Palazzo Terzi a Bergamo: la dimora barocca per eccellenza

Adagiata sullo sperone occidentale di Bergamo alta, la dimora barocca più bella di Bergamo fu eretta fra l’inizio del Sei e il Settecento da un ramo dei nobili Terzi – originaria della Val Cavallina -, senz’altro la più europea della nobiltà bergamasca, sia per l’antichità e i personaggi della sua storia sia per le alleanze che la congiungono alla più alta aristocrazia .

Giovanni Milgliara, Palazzo Terzi da via S. Giacomo (Racc. Gaffuri). Posto tra il Liceo Classico e via Donizetti, il Palazzo si integra, con mirabile sintonia, nel gioco di luci e ombre che caratterizza il versante meridionale della Bergamo antica

Una dimora importante per le pagine di storia che racchiude, per la nobiltà che rappresenta, per la struttura architettonica, per i materiali impiegati, per la notorietà degli artisti che hanno contribuito alla sua realizzazione e per la personalità dei padroni di casa che nei secoli hanno avuto non poca influenza nella vita cittadina.

Il Palazzo veniva un tempo scelto per accogliere re e principi in visita a Bergamo, sottolineando il rango che questo edificio rivestiva nella considerazione delle autorità pubbliche.
Ospitò, tra gli altri, molte famiglie illustri del Settecento e ben due imperatori austroungarici: all’inizio del 1816 Francesco I d’Austria, reduce da Milano dove si era recato nel dicembre precedente per essere incoronato Re. Volle fermarsi a Bergamo per visitare la città. Una ventina d’anni dopo, nel 1838, prese quartiere Ferdinando I con la moglie Anna Maria Carolina. Ma, come vedremo, non solo.

LA FAMIGLIA: UNA STORIA ILLUSTRE

In Val Cavallina i Terzi possedevano i castelli di Terzo, di Berzo, di Grone e di Monasterolo e sembrerebbe che ancor prima dell’anno Mille avessero dimora anche a Bergamo, dove presto divennero tra i reggitori del Comune.

Di appartenenza Ghibellina, la famiglia fu fedele al Sacro Romano Impero sino alla sua dissoluzione e la loro presenza in Val Cavallina, importante snodo fra Italia e Germania, garantì agli imperiali un passaggio sicuro, specie in seguito alla restaurazione del Sacro Romano Impero nel 962.

Al repentino consolidamento del potere dei Terzi corrispose tuttavia l’inizio di una lotta intestina tra i vari membri della famiglia, che a lungo andare si smembrò in due fazioni – gli “Allongi” da un lato e I “Loteri” dall’altro –, sino alla diaspora che li spinse non solo in altre città italiane (Brescia, Verona, Vicenza e Venezia, Gorizia, Fiume, Piacenza, Parma e Reggio, Bologna, Firenze, Iesi, Pesaro, Napoli) ma anche Oltralpe (Austria, Boemia e Ungheria).

La discordia terminò nel 1248 con la firma di un solenne trattato di pace che sancì le rispettive aree di influenza. In seguito, uno dei due gruppi acquistò terreni e case sul Colle Aureo, sul quale fu edificato l’attuale Palazzo.

Nonostante gli scontri che segnarono duramente la famiglia, i Terzi continuarono ad emergere in vari ambiti: dalle Prelature alle Armi, dalle Lettere alle Arti. Dal XII secolo molti membri si distinsero per meriti militari fino ad assumere il controllo di vari feudi; fra questi, Gherardo fu podestà di Cremona e Guido fu Vicario Imperiale e Capitano generale di Federico II.

Una delle personalità più illustri della famiglia fu Ottobono, che fu Condottiero di Gian Galeazzo Visconti, tenne la Signoria di Parma, Piacenza e Reggio acquisendo i titoli di Conte di Reggio e Marchese di Borgo S. Donnino, prima di essere assassinato a tradimento nel 1409.

Alcuni membri della famiglia Terzi seguirono invece la carriera ecclesiastica: Alberto e Adelongo furono canonici nel 1217, Alberto fu eletto Vescovo di Bergamo nel 1242, Giroldo divenne arciprete a Clusone nel 1272 e Giovanni partecipò al Concilio di Trento.

Giuseppe Terzi partì invece con Napoleone per la campagna di Russia e fondò l’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo.

IL PALAZZO

La costruzione del palazzo rientra a pieno titolo nel clima di affermazione sociale che caratterizza il Cinque e il Seicento, quando, sull’onda di una generale fortuna su scala europea delle casate nobiliari, l’aristocrazia locale si dotava di residenze degne dell’importante ruolo acquisito. Così fece un ramo dei Terzi, quando, a testimonianza del rango sociale raggiunto, si stabilì in città, luogo ideale dove intraprendere la realizzazione di un palazzo di rappresentanza.

Archivio Wells

Precedentemente la famiglia abitava vicino alla chiesa di S. Pancrazio, dove ancora vi sono delle case con affreschi di soggetto veneziano molto deteriorati dal tempo.

In realtà, l’aspetto esterno non è appariscente ed anche la collocazione urbanistica non è centrale: l’esiguità dello spazio edificabile, compreso fra il parco di Palazzo Recuperati e la sommità dello scosceso pendio meridionale del Colle, comportò la ricerca di soluzioni logistiche che richiesero quasi un secolo – fra acquisizioni, ampliamenti e modifiche – per conferire una forma compiuta al palazzo.

Il vicolo che conduce a Palazzo provenendo dall’antico Mercato del pesce

Nonostante la ristrettezza del sito i Terzi poterono così realizzare anche il bel giardino distribuito su vari livelli, ed ampliare lo spazio antistante l’ingresso del palazzo che,  costruito sopra un’area precedentemente demolita, riuscì a inserirsi nello spazio tra il parco di Palazzo Recuperati e, sul lato opposto, al limite del dirupo che definisce Città Alta.

Le preesistenti costruzioni rinascimentali sono infatti parzialmente inglobate negli ampliamenti sei settecenteschi e addirittura nei sotterranei del palazzo sono ancora visibili resti dei precedenti edifici medioevali, come è tipico negli edifici di Città Alta.

Il Palazzo prima dei recenti restauri

La prima fase della costruzione coincise con le nozze fra il marchese Luigi Terzi e la giovanissima Paola Roncalli (1631), quando furono eretti la facciata e l’ala meridionale.

Palazzo Terzi, 1910

La seconda fase, preceduta da una serie di acquisizioni immobiliari corrispondenti alla parte settentrionale dell’edificio, ebbe inizio un secolo dopo in occasione del matrimonio fra il marchese Gerolamo Terzi e Giulia Alessandri (1747), sorella del noto architetto Filippo, che intervenne sull’edificio ridisegnandone il prospetto a valle, rendendo simmetrici i due corpi di fabbrica nord e sud e valorizzando gli elementi tardorinascimentali inseriti nel Seicento.

Fronte settentrionale

L’esposizione a mezzogiorno e la posizione dominante sopra la pianura, consentì di proiettare la costruzione verso il grande spazio antistante utilizzando il fianco della collina per terrazze e giardini pensili. Anche la disposizione degli ambienti interni venne condizionata dalle grandi vedute verso il piano: una componente fondamentale dell’intera struttura.

Il Palazzo ripreso dalla Casa dell’Arciprete

Di sottile pregio ambientale, la minuscola piazzetta antistante l’ingresso – in origine un vicolo largo non più di quattro metri – fu ampliata dall’Alessandri, mediante l’asportazione di una porzione del terrapieno di proprietà del Conte Ricuperati, la cui area è tuttora distinguibile grazie ad un perimetro in pietra inserito nella pavimentazione.

La piazzetta antistante il Palazzo, in una foto d’epoca (Archivio Wells)

 

Dal cortile, si intravede la muraglia che delimita il terrapieno di proprietà del Conte Ricuperati, con al centro la nicchia che racchiude la statua allegorica dell’Architettura, eseguita da Giovanni Antonio Sanz

Per alleggerire la muraglia di contenimento di fronte all’ingresso è stata creata una nicchia a grotta che racchiude la statua allegorica dell’Architettura (eseguita, come altre opere plastiche all’esterno del palazzo, dal poliedrico Giovanni Antonio Sanz), sovrastata da due puttini che simboleggiano la Primavera e l’Estate, rimandando visivamente al prospetto settentrionale del palazzo, dove le statue dell’Autunno e dell’Inverno campeggiano sul balcone sostenuto dal bel portale.

Piazzetta Terzi con la nicchia a grotta che racchiude la statua allegorica dell’Architettura, sovrastata dallo stemma di famiglia e da due puttini che simboleggiano la Primavera e l’Estate,(Archivio Wells)

 

Una doppia fascia marcapiano che corre lungo tutta la facciata mette in evidenza il piano nobile, collegato al pianterreno dal portale d’ingresso ed ornato dal terrazzo sormontato dallo stemma e da due putti raffiguranti l’Autunno e l’Inverno, posti in posizione perfettamente simmetrica rispetto alle statue dell’Estate e della Primavera collocate in piazzetta

 

Dettaglio delle statue dell’Autunno e dell’Inverno sul balcone della facciata settentrionale del Palazzo

Per differenziare ulteriormente i vari piani l’Alessandri usò la decorazione delle finestre: semplici e prive di motivi ornamentali al pianterreno e all’ultimo; con timpani lineari al secondo; con timpani spezzati completi di statue rappresentanti imperatori romani al piano nobile.

Nel Palazzo permane l’ombra del giovane Stendhal (1783-1842), al secolo Marie Henry Beyle, che vi soggiornò in qualità di sottotenente di cavalleria dell’esercito napoleonico.

Nella finzione, un soldato napoleonico nella Sala degli specchi

Sulla facciata settentrionale, accanto al portale, una targa marmorea recita:

“Incantevole e superba bellezza” mirò Henry Beyle nei luoghi di questa città ov’ebbe dimora nei giorni pratili dal 2 maggio al 24 giugno 1801 il giovin Stendal gli amori di Zelinda e Lindoro qui volgendo nell’idioma natio con l’ardente cuore ch’ei volle dire italiano.

Oltre un secolo dopo, in una tiepida giornata di primavera Hermann Hesse (1887-1962) approdò casualmente nella piazzetta, dopo aver ammirato le meraviglie di Piazza Vecchia e dell’attigua Piazza Duomo.

La descrisse come “uno degli angoli più belli d’Italia, una delle molte piccole sorprese e gioie per le quali vale la pena di viaggiare”. Sbirciando attraverso il portone del palazzo scorse il cortile “con piante e una lanterna oltre il quale due grandi statue e un’elegante balaustra si stagliavano nitidi, in un’atmosfera trasognata, evocando, in quell’angolo stretto tra I muri, il presagio dell’infinita lontananza e vastità dell’aere sopra la pianura del Po”.

La vista sul cortile terrazzo affacciato sulla pianura continua ad estasiare gli avventori, filtrato dal porticato attribuito all’Alessandri, composto da sei colonne binate che creano tre archi paralleli, dove al centro spicca l’inconfondibile lanterna che illumina l’androne nelle ore serali.

Sul cortile-terrazzo che domina la pianura è aperto un atrio colonnato realizzato dall’Alessandri (Ph Mario Rota)

La terrazza, racchiusa tra le due ali del palazzo, termina con una splendida balaustra sormontata dalle due aeree sculture – realizzate da Sanz – della Pittura e della Scultura, che richiamano la statua dell’Architettura nella piazzetta chiudendo il cerchio simbolico-decorativo.

Le statue della Pittura e della Scultura nel cortile del Palazzo

La visuale è rivolta alla vasta e indefinita pianura e sul giardino del palazzo che digrada su via S. Giacomo accogliendo una bella fontana con Sauro.

Lo stupore suscitato dalla geniale soluzione dell’Alessandri, fa dimenticare l’asimmetria dell’androne rispetto al cortile ed anche quella delle finestre dei preesistenti ambienti sotterranei, non in asse con quelle del prospetto.

Scorcio sull’androne del Palazzo

 

Lo scalone, lungo il quale si trovano ancora i candelabri settecenteschi, è decorato da numerosi affreschi che ne allargano le dimensioni con grandi prospettive di palazzi classicheggianti collocati in campi ariosi, mentre la volta presenta un affresco con un allegoria mitologica dipinto da Vincenzo Orelli e dal figlio Giuseppe, quest’ultimo autore di un grande affresco collocato nell’ala opposta del palazzo, quella attualmente abitata dai proprietari, dedicato ad “Apollo e le sue Muse”. Altre decorazioni si trovano nelle camere sottostanti, così come la preziosità di alcuni arredi aumenta la suggestione dei locali.

Gli artisti di Palazzo Terzi

Il palazzo è la risultanza dell’ingegno e dell’abilità di una formidabile équipe di architetti e di artisti scelti, sensibili e attenti all’evoluzione del gusto architettonico e pittorico dell’epoca, e benché l’ala sinistra del palazzo, tuttora abitata, racchiuda affreschi suggestivi, gli ambienti più interessanti sono situati nell’ala destra, dove troviamo le ricche decorazioni realizzate tra il 1640 e il 1664 da Giovan Battista Tiepolo, Cristoforo Storer (un pittore di Costanza formatosi presso la bottega milanese di Ercole Procaccini il giovane, e che in seguito Luigi Terzi sostenne per i lavori presso la basilica di S. Maria Maggiore), il pittore comasco Gian Giacomo Barbelli (autore anche degli affreschi di Palazzo Moroni in città Alta), Carpoforo Tencalla (un artista piuttosto inconsueto a giudicare dai dipinti), il bergamasco Domenico Ghislandi (padre di Frà Galgario), che interviene negli ambienti di Palazzo Terzi all’indomani dell’impresa in Palazzo Moroni (dove egli tornerà a lavorare sui ponteggi con il suo primo maestro, il cremasco Gian Giacomo Barbelli) sfoderando un’audacia nuova e personale, come si evince in particolare nel Salone d’onore.

Il Salone d’onore

Al grande salone di ricevimento, situato nel corpo centrale del palazzo e disposto su due piani, si accede direttamente dal portico passando attraverso un piccolo locale, un tempo forse destinato a portineria o a vestibolo, il cui soffitto presenta alcune riquadrature in stile barocco.

Il visitatore viene accolto in uno degli ambienti di maggior pregio – contraddistinto naturalmente da un fastoso barocco – attorno al quale ruotano le altre sale.

Salone d’onore

Quasi sicuramente l’inizio delle decorazioni porta la data del 1640; esse vennero affidate a Gian Giacomo Barbelli, che libero da ogni direttiva architettonica lavorò affidandosi alla sua fantasia, avvalendosi del quadraturista Domenico Ghislandi per la curiosa impostazione scenografica della volta.

Dettaglio del soffitto del salone principale di Palazzo Terzi, opera di Gian Giacomo Barbelli e Domenico Ghislandi per le quadrature. Qui per la prima volta Ghislandi inventa una quadratura nella quale a mutare è l’idea stessa di spazio. Non più statico e ripiegato su se stesso entro i limiti fisici dell’architettura, ma uno spazio che attraverso le aperture illusioniste fa affiorare brani “del grande paesaggio” esterno, di un Creato vastissimo di cui si colgono alcuni passaggi, alcuni frammenti

Tra i curiosi pilastri rastremati a calice si aprono, negli angoli della volta, quattro finestre vere e quattro finte, alle quali si affacciano delle mezze figure a grandezza naturale, probabilmente personaggi della famiglia vissuti negli anni del restauro. Nell’ “Olimpo”, effigiato da Gian Giacomo Barbelli nella volta, le figure sono gettate en plain air con la stessa freschezza e lievità con cui poi le ritrae in azione nei quattro riquadri che lo incorniciano: “Minerva che con Marte guida le truppe”, “Orfeo che incanta gli animali”, “Giuseppe che guida le Furie” ed una “Flora con cornucopia”.

Alcune figure simboliche sedute, fiancheggiano ogni riquadro e due di queste sono riprese, in atteggiamento simile, dall’abile stuccatore che innalza fino all’impostazione della volta il maestoso camino, la cui realizzazione è probabilmente anteriore ai due quadri che lo affiancano.

 

Questi due dipinti, come gli altri che ornano le pareti del locale, sono stati eseguiti da Cristoforo Storer e raffigurano “Jefte vittorioso incontra la figlia” e “Ammone ucciso per comando di Assalonne”.

I soggetti degli altri dipinti sono: “Davide presenta a Saul la testa di Golia” e, sulla parete di fronte al camino, il grande “Convito di Assuero” che porta la firma e la data del 1657.

Sopra le porte vi sono altre tele eseguite probabilmente da Giovanni Cotta, un amico dello Storer.

L’ imponente camino di marmo, addossato alla parete maggiore, celebra la potenza e l’eccellenza della famiglia, come testimoniano i leoni laterali di sostegno e soprattutto lo stemma araldico collocato al centro del frontone curvilineo appoggiato alla cappa.

Dipinto dei Grande Salone di Palazzo Terzi

Quanto alla paternità dell’opera, attraversata da racemi a girale e da diversi motivi naturalistici, per la generosità del disegno e la carnosità delle forme presenta significative affinità stilistiche con le opere degli stuccatori luganesi Sala, attivi in quegli anni nei principali cantieri cittadini (seguiti anche dai Terzi, come quello della MIA).

La luce che irrompe dalle finestre aperte sulla pianura non fa che esaltare gli stucchi e le decorazioni.

(Ph D. Rizzo)

 

 

Dal Salone di ricevimento, una porta sulla sinistra conduce alla Sala da pranzo, anch’essa affrescata dal Barbelli, sempre con la collaborazione del Ghislandi per le riquadrature e gli effetti prospettici nei quali è inserita una balconata. L’affresco principale rappresenta l’origine della “Via Lattea”, mentre quattro graziosi puttini sul cornicione reggono i simboli di Giove.

Tornati nel Salone si passa nelle sale di destra: una sequenza mirabile di decorazioni, di ornamenti e di tappezzerie di rara eleganza e raffinatezza, dove si avvicendarono frescanti, stuccatori, indoratori ed ebanisti, offrendo prove di eccellenza nell’accostare materiali diversi.

I plafoni conservano gli affreschi del Seicento, mentre le pareti sono state rivestite nel secolo successivo di damasco, di soprarizzo e di specchi. I pavimenti, realizzati con legni policromi, sono stati disegnati dal Caniana. Le porte, gli infissi e le finestre sono decorate con intagli dorati. E’ una sequenza di motivi che sorprende e che si conclude nel Salottino degli Specchi, il primo locale che lo Storer decorò appena arrivato a Bergamo.

Salotto degli Specchi

Le singolarità di palazzo Terzi non finiscono qui. E’ tra queste pareti che si cela appunto il celebre salotto degli specchi, considerato da Mario Praz  “uno dei luoghi di specchi più incantati del mondo”.

Sala degli Specchi

La sala offre al visitatore i medaglioni secenteschi affrescati dallo Storer raffiguranti l’ “Astronomia misurante I segni dello zodiaco” al centro, i Quattro elementi ai lati e, tra l’uno e l’altro, sopra agli angoli delle pareti, quattro ovali presentano le “Quattro parti della Terra”.

 

 

Dettaglio

Nel primo Settecento, all’ambiente si aggiunse un elegante gioco di specchi, spiccatamente barocco, che riflettendosi l’un l’altro ne modificano le dimensioni rendendo l’illusione di una maggior ampiezza. Gli specchi coprirono però anche le quadrature originali di Domenico Ghislandi.

Gli arredi raffinati si accompagnano a preziosi decorazioni e tessuti damascati, e, ad esaltare il tutto, I preziosi pavimenti a tarsie policrome realizzate con legni rari su disegno del Caniana. La decorazione presenta una doppia fascia stellata che racchiude il rosone centrale e alcuni motivi a grata. Negli angoli fanno bella mostra corbeilles di fiori e nella strombatura della finestra una gabbia di uccellini. Non contento di questi disegni, che danno al pavimento in legno quasi la caratteristica di un tappeto, il Caniana ha voluto arricchire i riquadri dello zoccolo con gioco di putti dipinti in tonalità monocromatica su fondo dorato.

L’insieme, ovvero l’abbinamento degli affreschi dello Storer sul plafone, gli specchi con le decorazioni barocche in legno dorato e il pavimento finemente intarsiato, danno luogo ad un ambiente raffinato: un “salottino” raccolto ma al tempo stesso non oppressivo; colorato, ma senza che i disegni incombano e disturbino l’armonia degli accostamenti.

Ed è dovuto al successo di queste decorazioni che i Terzi commissionarono allo Storer gli affreschi della Sala Rossa ed il medaglione della camera da letto di rappresentanza.

Scorcio sulla camera da letto di rappresentanza

Procediamo nella visita passando alla Sala del Soprarizzo, così nominata per via della tappezzeria che ricopre le pareti.

Sala del Soprarizzo

La Sala del Soprarizzo in una splendida fotografia appartenente ad Archivio Wells

Tra il Salone e il Salottino si trova la “Del Soprarizzo”, così nominata per via del tipo di tappezzeria sulle pareti.

Sala del Soprarizzo

La volta di questo locale è decorata dal ticinese Carpoforo Tencalla. Il dipinto del plafone ha un’impostazione abbastanza insolita. Le figure non si trovano al centro dello spazio decorato, bensì in un angolo, raggruppate e avvolte da nuvole, mentre nella volta, che si presenta come illuminata di rosa dalle prime luci dell’alba, appare l’ “Aurora” nel suo splendore, come soggetto principale di tutta la composizione. Il fregio che raccorda l’affresco con le pareti è stato eseguito quando queste sono state rivestite in soprarizzo e lo si nota dalla fascia architettonica, diversa da quella del Salone. Predominano i colori rosa e grigio chiaro in diverse sfumature, mentre le ghirlande di fiori hanno tonalità più vivaci. Queste decorazioni sono attribuibili al ticinese Giuseppe Antonio Orelli.

Sul soffitto campeggia l’Aurora che scaccia il Sonno, un affresco in stile barocchetto del pittore ticinese Carpoforo Tencalla.

Anche qui, il pregevole pavimento settecentesco in legno intarsiato.

A partire dalla seconda metà del Ottocento il palazzo diventò la sede di riunioni e conversazioni che favorirono l’Indipendenza d’Italia durante il Risorgimento. Proprio in un’intercapedine di questa sala fu nascosta, al ritorno degli Austriaci, la bandiera Nazionale, protagonista delle Cinque giornate e della Caduta di Milano, a lungo cercata dagli austriaci ed oggi conservata presso il Museo Storico allestito in Rocca. La bandiera era stata consegnata nel 1862 all’allora Sindaco della città dalla marchesa Maria Terzi Caumont de la Force, vedova del marchese Luigi, amico e collaboratore di Gabriele Camozzi, con il quale fondò la Guardia Nazionale.

Il Carretto siciliano garibaldino, nel cortile di Casa Terzi

Sala Rossa

La Sala Rossa è così nominata per la tappezzeria di damasco rosso vermiglio.

Sala Rossa

Presenta nel soffitto affreschi eseguiti nel 1655-57 da Cristoforo Storer, coadiuvato dal Ghislandi per le splendide quadrature delle quattro scene allegoriche raffiguranti uomini possenti e donne sinuose. Al centro della volta si trova l’Olimpo.

Gli arredi risalgono invece al Settecento: le specchiere, la consolle dei Fantoni, porte stuccate. Vi sono inoltre pregevoli vasi Ming con montatura in bronzo.

Sala del Tiepolo

Una delle più note e conosciute del palazzo, contornata da dei preziosi stucchi dorati, la sala conserva al centro del soffitto un affresco attribuito al Tiepolo.

L’affresco del Tiepolo nella sala omonima

Salottino della Musica

In stile rococò invece si trova il Salottino della Musica, dalle pareti molto irregolari ma sapientemente mimetizzate dalle decorazioni realizzate dai fratelli ticinesi Camuzio.

La Sala della Musica con al centro un’opera realizzata in occasione di un allestimento

Oltre a queste di maggior pregio, vi sono altre stanze in stile veneziano, così di moda nel XVIII secolo. Tra queste una curiosa saletta adibita a giardino d’inverno, abbellita con carta da parati dipinta a mano dal conte Suardo.

Giardino d’Inverno

 

Una rara ripresa del Conte Suardo, a cavallo per le vie della città

Seguendo la moda neoclassica che si diffuse nella Bergamasca con il nome degli architetti Simone Elia, Pollack, Giacomo Bianconi ed altri, alcuni discendenti della famiglia Terzi pensarono di trasformare tutto l’edificio eliminando la sua impostazione barocca per conferirgli una caratteristica in stile impero. Fortunatamente ciò non avvenne.

Labirinti e maschere mortuarie a Palazzo Terzi

E’ noto che nel ventre di Città Alta si nasconda un dedalo di percorsi, che si snodano tra pareti rocciose, stalagmiti e stalattiti: un groviglio inquietante di cunicoli, gallerie, buchi, caverne. Ma nella Bergamo antica sono ancora molti i luoghi inesplorati. Basterebbe inoltrarsi nel sottosuolo di alcune dimore storiche, se i proprietari lo consentissero, per fare scoperte mozzafiato.

Nel sontuoso – e a quanto pare misterioso – Palazzo Terzi, sono stati rinvenuti curiosi e impressionanti reperti che lasciano presagire segreti rimasti ancora oggi inviolati: negli inaccessibili (al pubblico) sotterranei, che scendono come labirinti piranesiani nel cuore della città, giacciono presenze davvero inquietanti.

Non è facile addentrarsi in questi oscuri meandri. Ad un tratto nella penombra ecco apparire un vecchio armadio. La porta scricchiola. Un rumore sinistro, quasi monito a non violare il segreto, a non andare oltre. Ma la tentazione è fortissima e nessuno può fermarci: ai nostri occhi si presenta una “collezione” inconsueta: venti maschere mortuarie.

Pochi ne sono a conoscenza, ma quelle testimonianze, enigmatiche e angoscianti, sono calchi in gesso realizzati sui volti dei camerieri che prestarono servizio in quella residenza. Camerieri un po’ speciali, evidentemente, forse persone a cui la famiglia era particolarmente legata da vincoli di affetto.

Almeno questa sembra l’unica spiegazione plausibile, se alla servitù era concesso il “privilegio” di rimanere nei ricordi di sempre attraverso una bianca immagine gelosamente custodita nei sotterranei

Tra l’altro, un altro ambiente del palazzo – successivamente modificato – ancora più insolito e lugubre era la stanza interamente decorata a stucco nero, dove venivano esposti i morti di famiglia, in attesa delle esequie (2).

Note

(1) Attraverso un matrimonio Caumont-La Force, i Terzi sono collegati ai più grandi casati francesi: persino Honoré de Balzac (1799-1850) ricorda in uno scritto una ‘marquise de Terzi’. Assai interessante il matrimonio di un Nuse Terzi con la principessa Galitzine che venne a Bergamo accompagnata da un pope ortodosso come cappellano. Dai Galitzine si risale a parentele con le più importanti famiglie russe e con grandi scrittori come Aleksandr Serghiejevic Puskin (1799-1837) e Lev Nikolajevic Tolstoj (1828-1910).

(2) Emanuele Roncalli: “I misteri di Bergamo”, Burgo Editore, Bergamo, 1995

Fonti
-Palazzo Terzi, di Graziano Paolo Vavassori
-Ferrante, “Palazzi nobili di Bergamo”

L’ex monastero di Sant’Agata ieri e oggi e gli affreschi ritrovati nelle sale del Circolino

Reportage fotografico di Evelina Lorenzi

Camminando lungo l’antico decumano romano ricalcato dal budello di via Colleoni, non si può non restare affascinati dalle facciate dei palazzi e dalle strutture ad arco che un tempo ospitavano le diverse arti del borgo medioevale.

Via Colleoni in prossimità di vicolo S. Agata (Alfonso Modonesi)

L’arenaria e il selciato accompagnano i turisti lungo tutta la Corsarola, fino all’ampia apertura che lascia respiro al grande abbraccio con Piazza Vecchia.

Alzando gli occhi, oltre a finestre delicatamente adorne di fiori o a piccoli archi soffocati nella pietra, si può notare un’insegna in ferro dorato sporgere lungo la via. E’ l’insegna della Cooperativa di Città Alta – meglio nota come “Circolino” – fortemente voluta dai soci e dal Consiglio di Amministrazione.

Disegnata da Andrea Mandelli – uno dei soci fondatori della Cooperativa – e forgiata in piazza Mercato del Fieno nella fucina del fabbro Scuri, maestro dell’arte sapiente del ferro, campeggia sull’angolo con il vicolo S. Agata dal 1991, a volte turbata dal vento, a volte valorizzata dai raggi del sole.

Il cartiglio ripropone la chiesa di S. Agata vista di lato, con l’abside e il campanile, alternandosi nei colori della ruggine arricchita dalla doratura in oro zecchino apportata nel novembre del 2007.

L’insegna della Cooperativa di Città Alta, eseguita dalla bottega del fabbro Scuri su disegno ed elaborazione grafica di Andrea Mandelli, rappresenta la chiesa di S. Agata vista di lato, con l’abside, il campanile e le nuvole

La composizione rimarca la funzione primaria che la Cooperativa ha voluto portare nel quartiere, quella di ristoro, un luogo dove condividere l’intimità di ogni giorno e mantenere vivo il senso civico di appartenenza.

“Il Circolino”, centro ricreativo e di ristoro che dal 1982 ha restituito una funzione a una parte del monastero, ricucendo le troppe lacerazioni di una Città Alta che poco alla volta perdeva l’identità del borgo storico e popolare. Il giardino è una finestra aperta sulle montagne, gelosamente custodita dalle pareti di una chiesa la cui storia affonda le radici nel periodo medioevale

In realtà il complesso di Sant’Agata si sviluppa lungo una zona planimetrica ben più ampia degli spazi occupati dal Circolino ed è distribuita in tre corpi di fabbrica di ampiezze assai diverse e in un corpo in muratura mista di pietre e mattoni.

L’ex monastero di S. Agata (bordato in bianco nell’immagine), a nord-est della Città Alta di Bergamo

La Cooperativa (Circolino) risiede nella parte rivolta a mezzogiorno e ricalca il piano di calpestio dell’antica chiesa di Sant’Agata, la cui origine si perde agli inizi dell’alto medioevo, essendo antecedente all’anno Mille.

Il ristoro “Circolino” occupa la ex chiesa di S. Agata (l’ala sud del complesso), uno spazio in origine a navata unica, chiuso a est da un presbiterio con abside semicircolare (oggi corrispondente alla cucina) e coperto da una volta a botte suddivisa in tre campate. L’antica navata corre parallela al bancone del locale

Una chiesa, inizialmente di poche anime (citata già nel 908 come “Sancte Agatae de terra vitata”), edificata presso l’antica cinta muraria romana e ben presto divenuta chiesa vicinale (1): presieduta dapprima dall’ordine religioso degli Umiliati, poi dai frati Militi Gaudenti, incaricati di garantire la pace fra le fazioni cittadine e, a partire dal 1357, dai Padri Carmelitani, che la ampliarono nel 1450. Insieme alla sua consacrazione nel 1489, il Vescovo Lorenzo Gabrieli ne ufficializzò l’investitura parrocchiale, considerato che la vicinia contava ormai un congruo numero di abitanti.

La facciata della vecchia chiesa di S. Agata, rivolta verso il cortile del Circolino (un tempo cimitero del convento) con il tetto a capanna. La prima memoria dell’esistenza della chiesa risale ai primi anni del X° secolo, nel luogo comunemente detto “sotto S.Agata” (subtus sancte Achate), così nominato nel secolo antecedente (2). Nella prima metà del XIV secolo altri documenti attestano l’esistenza di un cimitero, un brolo e alcune domus ecclesiae S. Agathae collocati a ridosso dell’abside (3)

Sappiamo che prima dell’arrivo in S. Agata dei Padri Teatini, la chiesa era dotata di un ampio cimitero verso sud (attuale cortile del Circolino) e che custodiva sepolture anche all’interno, come risulta da un atto del 1443.

Nel 1536 (visita pastorale del Vescovo Pietro Lippomano) la chiesa è descritta come piccola e a tre navate, fornita di un altare centrale e due laterali nonché di una cappella con tribuna. Vi ha inoltre sede la scuola del SS. Sacramento. Una trentina d’anni dopo, nel 1575 (visita di Carlo Borromeo) la chiesa è descritta come abbastanza grande ma poco ornata; è dotata di quattro altari, tra cui quello della Vergine Maria e del Corpo di Cristo.

L’arrivo dei Padri Teatini

L’Ordine dei Chierici Regolari Teatini era stato fondato a Roma nel 1524 da alcuni membri dell’Oratorio del Divino Amore; ebbe come primo superiore Gian Pietro Carafa, vescovo di Chieti – in latino Theate – futuro papa Paolo IV. Lo spirito fortemente rinnovato del nuovo ordine, dedito alla sequela di San Gaetano da Thiene (qui dipinto dal Tiepolo), mirava alla santificazione delle anime attraverso l’esempio della carità e preghiera come invito ad una stretta povertà apostolica, dopo gli strascichi lasciati dai travagliati periodi della storia della Chiesa fra Riforma e Controriforma. L’Ordine ebbe particolare diffusione durante il pontificato di Pio V e ad essi fu affidata la riforma del Breviario e del Messale, e la revisione dei libri sacri

Nel 1608 i Carmelitani vennero spodestati dai Padri Teatini (qui giunti dopo una breve permanenza iniziata nel 1598 presso la chiesa di S. Michele all’Arco), che vi restarono per quasi duecento anni sino ai tempi delle soppressioni napoleoniche.

Una volta stabiliti nella vicinia di S. Agata, nel 1608 avviarono a valle della chiesa stessa la dispendiosa fabbrica del monastero: un cantiere che durò per anni. Nell’agosto del 1609 la parrocchia fu loro definitivamente assegnata per volontà di papa Paolo V e con il consenso del Vescovo di Bergamo Giovanni Battista Milani, che nel 1590 era stato preposto generale dell’ordine.

Una parte del lato nord dell’ex monastero su via del Vàgine (Racc. Gaffuri). La volta a botte di base trapezoidale posta alla base dello spigolo nord-ovest della facciata (seppure esterno al perimetro dell’ex carcere), è riconducibile nelle sue caratteristiche alle vicine strutture della Fontana del Vagine

 

L’ex monastero di S. Agata sorge in un’area caratterizzata da numerose vestigia di epoca romana e altomedievale, tra le quali gli avanzi delle mura su via del Vàgine, impostate su avanzi d’età romana, in prossimità delle quali prese il via il nucleo originario del monastero (Racc. Gaffuri)

 

Un suggestivo scorcio su via del Vàgine (Alfonso Modonesi)

Nel 1676 Donato Calvi, nella sua Effemeride, riporta che il monastero comprende 24 celle più una sala, una stanza per la portineria, una per il vestiario, una per la nutrita libreria, una per il refettorio, una per la cantina e una per la cucina, con poco giardino. Con ogni probabilità in quegli anni il monastero aveva già assunto la sua conformazione finale e non avrebbe più subito significative modificazioni fino alla conversione in “casa di forza”.

Il cortile dell’ex monastero di S. Agata ai giorni nostri, braccio nord. Le grandi arcate al piano terra (oggi tamponate) ospitavano un laboratorio dove alcune decine di detenuti realizzavano materiale elettrico, offrendo riparo durante l’ora d’aria in caso di maltempo. Il secondo piano era dotato di una cappella voltata e affrescata con le figure di S. Leonardo (patrono dei carcerati) e S. Gaetano (patrono dei Teatini)

Venne affidato loro il compito della cura d’anime della parrocchia (fino ad allora retta da padre Lanfredo Maffeis) nonchè quello di confessori dei conventi femminili della città, fatto che non risparmiò ai Teatini l’invidia da parte di altri enti religiosi cittadini.

I Padri presero così ad ampliare ed arricchire la chiesa preesistente, della quale sembra non essere rimasta testimonianza evidente in quanto venne abbattuta nel primo decennio del Settecento dagli stessi Teatini, per poi essere ricostruita nelle forme odierne.

Particolare del disegno firmato Alvise cima, 1693. E’ visibile la chiesa con il suo campanile, in fondo al vicolo di S. Agata, con il chiostro appena abbozzato

 

Sul Campanile della ex chiesa di S. Agata, sul lato sud-est, a ridosso dell’ingresso del carcere, svetta una cella campanaria in mattoni pieni a vista con modanature in arenaria

Il rifacimento della chiesa

Nel 1630 la chiesa di S. Agata viene ristrutturata come ex voto per la fine della peste. Nonostante ciò, ben presto la chiesa così “degnamente posseduta” (4) dai Padri Teatini, non più sufficiente a soddisfare le esigenze della vita religiosa della parrocchia viene demolita nel primo decennio del Settecento in favore di una nuova, che verrà costantemente trasformata ed abbellita dall’Ordine nel corso del secolo e che, escluse le superfetazioni e le modifiche dell’Otto e Novecento, è ancor’oggi riconoscibile nella sua quasi totalità.

Vengono demolite le tre navate per ridurle ad una sola; la chiesa ha un’abside semicircolare ed è coperta con una volta a botte che vede l’intervento dall’architetto bergamasco Giovanni Battista Caniana; vi sono poi cinque cappelle laterali, tre a nord e due a sud, laddove in luogo di una cappella si apriva il portale in asse col vicolo d’accesso.

Riguardo i cinque altari, la visita pastorale del Vescovo Redetti del 1740 precisa, oltre all’Altare Maggiore, quello della Beata Vergine del Buon Successo (con la statua portata in fino in piazza Nuova presso le case dei Benaglia), quello di S. Gaetano (fondatore dell’Ordine, festeggiato nel giorno della sua ricorrenza), quello di S. Agata e quello di Sant’Andrea Avelino.

Le fonti dell’epoca la descrivono ben tenuta, molto bella e decorata, con  arredi sacri, suppellettili, reliquie nonchè opere pittoriche di Cignaroli, Salmeggia, Lattanzio, Gambara, Bianchi, Quaglio.

Scrive il Pasta che già prima del 1775 la volta della chiesa reca riquadri a fresco raffiguranti la vita e le opere di S. Gaetano da Thiene eseguite dal milanese Salvatore Bianchi. Come pure “alcuni stucchi che ritroviamo nei sott’archi quale quello tra la navata e il presbiterio con l’emblema dl SS. Sacramento, culto che l’ordine teatino promosse con particolare impegno” e di cui era attiva una Scuola, oltre a quella della dottrina cristiana maschile (quella femminile si teneva al Carmine).

La soppressione del monastero e la conversione in “casa di forza”

Alla fine del Settecento però gli echi della Rivoluzione francese e soprattutto l’avvento dell’età napoleonica segnarono il destino della Parrocchia annessa al monastero di S. Agata, soppressa nel novembre nel 1797. Con questo atto si chiuse il lungo arco temporale che aveva visto il complesso monastico occupato dalla sua destinazione originaria.

Nel 1799, a due anni dal suo smembramento la Parrocchia di S. Agata, pressoché interamente distrutta, per esplicita richiesta degli abitanti della contrada venne trasferita nella vicina chiesa di Santa Maria Annunciata del Carmine (passata nel 1450 ai Carmelitani), che perse la sua originaria titolazione per assumere il nuovo nome di S. Agata nel Carmine (unita poi a quella della Cattedrale dal 1966)

Strano destino, quello del monastero dedicato alla martire di Catania, che si ritrovò vittima di se stessa, con una condanna da scontare in carcere.

Nel 1799, fra i numerosi edifici sottratti agli ordini regolari, il Direttorio esecutivo della Cisalpina stabilì, per via della notevole estensione del fabbricato, di destinare a carcere l’ex monastero, per collocarvi gli imputati in attesa di giudizio in ottemperanza alla legge 5 fruttidoro anno VI (22 agosto 1798). Legge che, con l’intenzione di porre fine all’indistinta carcerazione dei prigionieri ritenne opportuno distinguere le case di semplice custodia ed arresto degli inquisiti dalle case di detenzione dei condannati (5).

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

 

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

 

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

 

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

L’ambizioso progetto (presentato nel 1802) di concentrare nell’ex monastero tutte le carceri della citta’, venne affidato all’architetto austriaco Leopoldo Pollack (1751-1806), allievo del Piermarini e autore a Bergamo di altre importanti realizzazioni come il Teatro Sociale (1803-1806) e Villa Agliardi a Sombreno, nonché, appunto, autore del primo progetto organico per la conversione del complesso monastico in casa di forza, nel quale si cimentò in una delle sue ultime elaborazioni sperimentali.

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

 

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

 

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

 

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

 

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

Il progetto prevedeva la costruzione di una parte nuova e un consistente adattamento e restauro della vecchia fabbrica, cui aggiungere un’infermeria e luoghi annessi (i muri colorati in nero sono quelli esistenti mentre i muri in rosso riguardano le parti da costruire ex-novo). Pollack disegnò un edificio che si sviluppava su tre piani principali, rappresentando un modello carcerario ideale in un cui lo spazio a disposizione veniva sfruttato con geometrica razionalità. Erano infatti previsti quartieri separati all’interno del fabbricato, con celle comuni per i condannati, alcune delle quali destinate alle donne di primo arresto, e celle segrete, di cui dodici da costruire ex novo al pianterreno, affacciate sul cortile e destinate agli imputati in attesa di giudizio. Inoltre, durante le ore notturne i condannati sarebbero stati separati per gradi di colpa, essendo stato progettato un dormitorio per i colpevoli di minori infrazioni nonché uno per i condannati a pene di lunga durata o a vita. Apposite guardine avrebbero permesso a custodi e a secondini di sorvegliare accuratamente tutti i prigionieri. La sicurezza dei locali sarebbe stata garantita da muri più solidi, inferriate sulle finestre, doppi serramenti e serrande sulle porte. Nell’intenzione poi di conciliare le finalità deterrenti dell’arresto e della pena con il rispetto umanitario della personalità dei rei, vennero progettati interventi atti a garantire la salubrità e l’igiene dei locali, come la riparazione di latrine, la costruzione di pozzi, cisterne e camini, la creazione di “corsie di disimpegno” cioè di corridoi sufficientemente larghi e ventilati. Inoltre, al fine di garantire l’assistenza sanitaria ai prigionieri malati, il Pollack ideò una tripartizione verticale dell’ex chiesa dei Teatini (mediante l’inserimento di una struttura ad archi e volte a vela) pensando di adibire ad infermeria per gli uomini il piano più elevato e di edificare due ampie celle comuni nei piani inferiori. Anche per le donne sarebbe stata creata un’apposita infermeria (6).

Così come si presentava sulla carta il progetto era ben congegnato nella struttura e funzionalità dei suoi elementi costitutivi. Tuttavia, una volta approvato venne realizzato solo in parte a causa della scarsità dei fondi delle casse dipartimentali. Così nel corso dell’età napoleonica la sua realizzazione poté procedere solo a piccoli lotti, intralciata da difficoltà burocratiche e finanziarie.

Nel periodo della dominazione veneziana a Bergamo, durato oltre tre secoli e mezzo, le prigioni della città, di proprietà comunale, erano situate in Piazza Vecchia al pianterreno di un fabbricato esistente nei pressi della Torre Civica, vicino al Palazzo della Ragione. In queste prigioni si rinchiudevano tutti i colpevoli di reati comuni, senza alcuna distinzione tra condannati e imputati in attesa di giudizio. I prigionieri politici, invece, venivano condotti nella cappella di Santa Maria Maddalena, nel forte di San Vigilio, e i contravventori agli ordini fiscali si mandavano nella torre di Cittadella. Solo i colpevoli di alto tradimento o di gravi misfatti venivano trasportati direttamente alle carceri di Venezia. Questa semplice articolazione del sistema carcerario venne messa in
discussione dalle vicende belliche della fine del XVIII secolo, che portarono all’instaurarsi dei governi rivoluzionari e napoleonici. Un periodo in cui il numero degli arresti crebbe notevolmente, al punto che la capienza delle carceri cittadine divenne presto insufficiente

Nel frattempo la sovrabbondante popolazione carceraria continuò ad essere sistemata alla meglio nei tre separati edifici di Sant’Agata, di San Francesco e di Piazza Vecchia, che mantennero la loro distinta funzione di casa di custodia, casa d’arresto (e carcere militare) e casa di pena.

L’ex Convento di S. Francesco da un cortile interno di via Tassis, un tempo casa d’arresto (Racc. Gaffuri)

Vennero poi eseguiti solo quei piccoli lavori di riattamento ritenuti indispensabili a garantire le minime esigenze di igiene, sicurezza e solidità dei fabbricati, assecondando la logica della maggior convenienza, spesso a discapito del materiale edilizio esistente.

Il complesso è formato da tre corpi di diversa ampiezza articolati attorno ad un cortile a formare una “C” aperta verso ovest (verso il cortile del “Circolino”), chiuso da un muro contro terra. I corpi di fabbrica hanno altezze diverse a causa del dislivello di circa 14 metri fra il vicolo delle Carceri (braccio sud, sviluppato due piani fuori terra aderendo alla navata della ex chiesa oggi “Circolino”) e via del Vàgine (braccio nord, sviluppato quattro piani fuori terra)

Per adibire gli spazi a penitenziario, a partire dal 1802 nel monastero si susseguirono una serie di modifiche, che interessarono dapprima la sacrestia, poi la chiesa ed infine gli altri locali, dove vennero murate porte e finestre, forgiate e montate pesanti grate in ferro battuto e realizzati muri divisori. Gli ambienti interni, seppure frazionati in seguito alla realizzazione delle celle, conservano gli orizzontamenti originari, costituiti da un ricco campionario di strutture voltate, a botte, a crociera, lunettate.

Il fronte interno del braccio nord presenta un’elegante composizione di matrice classica a ordini sovrapposti: al piano terra pilastri tuscanici sostengono un architrave completo di fregio e cornice, al di sopra del quale si stagliano lesene ioniche a doppia altezza. I pilastri del piano terra sono uniti da archi a tutto sesto con chiave di volta in forma di voluta, oggi tamponati, che fino alla fine del Settecento costituivano un portico aperto, come documentato dai disegni del Pollack. Ai piani superiori, le aperture rettangolari  sono parzialmente tamponate e chiuse da grate di ferro, mentre sul Iato est sono presenti tracce di decorazioni pittoriche intorno alle finestre

 

La parete corrispondente al braccio nord, vista da via Vàgine. Verso destra si intravede il braccio sud affacciato su vicolo delle Carceri, con la chiesa e il campanile. L’austerità dei prospetti esterni è data dalle finestre parzialmente tamponate delle celle di detenzione e dalla muratura in pietra a vista, in cui sono anche inseriti alcuni conci di pietra di Zandobbio, indizio del riuso di materiali di epoca romana

 

 

Gli interventi di adeguamento ottocenteschi hanno snaturato gli elementi architettonici originari del convento attraverso tamponamenti totali o parziali di porte, portali e finestre, con l’aggiunta di oculi e doppie inferriate e con nuove murature e sopralzi

Quando nel 1814 Bergamo passò alla dominazione Austriaca, l’opera di gestione e manutenzione delle carceri venne affidata all’ufficio del Genio Civile di Bergamo, che vi eseguì interventi edilizi sino circa al 1870.

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

 

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

 

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

 

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

Tra le varie opere di adeguamento, spicca, nel luglio del 1844, la costruzione di un porticato con loggia superiore al lato di levante del cortile, che testimonia l’occupazione dell’ala centrale dell’ex convento da parte del carcere, e che ancora oggi si può individuare sopra al termine delle paraste che corrono lungo il prospetto a est della corte.

Ex carcere di S. Agata, braccio est (Ph. L. Klobas)

Vennero presi provvedimenti per impedire che i detenuti potessero fuggire (come la soffittatura della gronda posta nell’ala di ponente del cortile, soffittata da assi in larice) e a metà Ottocento venne pure costruita la raggiera panottica per il passeggio isolato dei reclusi nella corte.

Carcere di S. Agata a Bergamo, pianta Piano terreno, s.a., [XIX sec.], Genio Civile XIX secolo
La struttura sarà demolita pochi anni più tardi e il cortile diviso in due con un muro sormontato da una torretta di controllo per i detenuti.

A cavallo tra il 1870 e il 1871, a seguito della demolizione di casa Secco Suardi, dove ora trova posto il giardino che affaccia sulla Fondazione Colleoni e sull’omonima via, per impedire la fuga dei detenuti attraverso la terrazza del carcere e il tetto del passaggio “dei luoghi pii”, venne realizzato il muro sovrastante la portineria, e acquistato il fabbricato dei luoghi pii realizzando gli interventi necessari.

Il Luogo Pio Colleoni, in prossimità dell’ex carcere di S. Agata

Di qui fino allo smantellamento del carcere non furono apportate variazioni significative all’impianto edilizio dell’ex monastero, salvo opere di manutenzione ordinaria realizzate nei primi decenni del Novecento.

Lavori di restauro del campanile di S. Agata negli anni Trenta

 

Bergamo, ex Carcere di S. Agata (Ph Evelina Lorenzi)

E ciò sino a che non cominciò a farsi evidente l’inadeguatezza degli spazi e delle strutture di detenzione, tanto che nel 1977 l’istituto penitenziario venne trasferito alla casa circondariale di via Gleno, costruita nel rispetto delle moderne e migliori normative di natura edilizia.

L’ingresso del penitenziario da vicolo delle Carceri

La situazione dopo la chiusura del carcere

Con il trasferimento del carcere l’edificio perse la funzione che l’aveva interessato per più di un secolo e mezzo.

Gli oltre 5000 metri quadri del vecchio monastero tacquero per circa quattro anni, lasciati all’incuria dell’oblio e del tempo, popolati solo da qualche bestiola in cerca di riparo, protetti dal verde manto di un’edera selvatica.

L’imbocco di via Vàgine da via Tassis (Racc. Gaffuri)

Questo silenzio irreale veniva a volte turbato solo dal colpo secco di qualche boccia degli avventori del Dopo Lavoro di mussoliniana memoria, sviluppato nell’area esterna adiacente.

Scorcio sulle carceri da via Vàgine (proprietà Michi Cascio)

Poi, nel 1981, i rumori divennero più frequenti, più assordanti, accompagnati dal vernacolo degli operai. Il piano di calpestio del vicolo S.Agata venne occupato dal Comune, che in quella che fu la sala capitolare dei monaci insediò la Terza Circoscrizione del Comune, l’ufficio per i vigili urbani e il centro socio-sanitario.

Le sale si rianimarono, cambiarono volto, abbandonarono le vecchie funzioni. Era il 1982 e con i lavori intrapresi dall’amministrazione comunale per rivalutare gli spazi in base alle nuove esigenze del quartiere, sul calpestio dell’antica chiesa dedicata alla martire di Catania, la sede della Cooperativa Città Alta (Circolino) riportava in vita una porzione del complesso, mentre il padiglione esposto a nord, oltre il cortile dell’ora d’aria, restavano in disuso, frequentati solo dalla polvere del tempo.

Con gli anni e con i ribaltamenti dell’amministrazione pubblica, ad uno ad uno i locali dell’ambulatorio, dei vigili urbani e della Circoscrizione vennero nuovamente svuotati.

Il campo da bocce prospiciente la ex chiesa, prima dell’occupazione dei locali da parte della Cooperativa

Restava a presidiare l’antico complesso solo il Circolino, con il brusio degli avventori fra i tavoli e le voci concitate delle partite a carte, finché nel 2008 la cooperativa ottenne i permessi da Palafrizzoni, previo parere positivo del proprietario (l’Agenzia del Demanio) di ampliare i locali, recuperando gli spazi che un tempo erano adibiti ad ambulatorio (paralleli alle sale del ristorante) per ricavarne un angolo pizzeria e un ampio salone.

La Cooperativa poté utilizzare l’area esterna prospiciente grazie al generoso interessamento del signor Demetrio Amaddeo – per tutti Mimmo – proprietario del ristorante Da Mimmo in Corsarola, una realtà radicata da lungo tempo sul territorio. Egli interruppe prematuramente il suo contratto con Palafrizzoni, per sveltire l’usufrutto dell’area verde per Il Circolino (Ph Sergio Agazzi)

Proprio durante i lavori di ristrutturazione il vecchio monastero volle far sentire la sua voce, riportando alla luce un meraviglioso affresco realizzato sulla volta della sala principale al tempo in cui ad abitar Sant’Agata furono i Padri Teatini, la congregazione dalla dottrina virtuosa, che conduceva una vita austera.

Consunto dal tempo e dall’usura ma ancora vivido e ben delineato, facevano capolino fra i calcinacci del controsoffitto il volto di un uomo canuto, angeli, elementi naturali, lembi di cielo, come se dopo tanti anni di abbandono l’affresco volesse ancora godere dell’ammirazione altrui.

L’affresco di Giulio Quaglio rinvenuto nel 2008 nella “sala grande” del Circolino, l’antica sacrestia della ex chiesa di S. Agata. L’episodio affrescato, contenuto in un medaglione, raffigura la vicenda del profeta Elia (“Elia sotto il ginepro confortato dagli angeli”), realizzato nel periodo tra il 1709 e il 1714

Ora nel grande salone ristrutturato, grazie all’impegno della cooperativa campeggia una preziosa scena biblica restituita alla bellezza originaria, impreziosita da una delicata cornice d’intonaci, dove al centro campeggia un uomo canuto che osserva rapito un cielo ricco di nuvole, con le immagini di Dio e dei suoi Angeli.

L’affresco del primo Settecento eseguito da Giulio Quaglio, “Elia sotto il ginepro confortato dagli angeli”), sul soffitto della sala principale del Circolino (antica sacrestia della chiesa). L’autore (6) è stato identificato da Tosca Rossi mediante l’ausilio di una nutrita bibliografia locale (Tassi, Batoli e Pasta) e in particolare grazie al raffronto con un’opera dello stesso artista presente nella cattedrale slovena di Lubjana. Il quinquennio considerato (1709-1714) d’altro canto vede la continuativa presenza dell’artista in terra bergamasca, sia per assolvere alla prestigiosa decorazione della chiesa di San Paolo d’Argon e sia nelle chiese di Sant’Alessandro in Colonna, San Carlo dei Mendicanti ed altri edifici religiosi

L’uomo in estasi allunga una mano in cerca di risposte e l’Arcangelo Raffaele gli offre a dell’acqua e una pagnotta per ristorarsi. Spiccano i toni caldi dell’oro, il rosso acceso dei mantelli celesti e il verde intenso della vegetazione.

Particolare dell’affresco di Giulio Quaglio, “Elia sotto il ginepro confortato dagli angeli”)

Altre sorprese arrivarono più tardi, quando riapparve, miracolosamente quasi integra, l’imponente decorazione delle quattro campate dell’antica volta della chiesa, oggi corrispondente al secondo piano dell’edificio. Dobbiamo il suo ritrovamento al provvidenziale crollo della controsoffittatura che la occultava totalmente.

Salvatore Bianchi, angeli musicanti sulla volta della ex chiesa di S. Agata

Di essa si ha menzione tanto nel Pasta che nel Bartoli, ma la fonte più circostanziata ed attendibile è senza dubbio Francesco Maria Tassi che la riferisce al “Cavalier Salvatore Bianchi di Varese”: uno dei numerosi artisti itineranti che giunsero a Bergamo all’inizio del Settecento forse, come dice il Lanzi, a causa della “penuria di pittori propri di rilievo dediti alla pittura aulica (8).

Salvatore Bianchi, angeli musicanti (particolare)

 

Salvatore Bianchi, angioletti (particolare)

 

Salvatore Bianchi, canestro di frutta (particolare)

L’artista ha ingiustamente goduto di scarsa fortuna critica nella nostra città, tanto da non guadagnarsi neppure una breve monografia nella quasi onnisciente collana sui Pittori Bergamaschi.

Salvatore Bianchi, musicanti e cori angelici (particolare)

 

Salvatore Bianchi, deliziosi puttini (particolare)

 

Salvatore Bianchi, la cornucopia (particolare)

Ne sono responsabili il numero limitato delle opere lasciate nella città ma anche la diffusione del cognome e, paradossalmente, il titolo nobiliare, che il Bianchi ha condiviso con pittori omonimi approssimativamente coevi operosi nel Settentrione d’Italia, dai quali è stato distinto con difficoltà dalle fonti locali.

Salvatore Bianchi, la Vergine Maria e il bambinello (particolare)

 

Salvatore Bianchi, puttini festanti (particolare)

 

Salvatore Bianchi, S. Gaetano e i cori angelici (volta affrescata)

Al pittore, rivalutato per il discreto spessore artistico, è stato attribuita con assoluta certezza la paternità degli affreschi, databili nel secondo decennio del Settecento e comunque non anteriori al 1706 (anno in cui i monaci Teatini che ne erano proprietari, chiedono un prestito per l’ampliamento dell’edificio), né posteriori al 1727 (anno della morte di Salvatore Bianchi).

Salvatore Bianchi, S. Gaetano da Thiene (particolare)

 

Salvatore Bianchi, S. Agata (particolare)

E’ il periodo in cui la pittura del maestro giunge a piena maturità e a cui risalgono le sue imprese più prestigiose e riuscite. Ed è anche il periodo in cui comincia la sua collaborazione con il figlio Francesco Maria, di cui sembra di poter cogliere qualche traccia nelle soluzioni più lievi e briosamente rococò del ciclo di Sant’Agata (9).

Gli affreschi ritrovati, sicuramente non sono né i primi né gli ultimi dei tesori nascosti che il complesso racchiude. Sicuramente una rara ricchezza che conserva silenziosamente i segreti della storia e che ci tiene ancora e per fortuna legati ad essa. Sicuramente una delle fortunate possibilità in cui conciliare la gola con lo spirito: non capita tutti i giorni di pranzare sotto un affresco settecentesco.

Note

(1) A Bergamo l’organizzazione della città in vicinie è documentata dagli statuti cittadini che ne riferiscono i nomi e ne tracciano i confini a partire dal 1251. In quell’anno la città era divisa in diciassette vicinie e la vicinia di S. Agata comprendeva anche quella di Arena, che sarebbe diventata autonoma prima del 1263 mantenendo “intatti i diritti sulla chiesa di S.Agata e sul suo cimitero” (FORNONI 1905, p.70).

(2) Secondo Angelo Mazzi si ha la prima memoria dell’esistenza di questa chiesa nel 908, in una carta di permuta ove abbiamo questa espressione: “in un pezzo di terra a vite posto entro la stessa città nel luogo detto sotto S.Agata (subtus sancte Achate). La seconda menzione cade nel 924. In un’altra carta di permuta abbiamo pure: “una casa con corte di proprietà della chiesa di S.Alessandro posta entro la città di Bergamo, vicino a S.Agata” (MAZZI 1870). E’ inoltre documentata in altre due pergamene conservate presso l’Archivio Capitolare di Bergamo, relative agli anni 1004 e 1066. Elia Fornoni ne conferma l’esistenza nell’anno 1176 precisando che “i canonici di S. Vincenzo andavano a celebrarvi i vespri (FORNONI (?), Bergomensis vinea, vol. IV, pp. 197-199. ACVB).

(3) Come da statuti cittadini del 1331 e del 1491.

(4) CALVI 1676, p.#.

(5) B. Carissoni, cit. In bibliografia.

(6) Ibidem.

(7) Giulio Quaglio nasce nel 1668 circa a Laino, località della comasca valle d’Intelvi da un famiglia dedita all’arte per molte generazioni. Abile frescante, il pittore si forma in ambiente emiliano ed arricchisce la propria arte con influssi veneziani e barocchi, facilmente rintracciabili nella sua produzione. Sulla base di queste esperienze il Quaglio elabora una pittura di estrema piacevolezza decorativa anche se, a causa della tendenza a frammentare le volte in molteplici medaglioni incorniciati da stucchi, essa non risulta aggiornata sulle ultime tendenze, che prevedevano un’unica ampia decorazione che sfondasse illusoriamente il soffitto nel cielo. Tenuto in ampia considerazione dai contemporanei e a capo di una bottega assai vasta ed articolata, che avrà un peso sempre maggiore con il passare degli anni, l’artista può assolvere ad un numero veramente elevato di commissioni, non solo in Lombardia, ma anche in Friuli, in Slovenia ed in Austria. Muore a Laino nel 1751.

(8) Salvatore Bianchi nasce nel 1653 in prossimità del Sacro Monte di Varese, in quel tempo proficuo crogiuolo di artisti di varia provenienza ed orientamento artistico. Inizia ben presto a lavorare per Arona, Milano e Torino, specializzandosi nella pittura a fresco e acquisendo il titolo di Pittore di Sua Altezza Reale per aver lavorato nella reggia sabauda di Torino. È probabilmente proprio la frequentazione della corte torinese che lo induce ad approfondire la conoscenza della pittura genovese, forse anche tramite la mediazione del Legnanino. In particolare sembra orientarsi verso Gregorio de Ferrari, da cui desume il senso scenografico dell’impianto compositivo, l’ostentata esuberanza decorativa, il dinamismo della stesura pittorica e soprattutto il cromatismo vivido e brillante. Tale orientamento rimane il sostrato imprescindibile della pittura del Bianchi, che ad esso sovrapporrà influssi barocchi romani, mitigati da una vena di classicismo marattesco o di matrice emiliana. Cultura complessa e poliedrica quindi quella del maestro, che forse proprio grazie a questo suo eclettismo riesce ad aprirsi precocemente verso le tendenze rococò, che si stavano facendo strada nei primi anni del Settecento. Un orientamento che va precisandosi fra il primo e il secondo decennio del secolo, allorché il maestro lavora nei cicli del Cusio, di Busto Arsizio e, probabilmente, di Bergamo. L’artista muore nel paese natale nel 1727.

(9) Sant’Agata, immagini dal passato – Cooperativa Città Alta in collaborazione con il Liceo Artistico Statale “Giacomo e Pio Manzù” di Bergamo.

Bibliografia essenziale

SPINELLI G., Gli ordini religiosi dalla dominazione veneta alle soppressioni napoleoniche (1428-1810), in Storia religiosa della Lombardia. Diocesi di Bergamo, a cura di A. Caprioli, A. Rimoldi, L. Vaccaro, Brescia, La Scuola, 1988, pp. 213-234.

BENI Francesca, 1981-2011 Cooperativa Città Alta Un sogno divenuto realtà. L’azzurro srl. Ottobre 2011.

CARISSONI Barbara, Il sistema carcerario a Bergamo in età napoleonica. In Archivio Storico Bergamasco. Ed. Junior, 1995.

OGGIONNI Davide, RANGHETTI Matteo, REGAZZONI Paolo, Recupero del monastero di S. Agata in Bergamo.Tesi di laurea. A.A. 2009-2010.

Nota di servizio

Le fotografie di Evelina Lorenzi sono tutte scattate all’interno di ExSA, la porzione di Sant’Agata affidata al  progetto dell’Associazione Maite, attivo dal 2015 (dal 2017 regolato da un Patto di Collaborazione), che ospita ed ha ospitato numerosi eventi, convegni e laboratori, trasformando uno spazio abbandonato in luogo vivo.
Alcune delle suddette fotografie, ritraggono specifiche istallazioni di opere curate nel corso dell’iniziativa “M’innamoravo di tutto, correvo dietro ai cani” dedicata a Fabrizio De André.

Alberto Vitali e Bergamo. Una storia d’arte e di nascosta bellezza

Un capitolo a parte scrisse nella silente solitudine di città Alta, Alberto Vitali, nato proprio al limitare dell’Ottocento. Con la sua sensibilità vicina alla pittura di Carrà, Tosi, Rosai, Casorati, Morandi, s’impose in modo particolare per l’originalità delle soluzioni palesate dalle sue commoventi “Mascherate” in Piazza Vecchia o Mercato del Fieno, serie già in nuce nel suo dolente e spaesato “Arlecchino” del 1931 e, per certi versi, conclusa da un altro “Arlecchino”, l’acquerello insuperato del 1971 con la maschera popolare che gioca con dei bambini indicando uno stormo d’uccelli

 

A Marta Vitali, nipote di Alberto Vitali, amica e compagna del Liceo

Alberto Vitali e Bergamo. Una storia d’arte e di nascosta bellezza fu il titolo della rassegna allestita tra novembre 2014 e gennaio 2015 nella Sala delle Capriate di Palazzo della Ragione.
Dopo la mostra postuma cittadina risalente al 1975 e la retrospettiva alla Permanente di Milano nel 1985, a quasi quarant’anni dalla scomparsa di Alberto Vitali, Bergamo rese omaggio alla produzione dell’Artista bergamasco con la prima monografica: una corposa retrospettiva, fortemente voluta dalla GAMeC: una storia di bellezza nascosta tra i segni morbidi, che definiscono paesaggi bergamaschi, celata dietro maschere di Carnevale e dentro l’intimità domestica.

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia

L’esposizione dedicata alla produzione pittorica di Alberto Vitali era composta da 80 dipinti collocati entro una panoramica artistica compresa tra gli anni Venti  – periodo in cui Vitali iniziò a dipingere – agli anni Sessanta del Novecento.
Le opere, accostate ad altri dipinti di artisti italiani, provenivano da alcuni musei italiani quali la Pinacoteca e Accademia di belle arti di Brera, il museo milanese del Novecento, il museo Morandi di Bologna, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e il museo civico e Pinacoteca di Alessandria, da istituzioni pubbliche, quali Provincia e Camera di Commercio di Bergamo, nonché da collezionisti privati.

La nostra visita presso le sale dell’Ateneo nel dicembre 2014

La rassegna si arricchì di una selezione di 60 incisioni dell’artista (arte cui egli si è dedicato con continuità insieme alla pittura), esposta nelle eleganti sale dell’Ex Ateneo di Scienze, Lettere e Arti; mentre lo spazio Caleidoscopio in GAMeC, raccolae una selezione di acquerelli di Vitali.

Alberto Vitali – Soglio Val Bregaglia – 1967. Gli “Acquerelli d’Engadina” sono in mostra nello spazio Caleidoscopio in GAMeC. Dopo gli anni Sessanta Vitali abbandona progressivamente la pittura, rispondendo col silenzio ai mutamenti di un mondo in cui non si riconosce e che gli appare dominato dall’aspetto commerciale. Fa eccezione la serie degli acquerelli dell’Engadina, dal 1968 al 1971, raccontati nel libro di Vanni Scheiwiller (Acquerelli d’Engadina di Alberto Vitali, Scheiwiller, 1984, uscito nello stesso anno della mostra milanese per il decennale della morte, con la sigla “All’insegna del pesce d’oro”) (1)

Considerazioni sulla propria biografia
(a piè di pagina la biografia completa)

Se riesco cercherò ora di spiegarmi: nato il 21 aprile 1898 mio padre esercitava un piccolo negozio di vinaio; melanconici ricordi di infanzia; fatta la quinta elementare a dodici anni venni posto in uno stabilimento-costruzioni-mobili, intagliatore. Ho frequentato in quei tempi fino al 1916 scuole serali per artieri. A contatto di operai intellettuali. Letture di Valera, serata futurista comizi di Corridoni, conferenze Podrecca, oratori socialisti, – interessa all’arte e allo sport.
1915, ragazzo, a manifestazioni dell’intervento.
1916 presumendo prossima la mia chiamata mi sono ingaggiato come operaio zona di guerra, per vedere come era lassù.
1917, andato in fanteria prigioniero di guerra, non ho mai fatto niente di eroico.
La guerra, ella sa, è anche terribile, però, comandato, anche a costo di morirne di paura avrei obbedito.
Congedato nel 1920 continuando col mio mestiere, la domenica e altro tempo libero mi son posto in campagna a dipingere, come in da ragazzo avevo pensato, visto che codesta attività era mia propria, sono ancora lì e le difficoltà sono tutt’altro che scemate.
Nel 1925, morta mia madre, mi sono ammogliato, una cara figliola ignorante, ma non tanto, che non mette il becco nelle cose dell’arte; da quest’anno al 1927 la famiglia, morto il babbo, ridottosi bidello delle scuole comunali con altre disgrazie è andata distrutta. Ammogliato, traevo mezzo per vivere, oggi ho tre figli, esercitando per mio conto e da solo il mestiere, restaurando mobigilo antico. Da anni debbo subire periodi di lunga disoccupazione e, se non avessi da parte qualche centinaia di lire chissà cosa sarebbe di me; per la pittura quasi niente ne ho mai ricavato, né me ne curo.
(Lettera inviata a Mino Maccari nel 1931 dal pittore Alberto Vitali)

Alberto Vitali – Paesaggio (particolare), Collezione permanente della Provincia di Bergamo

Autodidatta di umili origini, uomo di grande cultura, amante della solitudine e del riserbo, attento ai valori artistici ma anche umani, uomo onesto “e sempre costretto a fare i conti con una nera miseria e con la mancanza di vero “successo”, nonostante i numerosi e prestigiosi riconoscimenti critici” (l’artista “ha sempre seguito con la più strenua intransigenza il suo ideale d’arte, nel rifiuto più totale per ogni compromesso, “dilettantismo” e interesse personale”), la figura di Alberto Vitali, uno dei nomi più significativi del Novecento, è stata a torto sottovalutata anche a causa del suo esilio volontario, perchè Bergamo fu la città dove scelse di restare.

Un ricordo di Neno Vitali, figlio di Alberto, sull’uscio del suo atelier nella Corsarola di Bergamo Alta

[…] passo buona parte dei miei giorni in campagna, una frazione del comune di Bergamo ad un’ora di cammino dalla città e, quando vi sono, se non fossero di mezzo i guai della pittura, tra quella gente che parrà al primo capitato grossolana e volgare, a me che da tanti anni la frequento appare, a tratti, di remota verginità e, talvolta, mi sono concessi attimi di felicità. Purtroppo il senso autocritico addirittura inumano non mi ha concesso, dopo tanti anni di studio, che fugaci o meglio nulle soddisfazioni personali. Mi considero come pittore, quasi mancato anche se generalmente vengo rimbrottato di eccesso di umiltà, infallantemente mi propongo compiti superiori se non erro alle mie forze. Un mio orgoglio, giacché non ne sono del tutto esente, è l’amore all’arte nel quale non mi ritengo secondo a nessuno. […] Non mi sono mai dilettato di pittura, né‚ preso le cose alla leggera e, campassi cento anni, mediocre ma insoddisfatto. Isolato come sono tendo alla pensosità e alla solitudine”.
(Lettera inviata a Mino Maccari nel 1931 dal pittore Alberto Vitali).

Una delle celebri “mascherate” di Alberto Vitali, ispirate alla Commedia dell’Arte

Profondamente radicato nell’ambiente culturale bergamasco (in stretto contatto con Gianandrea Gavazzeni, Bartolomeo Calzaferri, Luigi Agliardi o il fotografo Mario Finazzi..) e nelle atmosfere della sua Bergamo – emblematiche del suo intimo rapporto con la città -, in un ambiente certamente sfavorevole Vitali intraprende una considerevole ricerca artistica, consapevole del proprio valore quanto del proprio isolamento culturale, ottenendo più volte riconoscimenti artistici a livello nazionale (non è affatto sufficiente citare per tutti il Premio Bergamo, la prestigiosa manifestazione, definita da G.C. Argan un premio “della buona pittura”) ed internazionale, come attestano le diverse partecipazioni alle Biennali internazionali d’arte a Venezia.
Mantenendo un colloquio proficuo con i maggiori protagonisti del Novecento (Carrà, l’amico Morandi..) Alberto Vitali s’inserisce quindi a pieno titolo nel novero dei maestri della pittura italiana del Novecento, non solo nei rimandi a Cezanne, Carrà, Rosai ed altri (attraverso cui Vitali esprime l’amore per la realtà e la plasticità delle forme) esprimendosi tuttavia mediante una “sensibilità personalissima, cui si aggiunge una dimensione materica del quadro e dei bellissimi colori che rimandano alla formazione artigiana dello stesso Vitali, già intagliatore di mobili dopo le scuole elementari e poi corniciaio e restauratore di quadri”.

Nell’opera d’arte, sia essa espressa sulla tela o su foglio d’incisione, egli dà forma di immagine con una naturalezza quasi commovente.

Alberto Vitali – Veduta di Bergamo – 1944

Mirando Haz, che conobbe a fondo l’artista, nel catalogo in mostra descrive così il suo studio, aiutando a comprendere la ricchezza del mondo interiore del Maestro: “Lo studio di Alberto Vitali era un ambiente carico di poesia, di mistero, di solitudine. Gli arredi modesti e ricoperti di un sottile strato di polvere, i quadri rivolti verso il muro, venivano scostati soltanto per essere mostrati a visitatori privilegiati: il banco da falegname, sua matrice artigiana, troneggiava nella stanza, con un carico di bottiglie, bottigliette e vasetti, colmi di vernici dalla ricetta personale, elaborata e segreta. Antiche cornici si ammucchiavano, negli angoli bui e, al centro, un armadio massiccio chiudeva i tesori più intimi dell’artista”.

NEL PALAZZO DELLA RAGIONE
Alberto Vitali e Bergamo. Una storia d’arte e di nascosta bellezza

Proprio nella tela Mascherata in piazza Mercato del fieno del 1937, usata a icona della mostra monografica, “si scorge la maturità pittorica di Vitali che con poesia rilegge la cultura bergamasca ritraendo, in una sospesa e vuota Città Alta, gente in maschera, eco iconografico della tradizione degli Arlecchini e della commedia dell’arte” (M. Cristina Rodeschini)

Al Palazzo della Ragione, le 80 opere esposte furono come detto relative al periodo compreso tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del Novecento, periodo in cui il Maestro decise di rallentare i ritmi di una produzione capace di armonizzare nel segno di un naturalismo poetico esteriorità ed interiorità: quasi una risposta concreta ad un mondo artistico che faticava sempre più ad accettare, tanto era schiacciato da logiche commerciali, poco avvezze a premiare il talento.

Il percorso espositivo, articolato per temi, fu suddiviso in sei sezioni dedicate ai generi prediletti dal pittore: i Paesaggi, le Vedute di Bergamo, le Nature morte, le Mascherate, gli Interni con figure, i Ritratti e gli Autoritratti, dal cui dialogo pittorico è emersa la profonda cultura visiva e letteraria di Vitali, arricchita dalle relazioni personali di alto profilo intrecciate con alcuni dei protagonisti dell’arte italiana del Novecento, per ricordare i quali il percorso espositivo ha accolto dipinti di Carlo Carrà, Mario Sironi, Arturo Tosi, Ottone Rosai, Giorgio Morandi (di cui sono esposte due nature morte); una preziosa opera di James Ensor segnalava le affinità elettive di Vitali.

Alberto Vitali – Autoritratto. Nella Sala delle Capriate del Palazzo della Ragione, la successione degli Autoritratti di Alberto Vitali, sembra quasi creare un filo invisibile tra lo spettatore e l’artista

 

Alberto Vitali – Autoritratto – 1964. “Pittore onesto” come Emilio Vedova scrisse sulla dedica di un ritratto dedicato al nostro nel ’46, non solo il concittadino “massimo interprete delle istanze novecentiste” (definizione di Francesco Rossi), ma anche un poeta, del segno e del colore, capace di leggere la sua città come la sua anima” (Marco Roncalli – Corriere della Sera)

Le Nature morte di Vitali sono state messe in relazione con quelle di Morandi.

Alberto Vitali – Natura morta – 1926

 

Alberto Vitali – Natura morta – 1949

I Paesaggi e le Vedute di Bergamo sono stati accostati a quelli di Carlo Carrà, Mario Sironi, Arturo Tosi e Ottone Rosai, con cui il pittore è stato accomunato anche nella sezione dedicata agli Interni.

Alberto Vitali – Estate – 1942

 

Alberto Vitali – Vecchia Bergamo – 1942.

 

Alberto Vitali – Interno con figure – 1937

Per le Mascherate si sono invece rintracciate affinità elettive con il pittore James Ensor.

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia – 1948

 

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia – 1948

 

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia – 1950

 

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia – 1950

 

NELLE SALE DELL’ATENEO
L’OPERA INCISA

Alberto Vitali – Autoritratto – 1944

L’ Ex Ateneo di Scienze, Lettere e Arti  ha invece ospitato una selezione di 60 incisioni dell’artista, arte cui egli si è dedicato con continuità insieme alla pittura (2).

Considerazioni sulle tecniche incisorie
Caro signor Maccari, la ringrazio del tono confidenziale, di cui mi tengo onorato, della premura che si è preso nel rispondere alla mia richiesta in relazione al rinnovo dell’abbonamento al Selvaggio e della lettera che mi ha diretto allorché ricevette le mie incisioni. Se invece del paio di incisioni che avevo offerto, in cambio dell’abbonamento ne ho inviate di più, ciò è perchè sarei stato indeciso nella scelta non per fare del preziosismo. I legni sono eseguiti col procedimento che ella dice, siccome volevo provare un’incisione diversa dalla xilografa e non avendo mezzi per procurarmi lastre metalliche, cosi ho preso delle tavolette di legno duro, giacché questo e ll mio elemento, lucidate con un ferro ad angolo e poi, per la stampa, ho provveduto con gli scarsi mezzi del mio mestiere. ln quel tempo, visitando la mostra di Soffici da Bardi, da questi vennero mostrate a Soffici mie stampe, che ebbe a lodare fin troppo, rammaricandomi, invece, io stesso, dei trucco di aver proceduto ad un effetto spurio di puntasecca e lui, Soffici, ad obiettarmi che non sono i mezzi che contano. In seguito, abbandonato il legno, mi sono provveduto in un negozio di ferrareccia di lastre di zinco che, a modo, riduco, di volta in volta, di superficie, incido poi a puntasecca e ad acquaforte e stampo, a fatica, con un torchietto primordiale che mi sono costruito. Alcuni esemplari di queste le ho inviato, e, a me, parevano migliori dei legni. Non vorrei che ella, visto arrivare un mucchio di roba mia; per questo mi chieda se avessi piacere che talune delle mie cose vengano riprodotte nel suo giornale. Ella può far ciò, ma se torna ad onore del Selvaggio non per fare piacere a me.
(Lettera inviata a Mino Maccari nel 1931 dal pittore Alberto Vitali).

L’esposizione comprendeva soggetti e tematiche cari all’artista, spesso presenti anche nei suoi dipinti: le Vedute urbane, i Paesaggi, la realtà degli umili, la Natura morta, gli Adolescenti, gli Autoritratti, le Mascherate – secondo un immaginario che ha tratto spunto dalla vita quotidiana, interpretata da Vitali con una personale sensibilità.

Alberto Vitali – Veduta di Bergamo (da Valverde) – 1949

Un excursus ventennale (dal 1929, anno della prima incisione, al 1951) che include opere che mostrano il caleidoscopio dei sentimenti umani – donne impegnate nelle mansioni domestiche o colte nella tenerezza del ruolo materno -, i luoghi storici della città di Bergamo (le case, le torri, le cupole delle chiese; il paesaggio urbano che Vitali ha abitato divenendo la sua principale fonte d’ispirazione) e Piazza Vecchia, luogo d’incontro e palcoscenico di animati cortei mascherati.

“Rispetto alla pittura, l’acquaforte appare maggiormente intima, più pronta al racconto e alla divagazione. Cose che in pittura sembrerebbero inspiegabili sono invece a loro agio nel campo della grafica. Inoltre l’incisione sa di appartenere a una tradizione specifica, che è quella della carta e deIl’inchiostro e dunque dell’illustrazione, nella quale letteratura e immagine si fondono.
Guardando l’opera di Vitali, può essere interessante il confronto tra due composizioni sorelle, una in pittura e l’altra in acquaforte. Nel grande dipinto intitolato Sabato in trattoria, architrave e colonna ritmano la composizione e assegnano i luoghi del colore, meravigliosamente equilibrato.
Nell’incisione, tutto diventa meno astratto, i personaggi si fanno più veri e più vera e logica è ora l’architettura, dalla colonna alle volticine, persino nella sedia in primo piano, che ora e descritta nella sua struttura elementare.

Alberto Vitali – Sabato in trattoria

l personaggi, che nel dipinto hanno un loro quattrocentesco stupore che li rende immobili, nella versione cartacea sono caratteri di un teatro in azione. Tutto ciò è ottenuto con un tratteggio ora più denso, ora più rado, graffito sulla lastra, evidentemente, con andamento sinistrorso, che però nella stampa prende la direzione opposta, poiché una stampa, a differenza di un disegno, non è ciò che traccia la mano con azione immediata, ma l’impronta di quanto con sapienza la mano ha già segnato.
Si veda come il tratteggio, in questa stampa di Vitali, accarezza la colonna e le dà peso e volume (Carlo Bertelli da “Vitali grafico”, manifesto esposto nella sala dell’Ateneo).

Da un disegno di Alberto Vitali

Gran parte del primo periodo di Vitali, dal 1929 al 1934, è occupato dai vicoli di Città Alta, le scene di lavoro, qualche ritratto e nature morte.

Alberto Vitali – Mietitura – 1931

“Quando riprende le incisioni, nel 1941, i temi si spostano lievemente: ritratti dei familiari o autoritratti, paesaggi di campagna, le bellissime meditazioni sui fiori.
Anche il “segno” appare diverso, più rotto, impetuoso e accentuato dalla morsura che evidenzia i neri. Le lastre sono state tutte distrutte: Vitali le riutilizzava “raschiandole”, non potendo permettersi di acquistarle ogni volta, e le poche restanti furono da lui stesso gettate nel punto più profondo del lago d’Iseo.

Alberto Vitali – Passeggiata sulle mura

Se aggiungiamo poi che le tirature sono limitate a sei, sette esemplari, a volte meno (solo nove incisioni sono tirate a poco più di dieci copie e una sola a quindici) ci rendiamo conto di quanto l’aspetto economico dell’arte fosse alieno a Vitali, che pure raggiunse livelli altissimi, tanto da poter contare su estimatori del calibro di Bartolini e Morandi, per citarne un paio”.

Vitali preannuncia le sue “Mascherate” (riproposte anche nell’opera pittorica) con la fantastica incisione di Arlecchino nella Piazza Vecchia del tutto deserta del 1931, tema che riprenderà dal 1937 al 1956.

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia

 

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia. Nel tema del Carnevale e delle maschere “si respira una sorta di inedito spaesamento, senza gente festante, colle maschere sole quasi estraniate, mondo fantastico e un po’ dolente che ripopola la Città Alta in assenza dei suoi consueti e chiassosi abitatori”

 

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia

“La Piazza Vecchia si trasforma in teatro per la mai dimenticata commedia dell’arte, cui proprio Bergamo fornì maschere intramontabili. Vitali ritorna più volte su questo tema che tanto ama, cui forse confida gli sfoghi della sua vena polemica, ma in cui vede soprattutto la possibilità di saggiare le variazioni sullo stesso motivo tematico. Dalla lastra alla stampa, variando le carte e gli inchiostri, per poi tornare a dipingere e saggiare cosa vuol dire il colore rispetto al chiaroscuro, cosa cambia con la posizione della piazza sullo sfondo, altrimenti con le maschere in primo piano, infine con le maschere nel bel mezzo del palcoscenico. La stampa concede vari stadi, la pittura richiede che ogni volta si rifaccia tutto da capo.
Chi avranno voluto deridere, quelle maschere ora allegre, ora litigiose, che agitano bandiere in una notte di luna o si sfidano a duello?
Ciò che è certo, come attestano le testimonianze di Mirando Haz, e che Vitali non tratteneva la lingua e anche le sue maschere appaiono assai loquaci. Un’altra cosa è certa. Ed e che, scorrendo le date, Vitali non segue supinamente le mode, ma si guarda intorno e verifica, con ammirevole indipendenza. È l’indipendenza che dà freschezza alle sue opere”.
Carlo Bertelli

Alberto Vitali – Mascherata in Piazza Vecchia

 

BIOGRAFIA di Alberto Vitali (Bergamo 1898 – 1974)

Figlio di Pasquale Vitali ed Elisa Mazzoleni, nasce a Bergamo il 21 aprile 1898 da una famiglia di umili origini. Dopo l’istruzione primaria, inizia a lavorare (dal 1910) come apprendista intagliatore, corniciaio, doratore, restauratore in un mobilificio e contemporaneamente frequenta a Bergamo i corsi serali della Scuola d’arte e di disegno applicato presso il Seminarino. La sua formazione artistica avviene da autodidatta.
Nel 1916 si arruola come volontario, partecipando alla prima guerra mondiale; viene fatto prigioniero in Germania e congedato quattro anni dopo. Rientrato a Bergamo riprende negli anni Venti il suo lavoro di artigiano del legno ed inizia a dipingere e ad arricchire la sua cultura con intense letture di classici: da Thomas Mann a Kafka, da Proust a Puskin.
La morte della madre (1925) e del padre (1926) lo costringono a intensificare l’attività come restauratore, doratore e intagliatore. Sono anni di miseria poco redditizi ma continua a dipingere con passione pur non ricavando benefici economici.
Il 1927 e 1928 sono gli anni dell’esordio pubblico. Espone per la prima volta l suoi dipinti a Milano nel 1927 all’Esposizione Primaverile della Società Belle Arti.
Il suo legame con il capoluogo lombardo si fa stretto grazie all’amicizia con il gallerista Pier Maria Bardi che gli organizza, nel 1928, la prima mostra personale.
Accostatosi alla corrente pittorica del “NOVECENTO”, s’impone per l’originalità e il fascino delle sue mascherate ambientate nella Piazza Vecchia di Bergamo.
Ancora nel 1928 Vitali partecipa con due opere alla XVI Biennale Internazionale d’Arte di Venezia (manifestazione alla quale esporrà nelle edizioni del 1930, 1934, 1936, 1940, 1948, 1950) e alla I Mostra del Sindacato Regionale Fascista di Belle Arti, in occasione della quale il dipinto Siccità verrà premiato e acquistato dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano.
Nel 1929 all’attività di pittore comincia ad affiancare quella di INCISORE. Attratto
soprattutto dalle tecniche della punta secca e dell’acquaforte, si dedica all’incisione negli anni compresi fra il 1929 e il 1934 e successivamente fra il 1941 e il 1951.
Con due legni incisi e un dipinto partecipa nei 1929 alla seconda mostra promossa dal Novecento italiano, promossa da Margherita Sarfatti.
Alla Biennale di Brera dello stesso anno viene premiato con medaglia d’oro dal Ministero per l’Educazione Nazionale.
Nel corso degli anni Trenta frequenta Ardengo Soffici e Mino Maccari, fondatore con Leo Longanesi del periodico satirico ‘Il Selvaggio’.
Nel 1931 partecipa allaI Quadriennale di Roma, manifestazione alla quale esporrà in tutte le edizioni sino all’inizio degli anni Cinquanta (1951).
Nel 1932 il dipinto Il mendicante, alla III Mostra d’arte del sindacato, è insignito del Premio Cassani. Nella medesima occasione riceve il Premio Stanga per l’acquaforte.
Alla VII Mostra del Sindacato Interprovinciale Fascista presso la Permanente di Milano (1936) viene premiato con la medaglia d’oro dal Ministero per l’Educazione Nazionale per il dipinto Il podere.
Dal 1935 al 1937 lavora come restauratore presso lo studio di Mauro Pellicioli (a tal proposito si ricorda che restaurò gli affreschi della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Gravedona e che in una lettera scritta da Morandi a un collezionista, egli ammette che solo Vitali sarebbe stato capace di intervenire su una sua opera, essendo anche restauratore»).
Nel 1939 è fra i partecipanti al l PREMIO BERGAMO, in occasione del quale ottiene un riconoscimento per il dipinto Paesaggio bergamasco.
La partecipazione alla manifestazione Bergamasca, il più interessante concorso nazionale di pittura del periodo, sostenuto da Giuseppe Bottai (Ministro per l’Educazione Nazionale) si riscontra anche nelle tre edizioni successive.
Sempre nel 1939 vince a Milano il Premio Principe Umberto e nello stesso anno viene insignito del primo e secondo premio al Concorso per l’interpretazione di Bergamo antica.
Nel 1940 organizza con Attilio Nani la sua prima mostra personale a Bergamo e l’anno dopo una personale a Milano alla galleria Mascioni.
Lascia definitivamente il lavoro di artigiano restauratore per dedicarsi solo alla pittura e incisione e nel 1943 è di nuovo a Milano con una personale alla Galleria del Milione.
Negli anni Quaranta Vitali si produce in un’intensa attività artistica con la partecipazione a mostre collettive, a premi – nel 1950 ottiene il Premio Roma. La Galleria Gian Ferrari di Milano gli dedica nel 1946 una personale.
Nel 1946 vince il premio Tre Stelle grazie al quale soggiorna a Burano presso lo studio di Romano Barbaro.
Nel 1948 tenne una memorabile personale alla Galleria della Rotonda di Bergamo.
Nel 1950 partecipa alla Biennale di Venezia e il dipinto Paesaggio viene acquistato dal Comune di Milano per la Galleria d’Arte Moderna.
Nel 1951, e l’anno successivo, è chiamato a far parte della Commissione d’esami dell’Accademia Carrara.
L’ultimo periodo della sua carriera è segnato da un lento e progressivo abbandono della pittura e da un allontanamento dal mondo delle grandi mostre.
Nel 1951 si conclude la sua attività di incisore. Nel 1960 abbandona anche la tecnica della pittura a olio per prediligere l’acquarello.

Alberto Vitali – Acquerelli in Engadina, gli acquerelli nati fra il 1968 e il 1971, durante alcuni soggiorni in Svizzera, dove l’artista si reca spintovi dall’amico Arturo Brivec, tra Poschiavo, Samaden, Celerina, St. Moritz, Sils, Soglio…, luoghi immersi in atmosfere evocanti Rilke o Giacometti padre e figlio o Segantini

Negli anni successivi il soggetto paesaggistico diventa prevalente nella sua produzione.
Le opere di questa fase sono realizzate soprattutto durante i soggiorni sul lago d’Iseo e in Engadina dove l’artista trascorre lunghi periodi fra la fine degli anni Settanta e il 1971.
Nel 1973, con la sua partecipazione, l’amico e allievo Amedeo Pieragostini (Mirando Haz) cura la pubblicazione del catalogo della sua opera incisa nonché la pubblicazione del bel volume relativo, Le incisioni di Alberto Vitali, Bolis, 1973, colle riproduzioni delle 124 incisioni realizzate tra il 1929 e il 1951.
Spentosi il 10 aprile 1974, nel 1975 il Comune di Bergamo dedica alla figura del suo cittadino una mostra postuma nel Palazzo della Ragione nel cui catalogo appare, insieme all’introduzione di Raffaele De Grada (Alberto Vitali, Bolis, 1975), uno scritto rivelatore di Amedeo Pieragostini (Mirando Haz) che permette di riscoprire l’Alberto Vitali pittore, riportando alla luce quadri come Siccità, Paesaggio bergamasco, Il mendicante, Interno con figure.
In occasione della retrospettiva del 2014/’15, è stato invece pubblicato il nuovo catalogo dedicato all’artista (3).

L’Ateneo

 

La targa apposta dall’amministrazione civica alla parete esterna del Duomo, nella via che oggi porta il nome di Alberto Vitali, non lontano dal suo studio-soffitta in piazza Reginaldo Giuliani

 

La targa affissa sulla parete dell’edificio che ha ospitato lo studio di Alberto Vitali in piazza Reginaldo Giuliani, lo ricorda quale “mirabile interprete dell’anima bergamasca nella inquietante suggestione dei luoghi e delle maschere” nonché “maestro illustre del Novecento italiano”

 

Note

(1) Mirando Haz, nel racconto della genesi delle opere di Vitali, parla dell’ospitalità di un amico di Vitali che gli fece conoscere il paesaggio svizzero tramite una serie di soggiorni a Soglio, Sils, Poschiavo, Samaden e altre località. Distillati di colore puro, cielo, montagne, laghi, gli acquerelli svizzeri testimoniano il ritorno dell’amore mai sopito per l’arte e per la natura, che si risvegliava prepotentemente al di fuori di una “logica” in cui l’artista non si riconosceva più. In uno degli ultimi acquerelli, del 1971, ricompare infine Arlecchino, che gioca con dei bimbi indicando uno stormo di uccelli nel cielo. Di lì a poco sopraggiungerà la malattia e, nel 1974, la morte.
(2) A quarant’anni dalla pubblicazione de Le incisioni di Alberto Vitali, a cura di Amedeo Pieragostini (Edizioni Bolis, Bergamo 1973), la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo presenta il catalogo Alberto Vitali – L’opera incisa (edito GAMeC Books), che documenta la serie completa degli originalidel maestro e include testi di Carlo Bertelli, Amedeo Pieragostini, M. Cristina Rodeschini.
(3) La bibliografia su Vitali potrebbe tranquillamente fermarsi qui, almeno fino ad oggi. Ci sono però altri due libri di Fernando Rea, relativi ad esposizioni in gallerie private: il primo (Galleria S. Marco, 1984) è il catalogo dell’esposizione bergamasca che si tenne in parallelo a quella organizzata a Milano al Palazzo della Permanente nel 1984, decennale della morte di Vitali. Premesso che chiunque capirebbe l’inopportunità di organizzare due mostre sullo stesso artista in contemporanea e a 50 km di distanza (il fatto che la mostra sia in una galleria privata genera sospetti di natura “commerciale”) e che in alcuni passaggi del libro si leggono in controluce piccole rivalità prive di senso, oggi e forse anche allora, questo libro può avere un suo interesse per chi voglia “arricchire” il catalogo iconografico dei quadri di Vitali (ci sono riproduzioni a colori diverse da quelle presenti in De Grada) e perché aggiunge comunque alcune informazioni biografiche e bibliografiche; le stesse motivazioni si possono esporre per l’ultimo libro (Galleria d’arte Bergamo, 1989).

Alberto Vitali – Natale 1951. Un altr’anno è caduto dietro le nostre spalle. E a noi fresca sovviene nell’aria di questo Natale, con il chiaro delle nubi, una luce di favola antica, che rinnova la fede dei mattini che ci vengono incontro

Il ciclo delle Storie di Sant’Alessandro dipinte da Enea Salmeggia, guida alla lettura

Il ciclo delle Storie di Sant’Alessandro è stato radunato per la prima volta – dopo la loro dispersione, avvenuta nella seconda metà del Settecento – in occasione dell’esposizione tenutasi a Bergamo dal 26 agosto al 26 ottobre 2010 nella Cattedrale di Sant’Alessandro.
Si tratta di un apparato effimero realizzato in prevalenza da Enea Salmeggia detto Il Talpino (artista nato presumibilmente a Bergamo intorno al 1570 e documentato dal 1590 circa fino alla morte nel 1626), uno dei principali pittori attivi a Bergamo, a cavallo tra Cinque e Seicento.

Assieme alle undici tele di soggetto narrativo, in occasione della mostra sono stati raccolti un disegno preparatorio (relativo a un episodio forse mai realizzato), mentre l’ultima storia della serie, raffigurante la Traslazione del corpo di Alessandro, è da attribuire a Fabio Ronzelli, un pittore minore (contemporaneo di Salmeggia) a cui spetta anche il Sant’Alessandro a cavallo, esposto al centro della narrazione espositiva.

Non si sa come questo apparato effimero fosse montato anticamente, tuttavia, secondo il parere dei curatori della mostra la coincidenza tra la misura della larghezza delle tele di impianto narrativo e quella celebrativa del Sant’Alessandro a cavallo, impone una stretta relazione tra loro.

L’ipotesi di montaggio si è basata anche sul confronto con una incisione stampata a Roma nel 1618 e firmata da Jhoann Friedrich Greuter (vedi figura).
La figura equestre di Sant’Alessandro, appoggiata su un alto piedistallo, è circondata da 23 episodi narrativi disposti secondo un ordine di lettura che procede da sinistra a destra, dall’alto al basso.

Johann Friedrich Greuter, Sant’Alessandro a cavallo contornato da 23 storiette. Incisione datata 1618, Bergamo, Museo Adriano Bernareggi

Il ciclo delle Storie di Sant’Alessandro dipinte da Enea Salmeggia, fu originariamente concepito come un unico apparato destinato a solennizzare la celebrazione del Patrono nella chiesa diocesana dedicata al martire.

Riguardo al secentesco apparato effimero, cioè non permanente, di opere d’arte a fine liturgico, il Vescovo Francesco Beschi ha affermato che la sua ricomposizione “restituisce in qualche modo un’impressione degli antichi apparati effimeri che corredavano spesso le liturgie della nostra ricca tradizione di fede. In questo senso, questa mostra che si svolge attraverso una installazione posta dentro la Cattedrale, richiama bene il contesto liturgico e teologico entro il quale molta dell’arte che ammiriamo ha trovato la propria origine”.

Le 11 tele esposte a in Cattedrale hanno quindi seguito  l’andamento narrativo della vita del Santo, secondo la codificazione letteraria stabilita all’inizio del Seicento.

IL CONTESTO

Per capire meglio il contesto in cui si è realizzata la commissione a Enea Salmeggia del ciclo alessandrino, bisogna risalire almeno fino al 1561, anno in cui fu rasa al suolo la basilica di Sant’Alessandro.
La distruzione dell’edificio era stata ordinata dal governo veneto (assieme all’abbattimento del convento domenicano di Santo Stefano e della chiesa di San Lorenzo) poiché esso sorgeva sul tracciato in cui dovevano essere erette le nuove mura di protezione della città.
Nel mese di agosto del 1561 erano iniziati i preparativi per lo sgombero e l’abbattimento della basilica di Sant’Alessandro. Il 13 agosto di quell’anno le reliquie di Sant’Alessandro (assieme a quelle di altri “Corpi Santi”) erano state traslate nella cattedrale di San Vincenzo (l’attuale cattedrale di Sant’Alessandro) con grande concorso di popolo.
Da quel momento il capitolo di Sant’Alessandro (composto dal collegio dei canonici istituito presso la distrutta chiesa di Sant’Alessandro) si era trovato a convivere con quello di San Vincenzo.
La coabitazione tra i due capitoli era risultata difficile e tormentata, almeno fino al 1614, quando si stabiliva un accordo tramite gli Atti dell’Unione e Concordia dei Capitoli e Cattedrali di S. Vincenzo e S. Alessandro.
La concordia tra i due capitoli si ruppe già nel 1615. Le tensioni erano legate alla nuova fabbrica del Duomo e alla sua intitolazione (l’accordo provvisorio del 1614 prevedeva che la nuova Cattedrale sarebbe stata dedicata al solo Sant’Alessandro e che le due congregazioni si sarebbero fuse nel capitolo di Sant’Alessandro Maggiore).

In questo clima di tensione, avvelenato dall’insinuazione che non sarebbero più esistiti i resti mortali del Santo si decise (nel 1617) di condurre una ricognizione delle reliquie.
Tra i pochi testimoni oculari di questa verifica figurava il frate cappuccino Celestino Colleoni, autore di una fortunata Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano (1617), dove è contenuta una rilettura moderna dei fatti della vita di Sant’Alessandro.

COMMITTENTE E PITTORE

E’ forte il sospetto che Celestino Colleoni abbia collaborato all’ideazione iconografica del ciclo alessandrino, dipinto da Enea Salmeggia proprio in questo giro d’anni (tra il 1614 e il 1617).
Nella sua Historia Quadripartita infatti, è riportata la narrazione della vita di Sant’Alessandro, che è risultata combaciare perfettamente al ciclo delle Storie di Sant’Alessandro del Salmeggia.

Il ciclo era nato per volontà di un membro del capitolo di Sant’Alessandro, il canonico Lattanzio Bonghi. Nel 1623, poco prima di morire il Bonghi metteva a disposizione del capitolo dodici dipinti di “Eneae Salmetie appellati Il Talpino” raffiguranti “vitam, actiones, martirium et miracula gloriosissimi Martiris Alexandri Patriae nostrae patroni”. La proprietà della serie rimaneva degli eredi Bonghi, tuttavia le opere sarebbero state liberamente messe a disposizione per le solennità e le feste dedicate a Sant’Alessandro. Questo fatto originario spiega la dispersione del ciclo, avvenuta almeno a partire dal 1768, quando è documentato l’acquisto del collezionista bergamasco Giacomo Carrara di sue storie alessandrine possedute da Enrico Bonghi (un discendente di Lattanzio).

La scelta del pittore di Enea Salmeggia da parte del canonico Bonghi non fu casuale o fortuita, ma consapevole. Nello stesso periodo in cui realizzava il ciclo con le storie di Sant’Alessandro, il Salmeggia era già molto stimato per una sua particolare dote, quella di muovere a “mirar devotamente ciascuna sua imagine fino i nemici della stessa devotione” (lode contenuta in una lettera inviata dall’erudito Girolamo Borsieri al collezionista Scipione Toso).
Questa speciale inclinazione avrà certamente riscontrato il consenso del committente, oltre ad essere ritenuta indispensabile per un complesso ciclo narrativo legato alle gesta di un Santo dalle origini.

Le esperienze milanesi di Salmeggia (autore di opere destinate al Duomo di Milano, a Santa Maria della Neve, a Santa Maria della Passione, ecc.) devono averlo favorito nel contatto con le idee riformatrici di Federico Borromeo.
I gusti dell’arcivescovo di Milano (che proprio nel 1618 fondava con la sua collezione il Museo Ambrosiano) erano chiari ed espliciti nel recupero di modelli figurativi antichi, piegati a finalità educative e devozionali.
Non è un caso che il Borromeo dichiarasse una particolare passione per la pittura di Bernardino Luini, un pittore lombardo vissuto oltre un secolo prima di lui.
L’orientamento classicista di Luini è una delle componenti dello stile di Salmeggia, abile interprete di una linea espressiva colta e raffinata, impegnata in un’elaborazione retrospettiva di modelli di primo Cinquecento (conosciuti dal vero o mediati dalle stampe : da Leonardo a Raffaello, da Luini a Lorenzo Lotto).
La sua cultura figurativa lo metteva nelle condizioni di allestire un episodio narrativo premendo sul pedale della verosimiglianza storica e su quello della finalità devota.

Ogni episodio è articolato in una narrazione chiara e serrata, resa intelligibile da una gestualità teatrale e da un’esplicita espressione degli affetti.
Spettano a Salmeggia solo i primi dieci dipinti del ciclo (non a caso sono firmati il primo e il decimo della serie), mentre l’undicesimo e il tredicesimo qui citati, sono da riferire a Fabio Ronzelli.

Un buon viatico alla comprensione delle opere di Salmeggia, secondo la sensibilità dell’uomo del Seicento, proviene dalla lettura di un brano dello stesso Federico Borromeo tratto dal De Pictura sacra (1624) : “I colori sono simili a parole che, percepite con gli occhi, entrano nell’anima non diversamente da come fa la voce attraverso le orecchie (…). E proprio come è essenziale per l’oratore che le idee siano espresse con passione ed energia, in modo da muovere gli animi, così un dipinto risulterà una grande opera se colori e linee sono usati in maniera tale da suscitare nell’anima sentimenti pii, e infondere paura e tristezza e qualunque altra emozione opportuna. Volendo poi ampliare l’analogia, si può aggiungere che la sapienza e l’impegno con cui i pittori mirano a raggiungere il vertice nella loro arte, in certo modo assomiglia alla dottrina degli oratori, che per mezzo della voce, del gesto, dell’azione e dei movimenti del corpo ornano ogni discorso, e cercano di influenzare i sentimenti degli ascoltatori”.

LE STORIE DI SANT’ALESSANDRO DI ENEA SALMEGGIA
IL CICLO RICOMPOSTO

1. Sant’Alessandro salvato dal massacro dei tebei
2. Sant’Alessandro in carcere
3. Sant’Alessandro resuscita un morto
4. Sant’Alessandro rovescia le tavole degli idolatri
5. Sant’Alessandro condannato a morte da Massimiano
6. Materno, arcivescovo di Milano, invia Sant’Alessandro a Bergamo
7. Predica di Sant’Alessandro
8. Martirio di Sant’Alessandro
9. Miracolo dei fiori nati dal sangue di Sant’Alessandro
10. Santa Grata mostra a suo padre Lupo i fiori nati dal sangue di Sant’Alessandro
11. Traslazione del corpo di Sant’Alessandro
12. Federico Barbarossa tenta di violare le reliquie di Sant’Alessandro
13. Sant’Alessandro a cavallo protettore di Bergamo

Guida alla lettura del catalogo

Tutte le citazioni relative alla storia di Sant’Alessandro – poste sotto le immagini – sono tratte da Celestino Colleoni, Historia quadripartita di Bergamo et suo territorio, nato gentile e rinato christiano, II, Bergamo 1617; ad esclusione di un unico episodio (il numero 9), meglio illustrato da M. Muzio, Sacra Historia di Bergamo, Bergamo, 1621,p. 76.
Qui di seguito sono precisati i numeri di pagina in relazione all’episodio narrato nell’Historia del Colleoni : 1: p. 112; 2: p. 116; 3: p. 118; 4: p. 126; 5: p. 126; 6: p. 130; 7: pp. 132-133; 8: pp. 140-141; 10: p. 175, 178; 11: p. 152; 12: p. 143; 13: pp. 150-151.

1- Sant’Alessandro salvato dal massacro dei tebei

Sant’Alessandro salvato dal massacro dei tebei – tela 103×148 cm – firmato AENEAS SALMETIA – Bergamo, collezione privata

Da questa così crudele strage alcuni da Dio inspiratisi sottrassero, e fuggendo si salvarono, non miga per fuggire il martirio, che sopra ogni cosa bramavano, ma per maggiormente ampliare la Fede Christiana […]  e per cooperare alla divina providenza, la quale con tal mezzo disponeva di favorire, e arricchire alquante Città d’Italia, di Patroni; e di difensori. Seppe questo l’Herculeo [Massimiano], onde infuriato mandò publico bando che, ovunque si trovasse alcuno di questi fuggitivi Soldati Thebei, fusse fatto prigione, e isforzaro a sacrificare. Fra questi S. Alessandro Alfiere […] della Legione, e con esso lui Cassio Severino Licinio, e Secondo in Italia ritornati, e giunti apena a Milano, conosciuti furono incontanente in oscuro e fetido carcere rinchiusi (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 112, Bergamo 1617).

Sant’Alessandro è in sella a un cavallo bianco e avanza verso la direzione indicatagli da un angelo. Indossa l’armatura e un drappo rosso : con la mano sinistra regge le briglie del cavallo, con la destra sostiene il vessillo della legione tebea. Il suo sguardo si rivolge all’angelo che con gesto d’intesa gli indica la direzione di fuga. E’ fiancheggiato da due soldati, un fante e un cavaliere; in lontananza altri militari stanno combattendo. In primo piano, su uno sperone di roccia, si legge la firma del pittore “AENEAS SALMETIA”.
La scena narrata si riferisce all’episodio in cui Sant’Alessandro e i suoi compagni (cristiani e disertori), membri come lui della legione tebea, scamparono al massacro ordinato dall’imperatore Massimiano. La drammaticità dell’episodio è intensificata dall’ambiente buio in cui è stato messo in scena, dal movimento delle figure, dai nervi tesi del cavallo pronto alla fuga.

2 – Sant’Alessandro in carcere (Enea Salmeggia)

Sant’Alessandro in carcere – tela 103×148 cm – Enea Salmeggia – Bergamo, collezione privata

Questi uffici di charità, e questi discorsi di pietà reiterati più d’una volta havendo ben osservato Sillano capitan della prigione, e ascoltato attentamente; e considerando appresso l’invitta patientia de’ Santi prigionieri, e l’allegrezza de animi loro, che di fuori anco ne’ volti scoprivano e dimostravano, un giorno trovandosi in Corte, il tutto riferì a Carpoforo e Essanto, suoi famigliari amici, e persone della Corte principali, i quali da Dio inspirati pregarono con molta instanza che alle prigioni senza frammetter tempo li conducesse perchè erano bramosi di con le proprie orecchie udire, e co’ propri occhi vedere cose tanto rare e degne di maraviglia.
Et egli senza replicar altro con loro postosi in via, arrivarono tutti e tre alla prigione, e entrati salutarono i Santi Martiri Alessandro e i compagni. […] Tanto potenti e tanto efficaci ragioni propose loro il facondo Alfiere, che da esse persuasi la Fede Christiana abbracciarono: e fratellatisi insieme, e baciandosi non sapevano quindi partire. […] Salutatisi finalmente e baciatisi di novo uscirono dalla prigione Carpoforo e Essanto, e ritornati in Corte detestarono i falsi Dei, come quelli ch’erano sordi, muti, ne potevano per essere fatti da gli huomini, far bene alcuno ne à se stessi; ne à gli altri (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 116, Bergamo 1617).

All’interno di una stanza carceraria illuminata da luce artificiale si trovano Sant’Alessandro in posizione preminente e i suoi compagni, che emergono dal fondo scuro con le mani bloccate in ceppi e i piedi incatenati.
Dai loro volti traspaiono differenti stati d’animo: un prigioniero affianca Alessandro e si pone in ascolto osservandolo intensamente, altri due instaurano un muto dialogo guardandosi stupiti, affiancati da una figura dormiente.
Il Santo si presenta di profilo, con le catene ai piedi e le mani dietro la schiena; si rivolge a due uomini che stanno di fronte a lui.
Uno di loro si tocca il petto con la mano, segno del coinvolgimento emotivo e della partecipazione alle parole del Santo; l’altro sorregge una fiaccola illuminando parzialmente la scena.
Fuori dalla stanza un uomo regge una lanterna e osserva incuriosito ciò che avviene all’interno del carcere.
L’episodio narrato ha come protagonisti Sillano, custode della prigione, insieme a Carpoforo ed Essanto che, desiderosi di conoscere il Santo, furono condotti al suo cospetto e dopo averne ascoltato le parole si convertirono alla fede cristiana.

3 – Sant’Alessandro resuscita un morto

Sant’Alessandro resuscita un morto – tela 103×148 cm – Enea Salmeggia – Bergamo, collezione privata

Arrivati ad un certo luogo o Borgo della Città non molto distate si fermarono quivi aspettando che si facesse giorno: e la mattina per tempo incamminatisi verso la Città, hebbero incontro gran moltitudine di gente, la quale con gran pompa un morto alla sepoltura accompagnava.
All’hora Alessandro santissimo […] posti gli occhi nel cadavere, fece incontanente posare in terra la bara, e à suoi compagni rivolto disse Fratelli oriamo, e preghiamo il nostro Signore che per sua misericordia, con la sua onnipotente virtù, ritorni in vita questo morto; affinchè risuscitato creda in lui, e nell’avvenire habbia parte con i suoi Fedeli nella vita eterna, e sia cagione di salute à questo popolo.
Per questa essortazione i Santi con fermissima fede prostrandosi in terra adorarono Dio, che dà la vita a i morti […]. Finita questa oratione il morto risuscitò salvo dell’anima e del corpo, e illuminato disse ad alta voce, e con pia intenzione.
Egli è uno vero e solo Dio quel che adorano questi Santi: il quale per le preghiere loro mi hà ritornato in vita e dalle tenebre alla luce, mi hà ridotto, e dalla morte eterna misericordiosamente mi hà campato e liberato (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 118, Bergamo 1617).

Grazie all’aiuto di Essanto, Carpoforo e Fedele, Sant’Alessandro e i suoi compagni evadono dal carcere.
Durante la fuga in direzione di Como incontrano un funerale.
Sant’Alessandro ha appena resuscitato il giovane sdraiato su un cataletto. Il Santo, con il braccio destro levato, indica al ragazzo la pietà divina che lo ha salvato; con la mano sinistra regge un vessillo, al centro del quale spicca un giglio bianco, simbolo della legione tebea.
Il miracolato solleva il busto verso il Santo e apre la mano sinistra in segno di stupore e ringraziamento.
Attorno ai due protagonisti si staglia la folla: a sinistra alcuni compagni di Sant’Alessandro sono inginocchiati in preghiera; a destra il popolo che stava accompagnando il defunto alla sepoltura osserva attonito l’accaduto e dimostra la propria incredulità con braccia aperte e sguardi incuriositi.
La scena si svolge in un ambiente boschivo; in lontananza si intravedono alcune persone e una città, verso la quale Sant’Alessandro e i suoi compagni si stavano incamminando prima di incontrare il corteo funebre.

4 – Sant’Alessandro rovescia le tavole degli idolatri

Sant’Alessandro rovescia le tavole degli idolatri – tela 105×150 cm – Enea Salmeggia – Bergamo, Accademia Carrara

Appresentato che fu il Cavalier di Cristo a Massimiano, questi gli disse sacrifica Alessandro alli dei immortali, se vuoi essere nostro mico, ch’io per nessun’altra cagione t’ho fatto venire qua, se non perchè tu afferisca loro sacrificio.
Et dicendo questo fece segno che fusse portata la mensa del sacrificio: la quale recata, e di tovaglie coperta, dissegli pur l’Herculeo, Vieni avanti hora, e col sacrificare purgati della colpa che ti è stata opposta d’havere dispregiato i nostri Dei: e ciò facendo, otterrai da me ciò che vorrai. […]
Massimiano comandò subito à Sergenti che gli mettessero mano contra sua voglia del sacrificio apparecchiato: e dirimpetto al coraggioso Martire facendo stare alcuni armati per maggiormente atterrirlo, volle che lo essortassero e costringessero à sacrificare.
All’hora l’invittissimo Alfiere di giusto sdegno ripieno, e armato di fede, sprezzando quei precetti, e confundendo l’iniquità Regia: perchè si trovava le braccia da catene, e le mani con manette legate, de i piedi valendosi, un calcio diede nell’Altare de gli Idoli, e un altro nella mensa de’ sacrifici apparecchiata, e l’uno, e l’altra con tutto quello che vi era sopra, mandò sottosopra per terra (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 126, Bergamo 1617).

Sant’Alessandro è rappresentato nell’atto di rovesciare una mensa sulla quale sono disposti alcuni idoli. Il suo gesto lo pone in una posizione dinamica, con la gamba destra sollevata a colpire la mensa e la mano sinistra a indicare il fermo rifiuto di qualsiasi idolo.
L’espressione è visibilmente tesa, rivolta ai presenti con disprezzo e orgoglio. L’imperatore Massimiano, posto di fronte ad Alessandro e identificabile dalla corona d’alloro che ne adorna il capo, indica minacciosamente il Santo: il rifiuto di sacrificare agli Dei segna infatti la sua condanna a morte. La sagoma dell’imperatore nasconde parzialmente la mensa che, ricoperta con una candida tovaglia e imbandita con una statua dorata e una ciotola contenente sangue, si sta rovesciando.
Un soldato elegantemente vestito, posto sulla sinistra e chiamato da Massimiano per costringere Sant’Alessandro all’adorazione, tenta invano di frenarne la furia bloccandogli il braccio. Accanto a lui una donna assiste alla scena trattenendo a sè il figlio spaventato; la sua mano levata guida lo spettatore in profondità dove, in un cortile, è raffigurata la flagellazione del Santo.

5 – Sant’Alessandro condannato a morte da Massimiano

Sant’Alessandro condannato a morte da Massimiano – tela 103×148 cm – Enea Salmeggia – Bergamo, collezione privata

Qui di furore colmo Massimiano, e tutto d’ira avampando fissò gli occhi nella lui morte, e comandò incontanente ad un manigoldo che all’hora gli troncasse il capo.Questi ardito sfodrata e alzata la spada per levar la vita al S. Martire, con incredibile maraviglia di tutti i circostanti, e con infinita rabbia dell’Imperatore, come stupido restato e fuor di se, non potè essequire l’empio commandamento: onde gli disse il Tiranno, Non ti movi ancora codardo, e vigliacco gliela perdoni? A cui con voce fiacca rispose l’impaurito Martiano (che Martiano havea nome il manigoldo) Signor mio Rè, il capo di costui mi sembra una gran montagna, e io tremo tutto.
Confuso Massimiano comandò ch’ei fusse di nuovo incarcerato, e d’ogni cosa necessaria se gli facesse patire gran disagi (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 126, Bergamo 1617).

Sant’Alessandro, inginocchiato al centro della scena, per aver rovesciato le tavole degli idoli è colpito dalla furia dell’imperatore Massimiano, il quale comanda al carnefice di decapitarlo. Massimiano, identificabile dalla corona d’alloro sul capo e dall’elegante armatura, punta il bastone del comando verso Sant’Alessandro, a decretarne la condanna. Una folla incuriosita e un soldato posto di schiena in primo piano seguono lo svolgersi degli eventi. Sulla destra si nota un cane al guinzaglio, trattenuto da un milite e, in posizione avanzata, il carnefice. Quest’ultimo, stupito e terrorizzato, si rifiuta di uccidere il Santo, spaventato alla vista della sua testa simile a una “gran montagna”; la spada del carnefice è tenuta in basso, la mano sinistra è levata in segno di rifiuto, con il corpo pare ritrarsi. Altri soldati dietro al carnefice si guardano stupiti per la miracolosa apparizione di una piramide di pietra a difendere la testa del giustiziato a morte.

6 – Materno, arcivescovo di Milano, invia Sant’Alessandro a Bergamo

Materno, arcivescovo di Milano, invia Sant’Alessandro a Bergamo – tela, 104×149 cm – Enea Salmeggia – Bergamo, Cattedrale di S. Alessandro

Rincorato più d’una volta il santo alfiere, dal santo Pastore [Materno], fu alla fine consigliato havendone l’agio per maggiormente dilatare la Fede Christiana, ad uscire di prigione, e venire à Bergamo, dove era gran bisogno di lui.
Io non voglio qui lasciar di riferire un opinione antica […] che sant’Alessandro sia stato Vescovo di Bergamo. Il dire ch’egli fusse deputato Vescovo di questa Città, è molto verosimile. Si potrebbe dire che havendo Materno in quel tempo ch’egli praticò col Santo Martire, conosciutolo atto all’ufficio Pastorale, egli lo elesse e lo indirizzò à Bergamo, dove erano pochissimi Christiani, perchè vi predicasse, ch’è il principal ufficio del Vescovo.
Egli dunque non si numera tra i Vescovi, né se gli dà il nome di Vescovo, per non esser stato consacrato, e per lo poco tempo che visse in Bergamo, che furono solamente diece otto giorni (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 130, Bergamo 1617).

Evaso per la terza volta dal carcere, Sant’Alessandro è convocato da Materno, arcivescovo di Milano, che lo invia ad evangelizzare la città di Bergamo. il presule, assiso sulla cattedra episcopale e rivestito degli abiti pontificali, è assistito da due diaconi, come la liturgia prevedeva per le celebrazioni più solenni.
Poco distante un altare è parato per la messa. Tutto fa pensare che si stia svolgendo un rito di consacrazione episcopale. Infatti Materno sta consegnando a Sant’Alessandro una mitria e un pastorale, le insegne proprie della dignità episcopale.
Entrambe sono decorate da un giglio, il tradizionale emblema alessandrino, che campeggia anche sull’ampio vessillo della legione Tebea, sorretto dal fanciullo, che, alle spalle di Sant’Alessandro, partecipa curioso al rito, insieme ad alcuni chierici.
E’ l’unico caso in tutto il ciclo alessandrino in cui il soggetto rappresentato nel dipinto è più eloquente del testo scritto. L’episodio è narrato sommariamente dalle fonti, dove si arriva a ipotizzare un’elezione episcopale ufficiosa di Sant’Alessandro, cui non è seguita la consacrazione canonica.
Ipotesi troppo complesse da rappresentare in un dipinto destinato alla devozione e all’edificazione dei fedeli, tanto da giustificare una soluzione didascalica dell’episodio.

7 – Predica di Sant’Alessandro

Predica di Sant’Alessandro – tela, 101×146 cm – Enea Salmeggia – Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Nel tempo che S. Alessandro venne à Bergamo, vi era molto picciolo il numero de’ Christiani, e innumerabile quello de gli Idolatri, e arrivò egli apunto nel tempo e nell’hora ch’erano questi congregati per offerire solenne sacrificio davanti alla statua di Crotacio.Qui giunto e scorgendo così grande empietà e cecità insieme, e tanta offesa della Maestà divina, pieno di zelo dell’honor di Dio, e della salute di quei miseri acciecati, entrato fra loro, essendo molto erudito, e parlando molto bene la lingua latina che all’hora si usava per tutta l’Italia si diede à publicamente predicare Cristo essere vero Dio. Onde rivolti ai lui tutti ammiravano non solamente la dottrina, ma la gran forza etiandio, e la copia dell’eloquenza. […] Prendendo poi il morto per la mano disse in nome del Signore Gesù Cristo crocefisso Dio onnipotente, io dico à te che ti levi vivo, e confessi il tuo Creatore.
Finite à pena queste parole, il morto incontanente aprendo gli occhi, e come svegliato da grave sonno levossi, e gettatosi à piedi del Santo gridò Non vi hà ne in cielo, ne in terra verun altro Dio che ‘l Signore Giesù Christo crocifisso, il quale per sua misericordia ad intercessione di questo suo servo me hà dall’Inferno e dalla morte ritornato in vita (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, pp. 132-133, Bergamo 1617).

Sant’Alessandro si riconosce all’estremità destra della tela; i suoi piedi poggiano su di un masso, i suoi piedi poggiano su di un masso, il braccio sinistro sostiene il vessillo, mentre il destro è levato verso la statua di Crotacio issata su una colonna, un idolo adorato dai pagani.
L’episodio si riferisce alla predica che il Santo pronuncia per convertire un gruppo di idolatri che in quel momento stava sacrificando davanti a Crotacio.
Molte persone affollano la tela: chi guarda assorto e pensoso, chi lo indica, chi assume un’espressione stupita; una donna, accovacciata ai piedi del Santo con il figlio in braccio, ascolta attentamente le sue parole.
Lo sguardo di Sant’Alessandro è serio e consapevole, rivolto ad un uomo posto di fronte a lui.
Sulla sinistra un defunto è accompagnato dal Santo: egli lo risusciterà, convertendo la folla.
La scena si svolge in una zona appartata, ai margini della città di Bergamo, che si scorge in lontananza.

8 – Martirio di Sant’Alessandro

Martirio di Sant’Alessandro – tela, 105×150 cm – Enea Salmeggia – Bergamo, chiesa di S. Alessandro in Colonna

Legato il Santo lo strascinarono violentemente avanti la statua di Crotacio, dove apprestata la mensa con ciò che facea mestieri al sacrificio, gli dissero Horvia soldato coraggioso, al dio di questa Patria offerisci il sacrificio e metti gli incensi nel fuogo, affinchè tu possa viver o andar libero ovunque più ti aggrada. Il Santo Martire di Christo Alessandro non temendo punto la morte temporale, per non morire di morte eterna, disse ad alta voce, Io non ubidisco a i precetti dell’Imperatore terreno, ma si bene a quelli del Celeste […]. Ecco il collo, se volete il capo, spiccatelo hor che vedete la mia ferma risoluzione. Dette queste parole dimandò un po’ d’acqua, e si lavò le mani, e la faccia, poi fece oratione […]. Simile oratione finita, e fatta una generosa confessione del nome di Christo, l’intrepido suo Cavaliere S. Alessandro abbassò il capo e lo spietato manigoldo, essequendo quanto gli havea l’empio Massimiano comandato, come a persona vile e sciocca, con tagliente lama glielo spiccò dal busto. Fu il suo Martirio a i 26 d’Agosto, diece otto giorni soli essendo stato in Bergomo (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, pp. 140-141, Bergamo 1617).

Il carnefice sta rimettendo la spada nel fodero; ai suoi piedi, riverso a terra, giace il corpo decapitato di Sant’Alessandro. Tutt’intorno, quasi pietrificato, un anfiteatro di tipi umani: soldati con l’alabarda, fanciulli ignari, anziani curiosi, madri con i figli in braccio.
Tra gli altri si possono riconoscere un uomo che regge la brocca con l’acqua chiesta da Sant’Alessandro per lavarsi le mani e il viso prima di consegnarsi al carnefice e un secondo uomo che stringe nella mano destra un foglio di carta arrotolato, forse il decreto imperiale di condanna.
Ognuno degli astanti ha gli occhi fissi sul corpo martirizzato; sguardi sgomenti e sorpresi, pietosi e arroganti.
Turbati più che dalla truce esecuzione, dal miracolo cui stanno assistendo: dalla terra bagnata del sangue del martire fioriscono candidi gigli e rose rosse.
Sullo sfondo, testimone muta dell’estremo sacrificio del suo futuro patrono, è posta la città di Bergamo, sovrastata da un cielo minaccioso e rossastro, squarciato da una potente luce che cade sul corpo del martire, facendo risaltare il mantello rosaceo che lo ricopre.

9 – Miracolo dei fiori nati dal sangue di Sant’Alessandro

Miracolo dei fiori nati dal sangue di Sant’Alessandro – tela, 103×148 cm – Enea Salmeggia – Bergamo, collezione privata

Volle anco Iddio scuoprire la antità di questo suo buon servo col chiaro testimonio d’un nobilissimo e notabilissimo suggello, che fù della salute de molti alta cagione. Ha la nostra Città fra gli altri un’honorato Borgo, che da i Pini, che ivi erano in gran copia Pineto già, hora Borgo Pignolo vien chiamato, alle radici del colle verso oriente; quivi a mezzo il quadrivio, ò croce via; i portatori ò stanchi dal grave peso (perciochè Alessandro era d’eminente statura, come sono per il più gli Alfieri) ò dal gran caldo, che porta seco la stagione, afflitti, ò per dir meglio, per alto voler di Dio, deposero per breve spatio d’hora la sacrata soma; indi, preso alquanto di riposo, nel levarsi di nuovo il Santo Corpo, ecco si videro (cosa di gran stupore, e meraviglia) sorgere dalle cadenti gocciole dell’ancor tiepido sangue, così leggiadri, e odorosi fiori, che di vaghezza, e di gratioso odore vinceuano di gran lunga i naturali (da M. Muzio, Sacra Historia di Bergamo, Bergamo, 1621, p. 76)

Un mesto e solenne corteo funebre trasporta le spoglie mortali di Alessandro perchè possano trovare degna sepoltura nell’orto di un podere fuori dalle mura della città.
A guidarlo è Santa Grata, duchessa di Bergamo, convertitasi alla religione cristiana grazie alla predicazione del martire.
Un prodigio interrompe la devota traslazione nei pressi di un pineto, nel luogo che oggi si chiama Pignolo.
Il miracolo del sangue che feconda la terra fino a far germogliare gigli e rose si compie nuovamente.
Non più tra una mischia di violenti e di curiosi, ma nell’intimità orante di alcuni cristiani che pietosamente si sono presi cura della salma. Santa Grata s’inginocchia. Una mano regge pietosamente, quasi custodisce, la testa di Sant’Alessandro, avvolta in un candido lino; l’altra sta cogliendo un fiore rossastro.
Il volto è sorpreso ma non impaurito e gli occhi sbarrati cercano il conforto delle sue nobili compagne. Anch’esse tengono fisso lo sguardo sul segno divino. I gesti raccontano la loro fede. La donna più vicina a Santa Grata, forse Esteria, tiene le mani giunte e prega; un’altra, invece, porta le mani al petto, in un gesto che rivela un docile abbandono al mistero della miracolosa fioritura. Non c’è scompiglio tra gli astanti; l’atmosfera, i volti e i gesti sono sospesi, contenuti, devoti. Unica voce fuori dal coro: il fanciullo con la casacca gialla che, lasciandosi prendere dall’emozione, si rivolge sorridendo al compagno indicandogli il fatto miracoloso con un gesto inaspettatamente vivo.

10 – Santa Grata mostra a suo padre Lupo i fiori nati dal sangue di Sant’Alessandro

Santa Grata mostra a suo padre Lupo i fiori nati dal sangue di Sant’Alessandro – tela, 103×148 cm – firmato: AENEAS S. – Bergamo, collezione privata

Piena d’infinito gaudio, e giubilo ritornata al Palazzo, e ritrovato il caro progenitore, Vedete, gli disse, odorate, e gustate quali fiori la terra bagnata del pretioso sangue del valoroso Campione di Christo Alessandro martirizzato hieri alla base del vostro Crotacio, hà prodotto, atti a risanare infermi, e ravvivare morti […].
Onde il buon vecchio […] mosso e dal pietoso aspetto, e dalle saggie, e penetranti ragioni, che al cuore gli scesero, e dall’amorose lagrime di lei, e dal vedere quei fiori miracolosi, vaghissimi all’occhio, che all’odorato rendevano sopranaturale fragranza, e al gusto erano soavissimi […] e toccato interiormente dalla divina Grazia, si rese, e prosposto ogni humano rispetto, e timore prese consiglio di voler esser Cristiano (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p.175, 178, Bergamo 1617).

Santa Grata entra nella grande sala del sontuoso palazzo di famiglia, dove il padre, Lupo, è impegnato nella lettura di una pergamena. Gli abiti che indossa rivelano l’importante ruolo istituzionale che ricopre: egli è il duca di Bergamo. Sulle spalle indossa un ampio manto purpureo e una pregiata mozzetta di ermellino, sul capo la corona ducale, cui il pittore ha dato l’aspetto del berretto dogale. Ai suoi piedi è accucciato un fedele cane da caccia, come si addice ad ogni nobiluomo del suo rango. Egli, infatti, appartiene ad una delle più nobili famiglie della città: è figlio di Crotacio, primo duca di Bergamo, tanto giusto e valoroso da esser stato divinizzato subito dopo la sua morte. Ed è proprio sotto la colonna dedicata al primo leggendario duca della città, che Sant’Alessandro il giorno precedente aveva subito il martirio. Accanto a Lupo vi è la sua fedele consorte, Adleida, nobile bergamasca, educata secondo la fede cristiana sin dall’infanzia. Santa Grata mostra ai genitori i fiori sbocciati dalla terra bagnata dal sangue di Sant’Alessandro. Presenta loro un mazzetto di gigli e rose profumatissimi raccolti nello stesso lino che aveva accolto il capo reciso del martire. Gli occhi della fanciulla cercano gli occhi del padre; ella è certa che mostrandogli la testimonianza della santità del martire, anche Lupo senta nascere l’intimo desiderio di farsi cristiano. E così accade. Le braccia di Lupo si aprono, quasi a significare la devota adesione alla nuova fede.

11 – Traslazione del corpo di Sant’Alessandro (Fabio Ronzelli)

Traslazione del corpo di Sant’Alessandro – tela, 105×149 cm – Fabio Ronzelli – Bergamo, Cattedrale di Sant’Alessandro

Nel luogo dove fu l’invitto Martire di Christo Sant’Alesandro decapitato, e dove caderono le goccie del sangue, e dove fu sepolto, furono poi da Santa Grata fabricate Chiese in honore di lui […]. Giacque ove lo sepelì la santa Vedova fin all’anno […] 908 secondo la verità, nel quale la suddetta Chiesa Cathedrale da Berengario abbuggiata e ristorata poi da San Adalberto Vescovo, il quale lo trasportò nel sotto Choro e ripose nell’Altare di mezzo con molta solennità intervenendo a questo devoto ufficio Berengario stesso (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p.152, Bergamo 1617).

Inginocchiato sulla base di una colonna, re Berengario assiste all’atto finale della traslazione della salma di Sant’Alessandro, presieduta dal vescovo di Bergamo, Adalberto. Indossa vesti preziose: una ricca tunica purpurea e un manto tessuto d’oro. La mano destra stringe lo scettro regale, la sinistra è aperta in segno di stupore e di venerazione. Il sovrano sembra non riuscire a distogliere lo sguardo dalla contemplazione del capo reciso del martire. La salma, miracolosamente incorrotta, sta per essere riposta in un nuovo sepolcro, fatto costruire da Adalberto nella cripta dell’antica basilica cimiteriale, eretta per volontà di Santa Grata poco dopo il martirio del Santo. Berengario offre come dono votivo la propria corona, forse in espiazione dell’incendio che distrusse gran parte della basilica, provocato dal suo esercito durante l’assedio e il sacco di Bergamo nel 908. Tre chierici ripongono la salma nella nuova sepoltura, sotto lo sguardo devoto, quasi commosso, del vescovo Adalberto. I gesti e i sentimenti che animano il vescovo riportano alla memoria la figura di Santa Grata. Come il nobile, anche il presule custodisce tra le mani, il capo reciso del martire, avvolto in un candido lino. Una volta chiuso il sepolcro, sopra il corpo del martire, veglierà il vessillo della legione tebea, a ricordo del suo coraggio sul campo di battaglia prima e nell’annuncio del Vangelo poi.

12 – Federico Barbarossa tenta di violare le reliquie di Sant’Alessandro

Federico Barbarossa tenta di violare le reliquie di Sant’Alessandro – bistro, quadrettatura a matita nera su carta avorio, 178×259 mm – Enea Salmeggia – Bergamo, Accademia Carrara

Giunto a Bergamo il Barbarossa, e dopo qualche tempo di assedio, per divina permissione, havutolo in suo potere, grandissime, e inaudite crudeltà vi usò […]. Non hebbe rispetto nessuno ne à sesso, ne ad età veruna: ma fece aprire le donne gravide; uccidere, contra terra tirandoli, i fanciulli; alle vergini tagliare le orecchie, e le mammelle; alle vedove le mani, e le nari; metter fuoco nelle case, e nelle chiese; ispianare le mura, isvellere le torri; rubò i tesori da suoi antecessori al glorioso Martire Sant’Alessandro offerti; volle rubbare il lui Sacro Corpo ancora, e quelli de gli altri santi, che quivi erano, e vi si affaticò tutt’un giorno, ma da divina virtù fu impedito: Onde partì confuso, la misera Città desolata, e disfatta, lasciando (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, p. 143, Bergamo 1617).

Tre uomini tentano animosamente di scoperchiare il sepolcro che custodisce il corpo di Sant’Alessandro. Cercano di far leva con delle spranghe per sollevare la pesante lastra tombale. Uno si butta persino a terra, cercando di sfruttare tutto il peso del proprio corpo per aprire l’arca marmorea. Invano. Nonostante gli sforzi la tomba resta sigillata. Di fronte a tale straordinaria resistenza lo stupore si diffonde nella cripta, le cui pareti sono ricoperte di ex voto, a testimonianza del fatto che il Santo non lesina grazie e miracoli ai suoi fedeli. All’iniziale sorpresa segue la chiara convinzione che sia stato Sant’Alessandro ad intervenire perchè la sua tomba non fosse violata e i suoi resti mortali non venissero trafugati. Sembrano essere queste le parole pronunciate dall’uomo che con una mano indica la sepoltura del martire e con l’indice alzato dell’altra mano indica il cielo. Solo un intervento celeste può spiegare tale miracolo. L’imperatore Federico Barbarossa, scortato da due suoi soldati, assiste al prodigio. E’ rappresentato, quasi impietrito, di scorcio; l’espressione del viso è celata, ma i suoi gesti tradiscono sorpresa e sgomento. Egli si sta ritraendo, tanto che la gamba destra è sollevata da terra, come se un sobbalzo di stupore lo stesse spingendo indietro. Le sue mani sono aperte, quasi a comunicare, oltre al timore, la resa di fronte all’intervento miracoloso.

Sant’Alessandro a cavallo protettore di Bergamo – tela, 250×150 cm – Fabio Ronzelli – Bergamo, Cattedrale di Sant’Alessandro

13 – Sant’Alessandro a cavallo protettore di Bergamo (Fabio Ronzelli)
 
Maggior beneficio apportò alla Patria nostra Sant’Alessandro non solamente predicandovi […] ma col proprio sangue autenticando la sua predicazione, e irrigandoci, e santificandoci tutti, e eleggendola in somma  per Patria sua, e favorendola poi come tale, e difendendola ne i suoi bisogni: Onde ella seguendo le vestigia della S. Chiesa, lui à ragione s’hà eletto per suo Protettore e Difensore unico dopo Dio, e la Vergine Santissima (da Celestino Colleoni, Historia Quadripartita di Bergamo et suo Territorio, nato Gentile e rinato Christiano, II, pp. 150-151, Bergamo 1617).

“Quasi arco di luce ra tenebre, quasi stella del mattino in mezo a nebbia, quasi sole sfolgorante sei, Beato Alessandro!”.

Così l’antica liturgia della Chiesa bergomense loda il suo patrono, paragonandolo agli astri più luminosi del firmamento.
Il dipinto che suggella la serie dei fatti della vita di Sant’Alessandro sembra esserne la traduzione figurativa. In sella ad un bianco cavallo rampante, il Santo martire cavalca i cieli che sovrastano Bergamo, irraggiando un terso bagliore che illumina le torri, le case e le chiese di Città alta.
Indossa abiti militari, una libera interpretazione dei costumi dell’esercito romano a cui si aggiungono accessori secenteschi come l’esuberante cimiero da gran parata coronato da pennacchi bianchi e celesti.
Nella mano sinistra impugna le briglie del cavallo, anch’esso bardato con nastri, fiocchi e preziosi ornamenti dorati, nell’altra regge saldamente un purpureo vessillo gigliato, suo principale attributo iconografico.
L’opera presenta un elemento di originalità: sotto l’egida del Santo martire è posta la città di Bergamo, rappresentata simbolicamente dal suo nucleo più antico: Città alta. Sono riconoscibili la porta di Sant’Agostino con l’annesso convento, il castello sul colle di Sant’Eufemia, la torre del Gombito e la mole della basilica di Santa Maria Maggiore.

BIBLIOGRAFIA
– Sul ciclo alessandrino di Salmeggia bisogna rifarsi a G. Knox, Conflict and Renewald at the Cathedral of Bergamo : A Painted Life of S. Alessandro by Enea Salmeggia, ca 1615, in “Arte Lombarda”, 127, 1999, pp.89-98.
– Un’aggiunta alla serie e un aggiustamento attributivo in favore di Fabio Ronzelli della Traslazione del corpo di Sant’Alessandro sono registrati da S. Facchinetti, A margine della pala di Giovan Battista Tiepolo per il Duomo di Bergamo, in Tiepolo. Intorno alla pala del Duomo di Bergamo, catalogo della mostra, a cura di S. Facchinetti, Bergamo 2001, p. 26.
– I disegni preparatori connessi al ciclo sono schedati da M.C. Rodeschini Galati e da M. Olivari, in Prima della pittura. Enea Salmeggia 1565 (?)-1626, catalogo della mostra, Bergamo 1986, pp. 102-103, nn. 42-43, 120-123, nn. 53-54; e da E’. Pagliano, in De chair et d’esprit. Dessins italiens du Musée de Grenoble. XV-XVIII siècle, catalogo della mostra, a cura di E’ Pagliano, Paris 2010, pp.73-74, n. 21.
– Una buona sintesi sul pittore è quella di P. Plebani, Enea Salmeggia detto il Talpino, Bergamo 2009.
– Le fonti agiografiche su Sant’Alessandro sono raccolte in Exite Flores Inclyti. Antologia alessandrina. Testimonianze a S. Alessandro dalle “Passiones” ai giorni nostri, a cura di G. Carzaniga, Bergamo 1998.
– Sull’iconografia del Santo uno studio monografico è quello di L. Pagnoni, S. Alessandro nell’iconografia bergamasca, Bergamo 1989.
– Una miscellanea di saggi dedicati alla figura di Sant’Alessandro inserita nel contesto locale è Bergamo e Sant’Alessandro. Storia, culto, luoghi, a cura di L. Pagani, Bergamo 1999.

Tratto da: Guida alla mostra Le Storie di Sant’Alessandro di Enea Salmeggia – Il ciclo ricomposto. A cura di Simone Facchinetti e Giuliano Zanchi.

La leggenda di S. Giuliano ospitaliero negli affreschi della Casa Pesenti

Casa Pesenti vista dalle Mura di S. Giacomo (Foto L. Amati)

“Fiorite da un innato sentimento estetico, il Cinquecento vide sorgere in Bergamo numerose abitazioni, nella costruzione delle quali i nostri padri profusero tesori, affinchè i nipoti fossero maggiormente radicati al suolo di nascita per virtù e in forza della bella casa, della avita amatissima casa, entro cui le generazioni dovevano succedersi a cuocere il loro pane e a riscaldarsi il loro cuore.
Una di queste – da circa vent’anni di proprietà della famiglia Pesenti di Alzano – completamente negletta per un lungo periodo di tempo ed ora, in seguito ad un lavoro paziente e giudizioso di ricostruzione e di adattamento, diretto dall’ing. Corrado Rossi di Milano, convenientemente ripristinata dall’attuale proprietario comm. Antonio Pesenti – richiama la nostra particolare attenzione per quell’affetto onde fra noi si circonda e si consacra tutto quanto ricorda tradizioni storiche ed artistiche bergamasche”.
E’ quanto scrive Angelo Pinetti nell’introduzione di un articolo apparso nel 1923 sulla Rivista di Bergamo, dedicato al ciclo d’affreschi rappresentanti episodi della vita di S. Giuliano ospitaliero, appartenente alla decorazione primitiva del palazzo posto al civico numero 7 di via Porta Dipinta, attribuito ad un artista ignoto, “che fiorì in Bergamo sulla prima metà del sec. XVI, alla cui formazione contribuì evidentemente in modo notevole la scuola del Lotto”.
Gli affreschi erano, in origine, collocati in un salone al primo piano, dove furono successivamente intramezzati da tavolati che, procurarandone il parziale deterioramento, indussero il nuovo proprietario al loro distacco e ad una nuova collocazione sotto il portico d’ingresso, dove poterono rivivere quasi nel loro primitivo splendore.

L’incuria e il lavorìo del tempo hanno purtroppo danneggiato irreparabilmente l’episodio più importante della narrazione – quella relativa alla tragica uccisione del padre e della madre – andata interamente perduta.

§§§

L’ingresso del palazzo accoglie il visitatore con le colonne d’un portico “tutto leggiadrìa e snellezza, dai capitelli lavorati con la minuta diligentissima cura con cui un orafo fregia un suo oggetto di oreficeria”.

Casa Pesenti: il portico d’ingresso (Foto L. Amati)

“Lungo la parete a destra corrono episodi affrescati che illustrano vecchie leggende; nel cortile alle antiche eleganze più squisite si disposano in una bifora marmorea e in un portale istoriato di rilievi ornamentali altre grazie cinquecentesche d’imitazione recente. E penetrando nelle sale, affacciandosi verso le mura di S. Giacomo, dalla magnifica trifora veneziana bellamente ripristinata liberandola dalla cortina di muratura che del tutto la occultava, scendendo nel piano sotterraneo, motivi architettonici rari e composti avvivano tutte le parti della costruzione con una varietà felice che il restauro odierno ha saputo fondere sapientemente, risolvendo problemi statici e problemi di luce, per creare un insieme elegante e sereno, tutto compreso di facile snellezza, senza sforzo di concepire, dove nulla è scenografico e tutto appare armonico e profondamente intimo.

Casa Pesenti: Portale nel cortile d’ingresso (Foto L. Amati)

 

Casa Pesenti: Portale nel cortile d’ingresso (particolare) – (Foto L. Amati)

Dopo le manomissioni e le illogiche trasformazioni con cui il palazzo soggiacque attraverso parecchi secoli, alcune parti consunte e cadenti ed altre deformate, storpiate e confuse nella loro struttura originaria dovettero necessariamente esser rifatte; e più non conservano perciò le antiche decorazioni, né la purezza onde avevale originariamente improntate il costruttore.
Ma le linee primitive si rivelano dovunque; come pure da elementi sparsi e da resti di pitture murali hanno potuto trarre profitto gli artisti Fasciotti e Taragni per intonare il rinnovamento pittorico dell’edificio al suo carattere iniziale.

La costruzione del palazzo si deve all’architetto Morgando, artista evidentemente attratto dalla classica compostezza veneziano-bramantesca, il quale solo da più fortunate ricerche d’archivio potrà in avvenire esser tolto da un immeritato oblìo.

Egli lo eresse nel 1529 per incarico del nobile giureconsulto Giampietro Da Ponte, come ce ne rende sicura testimonianza una lapide murata nel pilastro centrale sotterraneo, sorreggente l’impluvio superiore e impostato sopra avanzi dell’antica cerchia cittadina delle mura romane.
L’epigrafe che ivi si legge attesta che:

CURA.   ET.   AERE
IO.   PETRI.  PONTANI.  JURIS.  CONS.
MORGANDUS
OPERA.  PERPETUA
STRUXIT.   AN.  MDXXVIIII.

Avanzi di Mura Romane su cui è impostato il sotterraneo di Casa Pesenti (Foto L. Amati)

Il nome del committente non è nuovo nei documenti bergamaschi. Giampietro Da Ponte vi appare più volte come membro della Bina degli Anziani e del Consiglio Maggiore della città; come ministro del Consorzio della Misericordia e come incaricato di uffici diversi (1).
Imparentato con famiglie ragguardevolissime aveva preso in moglie, il 5 luglio del 1523, Alba figlia del conte Davide Brembati; e in seguito diede in isposa (giugno, 1539) la propria figlia Paola al Magnifico d. Bartolomeo Martinengo-Colleoni (2) appartenente al ramo bresciano dela gloriosa discendenza di Bartolomeo Colleoni.
Da quel matrimonio nacque nel 1548 Francesco Martinengo-Colleoni che fu la maggiore illustrazione di questa famiglia e uno fra i più eminenti personaggi del suo tempo.

Fra i beni dell’eredità del nobile Giampietro Da Ponte pervenuti ai figli del conte Bartolomeo Martinengo-Colleoni e di Paola da Ponte, la casa di via Porta Dipinta toccò a Francesco.

Una delle sale di Casa Pesenti (Foto L. Amati)

Questi – salito rapidamente ai più alti gradi della gerarchia militare, successivamente cavaliere dell’Annunziata, colonnello di Emanuele Filiberto, generale di Carlo Emanuele I di Savoia, governatore del Piemonte, ambasciatore a Roma e quindi al servizio della Repubblica veneta – è una salda figura che emerge in primo piano sui fortunosi avvenimenti della seconda metà del secolo XVI.
Dopo aver goduto la fiducia dei Principi più illustri, ed aver partecipato alle imprese guerresche ed alle negoziazioni politiche più difficili delle maggiori potenze d’Europa, alternò la sua dimora fra il Castello di Cavernago, da lui innalzato, ex-novo, e questa casa di via Porta Dipinta, dove moriva nell’età di sessantaquattro anni il 3 febbraio 1621 (3).

Non conosciamo a quali vicende di trapassi fu soggetta la proprietà di questo stabile fino al 1803, anno in cui l’allora proprietario nob. Filippo Marenzi la cedette con atto 12 settembre al conte G. B. Pesenti, cui appartiene sino al 7 giugno 1845, quando la contessa Marianna Pesenti moglie del conte Paolo Agliardi l’ebbe a vendere per 51.000 lire milanesi al nob. Antonio Pezzoli.
Fu infine dei signori Ronzoni, ultimi proprietari prima dell’attuale.

Una delle camere di Casa Pesenti (Foto L. Amati)

Il palazzo non era stato subito finito del tutto all’epoca della sua costruzione; la facciata che non è coeva all’interno di esso, ma posteriore di almeno mezzo secolo, presenta un’impronta non priva di eleganza che la fa assegnare alla fine del Cinquecento o al principio del secolo seguente.
Ma alla decorazione primitiva appartiene di certo il ciclo d’affreschi, rappresentanti fatti della vita di S. Giuliano ospitaliero, che trovavansi in un salone al primo piano, successivamente intramezzato da tavolati che procurarono la rovina di alcuni di essi.

Stampa popolare senese (1544) della Leggenda di S. Giuliano

Pur troppo il tempo non eccessivamente crudele per cinque di quelle storie, non ha rispettato la più importante della narrazione – quella della tragica uccisione del padre e della madre – andata interamente perduta quando il nuovo proprietario provvide, per salvarle, al loro distacco e a collocarle sotto il portico d’ingresso, dove oggi rivivono quasi nel loro primiero splendore.
Queste pitture si rivelano al primo esame come il frutto d’un artista, che fiorì in Bergamo sulla prima metà del sec. XVI, alla cui formazione contribuì evidentemente in modo notevole la scuola del Lotto.

Sarebbe vana fatica il perderci ad indagare il nome del pittore, cui dobbiamo questo complesso notevole di affreschi; ma, lasciando da parte l’arduo problema dell’identificazione del loro autore, con più piacevole curiosità siamo riusciti a risolvere quello dell’identificazione del loro soggetto.

§§§

Per ben comprendere queste storie dipinte dall’ignoto artista cinquecentesco è prima necessario di stabilire nelle sue linee fondamentali l’argomento leggendario del racconto che nel medioevo, attraverso le varie trasformazioni subite secondo i gusti e i capricci eruditi di vari scrittori, venne via via arricchendosi di particolari e sviluppandosi nelle diverse parti, senza che per altro fosse intaccato o snaturato il fondo della leggenda; precisamente come lo smilzo torrentello va ingrossando a mano a mano che si dilunga dalla sua sorgente e accoglie in sé nuove acque e nuova possanza fino a diventare nell’ampiezza del suo alveo un grande e maestoso fiume.
Narra dunque la leggenda, la quale sembra che rievochi a distanza di secoli tutta la tragica terribilità dell’ineluttabile fato Edipodeo, come Giuliano, nobile cavaliere e cacciatore, si sentì ripetere giovinetto la tremenda profezia – secondo una tradizione da un saggio astrologo, secondo un’altra da una cerva inseguita in caccia e rivoltasi d’improvviso a rivelargli il suo triste destino – che egli sarebbe stato uccisore del padre e della madre.

Per isfuggire al fato che incombeva su di lui, Giuliano partitosi segretamente dalla patria e da’ suoi se n’andò in lontane regioni al seguito d’un principe che lo rimeritò de’ servigi fedelmente prestati sia in guerra, sia in corte, col dargli in feudo un castello, e una vedova castellana in isposa.

Frattanto i genitori di lui, gravemente addolorati della partenza del figlio, l’andavano ansiosamente ricercando in ogni luogo, errabondi per le più opposte parti della terra.

Capitati un giorno pellegrini al Castello di Giuliano mentre questi trovavasi fuori a caccia, e confidatisi colla moglie di lui, esponendole i casi occorsi a loro e al loro figliolo, essa, che pure dal marito più volte aveva appreso un simile racconto, ne riconobbe nei due ospiti i genitori che accolse benignamente e pose a dormire nel letto matrimoniale, intanto che andava alla chiesa a pregare Iddio.

Giuliano, tornatosene a casa nottetempo e trovato il talamo, com’ei sospettoso credette, malamente occupato, compiè ignaro orrenda strage de’ suoi genitori.

Sopraggiunta poco dopo la sua donna a farlo persuaso del duplice delitto commesso, Giuliano vedendo oramai in sé avverato il luttuoso vaticinio gravante su di lui dalla prima giovinezza e al quale invano aveva cercato di sottrarsi, si ritirò con la moglie in un’isola d’un gran fiume, dove molti viaggiatori erano stati travolti dalle onde ed avevano corso pericolo di vita, e vi eresse un grande ospitale per albergo e rifugio di tutti i poveri che là capitassero.
Dopo molto tempo Dio in visione gli manifestò chiaramente come avesse accettato la sua penitenza e Giuliano pieno di bone opere si riposò nel Signore.

§§§

La letteratura di questa leggenda, che ebbe larga diffusione del medio evo, risale tutta, come a prima e principal fonte, alla Legenda Aureadi Jacopo da Varagio, o de Voragine, morto arcivescovo di Genova nel 1298, all’età di 96 anni, che in quella sua vasta opera raccolse le innumerevoli leggende religiose del tempo.

Di là attinsero Vincenzo Bellovacense, Pietro de Natal, S. Antonino e il Bollando per le loro vite de’ santi; e di là trassero ispirazione i poeti popolari e i pittori che divulgarono coi versi e coi dipinti le scene della vita di S. Giuliano.

Ne fece una versione in volgare Nicolao Manerbi che, stampata per la prima volta a Venezia nel 1475 da Nicolò Jenson, ebbe tra il cadere del quattrocento ed il principio del secolo XVI l’onore di oltre 20 diverse e magnifiche edizioni, alcune delle quali – come ad esempio il Legendario, impresso per le stampe in Venezia nel 1505 e nel 1518 dai fratelli Nicola e Domenico del Gesù, così chiamati dall’insegna della loro bottega – sono accompagnate ed illustrate da numerose xilografie, belle manifestazioni artistiche di quel largo soffio di vita che animava nel Rinascimento anche la più umile produzone popolare (4).

Una così svariata leggenda piena di emotività doveva naturalmente diventare popolarissima fra i pittori, sicchè troviamo che assai presto ed efficacemente eccitò la loro fantasia.

Fra gli affreschi trecenteschi che in antico attenuarono la cupa severità delle volte e delle pareti di pietra nel duomo di Trento di fianco all’altar maggiore, l’unico che si possa ancora godere è costituito da una lunga fascia con la romantica leggenda di S. Giuliano, la quale anziché esser riassunta, come per lo più usavasi, nella sola scena della catastrofe, si svolge con bella minuzia di racconto.

Trento: Cattedrale – Storie di S. Giuliano (Affresco del XIV secolo). Il Santo abbandona la madre – Entra col diavolo nella città – Sposa la principessa (Foto Alinari)

 

Trento: Cattedrale – Storie di S. Giuliano (Affresco del XIV secolo).Il diavolo insinua la gelosia al Santo – L’arrivo dei pellegrini, e il doppio parricidio (Foto Alinari)

A Castiglione Fiorentino in una predella che Bartolomeo della Gatta dipinse nel 1486 per una pala della vecchia Pieve, rappresentante la Madonna e i SS. Giuliano e Michele, si osservano quattro strorie della vita di S. Giuliano (L’oroscopo di un saggio astrologo sul destino del Santo – L’uccisione del padre e della madre – La moglie che sopraggiunta constata il doppio parricidio commesso dal marito – S. Giuliano che accoglie sulla soglia del suo ospizio i pellegrini) animate di semplice naturalezza e di vivacissimo brio.

Castiglione Fiorentino: Sagrestia della Collegiata – Bart. Della Gatta: Predella della Tavola di S. Giuliano. (L’oroscopo d’un saggio astrologo sul destino del Santo) – (Foto I. I. D’Arti Grafiche)

 

Castiglione Fiorentino: Sagrestia della Collegiata – Bart. Della Gatta: Predella della Tavola di S. Giuliano. (S. Giuliano accoglie sulla soglia del suo ospizio i pellegrini) – (Foto I. I. D’Arti Grafiche)

Se ambedue queste illustrazioni pittoriche sembrano attingere nel complesso al racconto di Jacopo da Voragine, sebbene la diversa rivelazione fatta al giovane della cruda sorte che l’attende lasci intravvedere anche altre fonti agiografiche, gli affreschi di casa Pesenti invece derivano senza dubbio dall’unica fonte della Legenda Aurea.
Ma in essi l’ignoto artista cinquecentesco ha insieme la forza di avvivare il vecchio e arido racconto tradizionale con elementi narrativi nuovi in cui si sente il soffio della Rinascita, il gusto pittorico e l’istinto dell’arte e del lusso propri di quell’età.
Facciamone un esame un po’ minuto.

§§§

La prima storia – contenuta come tutte le altre entro riquadri a marmore ficto – ci conduce all’aria aperta, ad una di quelle grandi scene di cacce che furono il sontuoso passatempo delle Corti principesche della Rinascenza, loro preferito e dilettevole trattenimento ed insieme esercizio, scuola e simulacro di guerra.
Assistiamo allo svolgimento su sfondo collinoso di una partita di caccia, cui partecipa passionatamente il nobile giovinetto Giuliano.
A suon di trombette e di corni, i montieri (cacciatori di montagna) scovano dai boschi le fiere che si vedono fuggire inseguite da mastini, levrieri, molossi, bracchi e segugi.

A sinistra due uomini procedono carichi della gran preda fatta, mentre a destra una cerva dalle corna ramose, spinta al largo è assalita da un esercito di cani che la trattengono fino all’arrivo dei cacciatori.

Prima Storia della Vita di S. Giuliano: LA CACCIA (Bergamo, Palazzo Comm. Pesenti) – (Foto L. Amati)

Prosegue la caccia anche nel secondo scompartimento.

Giuliano pieno d’ardore insegue colle sue saette la. bianca cerva che, in conformità della versione di Jacopo da Voragine, rivoltandosi improvvisamente verso di lui, gli annunzia che egli avrebbe ucciso il padre e la madre.

La scena si svolge fra alberi fronzuti; in lonananza spicca sul margine d’una riviera una città turrita.

Seconda Storia della Vita di S. Giuliano: IL VATICINIO (Bergamo, Palazzo Comm. Pesenti) – (Foto L. Amati)

Il terzo riquadro ci rappresenta la partenza di Giuliano dal castello avito per sottrrsi al fatale destino che grava sopra di lui.

Sulle acque dello specchio marino che stendesi attorno alla città si cullano diversi grandi vascelli, sopra uno dei quali sta per imbarcarsi il giovane, portato da spirito avventuroso, cui si accompagna un moisterioso personaggio, forse il diavolo che lo sta spingendo verso la sua rovina.

Lo sfondo con porticati ed edifici di bella architettura fa rivivere sotto i nostri occhi meravigliosamente dipinto un paesaggio veneziano del cinquecento.

Terza Storia della Vita di S. Giuliano: LA PARTENZA DALLA CITTA’ NATIVA (Bergamo, Palazzo Comm. Pesenti) – (Foto L. Amati)

Il quarto affresco ci riconduce all’aria aperta fra boschi e colline, teatro delle cacce a cui Giuliano si dedica interamente, anche dopo che è divenuto sposo della vedova castellana datagli in moglie dal suo Principe.

Egli sta riposando all’ombra d’un albero, circondato dai fedeli cani e dalla abbondante selvaggina di cui ha fatto strage.

Ma il demonio, sotto le spoglie d’un compagno di caccia, mentre s’intrattiene con alcune donne capitate ad una fontana, gli insinua nel cuore una fatale gelosia verso la sposa, la quale frattanto accoglie ed ospita nel castello e pone a dormire nel letto matrimoniale i genitori di Giuliano, capitati colà per ricercare il figlio.

Quarta Storia della Vita di S. Giuliano: L’INSINUAZIONE DELLA GELOSIA (Bergamo, Palazzo Comm. Pesenti) – (Foto L. Amati)

La scena culminante di questo ciclo pittorico – quella della catastrofe, della tragica uccisione dei propri genitori fatta da Giuliano quando tornato nottetempo sospettoso al tetto coniugale crede di trovare il talamo malamente occupato – come già dissi, è andata perduta. Un muro divisorio del salone originario in cui erano stati dipinti gli affreschi, la rovinò talmente che non fu possibile conservarla nel distacco.

Nell’ultima storia campeggia l’isola solitaria e deserta, circondata dai gorghi pericolosi dove sono periti tanti viandanti.

Là Giuliano, ritiratosi a penitenza, accoglie nel suo ospizio i naufraghi che aiuta a scampare dai flutti infidi, sinchè giunge il giorno in cui gli appare a confortarlo una visione con l’annunzio del prossimo gaudio che in cielo l’attende.

Sesta Scena della Vita di S. Giuliano: L’OSPIZIO NELL’ISOLA SOLITARIA (Bergamo, Palazzo Comm. Pesenti) – (Foto L. Amati)

Così con libertà di svolgimento e di esecuzione l’ignoto pittore cinquecentesco ha abbellito della sua facile, piacevole e colorita vena narrativa il soggetto leggendario che artisti a lui anteriori avevano riprodotto entro più ristretti limiti tradiziopnali di composizione.

Interessano l’osservatore la giocondità pittoresca delle scene, l’accento vivace degli episodi, l’ampiezza dei paesaggi in cui pare rivivano i tempi e i luoghi dell’artista”.

Note

(1) Cfr. in Civ. Biblioteca: ms Azioni del M. Consiglio, e Terminazioni del Consorzio della Misericordia, passim agli anni 1520-40.
(2) Cfr. Cronaca di MARCO BERETTA: ms. in Civ. Bibl.
(3) G. M. BONOMI: Il Castello di Cavernago, pag. 303.
(4) Tutte le edizioni del Legendario di Jacopo da Voragine illustrate da xilografie sono minutamente registrate e descritte nell’opera del PRINCE D’ESSLING: Les livres a figures vénetiens etc. Florence-Paris, 1908. Tom. II, Part. I, pag. 124 e segg. Uno spendido esemplare dell’edzione del 1505 di Nicola e Domenico del Gesù conservasi nella nostra Civica Biblioteca.

Fonte

Il testo è estratto dalla “Rivista di Bergamo” – Anno II – Num. 16 – Aprile 1923.