Il Fontanone Visconteo – il più grande serbatoio di Città Alta da oltre 700 anni – e la nascita dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti

“Da ragazzino, insieme ai compagni ci infilavamo dentro, facevamo gli speleologi perlustrando le vasche. E’ immensa, passa sotto la basilica di Santa Maria Maggiore, a berla sapeva di pane” (Domenico Lucchetti in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, 28/04/2002)

Il Fontanone, stupendo manufatto a conci bicromi, bianchi e neri, sorge nel 1342 nella vicinia di Antescolis, nel cuore della Città Alta di Bergamo, tra l’abside della basilica di Santa Maria Maggiore e l’antica Cattedrale di San Vincenzo (Duomo dal IX secolo). E’ sormontato dalla mole della ex sede dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, eretto nel 1768

Nei sotterranei dell’ex Ateneo, in piazza Reginaldo Giuliani, si cela un grandioso serbatoio d’acqua, scavato nella viva roccia. E’ quello che chiamiamo “il Fontanone”, realizzato (o forse ripristinato) nel 1342 da Luchino Visconti – che governava Bergamo anche a nome del fratello arcivescovo Giovanni – nel centro politico, religioso e commerciale della città, oggetto in quegli anni di un grande fervore costruttivo.

La piazza, anticamente occupata dal Foro romano e divenuta nel medioevo “platea magna Sancti Vincentii”, ebbe fin dagli albori del Comune soprattutto vocazione commerciale.

La piazzetta antistante il Fontanone nell’incisione di Giuseppe Berlendis (1830). Sovrasta il Fontanone la sede dell’Ateneo. A lato è visibile la Basilica mentre a sinistra fa capolino la lanterna della Chiesa della Carità, indagata da Tosca Rossi in “A volo d’uccello Bergamo nelle vedute di Alvise Cima Analisi della rappresentazione della città tra XVI e XVIII secolo”

Il Fontanone si inserì nel centro monumentale urbano, a sottolineare la presenza dei nuovi signori. Vi si trovava una fontana citata come fontana “berlina”, forse perché nei suoi pressi si trovava la berlina, luogo di pena che esponeva al pubblico disprezzo i colpevoli di reati che erano di danno alla cittadinanza. C’era inoltre una struttura porticata, citata in alcuni documenti come “porticus pelipariorum” (portico dei pellicciai), e la cisterna inglobò ovviamente sia la fontana che il “porticus” preesistenti (1) e venne protetta da un riparo (2).

Donato Calvi nelle Effemeridi (Vol. I, pag. 324) dà la notizia di essere il volume d’acqua contenuto di tremila seicento cinquanta carri d’acqua, pari a 43.800 brente bergamasche (1200 mc.)

Capace di circa ventiduemila ettolitri d’acqua (secondo le testimonianze di allora tremilaseicentocinquanta carra, pari a 43.800 brente bergamasche), la cisterna era alimentata dall’antica conduttura dei Vasi proveniente da Castagneta, acquedotto di origine romana che, dopo secoli di abbandono e i danni causati dalle invasioni barbariche, i Visconti avevano provveduto a ripristinare per poter intervenire al meglio sull’impianto urbanistico, con la definizione di alcune piazze del centro storico: Mercato del Fieno, delle Scarpe, delle Biade, della Carne, del Pesce, differenziate per mercanzia allo scopo di agevolare la tassazione.

L’antico acquedotto dei Vasi proveniente da Castagneta, sui colli a nord della città, venne ripristinato in età viscontea rimediando ai danni delle invasioni barbariche, come recita la lapide presente in località Gallina, inserita in un bel tratto di muro medioevale. Il testo ricorda che nel 1339, sotto il podestà Beccaro Beccaris, l’acquedotto fu interamente ripulito (“Sguratum”) fino al Saliente (partitore finale o Castellum acquae), situato nei pressi dell’antica porta medioevale di S. Alessandro, distrutto con l’edificazione delle Mura veneziane

Nelle intenzioni della Signoria Viscontea, che dominò Bergamo dal 1331 e al 1428, la cisterna doveva, per misura di capacità, superare di gran lunga le camere di serbatoio delle altre fonti della città, che era già provvista di tre pozzi pubblici (3) e di 17 fontane vicinali.

La realizzazione della nuova cisterna (Fontanone) non aveva fatto eliminare la fontana di Antescolis unita alla basilica

E ciò non tanto, come asserivano i Visconti, per assicurare il rifornimento idrico ai poveri bergamaschi, quanto piuttosto per garantirlo ai militi viscontei, in quei difficili anni gravati da guerre, carestie e pestilenze, nell’eventualità di un lungo assedio da parte dei nemici.

Il fonte doveva perciò servire solo per attingere acqua: non vi dovevano essere né vasche per lavare, né abbeveratoi per i cavalli. come esistevano presso le fontane del Vagine, del Lantro, della Boccola, del Corno alla Fara, per le quali gli statuti della città, riassunti nel volume del 1727 (coll. VIII, cap. 75-78), imponevano ai guardiani misure di pulizia e di ordine: “custodes teneantur mundare et sgurare lavanderia et lavellos in quibus bibunt equi”.

Cisterna del Fontanone Visconteo. Recenti studi assicurano che prima di versarsi nella cisterna, l’acqua confluiva in una piccola vasca di decantazione posta sul lato occidentale verso la basilica; dalla parte opposta c’era la zona di aspirazione con il pescaggio nella parte inferiore (ora interrato e nascosto)

L’ACQUEDOTTO MAGISTRAE E IL PARTITORE DEL VESCOVADO

Con la costruzione delle Mura veneziane e la conseguente distruzione dell’antico serbatoio del Saliente in Colle Aperto, da cui si diramavano i canali per servire le diverse fontane, il Fontanone venne alimentato dall’Acquedotto Magistrale, il cui condotto prendeva origine dal punto di unione dell’Acquedotto dei Vasi con l’Acquedotto di Sudorno, all’interno del baluardo di S. Alessandro.

Snodandosi all’interno di Città Alta, tramite partitori delle acque e canalizzazioni minori, tale condotto distribuiva acqua alle fontane, cisterne ed utenze private che avevano la concessione per l’estrazione.

Le acque giungevano al Fontanone tramite il “Partitore del Vescovado”, il più importante fra i tre partitori delle acque costruiti lungo l’acquedotto, posizionato al di sotto del giardino della della Curia Vescovile. Da qui si dipartivano le canalizzazioni per alcune utenze interne alla Curia stessa, per la fontana di San Michele dell’Arco, la fontana di Antescolis o di Santa Maria Maggiore, il palazzo della Mia in via Arena, il Fontanone e il partitore successivo di piazza Mercato del Pesce.

Partitore del Vescovado. Provenendo da dietro la Cittadella, l’acquedotto magistrale raggiungeva il Vescovado, da dove un partitore distribuiva l’acqua in più parti della città E’ indicato il canale maggiore e le diramazioni per la fontana di S. Maria Maggiore (Antescolis) per il Fontanone e per la fontana di S. Michele (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole)

GLI ANTICHI CONDOTTI

Fondamentali tra le diramazioni del partitore del Vescovado due canali che passavano in senso longitudinale sotto la basilica di Santa Maria Maggiore. Uno di essi, in parte ancora esistente, attraversava un ambiente ipogeo di forma circolare e con soffitto a volta in cotto, ubicato sotto la sacrestia nuova. Il condotto proseguiva andando quindi ad alimentare la grande cisterna del Fontanone.

A riprova dell’esistenza di un preesistente sistema di canalizzazione, all’interno del suddetto ambiente ipogeo il Gruppo Speleologico Bergamasco Le Nottole ha individuato una struttura muraria più antica fornita di un tubo circolare in bronzo che doveva assicurare l’approvvigionamento idrico al sito. Ciò non deve stupire in quanto strutture come gli acquedotti dovevano seguire determinati percorsi, rispettando quote e livelli.

E’ da ritenere quindi che tra il condotto che assicurava l’acqua alla città romana e medievale, e poi a quella del ‘600, non vi fossero molte differenze, dovendo giocoforza attestarsi su alcune emergenze fondamentali come il colle di S. Giovanni e quello di S. Salvatore.

Vano ipogeo a pianta circolare con soffitto a volta in cotto esistente sotto la sagrestia di Santa Maria Maggiore. Era attraversato dall’acquedotto che, provenendo dal partitore del Vescovado, correva longitudinalmente sotto il pavimento della Basilica per poi alimentare la cisterna del Fontanone Visconteo (Ph B. Signorelli e N. Basezzi, G.S.B. le Nottole)

 

L’Acquedotto Magistrale rimase in funzione sino al 1892, quando venne costruito un nuovo impianto che rispondesse alle nuove esigenze, con la costruzione di nuovi lavatoi quello in via della Boccola, in Borgo canale e il lavatoio in via Mario Lupo, in fotografia

LA SIGLA AQ

La presenza dell’antico Acquedotto è segnalata dalla sigla AQ, incisa su un muro a lato del Fontanone, accanto allo scalone posto fra l’Ateneo e Santa Maria Maggiore e vicino a una porticina di legno, antico uschiolo di ispezione.

L’iscrizione AQ incisa su un muro a lato del Fontanone, accanto a una porticina in legno cui accedevano i fontanari per ispezionare la cisterna viscontea

 

La sigla AQ presso il Fontanone

Un tempo questa sigla, insieme alle lettere “A” o “AQM” si notava un po’ ovunque in Città Alta e sui colli, incisa sui muri di alcune case o su appositi cippi di arenaria. Era così che, nel ‘700, gli addetti alla manutenzione e alla pulizia della rete idrica (i cosiddetti “fontanari”) indicavano i punti in cui passavano i tracciati dell’acquedotto, altrimenti impossibili da individuare.

E dal momento che la rete idrica sotterranea si diramava per oltre sei chilometri, si presume che in passato tali sigle fossero numerose. Ancor oggi sopravvivono alcune tracce, ad esempio su un cippo di via Sudorno, su pietre del muro di sostegno in via San Vigilio o lungo il percorso dei Vasi (vie Castagneta, Ramera, Beltrami.

IL CARTIGLIO TRECENTESCO E LE BOCCHE DELL’ANTICA FONTANA

Al di sotto del doppio scalone un arco inquadra le bocche dell’antica fontana e un grande cartiglio trecentesco in marmo grigio, inciso in latino e in caratteri gotici.

L’epigrafe riporta il 1342 come data di edificazione del Fontanone ed oltre a ricordare i fratelli Giovanni e Luchino Visconti, riporta i nomi del podestà cittadino, Gabrio Pozzobonelli, e del tesoriere, Bondirolo de’ Zerbi, milanesi, nonché nomi dei costruttori, Giovanni da Corteregia e Giacomo da Correggio, forse scultori comacini che, all’epoca della costruzione, avevano da poco ultimato, sotto la direzione di Ugo e Giovanni da Campione, la ricca decorazione ornamentale del Battistero, ora affacciato sulla Piazza del Duomo di fronte alla Cattedrale.

Il pregevole cartiglio trecentesco

Il dominio di Luchino e Giovanni Visconti è visualizzato non solo nei nomi ma da tre interessanti riquadri araldici scolpiti nella parte superiore, con a sinistra lo stemma della città con sei strisce, vermiglie e gialle, disposte “a palo”; al centro la targa con l’aquila (pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero) allusiva a Giovanni Arcivescovo di Milano e, alla destra, come emblema del fratello minore Luchino, la raffigurazione in parte consunta di un aquilotto che artiglia un animale (lupo o cinghiale).

Gian Galeazzo Visconti, già vicario imperiale e signore della capitale lombarda, aveva ottenuto il titolo di Duca di Milano l’11 maggio 1395 mediante diploma imperiale da Venceslao di Lussemburgo. Con un secondo documento datato 13 ottobre 1396 i poteri ducali furono estesi a tutti i domini viscontei e nei centri più significativi del ducato. Gian Galeazzo ottenne la patente per inquartare il biscione visconteo con l’Aquila imperiale – pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero – nella nuova bandiera ducale. Il nome dei Visconti deriva infatti dal latino vice comitis, che significa “vice conti”, vice – colui che fa le veci e conti – comites (con-te) indicava colui che stava con qualcuno, cioè con l’imperatore: per i Visconti con l’imperatore del Sacro Romano Impero. La famiglia dei Visconti era quindi colei che in Italia rappresentava l’Impero, tanto da agognare allo status di primi Principi italiani, che a fatica Gian Galeazzo ottenne nel 1402

Nella parte inferiore, i due mascheroni a rilievo e a testa di moro posti a lato della bocchetta sono modellati con gusto secentesco, rivelando l’aggiunta di elementi in epoca molto più tarda.

In alternativa alla bocche dell’antica fontana c’era una bocchetta, ancora visibile sul lato breve che volge verso via Mario Lupo, che tramite una pompa prelevava l’acqua dal serbatoio, presente sino a pochi decenni or sono

Il Fontanone intorno al 1915 e la bocchetta ancora presente sul lato breve che volge verso via Mario Lupo (Raccolta D. Lucchetti)

 

1948: un bambino aziona la pompa per prelevare l’acqua del Fontanone

 

Una delle due finestrelle aperte ai lati più corti della struttura, attraverso la quale è possibile osservare la cisterna. La pompa e la bocchetta verso via Mario Lupo sono ancora presenti

IL PORTICO E LA NASCITA DEL MUSEO LAPIDARIO

La costruzione del Fontanone permise la realizzazione di un sovrastante piazza rettangolare sulla quale fu successivamente costruito un piccolo edificio, che compare nella cosiddetta veduta di Bergamo a volo d’uccello di Alvise Cima, dove è indicato come una minuscola struttura. Il prospetto sud, murato, è provvisto di tre piccole porte; molto probabilmente il fronte nord, non visibile nella rappresentazione, era aperto e scandito da colonne.  Poteva trattarsi o di un deposito di armi in disuso (4).

La freccia indica, di fronte alla chiesa di S. Vincenzo (attuale Duomo) il Fontanone visconteo privo del sopralzo neoclassico del 1768, con il prospetto sud murato e provvisto di tre piccole aperture; si presume che il fronte nord, non visibile nella rappresentazione, fosse aperto e scandito da colonne (4) (Anonimo, Bergamo a volo d’uccello, eseguita verso la fine del XVI secolo e con modifiche apportate entro il 1662, Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo. Foto Dimitri Salvi. Dettaglio)

Nel 1743 il portico esistente sopra il Fontanone fu trasformato in un ambiente destinato ad ospitare la sede del nascente museo lapidario, voluto dalla municipalità per ospitare le lapidi antiche provenienti da materiale di scavo, disperse a Bergamo e nel territorio. Il progetto fu affidato all’architetto veronese Alessandro Pompei. I lavori iniziarono nel 1759 e terminarono nel 1768 con la posa della monumentale scalinata d’ingresso a rampe contrapposte. Non siamo a conoscenza del disegno originario, ma è possibile immaginare una struttura essenziale, presumibilmente un loggiato aperto, dove internamente erano collocate le antiche lapidi.

La divisione in moduli proporzionale al piede veronese del l’edificazione – circa 35 cm – è stata recentemente confermata. Questo ha condizionato negli aspetti metrici tutta la sua successiva funzionalità e modifiche stilistiche (la sequenza lesene-arcate ricalca quella rapporto 1:3 e la larghezza di ciascun pilastro è pari a due piedi).

DALLA LA NASCITA DELL’ATENEO AI GIORNI NOSTRI

Nel 1818 l’Imperial Regia Delegazione Provinciale dispose di dare come sede definitiva dell’ “Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti” il pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone, che venne quindi adattato, ovvero modificato, per divenire un ambiente chiuso.

Ed è appunto in seguito al 1818, che viene eretto, su progetto dell’architetto Raffaello Dalpino, l’attuale costruzione di gusto neoclassico.

L’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, istituito con decreto napoleonico il 25 dicembre 1810, è sorto dall’unificazione di due antichissime accademie: degli Eccitati e degli Arvali. L’Accademia degli Eccitati, fondata nel 1642 da un gruppo di eruditi, tra cui Bonifacio Agliardi, Clemente Rivola e Donato Calvi, ebbe attività prevalentemente letteraria; rinnovata nel 1749 ad opera soprattutto di Pierantonio Serassi e di Mario Lupo. Ebbe tra i suoi soci anche Lorenzo Mascheroni (un “Eccitato”) e Giovanni Maironi da Ponte (un “Arvale”). L’Accademia degli Arvali sorse nel 1769, dietro invito della Repubblica di Venezia, con lo scopo di introdurre sistemi innovativi nell’agricoltura e nell’economia in genere. Gli Arvali erano sacerdoti appartenenti a famiglie patrizie dell’antica Roma dediti al culto di Cerere, dea delle messi. Ecco perché questa accademia si occupava in particolar modo di agricoltura. Dapprima l’istituzione si intitolò Accademia d’Agricoltura o degli Arvali; quindi, a partire dal 1787 fu denominata Accademia Economico-Arvale; ad essa sono legati i nomi della nobiltà terriera bergamasca: Benaglia, Rivola, Tomini-Foresti, Mozzi, Brembati, Secco Suardo, Calepino. Con il decreto napoleonico del 25 dicembre 1810, che tendeva a riformare ed unificare gli istituti culturali, le due istituzioni furono fuse in un solo organismo con il nome di Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Bergamo. L’Ateneo trovò sede provvisoria nell’ex refettorio e in alcune stanze contigue del monastero di Rosate (nel luogo dell’attuale Liceo Classico Sarpi), trovando sede definitiva (1818) nel pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone, per risarcire il debito che la città aveva aperto nei confronti dell’istituzione accademica quando, nel 1796, chiese in prestito 4000 scudi per far fronte alle spese che la Municipalità doveva sostenere per l’alloggiamento delle truppe francesi (Maria Mencaroni Zoppetti).

Scartato il progetto di adattamento e di messa in sicurezza di Carlo Capitanio, architetto responsabile dell’ufficio tecnico della città, furono incaricati gli architetti Gian Francesco Lucchini e Giacomo Bianconi (membri di l’Ateneo che nel frattempo finanziava l’edificio) il cui progetto – oggi perduto – prevedeva la chiusura dei portici con finestre e la realizzazione di due grandi ambienti nelle due campate laterali opposte. Il primo per creare un ampio vestibolo con ingresso secondario e il secondo ad uso ufficio e biblioteca.

La distribuzione spaziale fu mantenuta dall’architetto Raffaello Dalpino (anch’egli socio), al quale dobbiamo un nuovo progetto che è stato realizzato e completato nel 1859.

Il progetto dell’architetto Raffaele Dalpino, 1854

Il progetto di Dalpino è un progetto colto e raffinato, con un sapiente uso degli ordini architettonici e un rigoroso rispetto dei moduli adeguati, nelle proporzioni, al sito e al contesto dato dagli edifici preesistenti (5).
Uno spazio apparentemente semplice e simmetrico che in realtà ha diversificato fortemente le due parti attraverso una diversa caratterizzazione degli arredi, delle funzioni e della disposizione delle lapidi (presenti solo nella parte sinistra). Una perfetta combinazione tra la funzione museale e il ruolo istituzionale della sede dell’Ateneo.

Questa configurazione rimase immutata per circa ottant’anni e cioè fino al 1933 quando l’edificio fu ceduto al locale gruppo fascista Garibaldi; furono poi rimosse le collezioni e sostituiti gli arredi.

L’Ateneo con le aperture ancora tamponate (foto non datata)

L’intensa attività culturale dell’Istituzione aveva cominciato ad essere compromessa quando tra il luglio del 1899 e il gennaio del 1900 la biblioteca e i manoscritti erano stati collocati in deposito presso la Biblioteca Civica A. Mai.

Nel 1905 la Società di Cultura di Bergamo si offrì per accogliere ciò che restava della biblioteca degli scambi con le altre Accademie . Nel 1917 la sede fu concessa al Comune per il Museo del Risorgimento (opere d’arte e libri dell’Ateneo vennero quindi trasferiti nella biblioteca Mai). Quando questo fu poi installato in Rocca, i soci dell’Ateneo non poterono rientrarvi, perché al posto dell’istituzione culturale si insediò un’organizzazione fascista.

La rinascita avvenne dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1952, quando l’Ateneo ottenne una nuova sede, in via Torquato Tasso, dove si trova oggi.

Nel quadro di Luigi Brignoli, datato 1934, la mole Ateneo volutamente non compare: la sala sopra il Fontanone è ritenuta ormai inutile, anche perché nel 1933 è stata modificata. In quell’anno l’Ateneo è stato scelto come locazione della sezione del Partito fascista di Città Alta (proprietà Ateneo di Scienze Lettere e Arti)

 

Luigi Brignoli, L’Ateneo e S. Maria Maggiore, 1934 (proprietà Ateneo di Scienze Lettere e Arti)

Dopo molti anni di inattività, il monumento fu restaurato alla fine del secolo scorso per essere adibito a spazio espositivo per mostre temporanee ed eventi pubblici.

Il progetto di restauro dell’architetto Bruno Cassinelli, 1997

 

Sala interna dell’Ex Ateneo oggi

Va detto che quando ancora era accademia, l’Ateneo, a tutt’oggi molto attivo, per lungo tempo ha rappresentato l’unica istituzione interamente dedicata alla cultura. Basti pensare che la Biblioteca Civica arrivò solo più tardi. La sua istituzione non costituì soltanto un cambiamento di tipo amministrativo, dalla fusione nacque un organismo moderno, adeguato ai tempi nuovi che si preparavano.

A duecento anni dall’intitolazione l’Ateneo continua a parlare di storia, con l’intento di far conoscere ai bergamaschi l’origine della società in cui viviamo, affinché ognuno possa orientarsi in questo mondo e capire quale direzione prendere in futuro.

Note

(1) Andreina Franco-Loiri Locatelli per Bergamosera, rivista on line non più esistente.

(2) G. Petrò fa invece riferimento a un “porticus longa” documentato dagli statuti del 1331. Si tratta di una struttura porticata che funge da parapetto al forte dislivello che si crea tra la strada e la platea magna Sancti Vincentii  (Gianmario Petrò, “Dalla Piazza di San Vincenzo alla Piazza Nuova”. I luoghi delle istituzioni tra l’età comunale e l’inizio della dominazione veneziana attraverso le carte dell’archivio notarile di Bergamo”. Bergamo, Sestante, 2008).

(3) Ronchetti, “Memorie storiche”, 1838 (Vol. V, pag. 83).

(4)The International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, Volume XLVIII-M-2-2023 29th CIPA Symposium “Documenting, Understanding, Preserving Cultural Heritage: Humanities and Digital Technologies for Shaping the Future”, 25–30 June 2023, Florence, Italy. THE PALAZZO DELL’ATENEO IN THE UPPER CITY OF BERGAMO (CITTÀ ALTA): NEW DOCUMENTATION AND CONSERVATION STUDIES. Alessio Cardaci , Antonella Versaci, Pietro Azzola.

(5) G. Colmuto Zanella, 2001  L’elegante e ben inteso Edifizio sopra il fontanone visconteo, in “L’Ateneo dall’età napoleonica all’unità d’Italia”, Edizioni dell’Ateneo, Bergamo, 249-276.

Riferimenti
Renato Ravanelli, “Palazzo dell’Ateneo”, Bergamo: una città e il suo fascino, Grafica e arte, Bergamo, 1977, pagg. da 174 a 175.

Luigi Angelini, “La costruzione trecentesca del Fontanone”, La Rivista di Bergamo già “Gazzetta di Bergamo”, Anno VII, n. 11, Edizioni della Rotonda, Bergamo, Novembre 1956, pagg. da 3 a 4.

“L’elegante e ben inteso edifizio…sopra il Fontanone Visconteo” – Andrea Pasta alla presentazione del nuovo Museo Lapidario, 1775.

The International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, Volume XLVIII-M-2-2023 29th CIPA Symposium “Documenting, Understanding, Preserving Cultural Heritage: Humanities and Digital Technologies for Shaping the Future”, 25–30 June 2023, Florence, Italy. THE PALAZZO DELL’ATENEO IN THE UPPER CITY OF BERGAMO (CITTÀ ALTA): NEW DOCUMENTATION AND CONSERVATION STUDIES. Alessio Cardaci , Antonella Versaci, Pietro Azzola.

L’Eco di Bergamo, 17 giugno 2010. Intervista a Maria Mencaroni Zoppetti. “La passione per la città nasce dalla necessità di capirla”.

Bergamo nel Dipartimento del Serio (1797-1814), i cambiamenti nella città e nel territorio e l’introduzione del catasto

Con il trattato di Campoformio, dopo circa tre mesi dal suo stabilimento, la Repubblica Bergamasca (subentrata alla caduta del dominio veneziano su Bergamo) entrava a far parte della Repubblica Cisalpina (promulgata nel luglio del 1797), ponendo fine alla breve esperienza di autogoverno cittadino: Bergamo, in qualità di capoluogo del Dipartimento del Serio, veniva ora a dipendere dal potere centrale milanese assumendo un nuovo ruolo rispetto al passato: da città di confine entrava in diversa relazione con il resto della Lombardia.

La suddivisione politica dell’Italia nel 1796 prima della costituzione della Repubblica Cisalpina

 

Configurazione del Nord e del Centro Italia nel 1799. Con il trattato di Campoformio, dopo circa tre mesi dal suo stabilimento la Repubblica Bergamasca entra a far parte della Repubblica Cisalpina come Dipartimento del Serio, restandovi sino al decadere del Regno d’Italia seguito dall’avvento del Regno Lombardo-Veneto e dell’occupazione austriaca. L’istituzione del dipartimento segna la fine delle articolate autonomie di cui avevano goduto le valli orobiche durante il dominio veneziano

Intanto in Europa si stava preparando la prima coalizione contro la Francia. Mentre Napoleone di trovava in Egitto, nella primavera del 1799 scendevano in Lombardia gli Austro-Russi, comandati da Suvarow.

Ricevuta di pagamento daziario, durante il periodo dell’occupazione austro russa a Bergamo

Il Direttorio bergamasco della Cisalpina si scioglieva e i suoi membri emigravano. I cosacchi entravano in Bergamo da Porta Broseta il 24 aprile spargendo terrore nella città. L’evento è ricordato in due dipinti di Marco Gozzi, collocati in una cappella del Santuario di Borgo Santa Caterina.

Ex-voto di Marco Gozzi (1759-1839) rappresentante un evento miracoloso: il passaggio di truppe francesi ed alemanne in Borgo Santa Caterina, avvenuto senza arrecare danni. Nel dipinto, la Madonna Addolorata venerata nel Santuario proteggere dall’alto i suoi devoti. Il borgo è osservato dal ponte della Morla e in prospettiva è visibile la colonna posta al centro della via

 

Gli Austro Russi in Borgo S. Caterina. Ex voto (1799). Bergamo. Santuario di Borgo S. Caterina. Il dipinto rappresenta l’ingresso nel borgo di S. Caterina, in data 14 aprile 1799, di un distaccamento austro-russo che insegue truppe francesi

Ma questo stato di cose durò breve tempo: nel novembre Bonaparte ritornava dall’Egitto a Parigi, veniva eletto primo console; nella primavera del 1800 piombava nuovamente in Italia; sconfiggeva nel giugno gli austriaci a Marengo e il territorio orobico entrava a far parte della seconda Cisalpina  (1800-1802). Con la Consulta di Lione del 1802 si emanava una nuova costituzione e nasceva così sotto la Vice-Presidenza di Francesco Melzi d’Eril la Repubblica italiana (1802-1805), che alla proclamazione del maggio 1805 di Napoleone Imperatore dei Francesi, doveva divenire Regno d’Italia (1805-1814) sotto il comando del Vice-Re Beauharnais.

Dipartimenti napoleonici italiani. Il Dipartimento del Serio vede definiti i propri confini nel 1801 con l’acquisizione della Valle Camonica, che farà parte della provincia bergamasca fino all’Unità; altra importante rettifica rispetto al periodo veneto era stata nel 1798 l’annessione, a sud, della Gera d’Adda e della Calciana

Se con la prima Cisalpina si era affermata una classe dirigente composta da uomini già politicamente attivi nei mesi della repubblica democratica (con Marco Alessandri e Girolamo Adelasio nel Direttorio), con la proclamazione della Repubblica italiana e quindi del Regno d’Italia venne realizzato un apparato statale fortemente centralizzato, che determinò la fine della autonoma organizzazione della municipalità di Bergamo, tanto che nel 1805 l’albero della libertà scomparve dalle piazze cittadine per decreto sovrano.

Il regime chiedeva ora la collaborazione di notabili più moderati e conservatori, scelti fra i proprietari terrieri, la borghesia ricca dei commerci e delle professioni, gli intellettuali, i gradi alti dell’esercito, a cui concedeva cariche di prestigio, onorificenze e titoli nobiliari, col proposito di allargare le basi del consenso e di ridurre la resistenza al nuovo assetto statuale.

Lettera spedita a Brescia a Bergamo nel 1798, nel periodo della Repubblica Cisalpina

In contrasto con l’atteggiamento personale del vescovo Dolfin, che appoggiava la politica francese, il clero continuava ad opporsi esplicitamente al governo, esercitando una forte influenza su una popolazione saldamente ancorata ai principi religiosi.

Vincenzo Bonomini (1757- 1839), “Il soldato tamburino”, chiesa di S. Grata inter vites, Borgo Canale (Bg). Vestito di verde, bianco e rosso, i colori della bandiera italiana, nata allora in Lombardia come vessillo della Repubblica Cisalpina, e che poi sarà adottata dal nuovo Stato unitario

 

Vincenzo Bonomini (1757- 1839), “Il soldato tamburino” (particolare), chiesa di S. Grata inter vites, Borgo Canale (Bg). Alle spalle del soldato, le truppe napoleoniche

Tale opposizione si era avviata nel periodo “giacobino” (1797), con le soppressioni di conventi e monasteri e relativo incameramento dei beni (nel 1810-1811 si giunse alla soppressione di tutti gli istituti religiosi), la chiusura del seminario, le requisizioni di argenti, le proibizioni di processioni e di altre manifestazioni esteriori di culto, che avevano cominciato ad offendere il sentimento religioso di gran parte del popolo; ma proseguì anche negli anni successivi, quando Napoleone cercò la riconciliazione con la Chiesa quale mezzo indispensabile per la stabilità politico-sociale, nonostante in nome della difesa della laicità dello stato e della razionalizzazione della vita religiosa e della cura pastorale, Napoleone avesse anche decretato la riduzione del numero delle parrocchie, che a Bergamo scesero da 15 a 7.

A tali provocazioni, il clero locale rispose con la scarsa disponibilità a collaborare e con la diffidenza, ma anche con l’opposizione oltranzista di carattere politico operante attraverso l’attività clandestina delle congregazioni di San Luigi o Mariane.

Scorcio del Mercato delle Scarpe e dell’imbocco di via Porta Dipinta verso il 1870, in una litografia di G. Elena (Racc. Vimercati Sozzi, Bibl. Civica)

In quell’epoca contrassegnata, con Bonaparte,  da rivolgimenti sociali, politico-amministrativi e militari, nell’arco di pochi anni non solo mutarono le strutture politiche e si ridefinirono le classi dirigenti, ma si crearono anche istituzioni di gestione dell’economia e del “soddisfacimento del bisogno sociale” che ebbero un valore epocale, e non ultima la nascita del Codice di Commercio e delle Camere di Commercio.  La prima sede della Camera di Commercio a Bergamo, è la “sala maggiore del Palazzo Civico” (attuale sede della Biblioteca A. Mai), dove già aveva esercitato la Camera dei Mercanti.

Con la legge del 26 agosto del 1802, Francesco Melzi d’Eril, vice presidente della neonata Repubblica Italiana, stabilisce che in tutto il territorio ogni Tribunale mercantile debba denominarsi Camera Primaria di Commercio attuando con ciò una rottura con le precedenti istituzioni dell’ancien regime: lo Stato diventa garante del progresso economico e mediatore tra gli interessi economici che esprimono le diverse forme imprenditoriali, dell’artigianato o dell’agricoltura. Anche a Bergamo, il 15 novembre 1802, nasce la Camera di Commercio, i cui membri (appartenenti al mondo imprenditoriale) inizialmente sono di nomina governativa, ma successivamente saranno eletti dagli stessi commercianti sulla base di una nuova forma di verifica delle ricchezze imponibili. La prima sede della Camera di Commercio è la “sala maggiore del Palazzo Civico” (attuale sede della Biblioteca A. Mai), dove già aveva esercitato la Camera dei Mercanti, ma già nel 1803 si comincia a sistemare l’ex Tribunale per offrire alla Camera una sede autonoma. Dapprima si trasferì in un locale in via Aquila Nera dove vi restò dal 1804 al 1809, momento in cui la Camera di Commercio trovò una sistemazione in Città bassa

Cambiò il corpus legislativo e amministrativo; al Comune vennero assegnati compiti nei campi dell’istruzione, dell’assistenza, del controllo anagrafico, che erano prima di quasi esclusiva competenza di organismi caritatevoli ed ecclesiastici. Vennero completamente riorganizzati gli uffici comunali, introdotta la nuova figura del Segretario generale e l’uso del protocollo nella scrittura degli atti comunali.

Venne aggiornata secondo nuovi e più moderni criteri la fiscalità, e con l’introduzione della registrazione catastale delle proprietà immobiliari, venne imposta una perequazione fiscale più razionale ed omogenea (prima di allora la tassazione era basata sulle denunce dirette dei proprietari) (1).

(1) Ispirato al modello Teresiano, il catasto napoleonico  è concepito come strumento di accertamento e perequazione fiscale. Prima di allora la tassazione era basata sulle denunce dirette dei proprietari. Con il catasto, in Provincia di Bergamo, per alcune zone già a partire dalla prima metà del Settecento con il Catasto Teresiano, viene introdotto un criterio razionale di individuazione geometrico-particellare del bene immobile e una meticolosa procedura di determinazione della rendita per il calcolo dell’imposta prediale. Si avviano così le operazioni per la prima catastazione condotta con criteri moderni sul territorio bergamasco, ovvero per tutta quella parte dell’attuale provincia che era sottoposta a Venezia, mentre per i ventiquattro comuni ex milanesi le rilevazioni erano già state fatte al tempo del catasto cosiddetto Teresiano. Nel dipartimento del Serio i lavori iniziano nel 1808 sotto la direzione dell’ingegner Giuseppe Manzini e si concludono nel 1813. In tale occasione viene composta la prima mappa di Bergamo in scala 1:2000; il documento, fonte di straordinaria importanza per la conoscenza del tessuto urbano, è conservato all’Archivio di Stato di Milano (una Pianta di Bergamo dell’ingegner Giuseppe Manzini – Acquaforte – è conservata presso la Biblioteca civica A. Mai).

Si procedette alla realizzazione di un nuovo ordinamento territoriale, strutturato secondo una più ordinata geografia dipartimentale, e in linea con un’ottica tutta urbano-centrica si procedette persino ad una ricognizione urbana ed extraurbana del territorio circostante, con l’evidente finalità di procedere verso la costituzione di un regesto generale dei beni architettonici, archeologici e ambientali di maggiore risonanza popolare.

A tale scopo, il pittore bergamasco Marco Gozzi (1759-1839) ricevette l’incarico, prima dal governo francese e poi da quello austriaco, di fornire annualmente all’amministrazione quadri di paesaggi che rilevassero topograficamente alcuni spazi di vedute e paesaggi del territorio lombardo, e con lui si inaugurò il filone del paesaggio moderno lombardo.

Avviso riguardante le estrazioni del lotto, 1804

I diversi provvedimenti adottati in materia sociale, assistenziale, religiosa, culturale, scolastica, sanitaria (questi ultimi determinando la costruzione di campisanti fuori dall’abitato) e urbanistica, produssero evidenti effetti sulla struttura della città, che subito dopo il passaggio delle truppe francesi si vide cambiare volto attraverso una serie di opere pubbliche, concepite secondo un ottica di decoro cittadino.

Bergamo, Cimitero di Valtesse, soppresso nel 1920. Con l’Editto di Saint-Cloud, emanato in Francia nel 1804 per motivi d’igiene e di salute pubblica, il seppellimento doveva  avvenire non più nelle chiese, nei sagrati o negli spazi ad essi adiacenti (“Coemeterium Plebis”), ma in appositi recinti da collocarsi fuori dalle mura cittadine: nascevano così i moderni cimiteri,  che ancora chiamiamo “campisanti” a ricordo del loro antico uso

 

DUE PAROLE SULLA FIERA

Il periodo della dominazione napoleonica segna l’ampliamento delle dimensioni del commercio fieristico, preparando l’economia bergamasca ad entrare nel più vasto mercato lombardo e a trarne presto vantaggi, per confronto concorrenziale con la dinamica presenza industriale milanese.

Durante il periodo napoleonico, in tempo di fiera si commerciavano panni di lana, ferrarezza, pietre coti, tele bianche (cotone), sete; il tutto rappresentava il sostentamento della città e del suo territorio

Tra i provvedimenti per il miglior funzionamento, l’ordine e l’organizzazione generale della fiera, nel 1809 si provvede a spostare le botteghe del ferro e nel 1810 il mercato dei bovini, trasferito dal Lazzaretto alla fiera.

Insieme agli altri, anche i provvedimenti di decoro pubblico contribuiscono a fare della fiera un luogo d’incontro e di cultura di tutta la popolazione bergamasca.

D’altro canto però le guerre aggravano anzitutto il problema dell’insufficiente produzione di frumento e gli eventi europei incidono negativamente anche sullo scarso sviluppo della rete viaria (il commercio di transito che da Venezia alla Svizzera, Germania e Olanda passava per la dogana di Bergamo, era via via scemato anche a causa della mancata manutenzione della strada della Val S. Martino e della Ca’ S. Marco).

 

LA CITTA’ NEL PERIODO NAPOLEONICO

In seguito alla soppressione di tutti gli istituti religiosi, avviata nel 1797 e portata a termine nel 1810-1811 con relativo incameramento dei beni, nell’ottica della riorganizzazione dei centri di potere i conventi e i monasteri vengono convertiti in caserme, uffici doganali, carceri, case di lavoro, ospedali, ospizi (mentre il previsto nuovo manicomio presso il Convento di Astino non verrà realizzato).

All’architetto viennese Leopoldo Pollack è affidata la risistemazione ad uso di carcere dell’enorme complesso edilizio dell’ex convento di S. Agata, anche se il progetto verrà realizzato solo per piccoli lotti a causa di difficoltà burocratiche e finanziarie.

Bergamo, ex-convento di Sant’Agata, fronte del cortile interno. Il complesso conventuale eretto dai Teatini nella prima metà del Seicento, è stato adibito a carcere dal 1797 al 1977

 

Pianta dell’edificio delle carceri di S. Agata, architetto Pollack (Archivio di Stato di Bergamo, Tribunali Giudiziari, bb 1775 c 1776)

 

Sezioni dell’edificio delle carceri di S. Agata, architetto Pollack (Archivio di Stato di Bergamo, Tribunali Giudiziari, bb 1775 c 1776)

Il principio della concentrazione delle opere di beneficenza nella Congregazione di carità (1807) comporta l’unificazione nella Casa del Conventino dell’Istituto delle orfane.

L’Orfanatrofio femminile presso la Casa del Conventino, nel 1906

Il cosiddetto bando della mendicità (era fatto divieto ai mendicanti di questuare per le strade) determina l’istituzione dell’Ospedale della Maddalena per incurabili ed inabili al lavoro.

Il portone della chiesa della Maddalena, in via S. Alessandro

Il convento dei francescani di S. Maria delle Grazie viene trasformato nel 1811 in Albergo per i poveri (casa di ricovero delle Grazie), fuori delle Muraine.

Il chiostro del convento dei francescani di S. Maria delle Grazie

 

Affacciato sullo slargo di Porta Nuova, l'”Albergo dei poveri” (ex convento francescano di S. Maria delle Grazie), istituito nel 1811

La legislazione scolastica, che prevede tra l’altro l’apertura di scuole pubbliche presso ogni sede parrocchiale (1801), porta con la riforma del nuovo liceo dipartimentale all’acquisto dell’ex convento di Rosate (1803) e alla fondazione dell’Istituto musicale (1805).

Il colle di Rosate, culminante in corrispondenza del Liceo Sarpi (Ph Walter Barbero, da “Bergamo”)

 

Parte della Città col convento di S. Grata, gli archi della cinta medioevale, il convento a destra di S. Maria di Rosate e il Palazzo a sinistra dei Sozzi (sec. XVI) ora Seminario (Raccolta Conte Piccinelli)

Sull’onda rivoluzionaria che diffondeva certo aggiornamento ad una modernità con opere utilmente pubbliche, entro il primo decennio dell’Ottocento si eressero una serie di edifici, che rientravano in quel processo di espansione delle infrastrutture e dei servizi che è proprio della politica urbanistica napoleonica.

Si completava così il maggior teatro della città in piano, il teatro Riccardi, ricostruito da Bortolo Riccardi dopo un terribile incendio e riaperto al pubblico nel 1799.

Il Teatro Riccardi sul Sentierone, in seguito riadattato e intitolato a Gaetano Donizetti

Nel 1797, mentre cadeva la repubblica di Venezia era in corso di costruzione del grande Palazzo Grumelli-Pedrocca (lungo l’attuale via S. Salvatore) su progetto di L. Pollack: un estremo aggiornamento stilistico in una Bergamo alta che aveva ormai perso la funzione di centro cittadino e dove – ironia della sorte – i  nobili che in gran parte la occupavano si riconoscevano nelle colte intuizioni linguistiche dell’architetto viennese.

Palazzo Grumelli Pedrocca (1797), in via S. Salvatore, progettato dal Pollack (Ph Walter Barbero, da “Bergamo”)

 

L’ingresso di Palazzo Grumelli Pedrocca (1797), in via S. Salvatore, progettato dal Pollack (Ph Walter Barbero, da “Bergamo”)

Ed è proprio alla presenza dell’aristocrazia che si deve il più importante intervento architettonico realizzato in Bergamo alta nei quindici anni della presenza napoleonica, quando, nel 1803, una società di nobili appositamente formatasi, commissiona al Pollack il progetto di un teatro (teatro della Società o dei Nobili, oggi noto come Teatro Sociale) che sostituisca la poco dignitosa sistemazione provvisoria (dal 1797) di un teatro nel Palazzo della Ragione e faccia concorrenza all’unico vero teatro della città (esistente dal 1770 davanti alla fiera).

Sezione del Teatro Sociale, disegnata dall’architetto viennese Leopold Pollack

 

Il Teatro Sociale, realizzato tra il 1806 e il 1809 su disegno dell’architetto Pollack, prende corpo all’interno di una delle più complesse operazioni edilizie sperimentate nel cuore della città antica. Pur non rinunciando a un disegno rigorosamente neoclassico, la Pollack usa accortamente i materiali per armonizzare il grande edificio al contesto medievale, cosciente della funzione di recupero della storia

L’area prescelta, alle spalle dell’ex Palazzo del Podestà e affacciata sulla via principale (attuale via B. Colleoni), è significativa della volontà di rilanciare la “centralità” (se non altro mondana) di Bergamo alta; e in effetti, con la restaurazione austriaca sul Lombardo-Veneto Bergamo alta verrà ad essere interessata da una serie di interventi che la riproporranno, se non come unico polo della centralità urbana, come uno dei luoghi di più alto interesse della vita cittadina, il primo dei quali, nel 1818, sarà la sistemazione a sede dell’“Ateneo di Scienze, Lettere e Arti”, laddove il portico, costruito nel 1759 sul fontanone visconteo (a est di S. Maria Maggiore), sembra voler indicare nelle sedi istituzionali della cultura uno degli strumenti per la rivitalizzazione della città alta: una tendenza che persisterà nel successivo periodo austriaco (2).

(2) A questi interventi seguirà infatti l’’apertura del Conservatorio musicale, la sistemazione a biblioteca del Palazzo della Ragione, la costruzione della grande sede del liceo-ginnasio sul sito dell’appositamente demolito convento di S. Maria di Rosate,  oltre che la nuova sede del Seminario vescovile e gli  interventi volti a restituire il circuito delle mura veneziane all’uso civile.

Particolare del portico, costruito nel 1759 sul fontanone visconteo, ad est di S. Maria Maggiore, laddove nel 1818 avverrà la sistemazione a sede dell’“Ateneo di Scienze, Lettere e Arti”, istituito con decreto napoleonico il 25 dicembre 1810 allo scopo di fondere in un unico organismo l’Accademia degli Eccitati e quella degli Arvali, secondo la tendenza illuminista volta a riformare e unificare gli istituti culturali.  Ma sarà solo nel 1818 che l’Imperial Regia Delegazione Provinciale disporrà di dare come sede definitiva il pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone in Piazza Duomo

 

Si collocano nel quadro delle avanguardie culturali europee eminenti figure di bergamaschi come Lorenzo Mascheroni, letterato e scienziato. Patrimonio di pochi singolari personaggi sono i fermenti di studiosi solitari o riuniti in associazioni, opere di scienziati, atti munifici dettati da un nuovo e più aperto concetto di cultura, estesa all’intera comunità (nell’immagine, l’inaugurazione del monumento a Lorenzo Mascheroni, il 5 settembre 1897, nel Boschetto di Santa Marta)

Ai margini della città antica, nello storico borgo San Tomaso, l’Accademia, voluta dal conte Giacomo Carrara, assume più nobile forma su disegno di Simone Elia, concludendosi nel 1810.

L’Accademia, fondata nel 1780 dal conte Giacomo Carrara, comprende una scuola di disegno secondo il gusto del tempo orientata al recupero della misurra classica, ed una galleria di 1500 dipinti aperta al pubblico con “chiara e antiveggente liberalità”

 

La chiesetta di S. Tomaso, demolita nel 1868 per la sistemazione della nuova piazza dell’Accademia

Da leggere invece nell’ottica nella celebrazione del potere sono i progetti che si susseguono per la trasformazione dell’Obelisco di Prato, che viene dedicato a Napoleone…

L’obelisco dedicato a Napoleone Bonaparte. L’obelisco era stato eretto in realtà in onore del podestà e vice capitano della Repubblica Veneta  Gianfranco Correr per essersi tanto prodigato durante la grave carestia del 1775. A seguito dell’invasione francese del 1797, venne dedicato a Napoleone, ma nel 1801, con l’occupazione austro-russa della città, l’intestazione venne rimossa. Con il ritorno delle truppe francesi in Bergamo, si riportò il nome di Napoleone sull’obelisco, dal quale peraltro venne cancellato intorno al 1815. Ma le peripezie dell’intitolazione non finiscono qui

…nonché i diversi monumenti di architettura effimera che nel periodo vengono eretti in città e l’abbellimento di porta Osio, all’incrocio tra via Moroni e via Palma il Vecchio, che ora rappresenta la nuova direttrice principale verso Milano.

Costantino Rosa, La diligenza per Milano a Porta Osio, 1850

 

Porta Osio, la porta aperta nelle muraine sulla direttrice per Milano. Di questa porta oggi resta una costruzione che si pensa possa essere stato il casello del dazio

Si fa progettare dall’architetto G. Quarenghi un disegno per costruire fuori Porta Osio un arco di trionfo da erigere per l’arrivo imminente a Bergamo di Napoleone Bonaparte. Il progetto non fu mai realizzato.

Progetto di G. Quarenghi per un arco trionfale da erigersi a Porta Osio (Bergamo) in onore di Napoleone Bonaparte (B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, ed. Bolis, Bergamo, 1989)

Si provvede all’edificazione della strada di Circonvallazione fuori delle Muraine.

 

Via Pitentino, oggi Frizzoni, nel 1916. La cosiddetta Strada di Circonvallazione lambiva esternamente gran parte del tracciato delle Muraine – a sua volta costeggiato dalla Roggia Serio – che racchiudevano i Borghi della Città Bassa e si raccordavano alle Mura veneziane di Città Alta nei pressi di Porta Sant’Agostino da una parte e di Porta San Giacomo dall’altra

Con la caduta di Venezia e la conquista napoleonica, perduto il ruolo di città di frontiera Bergamo vede ulteriormente indebolito il ruolo strategico-militare della cinta murata cinquecentesca; venute meno tutte le preoccupazioni di carattere difensivo, la poderosa macchina bellica abbandona la funzione di struttura militare e a poco a poco prende a trasformarsi in un privilegiato luogo di passeggio, affacciato sulla città e la pianura.

Nelle vedute settecentesche come quella di Fossati, riprese dal Fortino presso la chiesa di S. Maria del Giglio, cogliamo la perdita ormai imminente della funzione militare delle Mura: benché ancora dotate di un forte risalto protettivo, le vedute ci restituiscono un’atmosfera serena, con figure che passeggiano e cavalieri.

Bergamo Alta vista da Porta S. Giacomo – Giorgio Fossati (1704 – 1785). Con la fine della dominazione veneta e l’ingresso dei Francesi in città, la vita civile prende il sopravvento sui vincoli militari, la città comincia progressivamente a riappropriarsi dei suoi spazi e a  fiorire

Sulla scia di una tendenza ormai in atto, nel 1781 il podestà Alvise Contarini propone di trasformare in passeggiata le Mura da S. Giacomo a S. Agostino, tratto che doveva essere molto frequentato se nel 1795 si doveva già provvedere al restauro dei “divisati deliziosi passeggi e giardini pubblici”, e all’abbassamento del tratto di vecchie mura pericolanti fuori Porta S. Giacomo, lungo la strada che porta a Borgo S. Leonardo (3).

(3) Monica Resmini, Le Mura, cit. in bibliografia.

F.B. Werner, Veduta prospettica di Bergamo, Ausburg, 1740 (Archivio Storico A. Mai, Bergamo)

Scompaiono i cannoni, vengono tolte le garitte e demoliti i terrapieni. I ponti lignei di accesso alle porte delle Mura vengono sostituiti da ponti in muratura, e le porte definitivamente aperte.

Porta S. Giacomo – Ex voto – Anonimo, 1727. Il dipinto, con lo stemma dei Tasso e la carrozza della contessa M. Tasso, mostra ancora le garitte sullo spalto e la struttura in legno con il ponte levatoio, che nel 1780 verrà sostituito con archi in pietra dal Podestà veneto Alvise Contarini  (Bergamo, proprietà S. Angelini)

 

Scorcio su Porta S. Giacomo con la rampa di raccordo in muratura, in una xilografia settecentesca

Le idee illuministiche di decoro urbano, legate a uno sfruttamento più razionale degli spazi, portano con sé nuovi canoni estetici che impongono l’ampio utilizzo del viale alberato.

Porta S. Giacomo e il viale alberato fino a S. Agostino, in una ripresa datata 1903

Lungo la cinta bastionata, il primo ad essere piantumato, a ippocastani e platani, è il tratto tra Porta S. Agostino e Porta S. Giacomo; resi più accessibili e “alla moda”, i baluardi cominciano ad animarsi di cittadini a passeggio.

Dopo la piantumazione di questo primo tratto, viene sistemata a verde l’area nei pressi della Porta di S. Alessandro. Il modello del viale alberato sperimentato sulle Mura verrà adottato anche nei nuovi rettifili realizzati in città.

Pietro Ronzoni, Complesso di Sant’Agostino: veduta meridionale dal Baluardo di San Michele, 1837 (Milano, Quadreria dell’800). Nell’agosto del 1837 viene aperto al pubblico passagio la barriera delle Grazie di Porta Nuova dove erano stati costruiti i Propilei; poi nel settembre dell’anno successivo, a Bergamo, avviene la storica visita dell’imperatore Ferdinando I d’Austria. Il grande evento favorisce la costruzione della strada che unisce i Propilei di Porta Nuova alla Porta Sant’Agostino, denominata Ferdinandea, appunto, in onore dell’Imperatore. Il tracciato del viale (oggi intitolato a Vittorio Emanuele II) è costeggiato dagli alberi e nella parte finale incontra l’antica porta Sant’Agostino

Acquisiti da parte dell’amministrazione comunale i terreni degli spalti, si provvederà a piantumare il tratto da Porta S. Giacomo a Porta S. Alessandro.

Verranno effettuati degli imponenti interventi neoclassici, in linea con la tendenza che per tutto il Settecento vedrà l’apertura, nella città sul colle, di cantieri privati per la trasformazione o l’edificazione di palazzi signorili.

Palazzo Medolago Albani, costruito dal 1873 al 1891 dall’Arch. Simone Cantoni. Caratteristico il lampione a gas (ripresa del 1910 circa)

Con il tempo, anche il colle di S. Vigilio, posto al culmine della città, si ricoprirà di una folta cortina alberata e di una serie di ville di delizia, sorte per godere dell’invidiabile posizione panoramica.

Nelle aree poste ai piedi delle Mura, orti e vigneti si riappropriano dei pendii collinari, assediandoli con le loro volute e tappezzandoli di calde policrome: svanito il timore che eventuali nemici possano mimetizzarsi nella macchia e avvicinarsi senza essere visti, la severa e fredda cinta di pietra si trasforma in un bucolico giardino pensile.

In dipinto ottocentesco, di cui non si conosce l’autore, è ambientato sullo spalto del convento di S. Agostino, dove alcuni uomini sono intenti nel gioco delle bocce (Bergamo, proprietà S. Angelini)

La Pianta della città e del territorio di Bergamo, realizzata da Stefano Scolari nel 1680, mostra la doppia cortina presente nella città: le mura venete, che circondano l’abitato sul colle, e la barriera daziaria delle Muraine, che dalle Mura scende a contenere i borghi come abbracciandoli.

Planimetria prospettica di Bergamo Alta e dei Borghi – Incisione veneta stamp. da Stefano Scolari, Venezia, metà secolo XVII (uff. Tecnico Comune di Bergamo)

Quasi due secoli dopo, le mappe ad opera dell’ingegner Manzini, realizzate a cinquant’anni di distanza l’una dall’altra (1816 e 1863), rifletteranno i mutamenti avvenuti per le infrastrutture e l’estensione dell’edificato nella parte centrale dell’Ottocento, mutamenti che hanno seguito i vincoli imposti dalle cinte murarie ma hanno anche sottolineato la necessità e la possibilità di un loro superamento.

Pianta della Città di Bergamo e dei Borghi esterni redatta nel 1816 dall’ingegnere e architetto Giuseppe Manzini

L’EVOLUZIONE DEI CONFINI DELLA CITTA’ IN UN ARTICOLO

Nonostante la vicenda territoriale del Comune di Bergamo suggerisca l’immagine di un nucleo che si allarga o si ritrae senza spostare il suo centro né il suo asse, soprattutto negli ultimi due secoli la storia dei confini del Comune di Bergamo è abbastanza tormentata.
“Il tramonto del XIV secolo coglieva Bergamo nel pieno della signoria viscontea, dopo aver sostanzialmente esaurito un’esperienza municipale durata oltre due secoli.
Negli statuti cittadini – che ancora si emanavano nonostante le mutate condizioni politiche – le comunità di Colognola, Daste, Dalcio, Palazzo, Grumello e Calvi erano invece riportate come Comuni autonomi.
Anche la descrizione confinaria del 1392 escludeva la maggior parte di queste entità – dai limiti non sempre ben precisati – mentre comprendeva i territori di Torre Boldone e di Rosciano, ora frazione di Ponteranica. Colognola e le altre comunità citate, insieme con Lallio e Curnasco, sarebbero comunque state presto annesse al territorio di Bergamo, che sotto il dominio veneziano non subì cambiamenti di rilievo.

Le «grandi manovre» iniziarono nel 1797 quando Valtesse, Redona, Torre Boldone, Colognola, Grumello del Piano, Curnasco e Lallio si costituirono in Comuni autonomi.
Il decreto del 1805, che favoriva – ma sarebbe meglio dire imponeva – l’accorpamento dei piccoli municipi, avrebbe ispirato però una decisa inversione di tendenza.
Fu infatti il periodo napoleonico a segnare, per pochi anni soltanto, la nascita di una «grande Bergamo» che aveva accorpato ben 28 comuni della cintura (compresi Ponteranica, Seriate e Stezzano) e vedeva la circoscrizione cittadina confinare direttamente con Nembro, Zanica e Zogno.
Si era creato un maxi distretto amministrativo- dove il Comune coincideva con il cantone bergamasco – che era anche il simbolo del ruolo preminente affidato al capoluogo.

I provvedimenti legislativi seguiti alla Restaurazione si preoccuparono di restituire a tutti i Comuni della cintura la loro autonomia.
Intorno al Comune cittadino, ora confinato territorialmente al centro città, si costituiva in municipio il Circondario dei Corpi Santi, corrispondente ai Comuni censuari di Valle d’Astino, Boccaleone e Castagneta.
La nuova entità amministrativa – che riesumava una partizione territoriale del periodo veneziano – ebbe però vita brevissima perché nel 1818 fu di nuovo incorporata alla città.

L’inizio del ’900 vide il riproporsi dei tentativi di aggregazione dei Comuni finitimi. Nel 1918 il Municipio di Bergamo deliberò la richiesta di annettere a sé i territori di Valtesse, Redona, Colognola, Grumello del Piano e in parte di Ponteranica, incontrando l’ovvia opposizione dei Comuni interessati.

Non se ne parlò più fino al 1927, quando la commissione reale incaricata della riorganizzazione municipale diede parere favorevole a tutte le richieste d’annessione, eccezion fatta per quella del Comune di Seriate.

Nemmeno il dopoguerra vi operò modifiche importanti, eccezion fatta per una permuta del 1954 con Orio al Serio, necessaria alla ricostruzione del cimitero distrutto per far posto al campo di aviazione, e per una rettifica di confine con Ponteranica nel 1969.

L’ultima variazione in ordine di tempo risale al 1983, con l’annessione della borgata di Nuova Curnasco e di alcune aree appartenenti a Treviolo. Da quel momento Bergamo raggiunse l’attuale estensione di 3960 ettari” (4).

(4) Prove tecniche di “Grande Bergamo” – Paolo Oscar. L’Eco di Bergamo, 8 ottobre 2000.

Riferimenti

Da: Fondazione Bergamo nella Storia (riferimento essenziale)

Walter Barbero, Bergamo, Electa, 1985.

A cura di Paolo Cesaretti, Le Mura. Da Antica Fortezza a Icona Urbana. Testi di Monica Resmini, Renato Ferlinghetti e Gianmaria Labaa. Bolis, 2016.

Pacì Paciana: il brigante eroe contro i francesi 

Conclusa la breve esperienza di autogoverno cittadino (Repubblica Bergamasca) nel luglio del 1797 Bergamo veniva a dipendere dal potere centrale milanese, in qualità di capoluogo del Dipartimento del Serio.

Nel periodo napoleonico, le gravi congiunture politiche ed economiche, il continuo regime di guerra, il peso della tassazione (le imposte francesi erano circa sette volte maggiori rispetto a quelle venete) e l’introduzione nel 1802 della coscrizione obbligatoria, fecero precipitare il conflitto tra le popolazioni e l’autorità politica, tra la città e soprattutto le valli, dove le divergenze continuarono a permanere per tutto l’Ottocento.

Con la coscrizione, ogni dipartimento doveva fornire un contingente anno per anno, proporzionale alla popolazione e in rapporto alle esigenze belliche. Gli uomini fra i 18 ed i 50 anni dovevano prestare servizio presso la Guardia Nazionale per 1 lira e 15 soldi al giorno. Era prevista la possibilità di farsi sostituire a proprie spese da altri, possibilità che potevano cogliere solo le classi sociali più abbienti, le uniche in grado di pagarsi un sostituto (come avvenne per Gaetano Donizetti e l’amico Dolci). La nuova coscrizione (1802) impose l’assenza da casa per quattro lunghi anni in tempo di pace e per un tempo indefinibile in stato di guerra, e non pochi bergamaschi furono partecipi alla infelice campagna di Russia; tra il 1797 e il 1814, dei 200.000 uomini che combatterono nelle milizie italiche, 125.000 morirono in battaglia o per cause connesse alla guerra.

Così, all’obbligo del servizio militare – novità resa ancora più impopolare dalla pratica della supplenza -, si rispose massicciamente con la diserzione, aggravando di conseguenza l’endemico brigantaggio locale che, alimentato anche dal contrabbando del sale e del tabacco, era sempre operativo nel territorio e particolarmente nelle valli, dove bande organizzate saccheggiavano case, terrorizzando le popolazioni. Orde di briganti furono segnalate in Val Camonica, in Val di Scalve, in Val Caleppio (1).

L’alta Val Camonica

I disordini, già difficilmente controllabili in un dipartimento di confine e per di più prevalentemente montuoso come quello orobico, furono tali da determinare nel 1805 l’attivazione di un tribunale speciale e la nomina di un commissario d’alta polizia, al fine di controllare l’ordine pubblico.

Viaggiatori assaliti dai briganti, dipinto di Bartolomeo Pinelli (1817).

E non si può parlare di briganti senza pensare all’inafferrabile Vincenzo Pacchiana detto Pacì Paciana, verso la cui figura, storia, leggenda, tradizione e verità continuano a intrecciarsi, tanto che ognuno lo dipinge ad esclusivo piacimento: chi come eroe, disertore e bandito coraggioso e spregiudicato, e chi come famigerato delinquente.

In realtà Vincenzo Pacchiana, nato verso il 1776 presso il ponte di Romacolo, a Poscante (frazione di Zogno) e vissuto sotto i francesi, non fu altro che uno dei tanti malfattori di strada che infestarono la Val Brembana, favoriti dalla vicinanza con il confine.

Poscante in una mappa del primo Ottocento

Data la dura pressione fiscale adottata per sostenere le campagne napoleoniche, il popolino finì con l’identificare la sua figura con quella di un vendicatore dei soprusi, che rubava ai ricchi per dare ai poveri: una sorta di Robin Hood brembano che andò a rappresentare il simbolo della giustizia per i valligiani, che lo chiamavano ol padrù d’la Val Brembana.

Una curiosa cartolina

I documenti lo descrivono come un uomo facile all’ira e d’idole facinorosa, molto “scafato” e disposto a commettere delitti, in qualche caso ben disposto ad aiutare o blandire qualcuno: e in effetti, pur essendo il Pacì feroce all’occorrenza, i conterranei lo aiutarono, in parte per timore ma sicuramente anche per simpatia.

Di corporatura ordinaria, Pacì era piuttosto alto, i capelli corvini intrecciati alla fronte e alle orecchie come si usava allora, con coda legata alla francese; barba nera e solitamente rasa, colore della pelle olivastro, occhi brillanti. Amava camuffarsi per sfuggire alla cattura, travestendosi di volta in volta da vecchio contadino, da prete e persino da donna. Parlava il bergamasco con influenza veneta per via della passata dominazione della Serenissima ed era immancabilmente armato di coltelli, pistole e fucile a schioppo a due canne: questo il suo ritratto, secondo il prontuario della polizia dell’epoca.

Era ammogliato (si nomina  una compaesana, Angela Sonzogni), la qual cosa non gli impediva di coltivare relazioni illecite.

La sua leggenda vuole che si fosse dato al brigantaggio per un’ingiustizia subita. Si racconta che divenne un brigante quando, non ancora trentenne, per difendersi da due imbroglioni che lo avevano derubato regolò l’affronto con una sonora scarica di legnate ai due manigoldi e incredibilmente per questo subì la sua prima denuncia.

Per non farsi incarcerare da quel potere che schiacciava sempre i piu’ deboli, si dette alla latitanza nei boschi meno accessibili della Val Brembana, che lui conosceva benissimo perche’ per tirare a campare pare esercitasse oltre al mestiere di taglialegna anche quello del contrabbandiere di tabacco.

Da qui inizia la sua storia di giustiziere della Val Brembana, perchè ovunque ci fossero ingiustizie, soprusi o da ridistribuire equamente ricchezze, interveniva lui, il Pacì, che a suon di schioppettate si faceva rispettare e soprattutto temere da usurai e da quelli che lui riteneva prepotenti e opportunisti.

Intanto il suo mito cresceva a dismisura e la sua fama di imprendibile diveniva leggendaria; le sue gesta erano considerate eroiche da pastori, contadini, viandanti, insomma da tutto il popolo che non amava i gendarmi, che non capivano e non parlavano la loro lingua: il bergamasco.

La coscrizione obbligatoria aveva peggiorato il malumore dei valligiani e il vento di ribellione giungeva sino alla città di Bergamo, nella quale pure non mancavano gli estimatori del Pacì, tant’è che ricorrente era la frase: “un Pacì Paciana per ogni paese”.

Un’inedita Zogno nel 1938, dalla raccolta privata di Luigi Angelini

Innumerevoli le imboscate delle guardie per catturarlo e memorabile lo scontro a fuoco a Endenna, frazione di Zogno, con un paio di morti tra le forze dell’ordine.
Da quei conflitti Pacì ne usciva sempre indenne, anche grazie ad uno speciale farsetto antiproiettile d’acciaio che portava sotto il mantello, che lo rendeva “invincibile”.

Il documento di messa al bando del Pacì Paciana

Per catturarlo e cancellarne il mito, le truppe francesi organizzarono un’imboscata nei pressi del ponte di Sedrina, da dove il Pacì si sarebbe gettato nel Brembo beffando i gendarmi, rimasti con un palmo di naso: un episodio ricostruito nel 1870 da Mosè Torricella, forse con l’aiuto di alcuni parenti, che il Pacchiana l’avevano conosciuto.

Scorcio da sotto il ponte di Sedrina

“Tutta la sbirraglia si mise in moto, capitanata da un individuo di Bergamo, venuto appositamente a prendere il bandito, condurlo in carcere, papparsi la taglia e ritornare placidamente a casa, quasi fosse la cosa più naturale del mondo. A mezzo di spie, seppe che il Pacì in tal giorno sarebbe andato a Sedrina. Infatti, appostata parte della sbirraglia al di là del ponte sul Brembo, col restante si cacciò in una casa al di qua del fiume. Il Pacì poco stette ad attraversare il ponte, quando si vede dietro una comitiva di sbirri, affretta il passo ma lo chiudono nel mezzo altri armati. Era un affar serio; si ferma, ed appoggiandosi alla sponda, attende.

– “Dunque ci siamo una buona volta, eh? diceva il capo, così si pigliano anche le volpi vecchie”.
– “Ma non però vecchie come me…. rispose il Pacì, spiccando un tremendo salto, e per l’orrido vuoto precipitando a piombare nelle acque che gorgoglianti l’inghiottirono”.

I ponti di Sedrina in una cartolina viaggiata del 1906

La leggenda dice che miracolosamente il Pacì riuscì a guadagnare la riva del fiume e si diede di nuovo alla macchia, ma qualcuno dice che l’episodio del salto nel Brembo non avvenne, o addirittura che non avvenne presso i ponti di Sedrina: casomai al ponte di Ambria.

Resta il fatto che in Val Brembana il malfattore da troppo tempo teneva in scacco la Gendarmeria, senza che questa, peraltro disorganizzata e disunita,  potesse ridurlo in forze.

Al di là di quel misto di verità e leggenda giunto sino a noi, i fatti furono indagati da Bortolo Belotti, che spulciò nei documenti conservati all’Archivio di Stato di Milano riguardo i rapporti di Diego Guicciardini, direttore generale della polizia del Regno d’Italia (1805 -1814).

Ne risulta che le autorità competenti, intenti a soffocare questo simbolo di libertà, emanano dei bandi di cattura, con “una taglia di cento zecchini a favore di chi lo prende vivo e di sessanta a chi lo uccide”, essendo sfuggito alla Gendarmeria “uccidendo due guide e lasciando feriti tre gendarmi ed un’altra guida”.

Allettato dalla taglia che pendeva sulla testa del Pacchiana, il bandito dal nome forse finto di Cartoccio Cartocci detto Carcino, d’accordo con la polizia si associò a Pacì Paciana e insieme batterono le montagne comasche nei pressi di Gravedona, dove, il 4 agosto del 1806, sedotto dalle promesse di premio il Carcino uccideva con un colpo di trombone il compare immerso nel sonno.

In tal frangente tra l’altro il Guicciardi arrestava un certo Cattaneo, che aveva tentato di servirsi del nome temuto del Paccini (il Pacchiana), per estorcere a sua volta denaro.

Il Carcino, per dimostrare l’uccisione del Pacchiana gli tagliò la testa e la consegnò alle autorità, che per certificare al popolo la definitiva scomparsa del bandito la espose sotto la “ghigliottina della Fara”, dove si giustiziavano i delinquenti: il piazzale di S. Agostino infatti, nel periodo napoleonico era divenuto il luogo delle esecuzioni capitali, che in precedenza venivano eseguite in Piazza Vecchia.

Il Foppone di S. Agostino. Ancora sotto gli Austriaci, sulla spianata della Fara venivano impiccati i malfattori, i disertori, i renitenti della leva o coloro che avevano contravvenuto alla legge marziale del 1848 per detenzione e occultamento di armi, supplizio che avrebbe dovuto essere riservato soltanto ai peggiori delinquenti. Il Foppone venne colmato solo agli inizi del Novecento con detriti, forse derivanti dall’abbattimento del tratto di via Beltrami

Finiva qui la storia di questo leggendario personaggio della Valle Brembana, la cui leggenda venne tramandata dai racconti e dai teatri dei burattini, che se ne impadronirono facendone il vendicatore dei torti e delle ingiustizie subite dai più deboli: il bandito leale e generoso, in perenne lotta contro i gendarmi, espressione armata di un governo oppressore.

Note

(1) La connessione tra diserzione e brigantaggio è tanto più esplicita negli anni di particolare tensione politico militare, quali il 1809 e il 1813. Nel maggio del 1809, nel corso dell’insorgenza popolare antifrancese che esplode in Valle Camonica all’annuncio dell’aumento dei prezzi del sale, i disertori fanno causa comune con i ribelli e attaccano alcuni paesi della valle per rifugiarsi poi sulle montagne. Nel 1813, di fronte alla requisizione straordinaria decisa dal viceré Eugenio, il ribellismo dilaga, si organizza in consistenti e pericolose bande armate e giunge a minacciare città e contado.

Riferimenti
Fondazione Bergamo nella Storia
Centro Studi Valle Imagna – Antonio Martinelli, Bergamo. Itinerari nella Storia della città e del suo territorio dalle origini al ventesimo secolo. Bergamo, Grafica Monti, aprile 2014.
Poscante e dintorni ieri e oggi – Tarcisio Bottani

La breve esperienza della Repubblica Bergamasca (marzo-luglio 1797)

L’avvento di una Repubblica di ispirazione giacobina ha una preparazione negli anni che la precedono; la posizione strategica del territorio bergamasco, crocevia tra l’Alta Italia, la Svizzera e l’Austria, favoriva il passaggio di “stampe massoniche eterodosse ed antiautoritarie” che, attraverso le valli, si insinuavano nello Stato Veneto. Agitazioni tra il popolo cominciavano a registrarsi a Nese e alla Ranica fin dal 1793; l’anno successivo, c’è una ribellione a Sarnico contro l’operato delle guardie daziarie.

Vincenzo Bonomini (1757- 1839) – Pantalone e due nobili veneziani discutono la situazione politica (da una stampa satirica)

La penetrazione delle nuove massime rivoluzionarie provenienti dalla Francia si accompagnava a rilevanti problemi in campo economico e fiscale.

Vincenzo Bonomini – Allegoria della Pace

Ma saranno soprattutto gli sviluppi della guerra che i Francesi stanno conducendo contro gli Austriaci a coinvolgere Venezia, accusata di appoggiare indirettamente l’Austria permettendo il passaggio delle truppe austriache nel suo territorio.

Bergamo, la città più lontana e più esposta della Repubblica Veneta, era il punto in cui l’esercito francese poteva inserirsi sulla strada per Venezia.

La suddivisione politica dell’Italia nel 1796 prima della costituzione della Repubblica Cisalpina

Napoleone stava concludendo la sua prima campagna d’Italia (1796-1797) che terminerà con la proclamazione della Repubblica Cispadana (Bologna, Ferrara, Modena, Reggio E.) del 29 giugno 1797.

Gli eventi vennero annotati dal campanaro del Campanone, Michele Bigoni, morto in tarda età, nel 1871 (sei quaderni in totale, oggi custoditi nella Biblioteca Civica “Angelo Mai”) e illustrati dall’amico-pittore Vincenzo Bonomini (1757- 1839), lasciandoci una preziosa testimonianza degli avvenimenti convulsi che accompagnano e seguono la proclamazione della Repubblica Bergamasca, travolgendo gli antichi equilibri: dalla Serenissima ai “giacobini”, dagli Austro‑russi alla grandeur napoleonica, fino al lungo sonno austriaco. Vista dal Campanone, la vita della città è un andirivieni quasi impazzito di nobili e funzionari, muratori e facchini, musicisti e musicanti, canonici e vescovi, spesso in scene notturne, con le fiaccole dei servi che illuminano le arcate del Palazzo della Ragione e gli androni nobiliari, disegnando, negli ultimi periodi, ombre improvvise e inquietanti. Mentre scrive, con la sua scrittura incerta e faticosa, Bigoni non resiste alla tentazione di descrivere e di giudicare, a volte con acidità, piú spesso con bonarietà popolare, le vicende del suo tempo.

L’arrivo dei Francesi avvenne al suono di un’armonica banda militare” composta fra gli altri da Michele Bigoni , che nel 1820 fonderà la Banda Civica di Bergamo (nota come Banda Bigoni) con Francesco Donizetti, fratello del grande Gaetano (Vincenzo Bonomini – Lo spirito della Libertà repubblicana)

A Bergamo i Francesi arrivarono alla fine del ‘96; il 25 Dicembre occuparono i locali della Fiera e il Castello di S. Vigilio, punto militarmente strategico e la guarnigione veneta venne ritirata dalla Rocca, in attesa di occupare ufficialmente la città.

Marco Sebastiano Giampiccoli (1706-1782), “La piazza maggiore di Bergamo” (Bergamo, Biblioteca Civica). “Adí 12 marzo 1797 – Per aver sonate le canppane cumunale nel’ocazione che si è canbiato il Governo Veneto e meso la Republica Bergamasca. Questa fu ordinato dal conte Pietro Pesenti che in quel giorno credeva di esere generale di Bergamo. Questo giorno fu poi messo due cannoni sula Piaza Vechia dalle truppe francesi e poi si sono portati prepotentamente in Citadella alla casa dell’Ecelenza Otolini e hanno spoliato tutta la propria casa e hanno mese li propri mobilli alla asta pubIlicha nonché hanno ordinata la pronta partenza della città, come fose un malfatore. Fu poì messo alla testa moltì sìgnori che hanno meso molta gente su armi per fare la rivolisione alla città di Bresia. Questa gente fu paghata col dìnaro della città. In quel tenpo fu disffatto tutti li corpi echleziasteci e Capíttolo, fu sopresso molte chiese e reguesito messo argento delle chiese, e dopo tenpo fu reguesito anche l’altro, fu sospeso tutte le monache e i frati, la egregia chiesa di Santa Grata fu fatto ospitale mìlìtare e ì morti francesi fu sepoltì sulle mure di S. Gratta. in conpenso poi per il sono delle canppane hanno corisposto L. 30″ (Michele Bigoni, il campanaro del Campanone)

All’assedio, il Capitano e il Vicepodestà di Bergamo Alessandro Ottolini non furono in grado di opporre una risposta militare ai Francesi: vi fu un periodo di estenuante attesa tra le parti. L’Ottolini fece chiudere il Teatro della Cittadella, per impedire l’ingresso dei soldati Francesi nel suo palazzo come spettatori, e spostò la stagione teatrale invernale al teatro Riccardi. Cinque giorni dopo, un incendio distrusse completamente il teatro. “Per non restare senza teatrale spettacolo nel Carnevale si combinò di aprire nel giorno tredici di gennaio il Teatro Riccardi posto in Prato, ora Campo di Marte; ma nel giorno tredici del Teatro Riccardi non erano che nude muraglie”, annota nelle sule Memorie storiche lo Zuccala (1).

Responsabile dell’incendio, considerato doloso, fu immediatamente ritenuto l’Ottolini. Ma gli avvenimenti incalzavano.

Il 12 marzo i rivoluzionari (esponenti della nobiltà locale, intellettuali e uomini dei ceti medi) imposero ai deputati del Consiglio minore di sottoscrivere il voto per la libertà e l’annessione alla repubblica Cispadana (2); nella notte tra il 12 e il 13 in una sala di Palazzo Roncalli venne ufficialmente proclamata la Repubblica Bergamasca (3) e nominata la nuova Municipalità; la mattina seguente il podestà Ottolini, ultimo rappresentante veneto a Bergamo, venne allontanato dalla città senza spargimento di sangue. Anche il vescovo Dolfin sancì con il suo voto la legittimità del nuovo governo, divenendo poi, con il clero cittadino, agguerrito sostenitore della Repubblica.

L’Albero della Libertà in Piazza Vecchia – 13 marzo 1797 (Bergamo, Pr. dr. A. Pellegrini). E’ il giorno che segna la fine del dominio di Venezia, presente a Bergamo dal 1428. Arlecchino, simboleggiando il popolo bergamasco scaccia Venezia prendendo a calci il vecchio Pantalone, che si allontana piegato in due: “L’è pur vegnuda l’ora: va via Galioto!”

Nell’arco di poche ore, si erano consumati in modo irreversibile tre secoli e mezzo di storia che avevano legato Bergamo a Venezia: vennero cambiate leggi e strutture amministrative e fiscali, sconvolti gli ordinamenti politici, le categorie sociali, le consuetudini quotidiane e culturali.

Bergamo era la prima delle città venete di terraferma a ribellarsi a Venezia e la prima a costituirsi in repubblica autonoma.

“La Libertà di Bergamo”, stampa allegorica

Per i borghi e per le vie della città un asino trasportò le parrucche requisite ai nobili filoveneziani e alla sera vennero bruciate insieme con le bandiere veneziane.

Giuseppe Rudelli, Il Vescovo Conte Dolfin che dal Vescovado si reca in S. Maria Maggiore, attraverso la porta ora murata (Bergamo, propr. L. Angelini). “Adì 14 marzo 1797 – Per aver sonato le canppane cumunale per aver brusate le peruche dei nobili signori che son state requesite e portate per tutta la città a cavallo ad un asino che sopra questo cavalcava un regaso miserabille che sopra la testa aveva la peruca delli magiori che comandava la città e fu portate per la città e borghì per tutto fl giorno. A sera poi fu poste sul’angolo della Piazza Vechia sopra una catasta di legna e fu brusate unitamente a tutte le bandiere di S. Marco che erano bordate d’oro macicio, le qualle bandiere si esponeva le solenità magiore sopra il pogiolo del Palazzo Vechio nele prencipale solenità. Questo giorno fu di grande allegria a motivo che fu dispensat­to del vino in quantità nel prato vescoville e fu dìspensato anche del panne che era dì ragione della Misericordia di Bergamo. Fu fatta poi alla sera grande inlummazione per tutta la Città e torri cumunali con grandi sinfonie di maggiori proffesori della città. In conpenzo poi del sono delle publliche canppane, che fu ordinato dal conte Pietro Pesenti e conte Roncalli che erano presidenti in quel’epoca, L. 30” (Michele Bigoni, il campanaro del Campanone)

Vennero atterrati i simboli del passato regime: statue, iscrizioni, medaglie di Guglie, etc. Il leone alato di S. Marco fu scalpellato dalle porte e da sopra il balcone del Palazzo comunale, i simboli araldici tolti dagli antichi palazzi nobiliari. Il 16 marzo si trovarono spezzate e travolte le statue dei Rettori veneti innalzate sull’area di Prato.

Si salvò  la piramide dirimpetto a Santa Marta, cui venne posto in capo il berretto frigio.

Il 17 marzo venne innalzato in Piazza Vecchia il primo albero della libertà (4), un’aristocratico pino prelevato dai rivoltosi dal giardino dei conti Benaglio in San Matteo. Venne innalzato con il popolo in festa, al suono del Campanone e con qualche dispensa pubblica di pane, vino e denaro. Simbolo stesso della Rivoluzione, il palo fu dipinto di bianco, rosso e verde e adornato con nastri tricolori e la gente si riunì attorno ad esso per festeggiare la fine del passato.

Albero della Libertà, xilografia da I. Cantù, “Bergamo e il suo territorio”. In una Piazza Vecchia in festa, luci, musica, cibo e vino a volontà segnano l’inizio di una nuova situazione politica e sociale, in cui predominano libertà e diritti civili. “Adí 17 marzo 1797 – Per aver sonate le canppane cumunale della città per aver piantato l’albero della Libertà nela Piazza Vechia. Questo albero fu piantato nela Piazza nel messo e fu bianco e roso e verde. Fu poi quarciato di setta che in poco tenpo fu meso a binde [nastri]. Questo albero fu piantato con grande solennità e grande sinfonie nonché fu fatto un grande palco nel’arco di messo del Palaso Vechio, che esisteva sopra questo palco la Dona della Libertà e fu poi prezenti alla piantasione dell’albero il monsignore Giovani Paolo Delfino, vescovo di Bergamo, nonché tutta la nobiltà di Bergamo che in quel tenpo aveva persa la nobiltà e erano tutti cittadini. Durante la giornata, verso sera, fu piantato e dopo fu poi ballato dintorno tutti li patriotti e militare nazionali, conposti della cittadinanza di Bergamo. Alla sera poi fu fatta grande inluminazione di tutta la città e borghi nonché di tutte le tori cumunali e di chiese e piazze. Durante la sera fu fatto una grande orchestra sotto le logie del Valger al fianco ala piaza e durò questo sono tutta la sera. In conpenzo poi del sono delle canppane fu corisposto dal signor Pesenti e Roncalli, presidenti in quel tenpo, L. 60” (Michele Bigoni, il campanaro del Campanone)
Narrano le cronache del tempo che le danze furono aperte dalla caffetteria Sanà a cui subito fece seguito la cittadina ex Marchesa Terzi col macellaio Alebardi e col crescente ritmo di coreografico tripudio durò la festa fino alle ore tarde della notte alla luce delle candele e delle torce.

Vincenzo Bonomini – Allegoria di una monarchia che si accompagna alla Guerra e alla Morte

Alberi della libertà furono eretti in molte piazze dei paesi e della provincia. Ovunque vennero abbattuti stemmi, statue e simboli veneziani. I bergamaschi, attraverso la festa, esprimevano la loro gioia per un lungo e desiderato cambiamento sociale, la conseguente riforma della struttura politica, il livello di coinvolgimento che le varie classi sociali ebbero nel determinare la ribellione al regime veneziano, durato a Bergamo quasi 400 anni.

Nella stampa satirica, celebrativa della Rivoluzione bergamasca del 1797 (Bergamo, Biblioteca Civica), la maschera di Arlecchino compare in Piazza Vecchia contrapposta a quella di Pantalone, rappresentando lo scontro tra la tirannide e la libertà, tra l’Antico Regime e la rivoluzione. Arlecchino si improvvisa venditore ambulante di tutto il vecchiume veneziano. “Ordini e straordini”, ossia medaglie e insegne, cariche e decorazioni sotto l’insegna di San Marco che non avevano ormai più nessun valore. Arlecchino ne organizza la vendita davanti al vecchio Pantalone che stenta a credere a quanto avviene, tanto d’essere costretto a ricorrere agli occhiali per metterne a fuoco l’incredibile scena

L’imposizione dei nuovi emblemi risignificarono politicamente la città. In quei giorni, Vincenzo Bonomini fu sistematicamente chiamato a sovrapporre nuovi emblemi politici a quelli da lui stesso dipinti pochi anni prima

Lo stemma dell’ultimo rettore veneto Alessandro Ottolini e quello di Bergamo
Vincenzo Bonomini – L’emblema di S. Marco
Vincenzo Bonomini – Allegoria dell’età nuova

Nei mesi successivi alla proclamazione della Repubblica Bergamasca, venne attuata una vera e propria campagna di propaganda rivoluzionaria (feste civiche, pranzi patriottici, catechismi, opuscoli di pedagogia politica, stampe satiriche, queste ultime mezzo di comunicazione di immediata comprensione anche per le masse analfabete), al fine di radicare la nuova realtà e il suo portato ideologico nella popolazione, che soprattutto in provincia si era opposta violentemente all’avvenuto cambiamento di governo.

Dopo la proclamazione delle Repubblica Bergamasca infatti, aumentò l’opposizione delle popolazioni del territorio, soprattutto delle valli, dove il basso clero diffondeva le idee controrivoluzionarie dei nobili filo-veneti.

La città si sentì presto assediata dai valleriani o marcolini, soprattutto attivi nelle valli Brembana e Imagna, la Valle Santa, e nella valle San Martino. Questi non accettavano il cambiamento di governo della città, operato soprattutto da alcuni nobili e da elementi progressisti del clero come il Mascheroni, e favorito, di fatto, dall’attendismo del vescovo mons. Dolfin. Dietro premevano anche gli interessi dell’aristocrazia terriera tradizionale, da sempre favorita dal Governo Veneto nel territorio.

Così, se almeno in città la rivoluzione avvenne senza spargimento di sangue, fuori città i rivoltosi presero a fucilate i “cittadini” che cercavano invano di fermarli e ferirono Gerolamo Adelasio, uno dei protagonisti nelle vicende bergamasche nei decenni successivi.

Da tutte le valli i valleriani, con l’effigie di S. Marco nel cappello e col Crocefisso sul petto, erano scesi minacciosi fino alle porte della città e presso Longuelo, alla confluenza tra le attuali Strada Vecchia e via San Martino della Pigrizia, vi fu uno scontro a fuoco tra repubblicani-cittadini e pro-veneziani valligiani, questi ultimi ridotti alla sottomissione solo dal pesante intervento delle truppe francesi.

Via Strada Vecchia, a Longuelo (Archivio Storylab)

I morti furono una decina: tre di loro esposti per un giorno intero, dalla sera del 30 marzo stesso, in piazza della Legna, accanto all’albero della libertà, fra canti, balli e fiaccolate.

La festa per la vittoria fu ricordata in una stampa che esaltava il coraggio del popolo di Bergamo il quale, “assaltato da turba infame accorsa dalle valli….andò ad incontrarla, la vinse, la disperse”.

Stampa rappresentante un episodio della rivolta dei valligiani rimasti fedeli alla Repubblica di Venezia contro la municipalità aderente alle idee rivoluzionarie. Viene qui consacrata la vittoria cittadina contro la rivolta di Longuelo, avvenuta il 30 marzo 1797

Il fatto di Longuelo segnò l’inizio del declino della resistenza delle valli e del territorio contro la Repubblica Giacobina della città; i valdimagnini, Lovere, la Val Cavallina, soprattutto la Val Seriana, con Clusone e Gandino, cedettero progressivamente ai Francesi. Intanto venivano liberati, in aprile, i contadini fatti prigionieri a Longuelo. La dominazione veneta era finita.

La controrivoluzione, sedata dalle truppe francesi, è emblematica del dissisio esistente tra città e campagna verso la Repubblica Bergamasca, determinato dall’irreligiosità della rivoluzione, ma anche da profonde divergenze di cultura, tradizioni, interessi, sentimenti.

Chi era la nuova classe dirigente? Esponenti della borghesia, sostenuta da mercanti sempre più dediti al contrabbando e oppressi dall’aumento delle tasse imposte da Venezia su molti prodotti (lana, seta, pane, vino); una parte della nobiltà, appartenente a famiglie che avevano acquisito il titolo tra la fine del 600 ed il 700, interessata allo sviluppo degli interessi economici legati al settore della seta; infine artigiani.

I religiosi vennero costretti a donare alla Municipalità metà degli argenti presenti nelle chiese, nei monasteri e negli oratori. Vennero quasi totalmente soppressi i monasteri e i conventi (in città ricordiamo S. Marta, S. Benedetto, Matris Domini, S. Leonardo..); i beni di S. Paolo d’Argon e Astino passarono nel 1797 all’Ospedale, quelli di Pontida finirono l’anno successivo ai privati. Seguì la cancellazione delle confraternite e delle processioni e l’introduzione del divorzio, atti che contribuirono a rendere insanabile il conflitto tra le popolazioni e l’autorità politica (e che si accrebbe durante il periodo napoleonico con la coscrizione obbligatoria).

In questo momento di grande cambiamento nacquero i ‘circoli culturali’, formati da esponenti della borghesia e della nobiltà ‘illuminata’, che si ritrovavano nei caffè a discutere i valori rivoluzionari; contemporaneamente, venne pubblicato (1797) il primo giornale locale, “Il patriota bergamasco”, seguito da “Il giornale degli Uomini Liberi” e, l’anno seguente, da “Il Foglio Periodico del Dipartimento del Serio”.

Testata dei primi numeri de “Il Patriota Bergamasco” (Bergamo, Biblioteca Civica)
Frontespizio dei primi numeri del “Foglio periodico del Dipartimento del Serio” (Bergamo, Biblioteca Civica)

Attraverso i confini territoriali (Passo San Marco) ci fu una vera e propria circolazione di nuove idee (ad es. la vendita dei libri provenienti dalla Francia operata dagli editori bergamaschi massoni come l’Ambrosioni e l’Antoine), particolarmente sensibili al tema della progressiva alfabetizzazione culturale delle masse, pubblicando a tale scopo l’almanacco popolare (brevi articoli su vari argomenti), che ebbe un ruolo di primo piano nell’educazione delle classi meno agiate.

In pieno periodo repubblicano il Piano generale di pubblica istruzione (di cui era componente anche Lorenzo Mascheroni) produsse una riforma anche nella scuola, sostenendo che l’istruzione pubblica fosse la base di tutte le democrazie.

Da qui l’esigenza di istituire, con le lezioni caritatevoli, scuole elementari serali e festive per i ceti più bassi (sostenute dagli istituti religiosi e dalla Società Industriale Bergamasca per quanto riguardava la parte laica).

Questo complesso di elementi politici, sociali e culturali, impensabili solo fino a pochi anni prima, permise al musicista bergamasco Gaetano Donizetti, figlio di semplici tessitori, di essere ammesso alle lezioni di musica tenute da J. S. Mayer, maestro di cappella.

Con la Repubblica venne proclamato il libero esercizio delle arti e dei mestieri, si abolirono alcuni dazi e si stabilirono nuove imposte per la lavorazione della seta, sulla quale era basata l’intera economia locale.

Con la promulgazione nel luglio del 1797 della costituzione della prima Repubblica Cisalpina terminava l’esperienza di autogoverno cittadino (Repubblica Bergamasca) e Bergamo, in qualità di capoluogo del Dipartimento del Serio, veniva a dipendere dal potere centrale milanese. Con la Rivoluzione Bergamasca si erano poste comunque le premesse, sia sul piano ideologico sia su quello politico-istituzionale, delle successive lotte per l’indipendenza e per l’unificazione nazionale.

Pochi anni dopo, nel periodo napoleonico, le gravi congiunture politiche ed economiche, il continuo regime di guerra, il peso della tassazione e l’introduzione nel 1802 della coscrizione (leva) obbligatoria, fecero precipitare il conflitto tra le popolazioni e l’autorità politica, costringendo tanti uomini alla diserzione, alla clandestinità e al Brigantaggio: e non si può parlare di briganti senza pensare all’inafferrabile Vincenzo Pacchiana, detto Pacì Paciana.

Note

(1) G. Battista Locatelli Zuccala, Memorie storiche di Bergamo dal 1796 al 1813.

(2) Il 12 marzo 1797, settecento persone, tra nobili e non, firmarono la loro adesione per la cacciata del conte Ottolini. M. Gelfi, Tra la fine dell’età moderna e l’inizio dell’età contemporanea: la Repubblica bergamasca, in “Atti dell’Ateneo di scienze, lettere e arti di Bergamo”, 1996-1997, vol. LX.

(3) La Rivoluzione bergamasca si ispirava ai principi della Rivoluzione francese. La costituzione (approvata il 24 marzo), ossia la legge fondamentale dello Stato, scritta dai bergamaschi giacobini, si rifaceva ai valori espressi dalla Dichiarazione dei Diritti Universali (1789), con cui i francesi riconoscevano la libertà di parola e di religione e l’uguaglianza degli uomini di fronte alla legge, invitando tutti gli uomini ad una fraternità universale. Dopo aver esautorato l’ultimo rettore veneto Alessandro Ottolini, un gruppo di giacobini della città di Bergamo e proclamata la Repubblica Bergamasca il 13 marzo 1797, “istituisce un governo provvisorio, composto da una municipalità da 24 membri. I primi atti della nuova amministrazione riguardano la modifica dell’assetto amministrativo ed economico dell’ex provincia veneta, la ripartizione del territorio in 14 cantoni, l’abolizione dei privilegi giurisdizionali e fiscali, la costituzione di comitati per alcune materie (polizia, finanza, sicurezza, sanità, vettovaglie, commercio, milizie). Nei mesi successivi viene reclutata una guardia repubblicana e si estende il controllo politico al territorio orobico” (Archivio di Stato di Bergamo – DIPARTIMENTO DEL SERIO 1797-1814  Introduzione generale al fondo archivistico).

(4) Usato come simbolo di libertà durante la Rivoluzione francese, simbolo pagano adottato come segno di rinascita, di vita nuova e di felicità, l’albero della libertà era un lungo palo ricavato da un grande albero; alla sua sommità veniva posto un berretto frigio (a cono floscio) con la punta ricadente in avanti, di origine anatolica (Asia Minore) utilizzato dagli schiavi liberati dell’antica Roma (gli antichi Frigi).

Riferimenti

Fondazione Bergamo nella Storia

Bruno Brolis, Tullio Pizzigalli (coordinatori), Corso di aggiornamento anno 2000. La Repubblica bergamasca 1797.

Centro Studi Valle Imagna – Antonio Martinelli, Bergamo. Itinerari nella Storia della città e del suo territorio dalle origini al ventesimo secolo. Bergamo, Grafica Monti, aprile 2014.

La vicenda dello scomparso ospedaletto di Sant’Antonio in Prato (dove oggi sorge Palazzo Frizzoni)

Come osservato qui, da Vienne, cittadina francese che conserva le spoglie di S. Antonio abate e che dal XII secolo aveva mostrato il potere taumaturgico del Santo, il culto si diffuse rapidamente in tutta Europa (ed oltre), dove fiorirono rapidamente numerose fondazioni antoniane con una serie pressoché infinita di luoghi di culto ed ospedali al Santo dedicati.

In Italia i primi ospitali sorsero lungo la via francigena che collegava Delfinato e Italia, presso la Precettoria di S. Antonio a Ranverso in Val di Susa (ante 1188), poi a Roma, Teano e presso Napoli.

Sant’Antonio Abate, il grande eremita egiziano la cui devozione era legata alla cura dell’ergotismo, causato dall’ingestione di prodotti derivati dalla segale cornuta, malattia molto diffusa fra I poveri a causa della cattiva alimentazione. Nelle immaginette ricorre l’immagine del Santo, diffusa dagli stessi antoniani, raffigurato con accanto un porcellino e con in mano  una campanella ed un bastone terminante a forma di tau

Il culto si diffuse anche nella Bergamasca ed in città vennero fondati due hospitali intitolati al Santo: nel 1208 quello di Sant’Antonio in foris, appena fuori la porta di S. Antonio e all’imbocco di borgo Palazzo e, verso la fine del XIV secolo in luogo dell’attuale Palazzo Frizzoni, l’ospedale di Sant’Antonio “in Prato” (o “di Vienne”), entrambi con annessa chiesa.

In Contrada di Prato, l’ex- chiesa di S. Antonio di Vienne e poco oltre il monastero di S. Marta. Le colonne di Prato, davanti all’attuale via Borfuro, delimitarono il confine della Fiera fino al 1882 (disegno di G. Trécourt)

La chiesa e l’annesso ospizio per malati e pellegrini si trovavano in Contrada di Prato, sulla strada che dal Prato di S. Alessandro portava alla chiesa di S. Leonardo. Ma esistendo già una chiesa con ospizio nel borgo di S. Antonio, si aggiunse la dicitura di Antonio “in Prato” o di S. Antonio di Vienne per evitare che la dedicazione scelta potesse dare adito a confusione.

Al centro dell’immagine, l’ex- chiesa di S. Antonio di Vienne (dal 1586 dedicata alle SS. Lucia e Agata), in Contrada di Prato (incisione del 1815 ca. Proprietà Conte G. Piccinelli, Milano)

I frati antoniani erano giunti a Bergamo verso la fine del Trecento e vi si erano insediati, ma è difficile oggi stabilire se essi siano stati gli effettivi promotori della sua edificazione; di certo l’ospedale fu fondato per iniziativa laica tra il 1380 e il 1382: la tradizione ne fa risalire la fondazione a Gerardo (morto tragicamente nel 1380) della nobile famiglia cittadina dei De la Sale, ma un documento conservato nel fondo pergamene dell’archivio della Mia attesta la contemporanea presenza di un certo frate Francesco, “un armigero di ignota provenienza”, che nel 1382 è citato come edificatore della chiesa e dell’Ospedale di San Antonio in Prato (non era in “habito religioso”, ma “portabat pannos lungos et signum S. Antonii scilicet unum T super pectore”) (1).

(1) Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.

La riunificazione degli ospedaletti medioevali nell’Ospedale Grande di S. Marco: la resistenza dei frati di S. Antonio de Vienne

Così come stava accadendo in altre città, anche a Bergamo verso la metà del Quattrocento si deliberò l’accorpamento di 11 ospedaletti sparsi tra il colle e il piano in un unico grande organismo (l’Ospedale Grande di S. Marco), al fine di ottimizzare i servizi e creare un’unica dirigenza, esercitando così un maggior controllo (2).

(2) Le prime notizie di un sistema ospedaliero compiuto di Bergamo risalgono al 5 novembre del 1457, quando il Vescovo Giovanni Barozzi (1449-1465) approva i Capitula hospitalis novi et magni structi in civitate Bergami. Insieme ai Rettori della città aveva infatti ottenuto l’autorizzazione di fondare un Ospedale Grande che riunisse in sé tutte le strutture di assistenza al malato e tutti i luoghi pii dediti alla cura sanitaria e all’assistenza paramedica. I  beni degli ospedaletti avrebbero costituito il fondo economico necessario alla realizzazione del progetto.

La veduta prospettica di Alvise Cima, nella tela conservata presso la Biblioteca Civica Mai. Dall’azione congiunta del Vescovo Barozzi e della municipalità, nel 1457 viene deciso di riunire sotto un’unica direzione gli ospedali di Sant’Erasmo fuori dalla porta di Borgo Canale, di Santa Grata inter vites in Borgo Canale, di San Lorenzo dell’omonimo borgo, di San Bernardo presso il ponte della Morla sulla strada di Valtesse, di San Tommaso della Gallinazza dentro porta di Santa Caterina, di Santa Caterina fuori le mura, legato alla parrocchiale, di Sant’Antonio in foris,  fuori porta S. Antonio, del monastero di Santo Spirito, situato nei pressi del monastero dei Celestini, di San Lazzaro in Borgo San Leonardo, di San Vincenzo in contrada di San Cassiano, di Santa Maria Maggiore in Contrada Ante Scolis

Il documento firmato nel 1458, delibera “che il nuovo ospedale dovrà essere costruito nel luogo dell’ospedale di S. Antonio o altrove, qualora lì non fosse possibile”, avviando un’annosa disputa che vede da una parte la resistenza degli antoniani, decisi a difendere strenuamente privilegi e concessioni acquisiti nel tempo (dopo essere stata per un certo periodo in mano alla MIA, nel 1453 i frati di Vienne avevano ottenuto da Papa Nicolò la chiesa e l’ospedale) e, dall’altra, la cittadinanza, che non solo li considera abusivi all’interno della struttura “sorta a vantaggio dei poveri e su iniziativa di una famiglia bergamasca”, ma li rimprovera anche di elemosinare per sostenere la loro comunità e la precettoria d’appartenenza (quella già osservata di Ranverso, in Piemonte), trascurando del tutto l’ospedale e la chiesa.

La diatriba verrà risolta alla fine del Cinquecento, quando il vescovo Barozzi decide di accorpare l’ospedaletto di S. Antonio in Prato all’Ospedale Grande di S. Marco (di cui diviene una dipendenza), permettendo ai frati di restare nella loro sede, dove continuarono a esercitare attività di accoglienza per malati e pellegrini e a celebrare nella loro chiesa, che con l’unione decretata nel 1457 era divenuta parte dell’Ospedale Maggiore.

E poichè la chiesa di S. Marco, costruita (1572) nel perimetro dell’Ospedale Grande era solo chiesa cimiteriale per i degenti del nosocomio ed aveva un battistero per il battesimo degli esposti, per volontà degli amministratori dell’Ospedale Grande nella chiesa di S. Antonio di Vienne veniva celebrata ogni giorno una messa (3).

La chiesa di S. Antonio nel frattempo si era ampliata: “.. era ampia e non disadorna. Aveva quattro altari; la scuola dei Disciplini, che si riunivano in sagrestia; la scuola del Divino Amore, che si riuniva sopra la porta maggiore dove c’era una grande volta in forma di pulpito” (tribuna) (4).

(3) Nella chiesa di S. Marco, costruita 1572 nel perimetro dell’Ospedale Grande, venivano sepolti coloro che nell’ospedale morivano; c’era inoltre un fonte battesimale per il battesimo dei bambini esposti (come da atti della visita pastorale di S. Carlo Borromeo del 1575). C’erano poi due altari, il maggiore e quello di S. Marco, e c’era il SS. Sacramento, ma si celebravano messe solo nel giorno dedicato a S. Marco, poichè, secondo gli accordi presi dal momento dell’unione degli ospedali, una messa quotidiana veniva celebrata nella chiesa di S. Antonio di Vienne in Prato (M. Mencaroni Zoppetti, op. cit.).

(4)  A.G. Roncalli, Gli Atti della visita pastorale di S. Carlo Borromeo (1575), Firenze 1937, Vol. I, La Città, parte II, p. 140.

L’ingresso laterale della chiesa di S. Antonio di Vienne, davanti alla quale si faceva mercato, in un disegno ottocentesco (elaborazione tratta da M. Mencaroni Zoppetti, op. cit.)

I frati di S. Antonio di Vienne vi rimasero fino al 1586, anno in cui il complesso, che era adiacente al convento femminile di Sant’Agata, fu acquisito dalle monache domenicane provenienti dalla Valle di Santa Lucia Vecchia, che lo ridedicarono alle Sante Lucia e Agata (5).

Dopo le soppressioni napoleoniche attuate alla fine del 1798, tutto il complesso venne acquistato nel primo Novecento dalla famiglia Frizzoni, e demolito per far posto alla loro residenza cittadina poi divenuta Municipio della città di Bergamo.

(5) D. Calvi, Effemeridi sagro profane di quanto di memorabile sia successo in Bergamo sua diocese et territorio, vol. III, p. 398, 11 dicembre 1586 “Le monache di S. Lucia fuori delle mura di Bergamo, havendo fin l’anno passato comprate le habitationi e Chiesa dell’Ospitale di S. Antonio in Prato contiguo a S. Agata, vennero in questo giorno ad habitarvi formandosi delle due chiese di S. Antonio e di S. Agata una Chiesa sola con titolo di S. Lucia e Agata”.

Palazzo Frizzoni, edificato tra il 1836 e il 1840 dall’architetto bresciano Rodolfo Vantini ed attualmente sede del Municipio di Bergamo. L’edificio è sorto sull’area occupata dall’antica chiesa e annesso ospedale di S. Antonio di Vienne

Data l’impossibilità di utilizzare l’ospedale di S. Antonio, su cui erigere l’Hospital Grande di San Marco, nelle sedute comunali si avanzarono le ipotesi più varie finchè, nel 1474, si scelse un’area poco lontana, ai margini dello stesso Prato di S. Alessandro: si trattava di un terreno di proprietà dell’ospedale stesso, sul prato Bertellio (prato di S. Bartolomeo?), in una zona pianeggiante, chiusa a sud dalle Muraine, a monte del luogo dove sin dall’alto Medioevo si svolgeva la grande Fiera annuale dedicata al patrono della città: un punto a cui era possibile convergere da ogni parte dell’abitato e in posizione equidistante rispetto ai borghi di S. Alessandro a ovest e di S. Antonio a est, come indicato nella veduta prospettica di Alvise Cima,  dove il complesso ospedaliero e la chiesa annessa sono indicati come PEPITALE S. ANTONIO.

La supposta Bergamo quattrocentesca un un particolare della veduta di Alvise Cima, conservata presso la Biblioteca Civica Mai. In verde, la zona in cui si trova l’ospedale di Sant’Antonio (oggi Palazzo Frizzoni), posto accanto al convento di S. Marta. In azzurro, l’Ospedale di San Marco, al centro dell’antica Bergamo, ai margini del Prato di S. Alessandro, risulta formato da tre corpi di edifici collegati da un loggiato. A destra la chiesa (costruita nel 1572), priva di campanile e con il fronte al rustico, si affianca al corpo occidentale  (PEPITALE) connesso al chiostro, affiancato dal brolo (orto officinale). Verso est un edificio più basso si congiunge con quella che dovrebbe essere la Cappella dell’Ospedale.  La vasta area verde restituisce l’idea della salubrità del luogo antistante il  prato che si estende sino alle Muraine, solcato dalla Seriola Nuova che lambisce il convento di S. Bartolomeo e raggiunge la Porta del Raso

 

Anche nell’immagine della città secentesca formulata da Macherio e poi da Stefano Scolari, la facciata della chiesa di S. Marco appare in una modesta forma a capanna, probabilmente in arenaria. Sono visibili due cortili, il loggiato di fronte al prato, l’edificio della Dogana veneta e il tezzone del salnitro, che serviva per la fabbricazione della polvere pirica e dove, terminato l’evento, venivano ricoverate le baracche di legno della fiera. Il tezzone è abbattuto nel 1820 e trasformato in mercato del grano

 

La fabbrica dell’Ospedale Grande di San Marco si avvia dal 1478 e termina nella prima metà del Cinquecento; è ampliata all’inizio del Settecento e quasi interamente demolita nel 1937, per il nuovo assetto assunto dal centro della città bassa. La sua conduzione venne affidata ai frati del vicino convento delle Grazie

Del grandioso edificio rinascimentale dell’Hospital Grande di San Marco, demolito negli anni Trenta del secolo scorso, il ricordo più vistoso e bello è la chiesa dedicata a San Marco che, costruita nel 1572 nel perimetro dell’ospedale, ha assunto fogge barocche nel corso del Settecento.

L’interno della chiesa (qui ritratta nel primo Novecento) a una navata, è d’impianto quattrocentesco ma viene riformato all’inizio del Settecento, pochi anni dopo la costruzione del quarto braccio della crociera dell’ospedale. Fra il 1726 e il 1728 il prospetto, sino ad allora in semplice arenaria, viene rinnovato con il rivestimento marmoreo dalle eleganti forme barocche da Giovanni Ruggeri e impreziosito dal portale e dalle statue di coronamento dello scultore Giovanni Sanz. Nel 1747 le pareti e il soffitto vengono affrescati dal comasco Carlo Innocenzo Carloni che affrescò sulla volta l’Eucarestia, sui pennacchi della cupola i quattro evangelisti, nella cappella di destra la Vergine Assunta, e in quella di sinistra San Camillo De Lellis, fondatore dell’Ordine dei chierici regolari ministri degli infermi, sicuramente quegli stessi chierici che operarono nella struttura (Mencaroni Zoppetti, cit.)

Dopo l’ingresso (1586) delle domenicane di S. Lucia Vecchia nel convento di S. Antonio, la messa verrà celebrata nella chiesa di S. Marco (6), che da allora comincerà ad esser nominata “chiesa di S. Antonio” nonostante la sua dedicazione a S. Marco ed alla Vergine, in omaggio alla Serenissima.

(6) E a tal fine verranno mantenuti dall’ospedale un priore e un cappellano (A.G. Roncalli, Gli Atti della visita pastorale… Cit., pp. 158-159).

In un particolare del cabreo della Fiera di Bergamo, disegnato dall’agrimensore Bernardino Sarzetti nel 1723, la chiesa dell’Ospedale Grande, intitolata ai SS. Marco e alla Vergine, è indicata come Chiesa di S.to Antonio. Si noti, sul lato destro,  la cappella dei morti con il portico

La chiesa e l’ospedale di S. Antonio di Vienne, come detto verranno acquistati nel primo Novecento dalla famiglia Frizzoni e demoliti per far posto al palazzo di famiglia, oggi  Municipio della città di Bergamo, cancellando qualsiasi testimonianza dell’antico complesso.

Bibliografia

Maria Mencaroni Zoppetti (a cura di), L’Ospedale nella città – Vicende storiche e architettoniche della Casa Grande di S. Marco. Collana: Storia della sanità a Bergamo – 1. Fondazione per la Storia Economica e Sociale di Bergamo.