoclassico costruito fra il 1783 e il 1791 su progetto dell’architetto ticinese Simone Cantoni

L’ARRIVO DELLA FUNICOLARE

Il fronte del palazzo della Funicolare nel 1910 (a sinistra) e nel 1889 (a destra)

Nel 1887 il palazzo (palazzo Gritti alla fine dell’800 ha subito radicali cambiamenti per la realizzazione della stazione superiore della funicolare.

L’antico impianto della Funicolare di collegamento tra la città alta e quella bassa, nel tratto superiore

Un collegamento rapido fra le due “Bergamo” era stato sollecitato dagli abitanti di Città alta, timorosi che il recente sviluppo della parte moderna ‐ dovuto al progressivo spostamento al piano di tutte le attività economiche e amministrative –, potesse isolare quello che, fino alla seconda metà dell’Ottocento era stata “la Città”.

Con l’arrivo della funicolare, il cortile del palazzo fu trasformato con una copertura in vetro, mentre il fronte sulle Mura, affacciato sulla pianura, venne ammodernato attraverso un panoramico loggiato a terrazza in stile neogotico, di richiamo a quello originale.

La stazione superiore della Funicolare di Città Alta in una stampa del 1888, con il panoramico terrazzo-restaurant in stile neogotico e con vista affacciato sulle Mura

Il giardino venne riempito con terreno di riporto e fu sbrecciato il muro di sostegno con grande arco, probabilmente parte delle mura medioevali, eliminato insieme al ponticello con l’ammodernamento del 1921-’22.

A sinistra, il percorso primitivo della funicolare: vi era il ponticello che consentiva ancora di utilizzare l’antichissima via degli Anditi. A destra, dopo la trasformazione del 1921, il ponticello non esiste più e sono visibili le due vetture “panoramiche”

UNA CURIOSITA’

Per oltre un secolo un’edicoletta ha occupato un angolo della piazza, all’uscita della stazione della Funicolare.

Oggi la rivendita dei giornali è, come tutti sappiamo, all’interno della stazione stessa.

 

Note

(1) La strada per Brescia passava da Seriate e Telgate mentre la strada per Milano passato Verdello superava il Brembo a Marne, dove tuttora esistono i resti di un ponte a due arcate di probabile origine romana.

(2) Luigi Angelini, Il volto di Bergamo nei secoli, Bolis, 1952.

(3) Guido o Guidino Suardi era il figlio primogenito di Teutaldo, importante personaggio politico che il 20 gennaio 1330 a Trento ricevette da Lodovico il Bavaro l’investitura di Conte Palatino, carica da esercitarsi nel contado di Bergamo e titolo trasmissibile ai discendenti. Teutaldo, da Caterina, di cui non si conosce il casato, aveva avuto sei figli: due, Guglielmo detto Minolo e Romelio detto Mazolo, che troviamo decorati col titolo “Milites imperiales”, altri due, Giovanni e Simone qualificati come “Legum doctores”, Giacomo, ed infine il nostro Guidino che aveva sposato Tomasina, figlia di un altro eminente personaggio politico, Matteo o Maffeo Foresti, che a Trento come Teutaldo, nella stessa data, venne nominato Conte Palatino per il territorio di Brescia.

(4) In un documento del 1353 concernente i confini della vicinia di san Cassiano, troviamo “per ipsum mercatum usque a cantonum domus Calegariorum et Becariorum quondam et modo est domus habitationis heredum domini Guidi de Suardis quam fecit levari super ipso mercato”.

(5) Andreina Franchi Loiri Locatelli per la rubrica Bergano scomparsa, insieme alle tre immagini relative all’Albero della vita.

(6) Luigi Angelini, Un affresco cinquecentesco sul Mercato delle Scarpe, in “Cose belle di casa nostra: Testimonianze d’arte e di storia in Bergamo”, Stamperia Conti, Bergamo, 1955, pagg. da 90 a 92.

Riferimenti principali

Vanni Zanella, Bergamo Città, 2ª edizione, Azienda Autonoma di Turismo, Bergamo, 1977, pagg. da 31 a 33.

Inventario dei Beni Culturali Ambientali del Comune di Bergamo: Volume 7 Città Alta schede nn. 0203316 e 0203316 bis.

Luigi Angelini, Il volto di Bergamo nei secoli, Bolis, 1952.

Liliana Moretti – Schede del Mercantico. Biblioteca Gavazzeni, Piazza Mercato delle Scarpe, Bergamo.

Luigi Angelini, Cose belle di casa nostra: Testimonianze d’arte e di storia in Bergamo, Stamperia Conti, Bergamo, 1955.

Arnaldo Gualandris, La Città Dipinta – Affreschi, Dipinti Murali, Insegne di Bergamo Alta. Hoepli, 2008.

Un viaggio di scoperta tra Valverde e Piazza Mascheroni, lungo l’antico borgo di San Lorenzo

Forografie di Maurizio Scalvini

Il bucolico scenario della valletta di Valverde, la conca adagiata sotto Colle Aperto, tra i baluardi di San Lorenzo e di Valverde

Avete la mattinata tutta per voi e volete spenderla passeggiando tra natura, monumenti e chiese, soli o con la vostra dolce metà, proprio come nella canzone di Battisti?

La giornata non è un granché ma non rinunciate all’idea di respirare l’aria di primavera, sgranchirvi e smaltire quel chiletto accumulato, ritemprando la mente, spesso affaticata da mille incombenze quotidiane.

Inerpichiamoci allora, lasciandoci stupire dalle bellezze racchiuse nella bucolica valletta di Valverde, volgendo lo sguardo alla ricerca dei particolari anche più nascosti che arricchiscono un paesaggio così bello da sembrar dipinto dalla mano di un pittore

In primavera, quando gli alberi da frutto sono in fiore e il canto degli uccellini regna sovrano, Valverde si veste di magia, presentandosi in tutta la sua unicità (dipinto di Claudio Facheris)

A Valverde si arriva da oriente attraverso la valle del Morla, il torrente  ammesso per centinaia d’anni nella nomenclatura dei fiumi, un tempo così limpido da sembrare acqua sorgiva: le massaie la utilizzavano per lavare la biancheria, che stendevano sulle rive in attesa che la luce e il calore del sole la rendessero candida come la neve. Con l’argilla estratta dal suo alveo venivano  fabbricate eccellenti  stoviglie, fra le migliori della Bergamasca.

Ai piedi del versante settentrionale, ricco di acque, scorrono alcuni rioli, come il riolo Valtesse, tra via Pietro Ruggeri da Stabello e il Torrente Morla, e il riolo Lazzaretto, che scorre ad ovest del complesso omonimo. Il nome stesso di Valverde deriva dallo storico torrente

Lo incontriamo nuovamente lungo via Maironi da Ponte, dove svolta fiancheggiando pigramente la pista ciclopedonale della Green Way, che in Valmarina si raccorda a via Ramera (da dove si impenna verso il Sentiero dei Vasi o S. Vigilio), oppure passa il testimone al Sentiero d’Ilaria, la pista che attraversa il versante settentrionale fino a Sombreno in compagnia del torrente Quisa: un percorso totalmente immerso nel bosco, dove il tamburellare del picchio la fa da padrone. L’avete mai provato? Da fare, magari alla prossima occasione.

L’ex monastero di Valmarina nell’omonima valletta, punto di raccordo tra la Green Way proveniente da Valverde, il sentiero d’Ilaria, via Ramera e Valtesse. L’edificio, di origini altomedioevali, con la chiesetta di Santa Maria fu fondato nel XII secolo dalle monache benedettine, per essere poi abbandonato, e trasformato nel XIV secolo in edificio rurale e integrato con strutture nel ‘700. Ora accoglie la sede del Parco dei Colli

Ma noi proseguiamo, diretti alla conquista della minore tra le aperture delle Mura, inerpicandoci decisi verso l’anfiteatro di Valverde, con le sue “ville di delizia” e alcune cascine ancora intatte, circondate da prati in declivio, alberi secolari e terrazze coltivate a vite e ulivo.

La vendemmia a Valverde, nel terreno appartenente alla famiglia Cerea, proprietaria dell’antica “Ca’ del sòi”

Superato l’imbocco della Green Way incontriamo l’ottocentesca chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta – edificata  su una chiesetta di cui si ha notizia dal 1494 -, preceduta dalla serie dei teschi esposti nella piccola sagrestia, a  ricordo della pestilenza del Seicento (la via si chiamava infatti “strada comunale dei morti di Val Verde”). Nella chiesa vi sono alcuni stendardi, dipinti da Giuseppe Carnelli (1838-1909) ed esposti in particolari ricorrenze, che hanno per soggetto il prete, il re, il soldato, l’artista e il contadino, raffigurati sotto le sembianze di scheletri, sulla scia di una tradizione pittorica conforme a quelle tendenze macabre che si trovano di frequente nella Bergamasca.

Dopo aver sorpassato il lavatoio pubblico, del 1933, un affioramento di arenaria sulla destra ricorda le attività delle antiche cave di arenaria presenti nelle vicinanze e ci indica la via Roccolino, strada che prende il nome dal roccolo di proprietà dei conti Roncalli (il cui palazzo sorge in Colle Aperto), di cui non conosciamo l’ubicazione, ma che è ricordato nel biglietto da visita dell’omonimo ristorante. La via è chiamata anche “dei Cavalieri”, forse a ricordo delle ronde che pattugliavano l’esterno delle Mura.

Lasciamo quindi alla nostra destra la suggestiva stradetta ciottolata di via Roccolino, dove si sviluppa il baluardo di Valverde, “il lato oscuro delle mura”, sommerso dalla vegetazione.

Via del Roccolino si innesta da Valverde sbucando in breve tempo in via Beltrami all’altezza della polveriera superiore. La via si sviluppa lungo la parte nord delle Mura, tra le porte di San Lorenzo e Sant’Alessandro, celando al suo interno un giardino segreto

Superata la strettoia, abbracciamo finalmente con lo sguardo tutta la conca adagiata ai piedi degli edifici, il cui profilo si fa ora nitido, grande e incombente, lasciandoci pregustare i suoi innumerevoli tesori.

Da sopra fa capolino il Castello di Valverde, un raffinato relais adagiato sul cucuzzolo del colle di Fabriciano, originatosi da un fortilizio medioevale che comunicava con le torri di avvistamento di Sorisole e della Maresana.  Divenuto nel Cinquecento residenza di campagna del capitano veneziano, è chiamato Casa Quarenghi dal nome dell’architetto bergamasco ritenuto il progettista dell’attuale edificio: da lì si gode di una vista strepitosa, alla quale la prossima volta non potremo rinunciare.

La vista su Città Alta dal Castello di Valverde (o di Medolago)

Quel brividino che di tanto in tanto avvertiamo non è casuale: siamo nel versante più fresco dei colli punteggiato qua e là da limpide acque sorgive, la cui presenza disegna sul fondo della valletta un reticolo di seriole che in passato hanno fatto della conca di Valverde – il cui nome deriva dallo storico torrente – il regno delle lavandaie: un regno ancora testimoniato dalla presenza della “Ca’ del sòi”, la cascina appartenente da cinque generazioni alla famiglia Cerea.

In tempi a noi lontani, la ricchezza di queste meravigliose sorgenti assicurava,  ancor prima della realizzazione di acquedotti in quota, una riserva sicura anche in caso di periodi particolarmente siccitosi, consentendo uno svolgimento redditizio delle attività agricole.

La cinquecentesca Cascina di proprietà della famiglia Cerea da cinque generazioni. Grazie alla presenza di un rio che attraversa il prato, la cascina è nota nell’area come “Ca’ del sòi” o “rio delle lavandaie”. L’esistenza di buone sorgenti nella fascia pedecollinare era ed è garantita dalla presenza, lungo il versante settentrionale dei Colli, dell’Arenaria di Sarnico, che consente la formazione di modeste riserve idriche sotterranee dal regime assai variabile, dipendente dall’afflusso delle piogge. Inoltre, la giacitura molto inclinata degli strati che sorreggono questo lato del Colle, determina la scomparsa delle sorgenti in quota e una loro ricomparsa a quote più basse

Sul crinale il rifornimento d’acqua era poi assicurato, probabilmente sin dall’epoca romana, dalle sorgenti che conosciamo per l’essere state raccolte nella fontana del Vagine (descritta in versi da Mosè del Brolo), nella Boccola, nel Lantro e nel Corno, anche se ciò è documentato solo a partire dall’età comunale.

La sorgente della Boccola, la cui presa è ancora visibile nell’arco incassato nel paramento murario, sgorgava da sotto la cinquecentesca chiesa di S. Matteo (sorta su preesistenze del XII secolo e unita nel Settecento al Seminarino, attivo dalla seconda metà del Cinquecento), proprio sotto le mura medioevali; doveva ricevere acqua anche dalle sorgenti che nel Cinquecento vennero incanalate nell’acquedotto di Prato Baglioni, così come dal sopravanzo della Fontana del Vàgine, che si trova appena sopra. Venne probabilmente sfruttata già dall’epoca romana (Ph Mario Colombo)

A queste sorgenti possiamo aggiungere quella delle Noche, nella valletta di  Colle Aperto (che alimentava dal Cinquecento l’acquedotto di Prato Baglioni), nonché la fontana delle Pirole in via Solata. E se pensiamo che ben cinque fra quelle citate – e purtroppo in buona parte esaurite – sgorgavano da sopra le nostre teste, il gioco è fatto!

L’acquedotto di Prato Baglioni (dal nome dei proprietari dell’area) iniziava appena sotto Colle Aperto e scendendo lungo la Boccola scorreva tra la Fara e il colle della Rocca, alimentando le fontane del Corno, di via Osmano, di S. Agostino e quella di Pignolo (Racc. Gaffuri)

La porta della Boccola, oltre a consentire al borgo di aprirsi verso Valverde, permetteva anche l’accesso all’omonima fonte, che sgorgava proprio sotto le mura medioevali. La sua protezione era garantita dalla tonda “turrisella”, ancora in gran parte esistente, che controllava l’accesso da Valverde.

Acqua come fonte di vita quindi ma anche acqua come elemento capace di forgiare il territorio, se immaginiamo che nel corso di milioni di anni la sua azione incessante ha modellato i profili di questa valle, dove, in corrispondenza delle attuali Mura, si elevava una rupe massiccia che conferiva al luogo un aspetto arcigno, molto diverso rispetto all’attuale.

Scorcio sul declivio di Valverde

Possiamo osservare ciò che ne rimane nel paramento del baluardo di San Lorenzo, costruito inglobando la roccia, che è stata scalpellata ad arte per evitare onerosissimi costi di sbancamento. Dov’è stato possibile, su questa roccia i costruttori hanno “appoggiato” le Mura settentrionali, da S. Agostino fino a S. Vigilio!

La parete di Conglomerato di Sirone inclusa per oltre una decina di metri nel paramento murario del baluardo di S. Lorenzo (completato nel 1584). Affiora anche nelle vicinanze del Roccolino e ad ovest di Porta Garibaldi

Sotto questa roccia, così resistente da essere impiegata per realizzare grosse macine, corre un potente banco di Arenaria di Sarnico che ha formato lo zoccolo del ripido pendio settentrionale e che, ricercata per la sua compattezza e resistenza, ha fornito per secoli materiale da costruzione soprattutto per grandi monumenti come Porta S. Agostino e S. Maria Maggiore.

Si tratta di una pietra grigio-azzurra chiamata anche Arenaria di Castagneta dalla località in cui veniva estratta, tanto che nei pressi delle sorgenti (ben sei) che alimentano il primo tratto dell’acquedotto dei Vasi, esiste tuttora una località chiamata “Cavato”, con evidente riferimento all’attività di estrazione. La si estraeva anche all’esterno del baluardo di Valverde, dove si rintracciano i segni di ben due cave, e la vediamo affiorare percorrendo i boschi del versante settentrionale, fino a Sombreno.

Tornando invece al nostro baluardo e alla sua vecchia rupe (la “rupe di S. Lorenzo”), basterà aggiungere che questa durissima formazione prosegue sullo spalto con la piccola elevazione della “Montagnetta”, un vero e proprio sito geologico che rimanda a tempi lontanissimi.

All’epoca della costruzione delle Mura, nonostante le intenzioni iniziali e pur causando difficoltà nella manovra dei pezzi, la Montagnetta non fu demolita perché costituiva una buona difesa nel caso di tiro nemico da S. Vigilio.

Il baluardo di S. Lorenzo è anche detto “della Montagnetta” per la presenza, decentrata sul lato nord, di un corno di Conglomerato di Sirone (Ph Gianni Gelmini)

Su quella stessa roccia, alla quale siamo ormai affezionati, sorgeva la primitiva chiesa di S. Lorenzo, risalente all’VIII secolo e atterrata bruscamente nel 1561 – insieme a 59 case del borgo – a causa della costruzione della cinta fortificata veneziana (1561-1595).

Questa comportò lungo tutto il circuito la demolizione di numerose case, cascinali, scalette, viottoli, chiese e conventi, fra i quali ricordiamo con rimpianto l’antica Basilica di S. Alessandro e l’attigua chiesa di S. Pietro, il Convento di S. Stefano dei Domenicani, la chiesa di S. Giacomo e quella dei santi Barnaba e Lorenzino nelle vicinanze della porta di S. Giacomo nonché la fognatura d’epoca romana. Si salvò invece la chiesa di Sant’Agostino, grazie al versamento di un congruo contributo che modificò i piani iniziali di costruzione.

Fortunatamente, possiamo ancora ammirarla, benché sfregiata dal segno nerastro che ne decreta la fine, nella veduta di Alvise Cima realizzata perché rimanesse memoria visiva della forma urbis di Bergamo, prima che la Città venisse profondamente sconvolta con la costruzione delle nuove mura.

Descritta dalle fonti come ragguardevole, la chiesa (secondo il Mazzi la più antica della città) si trovava entro la muraglia medioevale all’imbocco del borgo, dove segnava il confine tra le vicinie di Canale e S. Lorenzo. Era affiancata da un ospedaletto (non indicato nella veduta), che nel 1458 confluì nell’Ospedale Grande di S. Marco.

Non molto distante dalla porta medioevale, la primitiva chiesa di S. Lorenzo, distrutta nel 1561 per l’erezione del cavaliere del contrafforte di S. Lorenzo (che sovrasta il baluardo omonimo)

La veduta ci restituisce la città medioevale con i suoi cinque borghi che allungati dolcemente verso il piano (“come le dita di una mano aperta”) lungo le antiche strade di accesso alle porte medievali, presero il nome delle rispettive chiese. Nel dipinto, il distrutto borgo di San Lorenzo, sviluppatosi fuori dalle mura medioevali, è cinto da una propria muraglia (un ampliamento), allungandosi verso il declivio fin verso la porta di Valverde; un borgo, ormai perduto, che le cronache descrivono “copioso d’honorate, e vaghe abitationi”,  quasi “da sembrare un’altra città”.

Alvise Cima (1693), Veduta prospettica della città di Bergamo e dei suoi borghi, prima della costruzione delle fortificazioni veneziane, particolare. Ben separato dagli altri, Borgo S. Lorenzo si sviluppa fuori il perimetro delle mura medioevali, cinto da una propria muraglia, caratterizzata da un andamento assai irregolare (oggi difficilmente intuibile dopo i sommovimenti realizzati per la costruzione della cinta bastionata), dovuto sia alla valletta del Lantro e sia al corrugamento roccioso che costituiva la dorsale sulla quale era sito il grosso del borgo e che in prossimità del muro accoglieva l’antica chiesa di San Lorenzo e i cui resti si possono ancora notare sul baluardo di San Lorenzo nella cosiddetta “Montagnetta”

Tramite l’imponente opera di “svuotamento” di ingenti quantità di terreno, operata per ragioni di sicurezza ai piedi del circuito bastionato, si è spezzata bruscamente la linea naturale dei declivi lungo i quali erano radicati secolari e rigogliosi giardini, alberature,  vigneti, frutteti, ortaglie e broli, che foraggiavano la città al piano.

Veduta su Valverde e Valtesse dalla Fara

Tra un baluardo e l’altro si sono così formate una serie di vallette, che hanno acquisito la loro denominazione in base agli elementi salienti che vi si sono trovati inclusi, e che hanno con il tempo riacquistato una nuova e straordinaria bellezza paesaggistica. Per comprendere il loro susseguirsi conviene ricorrere al disegno datato 1693 e firmato Alvise Cima, dove compaiono nell’ordine la Valle Verde, la Valle delle Noche, la Valle Avogadri e la Valle S. Agostino.

Gli scavi effettuati alla base del circuito murario veneziano (sovrimpresso in nero) hanno creato una serie di avvallamenti originando tra un baluardo e l’altro una serie di vallette che solcano il versante settentrionale del Colle: la Valle Verde (sotto Colle Aperto, tra il baluardo di S. Lorenzo e l’omonima porta, che con la relativa cortina taglia la parte alta della valletta, che entrerà a far parte del Forte di S. Marco); la Valle delle Noche (sotto il baluardo di San Lorenzo, tra la Valverde e la Valle Avogadri, separata da Valtesse dal torrente Morla); la Valle Avogadri (sotto il baluardo della Fara, tra la Valle delle Noche e la Valle di S. Agostino);  la Valle Sant’Agostino (particolare della tela firmata Alvise cima, 1693)

Nelle pareti delle Mura si nascondono tante storie, molte delle quali “narrate” dal materiale di risulta proveniente dalle demolizioni degli edifici: perché tutto serviva, purché si potesse portare avanti l’imponente monumento che oggi cinge gelosamente i nostri tesori.

Nella scarpa della faccia est del baluardo di Valverde, mimetizzati nella muraglia e soffocati dalla vegetazione, sono incastonati alcuni frammenti marmorei – del più candido  Zandobbio ma anche di un tenue color rosa -, attribuiti alla classicità romana e – forse – facenti parte di un grandioso portale. Generalmente i pezzi di risulta venivano inseriti “voltati” così da esporre le superfici levigate e prive di appigli alle palle di cannone del nemico; ma forse anche il “proto” – l’architetto di allora – fu colpito dalla bellezza delle decorazioni raccomandando ai manovali di metterle in bella vista, anche se in  quel settore delle mura pochi avrebbero potuto ammirarle: forse pensava a noi, cittadini di oltre quattro secoli dopo?

Frammenti marmorei di epoca romana, lavorati e scolpiti ad arte, inseriti nel paramento della scarpa della faccia est del baluardo di Valverde

 

Frammenti marmorei di epoca romana inseriti nel paramento della scarpa della faccia est del baluardo di Valverde

Il baluardo di Valverde si staglia all’estremità opposta della valle sottostante Colle Aperto e rappresenta una porzione inferiore del Forte di S. Marco, una “fortezza nella fortezza” realizzata per reggere un potenziale assalto nemico alla Città dalla parte del colle di San Vigilio, permettendo una sicura via di fuga  tramite il varco aperto nella Porta del Soccorso: la quinta e più sconosciuta del circuito murario veneziano, camuffata da comune portone!

Il Forte di S. Marco costituisce un’alta recinzione, estesa dalla porta di S. Lorenzo a quella di Sant’Alessandro. In questo settore, la Porta e la cortina di S. Lorenzo tagliano la parte alta della Valverde, entrata così a far parte del Forte di S. Marco Inferiore

E’ possibile visitarla attraversando le vie Roccolino e Beltrami, da dove si diparte la via Sotto le Mura di S. Alessandro: una suggestiva stradetta che si inerpica a fianco di via Cavagnis (strada panoramica per S. Vigilio), dove la Porta compare “nascosta” in un cortile privato. Proseguendo lungo il tratto movimentato da morbide contropendenze, si ricalca il perimetro esterno del forte di S. Marco superiore.

La Porta del Soccorso è “nascosta” tra la vegetazione lungo l’attuale via Sotto le Mura di S. Alessandro (laterale di via Beltrami), parallela alla strada panoramica che conduce a S. Vigilio. Il varco, ad uso esclusivo dei soldati, racchiudeva un passaggio sotterraneo segreto che collegava il versante nord dei colli al Castello di San Vigilio, da utilizzarsi in caso di caduta o di assedio

Ciliegina sulla torta è la Porta di S. Lorenzo, la più “campestre” di tutte, eretta in sostituzione della porta originaria ch’era collocata sotto il viadotto in corrispondenza dell’attuale.

Porta Garibaldi, già San Lorenzo. L’accesso nemico dalle valli poteva essere controllato dalle fortezze di Ca’ San Marco e da quella sul monte Ubione, in Valle Brembana

La vecchia porta (la prima ad essere costruita) era stata chiusa dai veneziani già nel 1605 perché ritenuta troppo isolata e di difficile sorveglianza, ma soprattutto perché spesso allagata dalle abbondanti acque che vi affluivano dalle sorgenti poste più a monte: un problema che richiese la realizzazione di un sistema di canalizzazione per lo scarico delle acque, visibile alla base della cortina, sul lato ovest.

Dopo la sua chiusura, i cittadini della Val Tegeta (Valtesse) e dei paesi limitrofi, costretti a lunghi giri per entrare in città, raccolsero e versarono alla Serenissima la cifra di 4.000 ducati d’oro allo scopo di far costruire il viadotto rialzato e la nuova porta (risalente al 1627), che, più modesta delle altre, venne collocata proprio “sopra” la vecchia consentendo nuovamente il transito. Alle sue spalle, la casermetta per il presidio (su cui apparivano lacerti di antichi affreschi) e, all’esterno, una fontana dove venivano convogliate le acque.

Porta Garibaldi (già S. Lorenzo), nel 1899 (Racc. Gaffuri)

Il passaggio fu dunque riaperto ma, rispetto alle altre, la nuova porta era di dimensioni più ridotte, cosicché tutte le operazioni di dazio dovevano avvenire all’aperto con gran lagnanza delle guardie esposte alla pioggia e al gelo.

Da qui fecero il loro ingresso l’8 giugno del 1859 Giuseppe Garibaldi e i Cacciatori delle Alpi. Sereno Locatelli Milesi racconta che il generale vi arrivò verso le sette del mattino; l’impiegato del dazio aprì la porta e lo accolse come glorioso liberatore, mentre le guardie presentavano le armi. Una lapide sotto il fornice ricorda la fine della pestilenza nel 1630, periodo in cui il capitano Giovanni Antonio Zen rappresentò l’autorità pubblica.  La porta mostra ancora sulla trabeazione le fenditure per le catene del ponte levatoio

La porte venne intitolata a S. Lorenzo nel 1627 (anno in cui venne eretta l’omonima colonna più a monte) e dal 1907 è detta“Porta Garibaldi”

Sotto il viadotto è ancora visibile l’imbocco della vecchia porta, il cui nome, poi trasmesso a quella attuale, ricorda la demolita chiesa di S. Lorenzo, che è stata riedificata poco più a monte inglobando la fonte del Lantro.

L’imbocco della vecchia porta è sotto del viadotto. la nuova porta di San Lorenzo costruita alla fine del Cinquecento in sostituzione della porta originaria, il tutto immerso in un suggestivo paesaggio agreste

Da sempre la più bistrattata e dimenticata delle Porte delle nostre Mura, quella di San Lorenzo non si fregia da alcuna scultura ed è ormai completamente cancellato è il leone un tempo affrescato sopra l’arco d’ingresso.

Porta Garibaldi, già S. Lorenzo, nel 1935, con il leone alato  dipinto nel riquadro centrale. L’affresco era ancora visibile negli anni Cinquanta. Sotto il leone di S. Marco i Bergamaschi godettero di oltre 350 di pace, di crescita e di prosperità: un periodo così lungo senza invasioni e spargimenti di sangue non era mai avvenuto nella sua millenaria Storia

Eppure la Porta di San Lorenzo, imbocco diretto per le valli bergamasche, era il punto di partenza della Strada Priula tracciata dai Veneziani nel 1593 per ottimizzare i traffici verso la Valtellina e il Nord Europa attraverso il passo di S. Marco. La nuova strada consentiva di evitare l’attraversamento dei territori appartenenti allo Stato di Milano, in mano agli Spagnoli.

Nel frattempo l’asfalto ha lasciato spazio all’acciottolato. Prima di varcare la porta è difficile resistere alla tentazione di volgersi all’indietro e gustare la luminosa bellezza di questa conca che – miracolosamente – conserva uno degli angoli di bellissimo verde che impreziosisce ancor di più le pendici di Città Alta.

Veduta d’altri tempi dalla Montagnetta, un bel balcone sulla conca di Valverde con il suo “castello”, sulla piana di Valtesse, sulla Maresana e il Canto Alto

Ora, riposati dalla lunga sosta prepariamoci ad affrontare l’erta ma panoramica salita che in breve ci proietta sugli spalti; bypassiamo la scaletta alla nostra destra svoltando in via S. Lorenzo 21 presso Casa Palma Camozzi Vertova (già Tini Guerinoni).

Casa Palma Camozzi Vertova, All’elegante fronte marmoreo su via San Lorenzo si contrappongono le piccole e rare  aperture del fronte verso via Fara, che ricordano l’aspetto severo di una struttura castellana. L’interno è ricco di preziosi affreschi

Si tratta di un bellissimo esempio, unico nel suo genere, di complesso fortificato medioevale a disegno triangolare, su cui si è innestato il palazzo nel Cinquecento, emergendo dal terrapieno occorso per l’erezione delle Mura e del bastione di S. Lorenzo: il piano terra della vecchia abitazione, allora posta a livello della strada medioevale ed oggi corrisponde alle cantine, racchiude un pozzo ancora funzionante.

Casa Palma Camozzi Vertova, con alle spalle la Rocca

A lato, dove la via si biforca con il viale delle Mura sorge l’umile chiesetta affrescata dedicata alla Beata Vergine Addolorata, meglio conosciuta come chiesetta dell’ultimo respiro. Qui erano condotti, mani e piedi incatenati, i condannati a morte: Venezia condannava all’estremo supplizio ladri ed assassini; l’Austria condannava alla pena capitale i cospiratori favorevoli all’unità d’Italia e la forca era eretta poco distante sul piazzale della Fara.

Chiesetta della Beata Vergine Addolorata, anche detta dello Spasimo e dei Condannati. La deposizione affrescata sopra la porta presenta un Cristo ritratto nell’abbandono della morte col capo appoggiato alla spalla della divina Madre e in un secondo piano una porzione di croce su cui risulta visibile il chiodo che trafisse i piedi del Salvatore. In alto, lo stemma gentilizio della famiglia Giupponi sormontato da una corona con nove punte, sorretta da due angioletti. La chiesa, un episodio architettonico unico in Bergamo presenta all’interno una bellissima pala con molti reliquari annessi

Proseguendo verso la Boccola, ci ritroviamo faccia a faccia con la colonna di San Lorenzo, eretta nel 1627 in memoria della primitiva chiesa di S. Lorenzo, distrutta per la costruzione delle Mura e ricostruita entro la fine del 1600 a pochi passi dalla colonna. Sopra il cartiglio, ormai abraso,  è scolpito uno scudo con giglio, emblema del santo protettore della città.

La colonna di S, Lorenzo, con il cartiglio che conteneva l’antica iscrizione, distrutta a fine sette/inizi Ottocento, nel periodo della Rivoluzione Bergamasca. Il testo, conservato nella Biblioteca Civica di Piazza Vecchia, recitava: EX RECLUSA TANDEM HACE JANUA/QUAE JANI NON EST CLAUSAE JANI/PORTAE IMPORTAT COMMODA PACEM/SEILICET AC UBERTATEM IN OPERA/ATQUE PROVIDENTIA FRANCISCI DUODI/ANNO MDCXXVII (Racc. Gaffuri)

La colonna, benedetta dal vescovo Priuli, fungeva da riferimento per il calcolo delle distanze lungo la Strada Priula tra la fortezza e la Valtellina, misurate in 44 miglia fino a Morbegno (circa 71 km).

La colonna di San Lorenzo, di ordine toscano su piedistallo, reca un cartiglio sovrastato da uno stemma in marmo di Zandobbio e termina con un capitello liscio e un ferro porta stendardo

Mentre le nuvole corrono nel cielo creando strani giochi di luce, continuiamo il nostro tour ricalcando il percorso della cinta medioevale imbattendoci, poco dopo la colonna, nella fontana del Lantro affiancata dalla cinquecentesca chiesa di S. Lorenzo e dall’oratorio dei Morti della Peste del 1630.

Via Boccola: la fontana del Lantro e la chiesa di S. Lorenzo, costruita entro il 1600 dal suo consorzio sulla piazza dell’Olmo, in sostituzione di quella demolita nel 1561 per la cinta bastionata veneziana

La chiesa è stata riedificata sopra la cisterna della Fontana del Lantro, che, originariamente posta all’aperto, si è trovata ad essere inglobata in un atrio interrato, al di sotto della chiesa stessa.

La vasca/fontana del Lantro è alimentata da due sorgenti, quella che  fornisce il nome alla fontana stessa – la più antica e dotata di maggior portata – che scaturisce da una cavità posta sotto la chiesa; l’altra è la sorgente di S. Francesco, che, intercettata durante i lavori di costruzione delle Mura veneziane, scaturisce sotto l’omonimo convento. Nel medioevo l’acqua sgorgava abbondante e soddisfaceva il fabbisogno idrico dell’intera vicinia di San Lorenzo

Alla fine dell’Ottocento la fontana venne sostituita dal nuovo acquedotto civico, rimanendo utilizzata soltanto come lavatoio fino agli anni Cinquanta, quando venne progressivamente abbandonata per un lungo periodo per poi essere recuperata dal gruppo speleologico “Le Nottole” di Bergamo.

Accanto alla chiesa di S. Lorenzo, l’ingresso al lavatoio della Boccola

 

La chiesa di S. Lorenzo, ad una navata e volta a botte, resse le veci di nuova Parrocchiale fino al 1860, quando venne aggregata alla Parrocchia di S. Agata nel Carmine. Grazie al sostegno di mercanti e artisti della vicinia, facenti capo alla Confraternita del SS. Corpo di Cristo, venivano celebrate le messe, distribuito pane tre volte l’anno e curati gli infermi, prima di destinarli all’Ospedale. Conserva all’interno un’Annunciazione di Enea Salmeggia e un Crocefisso con santi e donatori attribuito a Francesco Zucco

La chiesa è affiancata da una cappelletta dedicata ai morti della peste del 1630, preceduta da un portico. Nel lunettone che sovrasta la porta d’ingresso, una composizione macabra e una lastra tombale dipinta al centro, reca la scritta: RIPOSANDO QUI DALLA CHIESA TRASLOCATE LE OSA DEI NOSTRI FRATELLI PREGATE ALLE LORO ANIME REFRIGERIO LUCE E PACE

Inizi Novecento: la chiesa di S. Lorenzo e l’attigua cappelletta dei morti della peste del 1630, precedute dalla colonna di S. Lorenzo (Racc. Gaffuri)

Sul lato destro la morte con la falce accanto e a sinistra un dolente, entrambi appoggiati alla lastra stessa. Teschi, corone di fiori, faci spente e fogliame completano la composizione monocroma eseguita da un giovanissimo Emilio Nembrini nel 1936,  in sostituzione di un’altra precedente ridotta a pallida ombra.

L’oratorio dei Morti della Peste del 1630. I macabri dipinti nel 1936 da Emilio Nembrini, in sostituzione di un affresco scomparso popolarmente attribuito a Vincenzo Bonomini. Nembrini, nativo di Pradalunga ed appartenente a una famiglia di decoratori, venne iscritto giovanissimo alla scuola d’arte Fantoni, allora diretta da Francesco Domenghini, inaugurando una lunga carriera di affreschista

Secondo una tradizione tramandata oralmente dagli abitanti del borgo, il macabro scomparso apparteneva al pennello di Vincenzo Bonomini, pittore molto versato nell’esecuzione di scheletri.

L’oratorio dei morti presso la chiesa di S. Lorenzo intorno al 1965 (Ph Gianni Gelmini)

A metà salita ci imbattiamo nel fronte di nuda pietra del secentesco monastero di S. Agata, convertito a carcere nel 1798 e come tale perdurato fino al 1977. Il corpo di fabbrica a nord, lungo via del Vagine (nell’immagine sottostante), ospitava la sezione maschile, mentre buona parte dell’ala sud del convento, compresa la chiesa, costituiva la sezione femminile, oggi occupata dal bar/ristorante “Circolino”. Il complesso, purtroppo molto degradato e con gravi problemi di natura statica,  attende da tempo una nuova destinazione d’uso.

Le carceri nell’ex-monastero di S. Agata (Michi Cascio)

Più avanti, poco prima che la salita s’impenni sostiamo al cospetto delle grandi arcate sovrastate dalla mole dell”ex complesso del Carmine: un tratto residuo del perimetro difensivo altomedioevale, poggiante su resti d’epoca romana. Sappiamo che gli inizi del Seicento alle arcate erano state addossate, oltre alle case, la “barberia” e la “foresteria” del monastero, una fila di botteghe, tamponate in età moderna.

L’arco temporale di edificazione del monastero del Carmine, vede il periodo di massima attività tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500 (con la costruzione di gran parte dell’elegante chiostro, del refettorio e dei locali per i monaci) per concludersi nella seconda metà del 1600 con la realizzazione delle stalle, della sala capitolare e della nuova, ricca libreria. Tra il 1605 e il 1620 addossate agli arconi e orientate verso via del Vagine vengono fabbricate le botteghe e le case, la “barberia”, la “foresteria” e finalmente in spatio di tempo tutta l’altezza con le camere et granaio di sopra (Storia del Convento, Manoscritto compilato dal padre G. B. Guarguanti). Con l’avvento del XVIII secolo si apre per il monastero un periodo di decadimento e, dopo la sua soppressione in epoca napoleonica, di abbandono

Luigi Angelini  descrisse il Carmine come un’opera edilizia il cui chiostro è tra i più tipici e forse il più caratteristico per eleganza di forme architettoniche ed armonia di misure nei vani dei portici e nella linea delle arcate.

Ex monastero del Carmine, l’ingresso da via Colleoni. Alcuni caratteri architettonici originali sono andati perduti nel corso dei lavori di consolidamento statico del complesso. Dal 1996 ospita il Teatro Tascabile di Bergamo

Poco oltre, incontriamo la Fontana del Vàgine, alimentata da una sorgente che sgorgava sotto via Salvecchio e che anticamente aveva scavato una valletta fino all’altezza delle grandi arcate, poi colmata mediante apporti di terreno, calibrati nel tempo in base alle necessità che man mano si presentavano: sia quelle legate alla disponibilità dell’acqua della fonte dentro o fuori la città e sia quelle legate alla necessità di fortificare il nucleo urbano sulla scorta delle esperienze di assedio subite.

Proprio questa incertezza riguardo l’altimetria del pendio impedisce di tracciare con certezza i percorsi seguiti dalle antiche mura in questa porzione di città, dove peraltro sono state costruite almeno due cortine difensive: una in epoca romana ed in seguito una cinta medievale il cui andamento è stato ipotizzato dal Fornoni: la più antica doveva partire leggermente più a sud dell’attuale porta del Pantano e raccordarsi con le arcate del Vagine per poi proseguire passando circa a metà di quel che oggi è il chiostro del monastero di S.Agata.

La porta medioevale del Pantano inferiore da Piazza Mascheroni, in direzione Colle Aperto (la porta superiore è stata demolita nell’Ottocento)

 

In epoca romana quest’area era interna alla città murata, anche se ne era certamente al margine, come confermato dai reperti ritrovati nel corso degli scavi effettuati prima della costruzione del Relais S. Lorenzo, in Piazza Mascheroni. Qui in corrispondenza delle grandi arcate poste alla base dell’ex monastero del Carmine (testimonianti un tratto residuo del perimetro difensivo altomedioevale) si è rinvenuta una teoria di 16 ambienti terminanti ad emiciclo, identificati come strutture terrazzate di contenimento realizzate per limitare i cedimenti naturali del declivio collinare, in questo tratto particolarmente accentuato. Con il passare dei secoli, in questo contesto urbano intensamente frequentato fin dall’antichità, si sono realizzate opere costruttive sempre più articolate e particolarmente complesse

 

Cunicoli delle mura del Vagine (Racc. Gaffuri)

La seconda cortina si può ancora seguire con esattezza: partiva dalla porta del Pantano e passava di fronte alla fontana del Vàgine, poi pigliando per l’attuale via della Boccola rasentava il giardino di casa Tassis, passava sotto il Seminarino e sotto le case della parte inferiore della via Tassis, toccava il Lantro e raggiungeva la porta S. Lorenzo.

Alvise Cima (1693), Veduta prospettica della città di Bergamo e dei suoi borghi, prima della costruzione delle fortificazioni veneziane, particolare.

Incassata nel primo degli archi a tutto sesto che si susseguono verso le ex carceri di S. Agata è la fontana del Vagine, tra le prime documentate nella storia della città.

Fontana del Vàgine, conosciuta già in epoca romana come fons opacinus, fonte di tramontana, per la sua posizione che volgeva a nord. Ora la falda si è persa e dell’acqua non vi è più traccia. Alla fontana potevano attingere sia gli abitanti che i cavalli e disponeva di un lavatoio e di una cisterna molto grande

Pare che la sorgente godesse di grande fama e che i forestieri si recassero ad ammirarla per le sue qualità curative. Secondo le descrizioni di Mosè del Brolo in Liber Pergaminus (1120-1130), le sue volte, il pavimento e le pareti erano ricoperte di marmo.

La fonte del Vàgine nella Racc. Gaffuri

Al termine della breve ma scoscesa salita sbuchiamo in Piazza Mascheroni, in un’area intensamente frequentata sin dalle epoche più antiche e modificatasi nei millenni per necessità urbane, economiche e di potere.

La piazza assume il nome di piazza Mascheroni all’inizio del Novecento

In angolo tra la Boccola e la piazza, il Relais S. Lorenzo cela al suo interno importanti testimonianze di una parte della ricca storia di Bergamo, visibili e fruibili in giorni ed orari prestabiliti.

Piazza Mascheroni con il Relais S. Lorenzo a sinistra, in angolo con via Boccola

 

Interno del Relais S. Lorenzo, con i reperti archeologici risalenti al VI/V sec. a.C., una domus, strutture absidate ed intonaci dipinti d’età Romana, insieme ad ambienti porticati, cantinati e cortili ascrivibili tra il bassomedioevo e il Settecento

Proprio qui vi era un tempo la più antica Hostaria della città, detta della Croce Bianca, citata nel 1596 da Giovanni Da Lezze e descritta da Tommaso Bottelli nel 1758, alle cui mura verranno accostate quelle ad uso militare della “Munizione della Paglia”: una trattoria con vasti locali di deposito paglia, che forse serviva per le stalle destinate ai cavalli, poste dirimpetto proprio sotto l’alloggio dei soldati presso la Cittadella.

L’angolo tra via Boccola e piazza Mascheroni con il ristorante Giardinetto (Racc. Gaffuri). La creazione di questo lato della piazza è il frutto di una lunga serie di demolizioni attuate fra l’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento (Piano di Risanamento), che avevano lasciato un vuoto privando l’area di una funzione precisa

 

Il Ristorante Giardinetto con pergolato e gioco delle bocce, nel 1975

La piazza si trova al livello del pianoro ondulato sul quale è stato edificato  l'”hospitium magnum” della trecentesca Cittadella viscontea (alloggiamenti per la guarnigione e il comando), il grande recinto murato costruito su terreno vergine che includeva l’intero colle di San Giovanni dividendo in due parti la città.

L’arcigna fortificazione era protetta esternamente da un fossato che nell’area dell’attuale piazza Mascheroni creava una larga fascia inaccessibile, colmata nel Cinquecento con la realizzazione della piazza Nuova.

Piazza Mascheroni con il settecentesco Palazzo Roncalli a chiusura del lato sud, che ingloba il fronte della Loggia dei mercanti, realizzata su progetto di Andrea Ziliolo nel 1520 e tornata alla luce  nel corso di lavori eseguiti nel 1981. Il lato nord è aperto sulle quinte della Maresana e delle Prealpi mentre sui lati lunghi la piazza è chiusa ad ovest dalla Cittadella viscontea (già Hospitium Magnum) e ad est dalle abitazioni poste all’imbocco di via Colleoni e dal Reais S. Lorenzo. E’ completata da olmi siberiani e da una vera da pozzo settecentesca

E’ appunto nel 1520 che la piazza assume la rigorosa forma attuale, quando cioè Venezia decide di trasferirvi una parte del mercato pubblico che si teneva in Piazza Vecchia (granaglie e biade per foraggiare il bestiame), designandola come “Piazza Nuova” per distinguerla dalla precedente, divenuta centro politico-amministrativo della municipalità veneziana.

A tale scopo fa edificare la Loggia mercantile (inglobata nel Settecento  nella facciata dell’attuale Palazzo Roncalli e tornata alla luce nei restauri del 1981), utilizzata per le contrattazioni e per appendervi i bandi e le sentenze criminali, nonché un’ininterrotta fila di botteghe commerciali addossate al lato orientale della Cittadella viscontea. Nello stesso anno la piazza viene selciata.

La nuova piazza affiancata all’hospitium magnum (divenuto residenza del capitano veneziano), diviene così un nuovo polo economico-commerciale per la città e resterà luogo di mercato fino alla metà dell’Ottocento, quando le botteghe sul lato della Cittadella verranno demolite in attesa che la piazza assuma una nuova configurazione.

In un dipinto del 1830, Piazza Nuova (ora piazza L. Mascheroni) realizzata nel 1520 come nuova piazza di mercato e centro dell’economia cittadina, con la loggia mercantile (non visibile nel dipinto) e il basso fabbricato addossato alle mura medioevali Viscontee, con la  lunga fila di botteghe e le osterie

La loggia e tutti i fronti degli edifici attigui vennero decorati con affreschi di cui restano brani sul palazzo porticato e a destra della Torre della Cittadella.

Il pittore brembano Giovanni Busi detto Cariani (allievo del Giorgione) affrescò  le due teste di leone dalla folta criniera poste accanto ai peducci delle arcate isabelliane nonché il busto di uomo con scettro, realizzati in uno splendido monocromo.

La facciata del settecentesco Palazzo Roncalli, nella testata meridionale di piazza Mascheroni, con il fronte della loggia mercantile rinascimentale costruita per le contrattazioni, del cui progetto fu incaricato Andea Ziliol (i lavori per la sua esecuzione e per le varie costruzioni adiacenti vennero assegnati a Francesco Pietro Cleri). Nel Settecento la loggia venne inglobata nella facciata dell’attuale Palazzo Roncalli, tornando alla luce nei restauri del 1981 eseguiti sotto la direzione dell’architetto Francesco Giraldi

Del Cariani anche le decorazioni alla destra dei peducci, con la scena di una Venere distesa insidiata da un satiro e il giovinetto intento a suonare il flauto, posto all’estremità della facciata.  Di particolare interesse, sul fronte laterale del palazzo, altri affreschi attribuiti al Cariani eseguiti probabilmente dopo il 1528 durante il suo secondo soggiorno bergamasco. In una delle due lunette, due uomini accanto a due sacchi tengono fra le mani dei chicchi di grano, che stanno guardando e valutando: una normale operazione che si svolgeva dove il grano era commercializzato e generalmente posto nelle parti alte delle case, dove poteva essere più arieggiato e conservato.

Palazzo Benaglio, una scena di contrattazione di granaglie, collegata alla funzione della loggia mercantile (restauro eseguito da Andrea Mandelli nel 1983)

Per la sua conformazione piana, la piazza ospitava anche giochi, gare, giostre e tornei, fra i quali il Calvi ricorda, nel 1567, la festa per “caccia dei tori e dei cani” durante la quale due tori inferociti, fuggiti al di sopra dello steccato per la Corsarola, ferirono gravemente parecchie persone: una tradizione che raccoglieva l’antica eredità dell’area, occupata dagli edifici da spettacolo sin dall’epoca romana (teatro e anfiteatro), che si è protratta fino all’Ottocento interrompendosi quando la Cittadella, divenuta sede dell’I.R. Deputazione Provinciale, cambiò nome e assunse quello di Piazza del Lino.

Nell’area antistante Palazzo Roncalli, nel settore sud di piazza Mascheroni, il rinvenimento nel 1989 e nel 2001 di frammenti di capitelli, di cornici, di un timpano, di colonne scanalate, consentono di ipotizzare l’ubicazione di orchestra, proscenio e scena del   teatro romano, la cui cavea (molto estesa) doveva sfruttare l’andamento del versante settentrionale del colle di San Giovanni. L’anfiteatro era invece spostato più a occidente, come attestato dall’andamento curvo dell’ala ovest della cittadella viscontea, con strutture murarie spesse oltre due metri fondate su elementi murari più antichi

In asse con la Corsarola, la via che attraversa la città, s’erge la porta-torre viscontea d’ingresso alla Cittadella (l’unica conservatasi nella parte piana), con una terminazione settecentesca ad arco e con cinque singolari cuspidi di gusto sloveno ed una campanella, aggiunte probabilmente nel ‘800 durante l’occupazione austriaca. La torre viene chiamata oggi torre della campanella e presenta sopra il poggiolo uno stemma con al centro un’aquila bicipite (simbolo in stretta connessione con lo stemma del Sacro Romano Impero), adottata come proprio emblema dal casato degli Asburgo, Al centro dell’aquila uno scudo inquartato con i simboli alternati della Serenissima e dei Visconti ossia il leone alato ed il biscione.

La torre d’accesso alla Cittadella viscontea, in piazza Mascheroni. L’affresco dell’aquila posto al centro della torre è ricomparso dopo i lavori di restauro eseguiti nella Cittadella negli anni 1958/60 sotto la direzione dell’arch. Sandro Angelini. Fu dipinto da Luigi Bettinelli (1824 al 1892) per conto dell’amministrazione austriaca che occupava la Cittadella

 

La torre d’accesso alla Cittadella viscontea, in Piazza Nova, oggi Mascheroni, già Mercato del Lino (Racc. Gaffuri). Dopo il restauro della torre della campanella sono scomparsi alcuni elementi presenti nel disegno: l’uomo e la donna a lato dell’orologio, in piedi su un piedistallo e le quattro lunette nella sommità della facciata, due per parte della torre, citate dal Pasta ed attribuite al Cariani. Le botteghe addossate alla Cittadella sono ancora presenti

Al centro della piazza campeggia una vera da pozzo ottagonale in marmo di Zandobbio; l’opera risale al periodo della dominazione veneta, quando alle fontane vicinali si aggiunsero alcune importanti opere di ampliamento e di abbellimento, fra le quali si annoverano anche la cisterna di Piazza Mercato delle Scarpe, la sostituzione della fontana della vicinia di S. Pancrazio con quella più elegante fontana davanti all’omonima chiesa ed infine la costruzione della fontana Contarini in Piazza Vecchia, la più famosa tra le fontane della città.

Piazza Mascheroni prima dell’abbattimento delle casette che si addossavano alla Cittadella. Al centro, la settecentesca vera da pozzo portante il nome del Capitano Marino Cavalli, con la quale si attingeva alla cisterna costruita agli inizi del 1600 sotto la piazza

Chiudiamo la nostra visita alla piazza con la medioevale porta del Pantano inferiore, che sottopassa il breve andito diretto in Colle Aperto e che insieme alla distrutta porta del Pantano superiore – le due antiche porte disposte sul lato di via Boccola – costituiva l’unico possibile passaggio (sorvegliato da una piccola guarnigione che richiedeva anche il dazio), stretto fra il fianco nord dell”‘hospitium magnum” e le mura settentrionali.

La Porta del Pantano inferiore, osservata da Colle Aperto (Racc. Gaffuri)

Ma perché Pantano? Perché fin dall’antichità la zona posta alle sue pendici era pressoché paludosa ed insalubre, e certamente il fossato difensivo che proteggeva la Cittadella non ne aveva migliorate le condizioni.

Particolare di uno degli affreschi cinque/seicenteschi posti sulla facciata dell’edificio che sovrasta la porta del Pantano, dove accanto a brani mitologici compare anche uno stemma gentilizio

Giunti al culmine della nostra passeggiata  e rinvigoriti da tanta bellezza, torniamo sui nostri passi ripercorrendo la Boccola fino alla Fontana del Lantro, dove notiamo sulla destra un andito curioso: è il Passaggio dedicato dalla municipalità a Beccarino da Pratta, un modestissimo caporale della Serenissima che esattamente in questo punto sventò il tradimento del conestabile a guardia della porta, impedendo alle truppe dei Visconti di penetrare nottetempo in città da porta San Lorenzo.

Passaggio Beccarino da Pratta dalla Boccola

 

L’imbocco del passaggio Beccarino da Pratta da via S. Lorenzo

 

Via S. Lorenzo

In un amen l’esigua scorciatoia ci catapulta lungo la salita di S. Lorenzo dove, proprio al di sopra dell’imbocco del passaggio rendiamo omaggio a Santo  patrono della vicinia (uno dei più venerati in tutto il mondo), affrescato sulla facciata del civico 32. La passione di San Lorenzo, martirizzato a Roma nel III secolo, è una delle più note nell’agiografia cristiana.

Al civico 32 di via S. Lorenzo, il patrono della vicinia con indosso la dalmatica, l’ampia tunica rossa, lunga fin sotto il ginocchio. Il santo impugna la graticola, simbolo del suo martirio, la cui corona viene posta sul suo capo da due angeli paffuti. Festeggiato il 10 agosto, è il patrone dei rosticceri, degli osti, dei cuochi, dei bibliotecari, dei librai ed è invocato contro gli incendi, la lombaggine e le malattie della vite

La via S. Lorenzo, da mettere in stretto collegamento con la costruzione del trecentesco convento di S. Francesco, collegava anticamente il centro della città al borgo Fabriciano (Valverde) e alle valli Imagna e Brembana attraverso la porta medievale di S. Lorenzo, demolita nel 1829 ma di cui possiamo vedere l’imposta del pilastro appena superato l’imbocco di via Tassis, quasi in fronte al civico 24a.

L’imposta del pilastro della porta medievale di S. Lorenzo, nella via omonima, demolita nel 1829

La porta medievale di San Lorenzo osservata da sud, in un disegno di Pietro Ronzoni

Poco più avanti incrociamo la curiosa casa dai mille caminetti (un tempo casa di piacere): la leggenda narra che ogni comignolo ricordava il campanile di una chiesa abbattuta per far posto alla costruzione delle mura veneziane.

Ma soprattutto, sulla via S. Lorenzo c’erano un tempo numerose osterie e botteghe, cadute in disgrazia in seguito all’erezione delle Mura veneziane e al crollo del ponte romano  della Regina, che attraversava il Brembo nei pressi di  Almenno S. Salvatore. Delle insegne che segnalavano la presenza di osterie è rimasta quella dell’antico ristorante dell’Angelo, parzialmente riadattata.

Antica insegna del caffè dell’Angelo in via S. Lorenzo. L’angelo, con le ali azzurre, indossa una tunica nocciola e tiene tra le mani una verga; nella doppia cornice di ferro battuto sono evidenziati i tralci della vite; l’insegna è sormontata da una corona di ferro

A fine corsa sfioriamo con lo sguardo la vertiginosa torre del Gombito – dal latino compitum, ossia incrocio o crocicchio -, punto d’incrocio del cardo e del decumano di romana memoria e torre più alta della città.

Torre del Gombito

Torniamo infine sui nostri passi per una sosta all’area archeologica di vicolo Aquila nera (dal nome curioso di una vecchia locanda), spiando da dietro le vetrate un incredibile spaccato della storia della città antica, dell’insediamento protourbano del V secolo a.C. ad oggi.

sfiorando l’area archeologica di vicolo Aquila Nera e lanciando un occhio alla torre del Gombito, edificata nel XII secolo; non prenderà mai il nome delle famiglie che nei diversi secoli ne diventarono proprietarie

Noteremo i resti della domus romana (di cui rimangono parte dei muri e dei pavimenti), il pozzo e reperti risalenti a un periodo compreso tra il I secolo avanti Cristo e il II dopo Cristo, sui quali, in epoca medievale, è stata edificata un’altra abitazione, in parte ancora visibile.

Area archeologica di vicolo Aquila Nera nella Città Alta di Bergamo

La visita è gratuita ma è necessaria la prenotazione: magari la prossima volta?