Giungendo dalla Corsarola, lo scorcio sulla facciata di Palazzo Nuovo appare come una quinta luminosa messa lì a chiudere il suggestivo rettangolo di Piazza Vecchia.
Il portico corposo, dal tono ancora cinquecentesco e ingentilito dalle semicolonne toscane, dona a questo lato della piazza – il meglio illuminato – un forte accento chiaroscurale.
Dentro la piazza lo sguardo può spaziare sino a lambire i fronti variopinti della Cappella Colleoni e della Basilica di Santa Maria Maggiore e da lì fissarsi sul candore di Palazzo Nuovo, inserito armoniosamente in un ambiente che nei secoli si era arricchito di una straordinaria policromia.
Concepito come nuovo palazzo comunale, da fine Seicento e per oltre due secoli fu sede del Municipio; tra Ottocento e Novecento divenne sede del Regio Istituto Tecnico Vittorio Emanuele II nonché del Museo di Scienze Naturali. È solo nel 1668 che i rappresentanti della Città presero definitivamente sede nel Palazzo Nuovo (restandovi fino al 1873), mentre l’inaugurazione ufficiale sarebbe avvenuta nel 1697.
Sul finire dell’800, nella torretta fu sistemata una specola (osservatorio) per le esercitazioni degli studenti dell’Istituto Tecnico.
E’ solo dal 1928, anno del completamento della facciata, che il palazzo è divenuto sede della Bibioteca Civica A. Mai, fondata nella metà del ‘700 e qui definitivamente traslocata dopo aver itinerato a lungo per diverse sedi della città.
Nell’area prescelta per la sua costruzione esisteva già una loggia comunale, la Lodia Nuova (Loggia Nuova), edificata nel 1435 proprio dove oggi sorge il portico di accesso alla biblioteca civica e voluta dai veneziani per ospitare uffici e cariche pubbliche in quanto, già all’inizio del XV secolo, i locali di Palazzo della Ragione non erano più sufficienti per contenerli (1).
La loggia, un porticato coperto ad un piano e rialzato di due gradini, aveva due sale che ospitavano gli uffici della Cancelleria e del Commissario alle provvigioni.
Da quando Bergamo era divenuta Terra di San Marco, il 6 maggio 1428, vi era stato via via uno spostamento delle funzioni pubbliche, dalla Platea Sancti Vincentii (l’attuale Piazza Duomo) alla nuova piazza che si stava delineando fra il Palazzo della Ragione e la via principale (l’attuale Corsarola), che assunse il nome di Piazza Vecchia essendo chiamata Piazza Nuova quella ricavata a ridosso della Cittadella (l’attuale Piazza Lorenzo Mascheroni), nella quale si concentravano i traffici e i commerci.
La delibera della magnifica comunità di edificare la Loggia Nuova dirimpetto al vecchio palazzo comunale, concludeva così a oriente il perimetro del nuovo centro pubblico e istituzionale della città dominata dai Venezia.
Ma in seguito a un rovinoso incendio divampato nel 1453, la struttura venne ricostruita nel 1456 ampliando la pianta originaria nel Regio Nuovo (2), un portico con scala eretto sul lato della chiesa di San Michele all’arco (3), che fungeva da palco per i proclami pubblici e dove venivano affissi anche i nomi dei condannati.
Di tutto ciò non resta alcuna documentazione iconografica ma abbiamo la descrizione del 1516 del veneziano Marcantonio Michiel:
“Un pubblico porticato, una stanza de’ scrivani e ragionati sopra la quale havvi la sala de Conciglio da cui s’esce in sul verrone donde si pubblicano al popolo i nomi dei Magistrati e dei condannati”.
Chiudiamo gli occhi e cerchiamo di immaginare la bellezza del ricco apparato pittorico della Loggia Nuova, con il leone di San Marco e le cinque scene di episodi legati alla storia bergamasca che ne ornavano le volte: “l’imperatore Probo che dà il comando di Bergamo a Crotaccio, le nozze di Santa Grata, l’episodio tragico di Antonio Bonga, l’incontro tra il vescovo Adalberto e l’imperatore Berengario, le battaglie del condottiero Bartolomeo Colleoni e figure di illustri bergamaschi tra cui quella di Alberico da Rosciate …e gli stemmi veneziani dei Rettori Antonio Erizzo e Lorenzo Venier tra il 1483 e 1485 dipinti da Giacomo Scanardi” ed altre varie oltre a decorazioni (4).
Le stesse funzioni della loggia porticata saranno poi assorbite dal nuovo palazzo posto dirimpetto al vecchio Palatium Comunis (il Palazzo della Ragione), edificato proprio in seguito alla demolizione della quattrocentesca Loggia Nuova.
Un edificio che nel corso del tempo è stato oggetto di svariate destinazioni fino a divenire dal 1928 la sede all’attuale della Bibioteca Civica, qui traslocata dal Palazzo della Ragione.
UNA TRAVAGLIATA VICENDA COSTRUTTIVA
La decisione di costruire un nuovo e più grande edificio che ospitasse tutti gli uffici e le cariche pubbliche, diede avvio ad un travaglio progettuale e costruttivo della durata di ben 350 anni, nel corso dei quali esso venne completato a più riprese: dai disegni dell’arch. Vannone realizzati nel 1593, alla posa della prima pietra nel 1604, al completato nella monumentale facciata in marmo bianco di Zandobbio nel 1927 sino alla posa delle sei statue collocate sulle trabeazioni a metà Novecento.
Un lungo periodo, emblematico della dimensione culturale che si respirava in città, riconducibile alle velleità estetiche della committenza (il Comune), che intraprese una vera e propria battaglia nella scelta dei professionisti cui affidare la progettazione dell’opera.
Ce ne volle di tempo per giungere alla nomina dell’architetto Vincenzo Scamozzi (5), e questa vitalità la si riscontra anche nella progettualità emersa in quegli anni nonché nella scelta dei materiali.
Persino la mancanza dei fondi necessari per l’avanzamento dei lavori, rifletteva il fermento della Bergamo di allora.
Per la prima porzione del nuovo edificio comunale nell’aprile del 1593 fu chiamato a Bergamo Andrea Ceresola detto il Vannone, un autentico guru (profumatamente pagato) che al Palazzo Ducale di Genova stava realizzando uno dei primi esempi delle tipiche costruzioni a loggiati. In quell’anno egli progettò l’arioso portico d’accesso di Palazzo Nuovo, i cui disegni sono andati perduti. Nel 1599 vennero messe le fondamenta.
Poco dopo l’avvio dei lavori, il progetto del Vannone venne messo in discussione dalla committenza, probabilmente per motivi stilistici.
Nel 1604 fu posta la prima pietra e iniziata la costruzione del portico (partendo dall’angolo verso via Gombito), concepito probabilmente secondo i disegni dell’architetto e cartografo Pietro Ragnolo di Vall’Alta di Albino, che controllava lo stato di avanzamento dei lavori avendo già al suo attivo importanti realizzazioni come la Chiesa delle Benedettine di Santa Grata in via Arena.
L’insigne edificio cittadino venne ridisegnato nel 1611 dall’architetto Vincenzo Scamozzi – allievo del Palladio -, che propose un edificio imponente.
I disegni dello Scamozzi (Vicenza 1552-Venezia 1616), conservati nella biblioteca, immaginavano un edificio con un fronte a due ordini più un ammezzato e due ali interne più basse, attorno a un cortile rettangolare con portico su quattro lati; nella pianta del piano terra, rigorosamente simmetrica, erano previste due scale ai lati dell’atrio passante e due scale ai lati del cortile; nel fronte sopra il portico il motivo dominante era costituito da tre serliane centrali.
Del progetto scamozziano venne realizzato solo per il corpo principale, ma con notevoli modifiche specialmente riguardo allo sviluppo delle scale e a causa dell’innesto settecentesco della chiesa di S. Michele ricostruita (6).
Dunque, si costruì la parte centrale dell’edificio, ma la facciata rimase incompleta.
Il 20 giugno 1614, alla prima porzione del Palazzo Nuovo fu messo il tetto, un primo blocco che comprendeva le tre arcate con i locali affrescati, la sala del Consiglio Minore, l’ufficio e l’abitazione riservati al cancelliere.
Alla fine del 1600, terminato al rustico tutto il fronte, fu iniziato un rivestimento marmoreo partendo dallo spigolo ovest (quello rivolto verso via Colleoni) con due ordini sormontati da una balaustra con statue.
Nel 1954 Nestorio Sacchi scriveva che “Fino a ventisei anni fa la parte superiore della facciata era ancora allo stato rustico, e tale ce la ricordiamo quando fanciulli rincorrevano i piccioni attorno alla fontana del Contarini, mentre sedute sui gradini del portico del Palazzo, allora adibito a sede dell’Istituto Tecnico, le macchiette caratteristiche di Città Alta si godevano il tepore del sole scambiandosi lazzi e osservando con compunzione l’andirivieni affacendato di Corsarola”(7).
L’incarico di studiare il completamento della facciata fu affidato nel 1919 a Ernesto Pirovano (Milano 1866-1934), il progettista il Cimitero Monumentale di Bergamo. In quegli anni, sotto l’impulso dell’assessore alla Cultura Caversazzi venivano compiuti in città numerosi interventi di restauro.
Dei cinque progetti del Pirovano fu scelto quello che più si avvicinava al disegno scamozziano, con variazioni dovute al mutamento già avvenuto nelle dimensioni interne.
Nel 1927 Pirovano completava finalmente il rivestimento della monumentale facciata in marmo bianco di Zandobbio. La fabbrica di Palazzo Nuovo attendeva ora di poter chiudere definitivamente il lungo ed estenuante capitolo iniziato tre secoli addietro.
Con il completamento della facciata nel 1927, vennero rimosse anche le tre statue collocate a fine Seicento sulla parte terminale del fabbricato, eliminando la vistosa traccia dell’intervento barocco.
E il secolare cantiere si chiuse. Si chiuse finalmente nel 1958, con la posa sopra le finestre del piano nobile delle sei statue previste dallo Scamozzi a completamento della facciata.
Sulla base dei pilastri angolari della facciata vi erano incise le date salienti della costruzione del Palazzo con i nomi dei relativi podestà e dei capitani veneti che reggevano Bergamo e il suo territorio. Le scritte vennero abrase dai Cisalpini nel 1797 ma furono fatte nuovamente incidere nel 1930 dall’allora direttore della Biblioteca, monsignor Giuseppe Locatelli.
In realtà il progetto scamozziano prevedeva la realizzazione di altre statue da collocarsi sulla facciata e a questo proposito Nestorio Sacchi scrisse che alcune di esse, “già da anni eseguite, giacciono malinconicamente in un cortiletto retrostante il Palazzo, in un mare di muschio e di solitudine, ed attendono il giorno in cui potranno, sulle finestre della facciata, godersi il sole di Piazza Vecchia ed i voli dei colombi”.
Tali aggiunte non vennero mai realizzate ma si vocifera da tempo che una delle statue realizzate per Palazzo Nuovo venne recuperata dai magazzini comunali e reimpiegata per comporre la fontana che si trova attualmente accanto all’ingresso della Sala Viscontea, nel passaggio tra Colle Aperto e la Cittadella.
Si tratta della statua seicentesca di Ercole con il leone di Nemea, sistemata nel 1932 a ridosso del muro che univa la torre Adalberto ad una cabina elettrica.
Con il restauro della Cittadella intorno agli anni Sessanta, quel muro fu abbattuto per opera dell’architetto Sandro Angelini, che fece trasferire la statua di Ercole nel passaggio Torre di Adalberto (ricavato tra Colle Aperto e la Cittadella) dove risiede a tutt’oggi in continuità con le memorie storiche ed architettoniche fra le più significative di questa parte della città.
NOTE
(1) La loggia edificata nel 1435 era “destinata alle attività della Bina, il consiglio minore. Il consiglio maggiore continuò ad esercitare le sue funzioni nel Palazzo della Ragione sul cui fronte fu collocata nel 1464 la targa raffigurante il doge Foscari inginocchiato davanti al leone dorato su sfondo azzurro”. (Andreina Franco Loiri, ….).
(2) In sostituzione del regio vecchio posto su Piazza Duomo. Le stesse denominazioni di Loggia Nuova e di Regio Nuovo sostituiscono infatti due edifici di egual funzione esistenti tra la Basilica di Santa Maria e il Palazzo della Ragione.
(3) “Questa modifica alla pianta originaria portò ad occupare parte delle pertinenze della chiesa di San Michele all’arco (1436, 1453 e 1498) e le vicine case private dei Licini che, con l’osteria ‘La Corona’, erano già stati acquistati dal Comune nel 1579 per ospitarvi il Monte della Pietà ed i magazzini del Monte dell’Abbondanza” (…) “creati rispettivamente nel 1557 e nel 1539 erano stati fino ad allora attivi in altri locali, in cui si versava un canone d’affitto” (Tosca Rossi, Bergamo urbs picta. le facciate dipinte di Bergamo tra XV e XVII secolo. Ikonos srl Treviolo, 2009).
(4) Tosca Rossi, ibidem.
(5) “Dopo Vannone, la committenza interpellò, a più riprese, altri architetti, da Lellio Buzzi, architetto della Fabbrica del Duomo e prescelto dal cardinale Federico Borromeo per il progetto del palazzo della Biblioteca Ambrosiana, ad Antonio Maria Caneva di Porlezza, artefice del progetto della Chiesa di San Bartolomeo a Bergamo per finire a Pietro Maria Bagnadore di Orzinuovi, architetto, pittore e scultore molto attivo a Brescia. Fino alla nomina che spiazzò tutti, quella dell’architetto vicentino Vincenzo Scamozzi, affermato allievo del Palladio” (Dentro la Biblioteca A. Mai quattro secoli di cultura, cit).
(6) Vanni Zanella, Bergamo Città, 2ª edizione, Azienda Autonoma di Turismo, Bergamo, 1977, pagg. da 76 a 78.
(7) Nestorio Sacchi, Vecchi Palazzi di Bergamo – Palazzo della Civica Biblioteca (da un numero de “La Rivista di Bergamo” del 1954).
FONTI ESSENZIALI
Vanni Zanella, Bergamo Città, 2ª edizione, Azienda Autonoma di Turismo, Bergamo, 1977, pagg. da 76 a 78.
Nestorio Sacchi, Vecchi Palazzi di Bergamo – Palazzo della Civica Biblioteca (da un numero de “La Rivista di Bergamo” del 1954).
Tosca Rossi, Bergamo urbs picta. le facciate dipinte di Bergamo tra XV e XVII secolo. Ikonos srl Treviolo, 2009.
BIBLIOGRAFIA
Sulla secolare vicenda costruttiva del palazzo si vedano S. Angelini, Bergamo: città alta. Una vicenda urbana, con scritti di L. Angelini, W. Barbero, P. Capellini, V. Landolfi, Bergamo, 1989, pp. 20-21 e M.L. Scalvini, G.P. Calza, P. Finardi, Le città nella storia d’Italia. Bergamo, Bari, 1987, pp. 58, 69, 74, 85-87.
Procedendo dal lungo rettifilo che da Fontana conduce a Sombreno, ultimo lembo agreste a occidente dei colli, al centro del solco del Brembo, il visitatore è accolto dall’alta e fitta massa arborea del parco di Villa Agliardi, posta ai piedi della collina: un’emergenza monumentale e paesaggistica d’eccezione che si staglia al margine opposto del compatto nucleo storico.
La villa è celata discretamente da una quinta di edifici e per vederla bisogna imboccare un’antica diramazione – via Agliardi – che dai margini occidentali del tessuto storico si dirige fra gli ultimi lembi edilizi e il fitto bosco.
La strada si allarga in un piazzale ombroso delimitato, da un lato da una fontana incorniciata da due scale curve che invitano a salire verso la collina e, dall’altro, dal lungo ed austero prospetto nord della villa, che come una fiera e ritrosa fanciulla di campagna si mostrerà alle spalle.
Di fronte al viottolo che immette alla villa, su un grande portone campeggia una targa metallica che introduce ad un bellissimo esempio di dimora padronale del ‘600 costruito dalla famiglia Moroni (proprietaria dell’adiacente Filanda) ed acquistato dal conte Pietro Pesenti (1771-1826 ), che lo adibì a casa del fattore.
Pietro Pesenti, il committente della villa che andremo a visitare, era l’ultimo rampollo maschio di uno dei due rami in cui s’era divisa nel ‘600 l’importante famiglia di drappieri. I Pesenti già all’inizio del ‘400 dalla culla natale di Gerosa in Vall’Imagna si erano insediati in Bergamo e Sombreno, dove nel corso del tempo avevano aumentato i propri possedimenti. A soli 22 anni Pietro aveva ereditato tutti i beni paterni ed entusiasta degli avvenimenti storici che in quegli anni stavano profondamente mutando l’Europa, partecipò attivamente alla vita politica bergamasca ritrovandosi a ricoprire, tra il febbraio e l’aprile del 1798, la carica di Presidente dell’Amministrazione del Dipartimento del Serio, la maggior carica politica locale.
Fu proprio in quel 1798 che il cittadino Pietro Pesenti, sull’onda del successo politico commissionò (1) all’architetto austriaco Leopold Pollak (Vienna 1751 – Milano 1806), insigne architetto operoso in Lombardia nella stagione neoclassica, la ristrutturazione in chiave moderna della Villa di famiglia, per trasformarla in luogo d’incontro per i politici del tempo. Pesenti gli espose una serie di richieste che questi doveva rispettare e gli commissionò anche l’invenzione ex-novo del giardino. E soprattutto il giardino, secondo l’uso dell’epoca, avrebbe dovuto essere concepito come manifesto delle idee politiche del committente.
La dimora, un’edificio di impianto seicentesco con impianto a L, aveva un nucleo antico costituito da una torre medioevale facente parte dell’antico sistema difensivo di Breno che comprendeva (oltre al castello situato in cima alla collina, in luogo dell’attuale Santuario) anche una seconda torre, collocata in quella che è oggi la piazza. Quando nel 1473 i Pesenti si insediarono a Breno probabilmente acquistarono le due torri, ampliandole e trasformandole in abitazioni. La torre della piazza è infatti inglobata in un edificio di più vaste dimensioni.
Della torre medioevale si trova traccia nell’angolo nord ovest della villa, dove possiamo individuarla grazie alla presenza di pietre piuttosto grandi e ben squadrate che la differenziano dal resto dell’edificio, che è in acciottolato, mattoni e materiale vario.
Perchè il Pollak (che talvolta si firmava Pollach e che taluni chiamano Pollack, allievo e discepolo del Piermarini, con cui collaborò per Villa Belgiojoso a Milano), aveva accettato la proposta di risistemare una residenza di campagna, in un luogo così periferico rispetto alla capitale lombarda e per di più da riprogettare su una precedente costruzione? Lui, che si era conquistato grande fama con la progettazione di rilevanti edifici pubblici, firmando a Bergamo il teatro Sociale.
Caduto il dominio austriaco nel 1796 e considerata la sfortunata vicenda austriaca in Lombardia ai primi anni dell’Ottocento, le sue origini non rappresentavano un incoraggiante biglietto da visita per la nuova classe dirigente; l’occasione fornitagli dal conte Pesenti gli offriva la possibilità di riscattarsi attraverso un innovativo progetto di reinterpretazione in chiave neoclassica di una preesistente dimora secentesca non separabile dal notevole parco. E dal momento che l’ammodernamento della casa era vincolato dagli schemi di una costruzione preesistente, fu soprattutto sul giardino che egli concentrò il proprio estro creativo.
Un giardino che, probabilmente a causa dei costi eccessivi, venne ultimato solo in alcune parti, assolutamente insufficienti a darci conto dell’insieme come era stato concepito nel progetto, ma che è possibile descrivere sulla base dei disegni incorniciati nella villa (2).
Dalla fattoria, percorso un breve viottolo si entra in un atrio, non molto vasto e illuminato da tre arcate orientate a sud verso il giardino. Il cancello si trova proprio di fronte.
Come detto, all’arrivo del Pollak la villa presentava un impianto seicentesco impostato ad L, costituito dal corpo mediano e dall’ala occidentale. Tale impianto conteneva già le premesse dell’attuale planimetria, che dal nucleo centrale preesistente si è dilatata articolandosi simmetricamente ad U, secondo i canoni di un evidente schema neoclassico.
Al pian terreno del corpo mediano venne ricavato un grande vestibolo porticato (oggi coperto da vetrate) e venne conservato il sovrastante salone; nell’ala occidentale venne invece innestato un monumentale scalone a due rampe. E’ invece praticamente tutta nuova l’ala orientale, così come i corpi più bassi che prolungano le ali.
UTILE E BELLO
In ognuno dei prospetti delle ali l’architetto austriaco inserì una nicchia, con coronamento a timpano, contenente una statua sormontata da un riquadro entro il quale campeggia un’iscrizione, un elemento di reminiscenza cinquecentesco-palladiana (3).
Le due statue in facciata, rappresentanti l’Ospitalità e l’Agricoltura, sono due elementi importanti per comprendere l’idea ispiratrice di tutto il giardino, concepito come luogo in cui utile e bello si fondono (una delle idee portanti dei giardini paesaggistici inglesi che Pollak aveva assimilato grazie ai numerosi contatti avuti con il suo committente milanese Belgiojoso). Il tema è simboleggiato dallo stesso progetto della villa che prevedeva otto “suite” per ospiti, poi non realizzate.
GLI AFFRESCHI E LE DECORAZIONI
Alcuni aspetti riguardanti l’intervento sulla villa – affreschi e decorazioni – si relazionano, dialogano, con il progetto del giardino, dando vita a un tutto organico in cui il dentro e il fuori si richiamano a vicenda.
Le decorazioni ad affresco furono realizzate da Vincenzo Bonomini (1756-1839) nei primi anni dell’Ottocento (salone centrale al primo piano ed altre sale al piano terreno), mentre le decorazioni a stucco vennero affidate ad un certo Bossi .
Gli affreschi e le decorazioni al piano terreno
Le tre sale poste al piano terreno sono riccamente decorate e nascondono numerosi significati simbolico-politici, riconducibili a quelle idee politiche di Pesenti che si ritrovano citate anche nel giardino.
Il tema della prima sala è quello della pace e della guerra: al centro della volta è affrescato il riposo del guerriero, tema che manifesta l’ideale di un governo illuminato (la Repubblica raffigurata nella terza sala, evidente riferimento alla Repubblica Francese), capace di garantire ai propri cittadini la serenità proveniente dalla pace e, al contempo, la forza e la solidità portata dalle armi.
Sempre legati alla simbologia della pace e della guerra sono i decori a stucco, sia in questa sala che in quella accanto, dove alle pareti compaiono anche alcune stampe rappresentanti diversi momenti della vita di Napoleone.
Al centro della volta della terza sala (quella che doveva essere già al tempo sala da pranzo) Vincenzo Bonomini affrescò la Repubblica con in mano un fascio consolare, con chiaro riferimento alla Repubblica Romana e, in quel momento storico, alla Repubblica Francese.
L’allusione alla Repubblica Francese ritorna nelle decorazioni dell’obelisco (di fronte all’ingresso principale), punto di riferimento simbolico e spaziale del giardino.
Sulle pareti è simbolicamente rappresentato il mondo. All’interno di piccole ghirlande sono posti quattro animali che rappresentano i quattro continenti: il cervo rappresenta l’Europa, il cavallo le Americhe, il leone l’Africa e l’elefante l’Asia, ad indicare che la Repubblica come istituzione politica domina sui quattro continenti del mondo.
I temi del riposo del guerriero, del significato politico di Napoleone e della Repubblica, cari al committente, si ritrovano citati anche nel giardino.
Gli affreschi e le decorazioni al primo piano
Le decorazioni più importanti e significative sono comunque al piano superiore, al quale si giunge attraverso un imponente scalone a due rampe, che si imbocca a sinistra del vestibolo.
Alle pareti del salone centrale del primo piano (quello già osservato con la volta affrescata dal Ghislandi) compaiono quattro vedute affrescate con perizia da Vincenzo Bonomini, di analogo interesse per il rapporto con il giardino.
Tema di tali vedute è il paesaggio raffigurante rovine classiche, elementi che Pollak aveva disegnato nel progetto per il giardino: una veduta raffigura le terme (che non vennero realizzate) ed un un’altra la casa dell’ortolano (realizzata), elementi che riprendono i due temi di fondo del progetto pollackiano: l’Ospitalità e l’Agricoltura:
“Così, in un ambiente immaginario ma con vivo richiamo all’essenza del paesaggio reale, egli raffigurò due significativi elementi del progetto del giardino: uno – la casa dell’ortolano – reale ed agricolo, l’altro – le terme, destinate al piacere del vivere in villa – solo ideato dal Pollach e mai realizzato” (4).
In alcuni locali adiacenti il salone centrale, spiccano per la loro particolarità alcune pareti rivestite da papier peints francesi, carte da parati decorate a tempera, i cui colori nonostante il passare del tempo hanno mantenuto una straordinaria vivacità.
Una piccola saletta, adibita a locale di studio, presenta un più realistico diorama di Parigi, ove sono chiaramente riconoscibili alcuni fra i maggiori monumenti della città: quasi una sua sintesi, in termini di pre-moderna simultaneità. Idee proiettate nello spirito enciclopedico ed universalistico di quel periodo (Perogalli, cit.).
IL PROGETTO DEL GIARDINO
Si è già detto dell’idea ispiratrice di tutto il giardino, concepito come luogo in cui utile e bello si fondono, dove l’utilità della campagna, con i suoi frutti, si concilia al bello per il diletto dell’anfitrione e dei suoi ospiti.
Come anticipato qui, “L’origine montanara di molti abitanti della zona, Pesenti compresi, spiega la gelosa cura dedicata per secoli alla terra. Si intuisce un rapporto non solo fisico ma anche ‘ideologico’ col giardino, amato, ma forse anche temuto dagli stessi proprietari come antagonista dei terreni coltivati (e quindi passato alla nuova destinazione con un’iniziale cautela ed attenzione al rapporto con la campagna circostante.) Da qui la cautela, quasi avara, con cui i campi venivano destinati al nuovo ruolo di giardino. È quindi pensabile che il binomio “agricoltura / ospitalità” che ha ispirato il Pollack ed il suo committente Pietro Pesenti non abbia soltanto uno stimolo culturale nello spirito bucolico settecentesco, ma proprio un concetto d’utilità e di rispetto della campagna, in una visione nuova, neoclassica, dell’ortus clausus, che riscatta questo ‘spreco’ di terreno agricolo” (5).
Nelle intenzioni del Pollack e del suo committente, il giardino doveva perciò essere in parte destinato alla produzione agricola ed inoltre, semplificando, “arredato” come un vero e proprio luogo di soggiorno estivo nel quale i motivi ornamentali si sarebbero alternati ad una serie di sorprese.
Il terreno destinato alla produzione agricola occupava più di un terzo del giardino e prevedeva la creazione di strutture finalizzate a coltivazioni improntate al principio pratico ma anche filosofico-politico, dell’utilità.
Da un lato, strutture finalizzate alla coltivazione di prodotti utili per la casa, ossia fiori, frutti, uva e ortaggi, con un Giardino a fiori all’olandese; diversi Potager (orti); una Casa rustica per abitazione dell’Ortolano; una Fruttiera con vasca nel mezzo; una Vigna d’Alcatico.
Dall’altro, era prevista la creazione di una Agrumera e di una Filanda (un elemento originale del giardino di Villa Pesenti-Agliardi), destinata alla produzione della seta: prodotti di elevato valore commerciale forse destinati ad un mercato esterno. La Filanda ben si accordava alla situazione agraria del territorio bergamasco nel Settecento, in cui la maggior ricchezza era rappresentata dalla seta e dove il gelso aveva tolto al vino il primato produttivo.
Dal giornale delle spese per la fabbrica di Breno dal 1793 al 1819, apprendiamo che nell’inverno del 1815 la filanda acquistata dal Moroni il 7 luglio 1814 (corrispondente al mapp. 71 della planimetria risalente al primo decennio del 1800) era stata demolita (insieme alla “casa contigua in facciata alla tinera”) “per poter usare il materiale per la costruzione del casino dell’ortolano ultimato nel mese di luglio-agosto” (l’esistente casa del giardiniere nel giardino della villa progettato da L. Pollak). In quel 1815, in luogo della filanda fu costruita la tinaia.
“Il progetto originale fu modificato non realizzando la retrostante filanda prevista. Tale modifica è da ritenersi dovuta all’evoluzione delle filande, proprio in quel periodo, che da artigianali diventano industriali” (Gian Paolo Agliardi, cit.).
Pollak collocò poi il frutteto e aiuole ornamentali di verdura (potager) nel cuore del giardino, quegli stessi ortaggi richiamati negli affreschi del salone centrale della villa.
Dai disegni conservati nella villa emerge come la progettazione del giardino fosse meticolosamente estesa fino al più minuto dettaglio costruttivo, comprendendo un numero straordinario di elementi architettonici e naturalistici, intesi forse a “recuperare, concentrandola, l’esperienza delle grandi ville romane, proiettata però nello spirito enciclopedico ed universalistico del proprio tempo” (Perogalli, cit.).
Vengono infatti recuperati elementi archeologici, egiziani e classici (obelisco, templi, terme), romantici (per alcuni cenni che rievocano l’architettura castellana, rustica), speleologici (con la formazione di una grotta), esotici (con aiuole realizzate con fiori olandesi, l’agrumeria, «qualche pianta pregevole forestiera»); industriali (con una filanda munita di 24 fornelli), scientifici (per la possibilità di misurare il tempo attraverso un orologio solare) ed inoltre motivi simbolici e celebrativi quali un Monumento della Libertà in Italia, un Tempio della Pace ed uno del Silenzio (quest’ultimo realizzato), riservando alcuni margini all’iniziativa del committente.
A evidenziare l’originalità del progetto per Villa Pesenti-Agliardi rispetto ad altri progetti del Pollak (Montecchio e Riva di Chieri) basterebbero la filanda, l’edificio dei bagni, la piazza dei pini a cima, la sala a verde con piante “forestiere” e la torre del belvedere.
UNA VISIONE D’INSIEME
Il terreno destinato a giardino si sviluppava in modo irregolare e disarmonico a sud-est della casa; l’architetto doveva quindi sottrarre la disarmonia agli occhi del visitatore.
In asse con la casa, disegnò lo spazio regolare della corte, dividendola visivamente dal resto del giardino.
Il giardino venne disegnato sulla base di un ideale triangolo equilatero avente per vertici le tre piazze: oltre a quella circolare (Obelisco), quella semipoligonale a nord-est (cui avrebbe dovuto corrispondere il portico fra i due tempietti) e quella ottagonale (la “Fruttiera”) a meridione.
All’interno della composizione la rotonda dell’obelisco svolge quindi l’essenziale funzione di snodo e di congiunzione tra la corte ed il giardino e diviene il punto di riferimento non solo spaziale (la sua punta è visibile da tutto il giardino) ma anche simbolico-politico con l’allusione alla Repubblica, tema già espresso nell’affresco del Bonomini al centro della volta della terza sala al piano terreno.
Per ovviare al rischio di un eccessivo affastellamento delle costruzioni architettoniche, Pollak dispose tutti gli edifici (la lunga serra, la casa dell’ortolano con la filanda retrostante, la grotta, l’edificio delle terme, il “Tempio della Pace” e il “Tempio del Silenzio”) lungo il perimetro del giardino, con il vantaggio, da un lato, di sfruttare al massimo l’estensione interna dello spazio a sua disposizione e, dall’altro, di catturare l’attenzione del visitatore celando nello stesso tempo parti del muro di cinta.
Com’era uso nei giardini inglesi, le macchie di vegetazione completavano la mimetizzazione del muro, in modo che il visitatore non avesse la sensazione di trovarsi in un luogo limitato. Dove sorge il Tempio del Silenzio, una fitta e irregolare parete di carpini invita lo sguardo a spaziare verso l’ampio anfiteatro della collina coltivata a vite, oltre la quale l’occhio è attirato dalla torre posta a metà della salita acciottolata che conduce al Santuario.
Bisognava anche cercare di estendere lo spazio del giardino all’esterno dei confini della proprietà e adottò alcuni accorgimenti per dilatare illusionisticamente la percezione dello spazio.
Collocò la vite a nord, nei pressi del muro di cinta, così da suscitare la sensazione di continuità tra la vite del giardino e quella coltivata sul pendio della retrostante collina, dominata dal profilo del Santuario. La dimensione virtuale del giardino era l’intero paesaggio circostante con cui il Pollak seppe sapientemente rapportare il giardino reale.
Verso la pianura, creò due aperture nel muro di cinta, grazie alle quali si poteva allungare lo sguardo sulla campagna circostante e collocò sull’angolo estremo del giardino una Torre o Belvedere da cui osservare tutta l’estensione del giardino e la campagna circostante.
GLI ALLINEAMENTI PROSPETTICI E IL GIOCO DEI RIFERIMENTI SIMBOLICI
Come rilevato da Ginevra Agliardi, una fitta rete di sottilissime linee rosse tracciate sulla planimentria, evidenzia un gioco di quinte, cannocchiali ottici e prospettive entro le quali Pollak ha allineato un gioco di riferimenti simbolici, allusivi a quei temi cari al commitente espressi anche nelle sale della villa.
Un asse parte dall’ingresso principale, attraversa l’obelisco e termina nel Tempio della Pace. “Torna qui il riferimento a quel ‘aureo regime nascente’ portatore di Pace, simboleggiato nella villa, come già accennato, dal ‘guerriero a riposo'”.
L’Ara collocata tra l’obelisco e il tempio si riferisce probabilmente “ai ringraziamenti che gli antichi offrivano per le vittorie”.
Vi è poi un lungo cannocchiale prospettico che dalla rotonda dell’obelisco permette di scorgere un Vaso cinerario. Tale sottolineatura “conferma l’ipotesi di un significato simbolico che lega i due monumenti. Si tratta forse un riferimento a coloro che persero la vita per la conquista della libertà politica”.
Infine, Ginevra Agliardi ha scoperto “che il Tempio della Pace posto all’estremità dell’asse principale, appare idealmente congiunto al Tempio del Silenzio posto all’estremità dell’asse secondaria”.
“L’esattezza delle linee che si possono tracciare sulla planimetria e il triangolo che ha come vertici i due templi e il centro della corte e come lati i due viali, confermano la non casualità dei riferimenti: pace e silenzio dopo la guerra contro l’oppressore”.
DAL GIARDINO OTTOCENTESCO AD OGGI
Pietro Pesenti morì giovane lasciando la villa in eredità alla nipote, Marianna Pesenti che sposò il Conte Paolo Agliardi (6). Dopo la morte d Marianna, suo figlio, Conte Giovanni Battista Agliardi, ne divenne proprietario e negli anni 1875-1880 trasformò l’incompiuto giardino in chiave romantica all’inglese con l’uso di molte essenze di pregio, di cui talune esotiche.
Il ricco corredo fotografico della famiglia Agliardi offre un’idea del giardino prima e dopo l’impianto romantico, nonchè validi indizi riguardo la datazione delle piante superstiti più importanti.
Sullo sfondo mutevole del giardino è poi piacevole vedere l’intrecciarsi di “episodi di vita e di amore familiare” che abbracciano sei generazioni. Qui fu scattata la fotografia di Maria Montessori che, divenuta la fotografia ufficiale della Dottoressa, fu stampata sulle vecchie banconote da 1.000 lire. Vi venne ospitato anche Papa Giovanni XXIII quando ancora era Patriarca di Venezia.
Come giustamente sottolineato da Gian Paolo Agliardi, il giardino neoclassico, anche se non realizzato per intero ha lasciato una profonda traccia per la sua forte carica progettuale, condizionando felicemente anche l’evoluzione del giardino romantico. Traccia che è riaffiorata nel tempo con la morte di alcune piante ultracentenarie e che, tra l’altro, ha contribuito a mantenere quel “dialogo” tra il giardino e il paesaggio collinare, che è stato uno dei temi di fondo del progetto del Pollak.
Prima del giardino romantico
Nell’autunno 1867, probabilmente in occasione del compleanno del figlio minore Gian Battista fu realizzato un bel sevizio fotografico divenuto un importante documento della fase che precede l’impianto romantico, di cui possiamo cogliere alcuni dei tanti aspetti.
Ad esempio, la parte antistante la casa dell’ortolano era a frutteto ed orto, la limoniera non era stata ancora realizzata e la rotonda attorno all’obelisco era completamente circondata da piante, probabilmente ippocastani, molto più alte e ravvicinate rispetto a quelle progettate dal Pollak.
Il giardino romantico
Appassionato di fiori e di piante, Giovanni Battista Agliardi dimostrò la sua competenza attraverso una scelta qualificata di essenze di pregio, di cui talune esotiche (soprattutto conifere), secondo la moda del tempo: cedri, cipressi, Chamaecypearis, sequoie, tassi..
Ci si chiede se dalla grande amicizia di Giovanni Battista con casa Piazzoni – che il quel periodo avrebbe impiantato il bellissimo Parco poi divenuto Marenzi in via Pignolo -, possono essere derivate influenze culturali e forse progettuali.
E’ comunque possibile datare l’impianto del nuovo giardino grazie agli acquerelli di Gio. Madone, del 1883, dove si nota la giovane età dei Cedri e delle Sequoie. La crescita, talvolta imponente, di alcuni alberi ha prodotto effetti nell’evoluzione dei rapporti spaziali del giardino e quindi anche nel modo di vederlo e di fruirlo, così com’è tipico del giardino romantico.
Altre foto del 1906 documentano l’evolvere del giardino romantico, che con la creazione di grandi quinte verdi, specialmente di conifere, si estraniava sempre più dall’ambiente circostante e quindi dal disegno pollakiano.
Nel frattempo, le due palme in facciata vennero abbattute perchè non piacevano già più alla generazione successiva, come si apprende dalla corrispondenza del 1916 tra Giovanni Battista Agliardi al fronte e le sue sorelle.
Nel corso del tempo, alcune delle piante superstiti dell’impianto ottocentesco si sono forgiate assumendo sempre più il carattere di “monumento verde”.
Tra i pregevoli esemplari di carpine bianco, uno forma sette poderose ramificazioni già a pochi metri dal suolo, tanto da somigliare ad un candelabro. Elemento di base dell’arte del giardino, il carpine bianco è spesso presente nei parchi storici ed anche nei roccoli.
Su una collinetta, in un luogo isolato, vi è un magnifico cedro dell’Himalaya facente parte dell’originario impianto romantico.
Oggi, a distanza di circa centoquarant’anni dall’impianto ottocentesco, gli alberi più antichi e prestigiosi del giardino condividono il ruolo di protagonisti con quei piccoli e grandi monumenti scaturiti dal progetto originario di Leopoldo Pollak.
Note
(1) La scritta A.R.C. I (che sta per anno primo respublicae cisalpinae) presente su un’iscrizione riportata su una “rovina architettonica” della planimetria del progetto di Pollak (ICNOGRAFIA VILLAE DICTA PRE’ A PIETRO PESENTI BERGAMI CIVES AD COMODITATEM ET SOLATIVM HOSPITVM AVCTAE ET CON ORTIS AMPLIATAE A.R.C I) suggerisce che “Il progetto venne steso da Pollach tra il gennaio e il maggio del 1798 e cioè tra l’inizio dell’anno riportato su quasi tutte le tavole e lo scadere del primo anno della Repubblica Cisalpina” (Ginevra Agliardi, Il progetto di Leopoldo Pollach per il giardino di villa Pesenti-Agliardi a Sombreno, cit. in bibliografia).
(2) Il progetto di Pollak, quasi totalmente integro, è composto da ventinove tavole acquerellate conservate nella villa di Sombreno e così suddivise: una pianta generale della villa e del giardino, venti disegni relativi agli edifici e alle vedute del giardino, tre piante, tre prospetti e due sezioni della villa (Ginevra Agliardi, Il progetto di Leopoldo Pollach per il giardino di villa Pesenti-Agliardi a Sombreno, cit. in bibliografia). Di questo progetto esistono poi vari studi che esaminano anche le correlazioni con altri giardini dall’epoca.
(3) Reminiscenze cinquecentesche non erano assenti dall’architettura di Pollak; un esempio, in ambiente bergamasco, può essere la facciata di palazzo Agosti-Grumelli che Pollak progettò nel 1797 a Bergamo.
(4) “Storia d’un giardino. 200 anni tra immagini sognate e immagini reali” – Bozza per lo studio del giardino della villa Agliardi già Pesenti in Sombreno in base alla documentezione iconografica dell’archivio Agliardi. Inoltre: “I quattro grandi paesaggi entro riquadro a sviluppo verticale sulle pareti maggiori sono una pagina altissima pur nell’inusitato rispetto dogmatico, nuova e irripetuta nello svolgimento poetico bonominiano, e danno un’altra volta la misura delle sue possibilità nel genere specifico. La luce particolare che sublima le potenzialità timbriche del colore in natura, le architetture a spinta verticale, allisciate, l’assoluto silenzio nell’aria sterile e il memento mori tra l’elegiaco e il sentenzioso dell’elemento rovina grandiosa e tenace sembrano segnare un momento di pensamenti più drammatici per l’esuberante Bonomini” (R. MANGILI, Vincenzo Bonomini…, p. 73).
(6) Dopo la prematura scomparsa nel 1826 di Pietro Pesenti e quasi un ventennio d’abbandono della villa e parco in parte incompiuti, attorno al 1840 pervennero per divisione a Marianna Pesenti Agliardi (sposò nel 1822 il conte Paolo di Bonifacio Agliardi). E’ all’ultimogenito, il Senatore Giovanni Battista (1827+1896), a cui si attribuisce l’attuale impianto del giardino (Sombreno. Storia d’un giardino, cit).
Bibliografia
Ginevra Agliardi, Il progetto di Leopoldo Pollach per il giardino di villa Pesenti-Agliardi a Sombreno. Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2001-2002.
Carlo Perogalli. Villa Pesenti, Agliardi a Paladina, Sombreno (Bergamo). Estratto dall’«Archivio storico lombardo» serie IX – volume VII – 1968 Milano Società Storica Lombarda, 1969.
Roberto Ferrante, Paolo Da Re, Ville Patrizie Bergamasche, Bergamo, Grafica e Arte Bergamo, 1983, pp. 45-51.
Gian Paolo Agliardi, Vita di un giardino e nel giardino. In: I grandi Alberi. Monumenti vegetali della terra bergamasca. A cura di Gabriele Rinaldi. Provincia di Bergamo, Grafo, 2006, p. 131