La conquista veneziana di Bergamo e la decisione di trasformarla in “città fortezza”: le vicende storiche

Il leone di San Marco, qui dipinto sull’antica Porta di San Lorenzo, riporta all’evangelista Marco, rappresentato dalla figura del leone alato con un libro aperto che reca le parole PAX TIBI, MARCE EVANGELISTA MEUS (“Pace a te, Marco, mio evangelista”) e poggia le zampe anteriori sulla terraferma e le posteriori nel mare; è il simbolo che caratterizza le porte di accesso alla città (inizialmente affrescato anche su quelle medioevali) e i maggiori palazzi pubblici (Palazzo della Ragione, Palazzo del Podestà, Loggia Nuova) e privati

 Fin dal XIII secolo il comune di Bergamo aveva costruito il suo dominio sul “contado”, ma nel 1331, nel momento in cui appare ormai forte la supremazia della città sul suo territorio, Bergamo accetta di sottomettersi a un signore, il re Giovanni di Boemia, perdendo la propria autonomia. Da quel momento Bergamo sarà sempre sottoposta a un dominio esterno: visconteo fino al primo quarto del XV secolo, e quindi veneziano, con le brevi parentesi della signoria malatestiana agli inizi del XV secolo e del governo spagnolo-francese subito dopo la sconfitta veneziana di Agnadello nel 1509.

Il Fontanone visconteo. Gian Galeazzo Visconti, già vicario imperiale e signore della capitale lombarda, aveva ottenuto il titolo di Duca di Milano l’11 maggio 1395 mediante diploma imperiale da Venceslao di Lussemburgo. Con un secondo documento datato 13 ottobre 1396 i poteri ducali furono estesi a tutti i domini viscontei e nei centri più significativi del ducato. Gian Galeazzo ottenne la patente per inquartare il biscione visconteo con l’Aquila imperiale nella nuova bandiera ducale. L’aquila, pegno di fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero, compare anche nella lapide, opera di uno scultore comacino appartenente alla scuola di Ugo e Giovanni da Campione, apposta in una nicchia sotto il Fontanone, la grande cisterna d’acqua eretta nel 1342 da Giovanni e Luchino Visconti nell’allora centro politico, religioso e commerciale della città.  Il nome dei Visconti deriva infatti dal latino vice comitis, che significa “vice conti”, vice – colui che fa le veci e conti – comites (con-te) indicava colui che stava con qualcuno, cioè con l’imperatore: per i Visconti con l’imperatore del Sacro Romano Impero. La famiglia dei Visconti era quindi colei che in Italia rappresentava l’Impero, tanto da agognare allo status di primi Principi italiani, che a fatica Gian Galeazzo ottenne nel 1402

Nel corso delle guerre per la supremazia regionale, perdurate per buona parte della prima metà del Quattrocento tra i maggiori Stati regionali dell’area italiana (Repubblica di Venezia, Ducato di Milano, Repubblica di Firenze, Stato Pontificio e Regno di Napoli), Bergamo è una pedina nel gioco diplomatico e militare tra il Ducato di Milano (che, all’apice della sua potenza, la possiede dal 1332) e la Repubblica di Venezia, che, intenzionata ad espandersi nell’entroterra lombardo, muove contro Milano per raggiungerne il definitivo controllo.

Sarà solo con la pace di Lodi, raggiunta nel 1454, che verrà sancita quella “politica dell’equilibrio” fortemente voluta dalla Repubblica di Firenze sotto Lorenzo de’ Medici, per porre una sorta di bilanciamento fra i vari ducati, regni e repubbliche della penisola. Ma con la morte di questi nel 1492 quell’equilibrio instabile andrà in frantumi, creando le condizioni per l’invasione straniera che dagli inizi del Cinquecento vedrà la penisola percorsa in lungo e in largo dagli eserciti Francesi, Spagnoli e Imperiali, decisi a spartirsi parte dei territori italiani e a porre fine alla crescente potenza della città lagunare, tale da sembrare l’unica in grado di unificare il nord sotto un’unica insegna.

Le guerre si estingueranno solo con la pace di Cateau Cambrésis (1559) e con la rinuncia alla politica espansionistica della Repubblica di Venezia, che da questo momento s’impegnerà a garantire la sicurezza dello Stato di Terraferma attraverso un un piano unitario di fortificazioni per la progettazione della difesa, all’interno del quale la Bergamasca rappresenta la punta più avanzata ad occidente.

Il Ducato di Milano e i domini dei Visconti all’inizio del XV secolo. I domini viscontei erano giunti all’apice della massima potenza con Gian Galeazzo, giunto al potere nel 1385. In seguito si ridussero progressivamente per effetto della lunga serie di guerre contro le Repubbliche di Firenze e di Venezia e contro lo Stato Pontificio, che si protrassero per tutta la prima metà del Quattrocento. A Gian Galeazzo succedette il figlio, Giovanni Maria (assassinato a Milano nel 1412), seguito dal fratello minore Filippo Maria (ultimo signore di Bergamo), che riprese la politica espansionistica perseguita da Gian Galeazzo entrando in contrasto con la Repubblica di Venezia. Nel 1441 Filippo Maria diede in moglie la propria figlia naturale Bianca Maria a Francesco Sforza, che divenuto di fatto il successore del potentato milanese, fu riconosciuto come duca nel 1454 da parte delle principali potenze italiane nel corso della pace di Lodi. Tuttavia, alla morte di Filippo Maria avvenuta nel 1447, Milano insorse proclamando la Repubblica, destinata a indebolirsi progressivamente a causa dell’influenza politica e militare che lo Sforza stesso riuscì a esercitare sul popolo milanese. Fu Ludovico Sforza “il Moro” (1452-1508), una delle realtà più importanti del Rinascimento italiano, a provocare l’invasione straniera, invitando il re di Francia, Carlo VIII (1470-1498) a scendere in Italia, allo scopo di approfittarne per diventare il centro dell’equilibrio italiano. Stabilizzatosi nella metà occidentale dell’attuale Lombardia, il Ducato fu quindi conteso tra Francia e Spagna durante le Guerre d’Italia, passando ai Francesi dal 1499 al 1522, e stabilmente agli Spagnoli nel 1535, dalla morte di Francesco II Sforza

LE CONTESE FRA MILANO E VENEZIA 

Agli inizi del Quattrocento il Ducato di Milano aveva toccato la sua massima estensione e l’area della pianura Padana, compresa buona parte della Lombardia, era quasi interamente soggetta al dominio di Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano dal 1385.

La Cittadella viscontea. Dal 1332 con Azzone Visconti iniziava la signoria viscontea su Bergamo e con Luchino Visconti il diritto unico milanese veniva esteso sulla città e il suo territorio, mettendo a tacere le libertà comunali per circa un secolo, sino alla conquista di Venezia (1428). Nel 1355 Bernabò Visconti, zio di Gian Galeazzo, aveva fatto costruire Firma Fides (Cortina murata sicura), ad occupare l’intero settore occidentale di Città Alta, cui si aggiunse dal 1381 l’Hospitium Magnum (alloggiamento per la guarnigione ed il comando), ad opera del figlio di Bernabò, Rodolfo Visconti, con la funzione di controllo della città più che di difesa verso l’esterno

In risposta alla minacciosa espansione dei Visconti, la Repubblica di Venezia, che per secoli aveva rivolto l’interesse verso il Mediterraneo e l’Oriente, aveva da tempo iniziato ad espandersi notevolmente anche nell’entroterra, dove andava raggiungendo la massima espansione (1).

Nel 1425, alleatasi allo Stato fiorentino entrava a far parte di una lega antiviscontea, concentrando il suo interesse sull’intero entroterra lombardo, alla bisogna ricorrendo a compagnie di ventura e mercenari, fra i quali giocò un ruolo importante il condottiero Bartolomeo Colleoni (1400-1476), l’eroe rinascimentale nato a Solza, nell’Isola Bergamasca, proveniente dalla nobiltà rurale.

La dominazione viscontea su Bergamo fu minata a più riprese: nel giugno 1408 entrò in città Pandolfo Malatesta, in precedenza condottiero al servizio dei signori di Milano e da qualche tempo avventuriero in proprio nella Lombardia dilaniata dalla guerra interna ai Visconti. Malatesta iniziò la sua signoria largheggiando in esenzioni e privilegi, ma nel 1414 il capitano di ventura Francesco Bussone detto il Carmagnola, per ordine del nuovo Duca Filippo Maria assediò la città obbligando alla resa le milizie del Malatesta chiuse nella Cittadella. La ripresa viscontea con Filippo Maria riportò quindi Bergamo in mano milanese (luglio-agosto 1419).

Il conflitto tra Venezia e Milano scoppiò nel 1426 e il mese di dicembre (prima pace di Ferrara) fissò il passaggio alla Serenissima di Bergamo, Brescia e Cremona. La guerra riprese nel marzo 1427, quando la Val Calepio venne occupata dalle forze milanesi. In ottobre, con la vittoria veneziana di Maclodio (nei pressi del fiume Oglio), la guerra poteva dirsi ormai conclusa.

Il guelfismo resisteva nel contado e soprattutto nelle valli, teatro di sanguinosi scontri e repressioni da parte viscontea, tanto che agli inizi di ottobre, le valli Brembana Superiore, tutta la valle Seriana Inferiore e alcuni comuni (Scanzo, Rosciate, Calepio) si diedero spontaneamente a Venezia ottenendone in cambio generosi privilegi ed esenzioni fiscali. In dicembre le truppe veneziane occuparono anche la Val Gandino, Trescore e la Val San Martino, giungendo sino alle mura di Bergamo.

Il 19 aprile 1428 si giunse ad una nuova, definitiva pace di Ferrara (conclusa tra Francesco Foscari e Filippo Maria Visconti), che lasciò ai milanesi la Gera d’Adda, Caravaggio e Treviglio, sottraendo definitivamente Bergamo ai milanesi e sancendo una volontà già espressa di passare a Venezia: e a Venezia, dopo un periodo incerto iniziale, Bergamo rimarrà legata fino alla caduta della Repubblica, coincidente con l’avvento della Dominazione Francese (Trattato di Campoformio, 1797), costituendo l’estremo confine occidentale della Terraferma veneziana.

Avvenne così il passaggio della città al dominio della Serenissima: l’8 maggio 1428 entrarono in Bergamo tre nobili veneziani con la carica di provveditori straordinari per prendere possesso della città in nome della Repubblica. Si trattava di Paolo Correr, Andrea Giuliano e Giovanni Contarini. Il 4 luglio, otto ambasciatori bergamaschi “superbissimamente vestiti” e accompagnati da un grandissimo numero di gentiluomini si recarono a Venezia per prestare giuramento di fedeltà alla presenza del Doge.

Milano continuava tuttavia a mantenere i contatti con i ghibellini bergamaschi, insidiando a più riprese il potere veneziano sulla città e il suo territorio: il Duca di Milano Filippo Maria Visconti non tardò a scatenare contro Venezia il suo esercito, comandato dal Piccinino, e nel 1432, presso Lecco, l’esercito veneziano, comandato dal Gattamelata, subì una grave sconfitta, con la cattura dei procuratori veneziani Venier e Corner, che avevano comandato l’attacco. Nell’esercito veneziano militava da quell’anno il trentatreenne capitano Bartolomeo Colleoni, che si era già distinto su molti campi di battaglia in tutta Italia e che presto divenne il grande difensore della città.

Nel territorio la guerra continuò con alterne fortune e per lunghi periodi Bergamo fu assediata dalle incursioni milanesi, che nel tentativo di riassoggettare la città, non risparmiarono nemmeno i borghi: nel novembre del 1437 l’esercito milanese del Piccinino, al servizio di Filippo Maria Visconti, si schierò sotto le mura, dove le difese approntate da Bartolomeo Colleoni impedirono la presa della città. Penetrò allora in Borgo Pignolo, devastandolo in gran parte, e depredando Borgo Palazzo e Borgo Santa Caterina nel settembre del 1438. Bergamo oppose resistenza sino a quando le milizie milanesi, ormai sfinite, spostarono i conflitti in Valcamonica e Valtellina. Il cruento assedio è ricordato da un affresco del Romanino conservato nel castello di Malpaga.

Bergamo sotto assedio, difesa da Bartolomeo Colleoni (Romanino, 1510 ca., Castello di Malpaga, Bergamo). In quegli anni, “la ‘bassa’ bergamasca era teatro d’ogni prodezza del Carmagnola, del Gattamelata, del Piccinino, dello Sforza, del Colleoni e delle loro assoldate milizie mercenarie; con quanta soddisfazione dei malcapitati bergamaschi, tutti possono immaginare” (2)

Le famiglie ghibelline della città brigavano per ricondurre Bergamo al dominio visconteo; non poche vennero esiliate in alcune delle città appartenenti al territorio veneto, da dove tuttavia continuavano ad ordire trame a favore dei Visconti, tanto che anche dopo la conclusione della pace alcuni membri della famiglia Suardi continuarono ad essere banditi dal territorio bergamasco e i loro beni confiscati.

Noto è l’episodio narrato da un’anonima fonte quattrocentesca e riportato dal Belotti, del complotto ordito da molti “bergamaschi amici del Duca”, che avevano racimolato soldi per corrompere il conestabile posto alla guardia di Porta San Lorenzo: nottetempo sarebbero vi sarebbero entrati, aiutati dalle milizie di Pietro Visconti e da un manipolo di Brembillesi. Ma il tradimento fu sventato e denunciato da tal Becharino da Pratta, un modestissimo caporale a servizio del conestabile (forse di origine friulana) e il traditore fu impiccato. Viscontei e ghibellini si vendicarono distruggendo case, torri e vigneti fuori dalle mura, e a Becharino da Pratta fu dedicato un passaggio in via San Lorenzo, comunicante con la via Boccola.

Via S. Lorenzo: l’imbocco del passaggio che la municipalità ha dedicato, nel punto esatto dell’accaduto, al caporale della Serenissima Becharino da Pratta

Il rapporto tra la città e le valli continuò ad essere conflittuale, ed è esemplare la punizione inflitta agli abitanti della Val Brembilla che, da sempre ghibellini e sostenitori dei Visconti, dovettero seguire la via dell’esilio, disperdendosi nella pianura; le loro terre rese sterili, tutte le loro case date alle fiamme, mentre in città si mozzavano torri gentilizie e tagliavano unghie all’artiglio ghibellino.

Bisognava giungere alla pace di Lodi, firmata nell’aprile del 1454, per stipulare una forma di pacifica convivenza tra i maggiori stati dell’area italiana, ponendo fine a trent’anni di lotte tra Venezia e Milano.

Francesco Sforza riconobbe il confine veneziano sul tracciato del Fosso Bergamasco, a ridosso di Milano, dove rimase pressoché invariato per secoli.

Il Fosso Bergamasco, linea, di confine tra la Serenissima e il Ducato di Milano, ha costituito sin dal tardo Medio Evo e per molti secoli il discrimine tra le popolazioni che gravitavano politicamente ed economicamente su Venezia o Milano. Il canale, asciutto, profondo un metro e mezzo e largo altrettanto, fu costruito dalla città di Bergamo, probabilmente nel Trecento, come colatore d’acqua e forse anche quale impedimento per i greggi erranti, poiché quella zona era paludosa e boscosa, con scarse e povere culture agricole (Ph Lino Galliani)

Il nuovo assetto politico-istituzionale regalò all’Italia cinquant’anni di pace ed insieme il definitivo dominio veneziano sul territorio di Bergamo, divenuta il naturale antemurale occidentale della Repubblica lagunare, decisa ormai a volgere il suo dominio verso la terraferma e servendosi soprattutto dell’opera del genio militare di Bartolomeo Colleoni.

Con la nuova posizione geopolitica di Bergamo, le gravitazioni, le direttrici di movimento, i contatti di ordine politico, sociale, economico, culturale, si rivolsero essenzialmente verso Venezia, con tutti gli effetti sulla vita così come sul costruito della città: è questo infatti il periodo in cui si concreta la distinzione in senso storico-politico di una “Lombardia orientale” che, se si considerano i territori di Bergamo e di Brescia (due città dal destino assai simile), può dirsi anche “Lombardia veneta” (3).

Ben presto l’Italia verrà coinvolta da nuovi eventi politici e da nuove guerre: le orrende Guerre d’Italia, che segneranno per il Cinquecento l’inizio del dominio peninsulare delle grandi monarchie europee (Francia, Spagna e Impero), decretando una serie di annate tragiche per tutto lo Stato di Terraferma veneziana, all’interno del quale anche Bergamo diverrà campo di lotta e di passaggio.

COME VENEZIA GOVERNA BERGAMO E IL SUO TERRITORIO

La Repubblica di Venezia eredita una struttura amministrativa organizzata durante i decenni precedenti dai Visconti e cercherà di modificarla il meno possibile. Il territorio bergamasco, dopo il 1428 è divenuto terra di frontiera verso il resto della Lombardia, con una capitale, Venezia, assai lontana e disposta a concedere anche larghe autonomie. Bergamo diviene una delle cosiddette “podestarie maggiori” della terraferma veneta, nella quale la città lagunare invia propri rappresentanti (i Rettori), scelti tra il patriziato veneziano e chiamati ad amministrare la giustizia, a difendere il territorio e a governarlo fiscalmente.

I Rettori, la cui carica dura 16 mesi, possono essere sostituiti od affiancati da cancellieri e segretari, coadiuvati da un Prevveditore, da un Camerlengo che amministra l’uffcio fiscale, dai due Collegi (Maggiore e Minore) e dal Castellano che comanda la Cappella (castello di San Vigilio).

Il podestà si insedia insieme al suo seguito nel Palazzo Podestatis nell’attuale Piazza Vecchia, mentre il capitano risiede in Cittadella insieme alla guarnigione; al loro insediamento si accompagna fra quattro e Cinquecento la definizione delle piazze su cui si affacciano le loro sedi e cioè rispettivamente  Piazza Vecchia e Piazza Nuova (attuale piazza Lorenzo Mascheroni), quest’ultima realizzata a ridosso della Cittadella.

Il podestà (detto anche pretore) presiede al controllo della città e riveste un ruolo prevalentemente giudiziario e civile. Ha come collaboratori un vicario, un giudice del maleficio, un giudice della ragione, un cancelliere, un conestabile, due commilitoni.

Il capitano (o prefetto), consolida la Cittadella a partire dal 1433: vi trovavano posto i magazzini per le armi e le scorte di viveri. Egli presiede al governo della provincia e ha funzione di controllo fiscale e militare; ha la libertà e l’arbitrio di aprire e chiudere le porte della città, sovrintende alla custodia e al governo di tutti i soldati, cavalieri e fanti.

A fronte della garanzia del mantenimento del controllo militare e degli obblighi fiscali della Città suddita, a differenza dei Visconti Venezia si dimostra più liberale e rispettosa, evitando di giungere ad una contrapposizione netta con i poteri locali ormai consolidati, i quali, anche grazie al prestigio ottenuto durante l’assedio milanese, rivendicano la loro presenza in consiglio ed il godere dei pubblici uffici come privilegi esclusivi.

Al Consiglio Comunale hanno quindi accesso esclusivamente membri del ceto dirigente bergamasco, costituito, da un lato, da una consolidata aristocrazia locale che egemonizza la vita cittadina per mezzo di Iegami matrimoniali contratti tra nobili o alta borghesia, detenendo una consistente proprietà distribuita nelle campagne (4), e, dall’altro, da un’emergente classe borghese (mercanti, giuristi e notai), riguardata come spina dorsale della città e alleata naturale di Venezia, dove un potere oligarchico centrale basa le sue fortune sui commerci e sulla mercatura.

Lascia sopravvivere le antiche libertà comunali, mantiene la suddivisione in vicinie, rispetta le abitudini locali, tollera la libertà religiosa – legata ad una concezione laica dello stato -, impone ai suoi Rettori una presenza discreta e porta avanti un’amministrazione oculata e saggia, dettata da una fiorente economia che le permette di contare sulla fedeltà dei propri cittadini.

Anche al Vescovo locale (il cui nominativo è suggerito da Venezia), così come a tutto il clero regolare e secolare (circa 400 unità), è chiesto di fornire un sostegno concreto all’operato dei Rettori, per mantenere il controllo sulla città e sul territorio.

E’ su tali premesse che la ‘Dominante’ organizza la sua presenza politico-militare, inaugurando un duraturo rapporto con un territorio pieno di grandi risorse ed avviato verso un sostenuto sviluppo, anche se assolutamente Iontano dalle vie commerciali e destinato a restare sotto la sua ombra.

La città medioevale con le appendici dei borghi che saranno interessati dalla costruzione delle mura cinquecentesche, presentando il progressivo dilatarsi delle mura dall’Alto Medioevo al Quattrocento. Anche durante la dominazione veneta permane la suddivisione amministrativa su base circoscrizionale esistente sin dal medioevo, che vede la città frazionata in vicinie e, com’era stato per le vicinie dell’età comunale, ognuna è amministrata da un proprio consiglio dei capifamiglia che eleggono i sindaci e un Console. Si tratta delle vicinie urbane (Città Alta), suburbane (che vanno da Borgo Canale a Longuelo alla Val d’Astino e ai Borghi) e dei Corpi santi (che si estendono da Colognola a Lallio, a Redona, a Valtesse, a Torre Boldone), contando in tutto trentacinque unità. La pianta fu elaborata da Sandro Angelini nel 1073, sulla base degli Statuti, dei documenti iconografici, degli studi di Angelo Mazzi, Elia Fornoni, Luigi Angelini e di esami in luogo. Per le suddivisioni vicinali si è seguito di massima lo Statuto del 1491 (che riunisce le due vicinie di Santa Grata e di Canale); si è preferito invece mantenere la suddivisione delle due vicinie di Arena e di San Giovanni Evangelista, unificate dopo la costruzione trecentesca della Cittadella viscontea, per sottolineare la collocazione originaria del toponimo di Arena

Il Consiglio Comunale (o Magnifica Comunità) è composto dal Consiglio Maggiore e dal Consiglio Minore, detto degli Anziani e chiamato anche Bina, cui hanno accesso esclusivamente membri del ceto dirigente bergamasco. Ad ogni seduta deve essere presente almeno uno dei due Rettori veneziani o loro vicari.

Il Consiglio Maggiore e il Consiglio Minore esercitavano le loro funzioni nel Palazzo della Ragione, ma Ia penuria di locali richiese la costruzione della Loggia Nuova, edificata nel 1435 dirimpetto il Palazzo comunale, dove più tardi sorse Palazzo Nuovo (oggi Biblioteca Civica A. Mai), per accogliere gli uffici della Cancelleria e del Commissario alle provvigioni

Al Consiglio minore spetta il compito di vigilare sull’operato dei Collegi (Collegio Maggiore, con 72 membri e Collegio Minore, con 12 membri), cioè le deputazioni alle quali, sempre più frequentemente a partire proprio dal Cinquecento, vengono demandate molte delle funzioni amministrative della città, come la cura delle vie di comunicazione, la vigilanza sul mercato locale e l’istruzione.

Tra le principali deputazioni vi sono il Collegio alla Milizia, che deve farsi carico dell’approvvigionamento e alloggiamento delle truppe di passaggio; i Deputati delle Affittanze, che gestiscono le proprietà comunali e i relativi incanti; il Collegio delle Acque, che si occupa della manutenzione della rete idrica della città e dell’affitto dell’acqua delle seriole; il Collegio alla Sanità, cui spetta la tutela della salute pubblica; il Collegio delle Biade, attivo in situazioni di crisi alimentare, deputato all’approvvigionamento granario.

Il territorio che Venezia ha assoggettato tra il 1427 e il 1428 è ben demarcato da confini naturali:  a nord con la Valtellina, dominio della repubblica delle Tre Leghe a partire dal 1512, mentre ad ovest il confine bergamasco è definito dal corso del fiume Adda, che separa la Repubblica di Venezia dal Ducato di Milano. A sud il confine con Milano è dato dal cosiddetto “Fosso bergamasco”, che lascia ai milanesi Treviglio e il territorio della Gera d’Adda. A est, infine, il fiume l’Oglio e il lago d’Iseo segnano la separazione dal territorio di Brescia, anch’esso divenuto parte della Repubblica di Venezia.

Il territorio viene ripartito in pianura, montagna e valli ed ulteriormente suddiviso in 14 Quadre, all’interno delle quali ogni singolo Comune si governa autonomamente, pur essendo legato alla città. Ogni Quadra è governata da un Vicario (nominato dal Consiglio Maggiore della città), che riveste anche le funzioni di giudice civile, mentre ogni Comune è guidato da un Console, eletto annualmente dai cittadini. Il congresso generale dei Comuni si svolge in città, nel Palazzo della Ragione.

Nel territorio vi sono inoltre alcune Podesterie separate: Romano e Martinengo, che dipendono da Brescia, e Lovere e Cologno che dipendono da Bergamo.

Carta dell’ordinamento amministrativo dato da Venezia al territorio bergamasco con la divisione in Quadre e Podesterie separate (dettaglio)

Al grande programma di pacificazione e di stabilizzazione perseguito in Bergamo, corrisponde un’abile e lungimirante politica condotta da Venezia nel suo territorio. Le esenzioni da imposte e le autonomie eccezionali concesse dal Quattrocento – e a più riprese – alle martoriate valli e specialmente Seriana, Brembana e Scalve, sottendono lo scopo di garantire a Venezia l’assoluta fedeltà di queste terre (che rifioriranno in breve volgere di tempo), sia per poter potenziare e tutelare i percorsi commerciali senza dover sottostare alle dogane imperiali e sia per garantirsi una copertura della fortezza di Bergamo, avamposto incuneato nello Stato di Milano e perciò difficile da difendere se non viene sostenuto da un entroterra, di per sé pressoché inaccessibile per un eventuale esercito assalitore, popolato di gente fidata. Non minore peso rivestono gli argomenti economici basati sul fiorente artigianato locale, soprattutto seriano, e l’abbondante produzione di armi da taglio e, più tardi, di armi da fuoco.

LA VITA ECONOMICA

Ristabilita la pace tra le potenze e le fazioni a metà Quattrocento, Bergamo e il suo territorio poterono finalmente prosperare e rafforzare la propria condizione economica, anche grazie al buongoverno che tenne conto del pluralismo istituzionale e garantì l’autonomia precedentemente acquisita. Era il primo tempo di una dominazione che si mostrava attenta ai problemi della città e delIe ValIi, in procinto di riscattarsi dalle drammatiche condizioni di devastazione e miseria che avevano improntato per quasi un secolo il corso della dominazione viscontea (1332-1428), seguita nel Cinquecento dalle invasioni straniere e dalle ricorrenti carestie.

A fronte della povertà endemica delle Valli, dovuta soprattutto alla sterilità e improduttività del territorio, e da sempre terre di emigrazione (note le compagnie dei Bergamaschi a Venezia o a Genova dal XIV secolo), Bergamo riuscì a sostenere un forte sviluppo attraverso la lavorazione della lana (a Bergamo prodotta e commerciata già dal Duecento, mentre la seta farà capolino nel secolo successivo), l’estrazione e la lavorazione del ferro (industria di antichissima origine, data la presenza nel territorio di numerose miniere) e la relativa produzione di manufatti (che contempla anche quella preziosa delle armi bianche di Gromo), nonché la fabbricazione di pietre coti per affilare lame e la produzione casearia.

La stessa città di Bergamo era caratterizzata dall’essere da tempo un noto e fiorente centro commerciale e finanziario, tradizionalmente legato alla pianura lombarda: una “piazza” la cui vocazione mercantile trovava la massima espressione fisica nella Fiera che dal IX secolo si teneva ogni anno nel mese di agosto sul Prato di Sant’Alessandro, tra i borghi di San Leonardo e Sant’Antonio.

Sui precedenti economici di Bergamo medioevale basterà ricordare la convenzione monetaria stipulata (1254) in camera pincta palacii communis Pergami, fra il Comune di Bergamo e le città di Cremona, Parma, Brescia, Piacenza, Pavia e Tortona, (alcune delle quali d’importanza anche internazionale), che accettano come base di riferimento commerciale la moneta bergamasca, la marcha e Pergamo, comunemente detta Pergamino, coniato nella zecca di via Donizetti ed oggi il logo dell’Università di Bergamo

Il modello concreto di saggezza pubblica e capacità governativa espresso dopo la pace di Lodi, alimentò tra le operose genti orobiche un sentimento di unificazione e di comune sentire, e, ai primissimi del Cinquecento, malgrado le guerre che vedevano la penisola teatro di sanguinose dispute tra Francesi ed Aragonesi e nonostante la stessa città fosse stata invasa e saccheggiata, Bergamo poté godere di condizioni economico-sociali piuttosto favorevoli. Più tardi, lo sviluppo di infrastrutture commerciali e manifatturiere consentì di muoversi ed esportare forza lavoro in un orizzonte geografico più ampio – e, attraverso la nuova Strada Priula (1592 e il 1593), ormai europeo – e di stringere rapporti con il centro Europa in settori fondamentali quali la lana, la seta e il commercio delle ferrarezze.

IL CINQUECENTO: LE GUERRE D’ITALIA

Dopo il lungo periodo di prosperità economica che aveva contrassegnato gli ultimi decenni del XV secolo e i primi anni di quello seguente, l’Italia venne coinvolta da nuovi eventi politici e da nuove guerre: le orrende Guerre d’Italia, che segnarono l’inizio del dominio peninsulare delle grandi monarchie europee (Francia, Spagna e Sacro Romano Impero), decretando una serie di annate tragiche per tutta lo Stato di Terraferma veneziana, all’interno del quale anche Bergamo era divenuta campo di lotta e di passaggio.

Terminata la “politica dell’equilibrio” tra gli stati italiani con la morte di Lorenzo de’ Medici (1492), le tensioni a lungo represse portarono presto l’Italia ad essere dilaniata dall’invasione dei maggiori potentati europei.

Mentre Venezia proseguiva la sua politica espansiva nell’entroterra verso la Romagna, il Trentino e la Lombardia, raggiungendo l’apice della sua potenza, Ludovico Sforza “il Moro”, signore di Milano (1452-1508), la guardava con astio, come guardava con astio anche gli altri principati italiani: dalla medicea Firenze, centro rinascimentale per antonomasia, all’aragonese Napoli, florida sul piano economico ma retta da una dinastia mal vista sia dalla popolazione che dalla stessa nobiltà locale.

Al centro si stagliava lo Stato Pontificio, retto da Alessandro VI (1431-1503), con la sua corte papale celebre per mecenatismo e sviluppo artistico ma discutibile sul piano religioso e spirituale, tanto che lo stesso pontefice era giunto persino a concepire la creazione di uno stato centro-settentrionale da porre nelle mani di suo figlio, il celeberrimo Cesare Borgia.

A provocare l’invasione da parte straniera fu Ludovico il Moro, che animato da rivalità verso le altre casate italiane e dalla volontà di diventare il centro dell’equilibrio italiano, fidando troppo in se stesso invitò il re di Francia, Carlo VIII (1470-1498), a scendere in Italia per occupare il Regno di Napoli, sul quale il monarca sosteneva di vantare diritti feudali dovuti al precedente dominio angioino.

Seppur costretto ad una rapida ritirata da una lega degli stati italiani (1495), l’invasione di Carlo VIII diede inizio al ciclo di guerre che avrebbero devastato la penisola nel trentennio successivo, stravolgendo nell’arco di un decennio la geografia politica italiana a favore delle ingerenze straniere.

Ludovico il Moro fu travolto dall’esercito di Luigi XII (1462-1515), cugino del re di Francia Carlo VIII, e il Ducato di Milano annesso alla corona francese.

Lo stesso sovrano, alleatosi con gli aragonesi spagnoli abbatté il Regno di Napoli (1501); tuttavia i territori meridionali passarono alla corona di spagnola in seguito a una breve guerra fra le due potenze (1501-1503).

La Repubblica fiorentina (5) così come i Ducati di Savoia, Ferrara, Mantova, iniziarono a dipendere dallo “straniero” per conservare la propria autonomia, poggiandosi ora alla Francia di Luigi XII, ora all’Impero di Massimiliano I (1459-1519, Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1493 alla morte), mentre da anni la Repubblica di Genova era di fatto un protettorato della corona francese.

Nello Stato Pontificio, Cesare Borgia (1475-1507), approfittando della crisi in atto e dell’appoggio paterno aveva creato il suo personale ducato a scapito degli stessi territori pontifici, occupando le città di Rimini, Forlì, Cesena, Imola, Fano e Pesaro (1501-1503), e alla cui espansione pose termine la morte del padre e l’ascesa al soglio pontificio di Giulio II (1443-1513), nemico giurato dei Borgia.

L’ESPANSIONE DI VENEZIA E IL SCONTRO CON PAPA GIULIO II

Solo uno stato in Italia non aveva subito alcun danno, anzi, aveva visto crescere la propria potenza: Venezia, la quale nel corso dei vari conflitti ne aveva approfittato per estendere la propria influenza in Italia: nel 1499 si era schierata al fianco di Luigi XII, contribuendo all’abbattimento della signoria sforzesca su Milano e ricavando in cambio la città di Cremona e il controllo sull’area dell’Adda (la Gera d’Adda). Successivamente, nel 1503, aveva appoggiato le pretese spagnole sul sud, ricavando la conferma del controllo sui porti pugliesi di Otranto, Brindisi, Barletta, Monopoli e Gallipoli (strategicamente vitali per i traffici marittimi veneziani all’interno del proprio “golfo”), ottenuti con la breve restaurazione aragonese (1496). Padrona indiscussa dell’Adriatico, dominatrice assoluta del nord-est, Venezia aveva raggiunto l’apice della propria espansione. La Repubblica sembrava l’unica potenza italiana in grado di unificare il nord sotto un’unica insegna.

La crescente potenza della città lagunare destava preoccupazione sia agli altri stati italiani che alle potenze straniere presenti nella penisola, ma soprattutto a papa Giulio II, appena asceso al soglio pontificio: a preoccupare il pontefice era la dichiarata volontà della Repubblica di espandersi verso la Romagna.

Con la caduta di Cesare Borgia e il crollo dei suoi possedimenti romagnoli (1503), Giulio II aveva dato inizio a una politica volta a ricostituire e rafforzare l’antico Stato della Chiesa, in particolar modo quei territori umbri, emiliani e romagnoli che, seppur parte integrante del patrimonio di San Pietro, da secoli erano soggetti a signorie e a tendenze autonomistiche; alla fine del 1503 il papa iniziava la sua campagna di conquista militare recuperando Perugia e, soprattutto, Bologna, strappata alla signoria dei Bentivoglio. L’obiettivo era quello di rendere Roma l’ago della bilancia della politica italiana, ma prima bisognava fare i conti con l’altra “candidata”, Venezia, la quale aveva posto lo sguardo sulle città appartenute al Borgia con l’intenzione di aumentare la propria influenza in quel settore, dove già controllava da tempo Cervia e Ravenna.

Tra il 1503 e il 1504 iniziarono i primi contrasti tra le due parti; Venezia aveva annesso le città di Rimini e Faenza, Giulio II occupava Pesaro. Le tensioni sfociarono nel momento in cui il papa prendeva possesso di Cesena e Imola; il nocciolo del problema stava nel fatto che la Serenissima aveva preso possesso dei contadi delle rispettive città (e una città, privata delle campagne circostanti, è soggetta a grosse difficoltà). Giulio II reagì con durezza all’azione veneziana, pretendendo non solo la restituzione dei contadi, ma anche delle altre città romagnole; al netto rifiuto, il pontefice iniziò allora una serie di trattative con le potenze straniere al fine di creare una lega contro la città di San Marco.

VERSO LA FORMAZIONE DELLA LEGA DI CAMBRAI CONTRO VENEZIA 

Le trattative avviate dal papa contro Venezia coinvolgevano gran parte degli stati italiani ma anche le principali potenze europee. Tutti avevano dei conti da regolare con lo Stato marciano; il re di Francia guardava alle città lombarde della Serenissima (Bergamo, Brescia, Cremona, Crema…), con la volontà di ripristinare la grandezza dell’antico Ducato milanese (nodo essenziale di ogni tipo di dominio: economico, militare e politico); a sua volta l’Imperatore Massimiliano I rivendicava Veneto, Istria e Friuli quali possedimenti dell’Impero; il monarca di Spagna Ferdinando II d’Aragona rivoleva i porti pugliesi, mentre il Regno d’Ungheria non nascondeva le mire sulla Dalmazia; il Ducato di Ferrara ambiva al Polesine, quello di Mantova ad Asola, quello di Savoia guardava a Cipro, Firenze non digeriva l’appoggio veneziano alla ribelle Pisa; lo Stato Pontificio rivoleva l’intera Romagna (agognata da Giulio II per ristabilire un’unità statale): ognuno aveva un motivo d’astio o rivalsa nei confronti della potente Repubblica.

Tuttavia Venezia poteva contare sulla potenza del suo esercito e, cosa non da poco, sulle varie discordie che regnavano fra i suoi nemici, specialmente fra l’Impero e la Francia.

In azzurro è indicata l”espansione di Venezia sulla Terraferma fino alla vigilia della battaglia di Agnadello (1509). Venezia  ha posto piede in Romagna e nel Trentino fino a Rovereto (1441); ha poi conquistato il Polesine (1484), i porti pugliesi (1495), Cremona (1499), infine Pordenone, Gorizia, Trieste e Fiume (1508): questa incalzante progressione porta i piani anti-italiani alla formazione della Lega di Cambrai (1508) contro Venezia, allo scopo di annichilirla per sempre

A Cambrai, nel Dicembre del 1508, fu stipulata la lega anti-veneziana; vi aderirono Giulio II, Luigi XII di Francia, Massimiliano, la Spagna e i ducati di Mantova, Ferrara e Urbino.

Resasi conto del pericolo, la Serenissima tentò in extremis una riconciliazione col papa, offrendo concessioni in Romagna e ricevendo non solo un netto rifiuto, ma anche l’interdetto papale. Era l’inizio del conflitto: Venezia sfidava l’Europa.

E fu la guerra, una guerra che portò la Lombardia ad essere invasa da truppe francesi e spagnole, con la ricomparsa dei ghibellini in città a fomentare le divisioni cittadine: con la pesantissima sconfitta subita da Venezia ad Agnadello nel cremonese (1509), ad opera dei Francesi di Luigi XII ed ottenuta con la complicità dei ghibellini, Venezia si arrese al re di Francia.

Battaglia di Agnadello (14 maggio 1509), Pierre-Jules Jollivet (dipinto del 1837). Quattordici maggio 1509, due eserciti si fronteggia­no sull’Adda; nella spon­da occidentale ci sono i francesi, guidati dal re in persona, Luigi XII; dall’altra stanno le truppe della Repubblica, sotto il comando di Niccolò Orsini, duca di Pitigliano, e Bartolomeo d’Alviano, il valoroso condottiero che l’anno prima ha umiliato in Cadore l’imperatore Massimilano I. I Francesi sono l’avanguardia di una lega comprendente la Spagna, l’Impero, i Savoia, il papa, Mantova, Ferrara: è l’Europa intera che muove contro Venezia. A Cambrai, nel nord della Francia, il 10 dicembre 1508 si è infatti co­stituita una formidabile alleanza decisa a punire, a ridimensionare la superbia dello Stato marciano, il cui imperialismo si dilata ormai da Bergamo a Cipro, dalle Alpi ne­vose ai mari caldi del Levante

LE CONSEGUENZE DELLA DISFATTA DI AGNADELLO

La “rotta della Ghiaradadda” fu un colpo terribile per Venezia. Le potenze della lega di Cambrai approfittarono della crisi veneziana per agire; le truppe pontificie conquistarono le terre romagnole, inclusa Ravenna, mentre nel sud la Spagna si riprendeva i porti pugliesi; il duca di Ferrara occupava il Polesine e Rovigo. Quanto a Luigi XII, questi annetteva al Ducato di Milano le città di Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, Peschiera e la Gera d’Adda. Mentre Verona, Padova e Vicenza si ribellavano dandosi a Massimiliano I.

Dunque Luigi XII annetteva al Ducato di Milano le città di Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, Peschiera e la Gera d’Adda.

Nonostante tutto, Venezia sarebbe stata in grado di riprendersi; approfittando della lentezza delle forze imperiali, della seguente riappacificazione con Giulio II (1510) e dell’appoggio delle campagne venete, ostili all’occupazione imperiale, la Serenissima diede avvio alla riconquista dei territori perduti: già alla fine dello stesso anno, il Veneto era quasi stato recuperato.

La guerra sarebbe proseguita sino al 1516, con numerosi cambiamenti di alleanze e fronti; la Serenissima avrebbe fatto fronte alla Francia alleandosi al Papato, all’Impero e alla Spagna (Lega Santa, 1511) per poi cambiare clamorosamente schieramento (1513) e affiancare Luigi XII prima Francesco I poi. I nemici di Agnadello avrebbero trionfato assieme a Marignano nel 1516, la battaglia che permise alla Francia di riprendersi Milano, precedentemente perduta, e a Venezia di recuperare il grosso dei territori.

L. Lotto, pala Martinengo, Bergamo, chiesa di S. Bartolomeo (dettaglio). Il 1516 segna la fine tanto attesa di lunghe guerre combattute per il predominio nell’Italia settentrionale tra imperatore, papa, francesi, spagnoli, veneziani. La generazione che nasce a Bergamo dopo il 1516 ha davanti decenni di stabilità politica garantita dalla Repubblica di San Marco, di cui il Bergamasco è la parte più occidentale del dominio. Nel maggio di quest’anno, l’inaugurazione nella Chiesa di Santo Stefano della grande pala di Lorenzo Lotto, commissionata dall’anziano capitano Alessandro Martinengo Colleoni, che ha vissuto sul campo i giorni infausti di Agnadello, è di buon auspicio per il futuro: ornano la grandiosa scena della Madonna col Bambino in trono e santi rami del pacifico ulivo cui si accompagnano bilancia e spada, simboli di pace e giustizia

Era comunque l’inizio della fine: dopo il ridimensionamento seguito alle guerre d’Italia, la giornata di Agnadello avrebbe rappresentato per la Serenissima la data spartiacque fra il culmine della sua potenza e l’inizio del suo lento declino, declassandola inesorabilmente tra le potenze di secondo piano, per lasciare il posto alle grandi monarchie straniere, nuove regine della politica internazionale. Ciò significava per Venezia accantonare l’atteggiamento aggressivo per adottare una politica difensiva e di contenimento.

La successiva guerra della lega di Cognac, una delle otto guerre d’Italia, fu combattuta tra il 1526 e il 1530 tra gli Asburgo di Carlo V e Francesco I di Francia, chiudendosi con il definitivo dominio degli Asburgo sull’Italia, delle cui sorti Carlo V divenne unico e incontrastato arbitro. Le ostilità tra Francesi ed Impero furono sedate soprattutto dal minaccioso incalzare dei turchi, ormai prossimi ad attaccare i possedimenti asburgici nel centro Europa, quindi costringendo Carlo V a firmare un accordo con i Francesi.

Nel timore di un’eccessiva egemonia asburgica, gli stati italiani si erano uniti nella Lega di Cognac a fianco della Francia, e dove i maggiori interessi in gioco erano soprattutto quelli del papa e della Repubblica di Venezia. E’ a questo periodo che risale la decisione di fortificare Bergamo, per la quale la perdita definitiva dell’area cremonese e della Gera d’Adda configurava la posizione di un avamposto sospeso su un vuoto strategico, stretta com’era su due lati dei confini a lei prossimi dell’avversato Stato milanese nelle mani della Spagna, al culmine della sua potenza, e, sull’altro lato, da montagne impercorribili: la città verrà fortificata solo trent’anni dopo, quando Venezia deciderà di approntare strutture difensive moderne in tutto il territorio di Terraferma.

Prima che la guerra fra la Francia e gli Asburgo entrasse nel vivo, nel maggio del 1527 dodicimila Lanzichenecchi, soldati imperiali, per la maggior parte mercenari tedeschi di fede luterana, rimasti senza paga e poi senza comandante, avevano deciso di penetrare in Italia compiendo il terribile Sacco di Roma: essi attraversarono e devastarono pure la Bergamasca, portandovi carestia, peste (1528-29) e 150-200 morti al giorno, mentre si diffondevano febbri tifoidee e mal francese.

Le incertezze della situazione avevano provocato paure collettive e agitazioni religiose, e la già instabile situazione economica , aveva subito un tracollo.

La Madonna delle Lacrime a Treviglio. Minacciata di distruzione dal generale francese Lautrec nel 1522, perché ha cacciato una squadra francese, Treviglio venne risparmiata venendo a conoscenza che l’immagine della Vergine nella chiesa di Sant’Agostino aveva cominciato a piangere

Nel quadro mutevole degli assetti geopolitici generati dalle Guerre d’Italia, tra il 1509 e il 1529 Bergamo era passata due volte sotto il dominio francese e per ben sette sotto quello degli Asburgo ed altrettante volte, sottolinea Maironi da Ponte, “fu ripresa dai Veneziani o s’arrese spontaneamente ai medesimi”. Ma in tutte queste terribili traversie, “lo spirito nazionale non venne mai meno a favor della Repubblica” (di Venezia).

Ritornata ai Veneziani nel 1512, poi di nuovo ripresa dai Francesi nel 1513, nel mese di giugno Bergamo era stata invasa dagli Spagnoli, che con crudeli prepotenze, furti, stupri ed incendi, avevano imposto la loro autorità su tutto l’entroterra, incendiando anche il Palazzo della Ragione; due anni dopo era stata occupata dalle soldatesche dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo ed infine, nell’agosto del 1516, era ritornata definitivamente in possesso della Serenissima con la pace di Noyon (con la quale Venezia manteneva anche Brescia e Crema): una severa lezione che dava avvio, per Venezia, all’epoca del mantenimento con tutte le armi possibili.

Mentre Bergamo ne usciva stremata, dopo essere stata vessata da Francesi, Spagnoli, Svizzeri, Tedeschi e dai Veneziani stessi, che andavano imponendo pesanti balzelli riparatori, si concludeva una delle fasi più convulse della storia cittadina.

Tiziano, Ritratto di Gabriele Tadino detto il Martinengo (1538). Nel giugno del 1513, dopo aver sconfitto i Francesi, allora alleati dei Veneziani, il viceré di Spagna Raimondo di Cardona avanza nella pianura e assedia Bergamo. I bergamaschi riuniti in Santa Maria Maggiore, senza valide difese, decidono per la resa. Gli Spagnoli impongono una taglia di 40.000 ducati, e la notte successiva danno fuoco al palazzo del Comune. Le truppe veneziane, riunite in Crema, si muovono la notte del 4 luglio, con 600 cavalli e alcuni fanti, per venire a Bergamo segretamente: scalano le mura dei Borghi e irrompono nella casa del Commissario e del Governatore, impadronendosi di 6.000 ducati già pagati dai bergamaschi per la taglia. Alla testa dei veneziani è il giovane ufficiale, Gabriele Tadino detto il Martinengo dalla località in cui è nato intorno al 1480. Ingegnere e fine conoscitore delle fortificazioni bergamasche nonché milite sotto le insegne di Venezia, dal 1523 sarà Capitano generale delle artiglierie imperiali, con funzioni di sovrintendente  di tutte le fortificazioni di Spagna

Per porre definitivamente fine delle Guerre d’Italia, e principalmente ai conflitti tra Francia e gli Asburgo, si dovette attendere il 1559 con la pace di Cateau-Cambrésis, che dopo Milano attribuiva agli Spagnoli NapoIi, Sicilia e Sardegna, dando inizio al primato Asburgico in Europa e nella penisola Italiana (6), primato che perdurerà sino al 1713.

L’ormai stremata Venezia ribadiva la scelta, già espressa da tempo, di una politica di neutralità, rinunciando per sempre all’iniziativa politica in Italia e rifondandosi come repubblica saggia prudente, virtuosa, rispettosa dei propri come degli altrui diritti. Non poteva più quindi affidare la sua difesa a eserciti in marcia nelle campagne, ma a truppe stanziali.

Nel frattempo, dopo l’abdicazione di Carlo V (1556), l’Impero comprendente Spagna e Austria si era smembrato in due potenze (in Spagna il figlio di Carlo V, Filippo, in Austria il fratello Ferdinando), coniugate ed alleate ma ciascuna con mire politiche proprie. In particolare la Spagna doveva assicurare il collegamento tra i due nuclei che formavano in Europa i domini di Filippo II, penisola iberica e Fiandre. E poiché questa strada non poteva passare nei territori della Francia, eterna nemica, né lungo l’Oceano e la Manica, infestati dalle navi inglesi, rimaneva libero il solo passaggio attraverso Genova, Milanese, Alpi, proprio ai confini con le terre della Serenissima e con Bergamo. La Francia, che con la morte di Enrico II era precipitata in una lunghissima crisi dinastica e nelle trentennali guerre di religione, ormai non era più in grado dì contrapporsi ulteriormente alla Spagna e di frenarne le ambizioni.

Terminate le Guerre d’Italia, Venezia si trovava dunque circondata per terra in una morsa temibile, che le precludeva ogni ulteriore espansione: a ovest la Spagna insediata nel Ducato di Milano e a nord l’Impero Asburgico, mentre per mare, oltre che essere continuamente sfidata dal sostegno asburgico alla pirateria degli Uscocchi (7), che avevano le loro basi in Dalmazia, si trovava a fronteggiare l’espansionismo dell’Impero Ottomano nei Balcani (da cui la grande fortezza di confine di Palmanova (8)) e nel Mediterraneo orientale, dove, malgrado la leggendaria vittoria di Lepanto nel 1571, perderà Cipro.

Inoltre, Turchi e Spagnoli erano i campioni di due sistemi in cui religione e potere politico si legittimavano a vicenda: due sistemi monolitici, accentratori e intolleranti, all’interno e all’esterno. Il Re Cattolico, in particolare, avrebbe potuto trovare nel ruolo così rapidamente e volentieri assunto di paladino della religione, mille pretesti per una politica di invadenza e, perché no, di aggressione. Ben decisa a non lasciar penetrare l’Inquisizione nei propri domini, per rimanere “terra di libertà’, l’unica terra di libertà in Europa accanto all’Olanda, Venezia doveva, come l’Olanda, essere pronta a difendere i propri confini palmo a palmo, senza esitazioni e senza badare a sacrifici: il vero utilizzo delle Mura sarà proprio nella loro capacità di dissuadere gli Spagnoli o chi per essi da ogni velleità aggressiva.

Battaglia di Lepanto in un dipinto di Paolo Veronese. Nel 1669, dopo la sanguinosa, ventennale guerra, i turchi presero la città di Candia e Venezia conquistò il completo controllo di Creta. Nel 1571, a Lepanto, una flotta cristiana, comandata da Don Giovanni d’Austria e composta da navi veneziane, spagnole, genovesi, sabaude, della Chiesa, dei Cavalieri di Malta, sconfisse la flotta turca dove l’apporto di Venezia fu decisivo. Ma in quello stesso anno, dopo il lungo assedio di Famagosta, Venezia perse Cipro. Nel periodo 1683-1687, sotto il comando di Francesco Morosini, i Veneziani riuscirono ancora a conquistare la Morea (l’odierno Peloponneso, poi perduto nel 1718). Intanto il patriziato, da ceto mercantile andava trasformandosi in aristocrazia terriera, con l’acquisizione di ingenti latifondi nella “Terraferma Veneta”

Avviatasi la decadenza militare e marittima, la Serenissima non poteva che rinunciare alla politica espansionistica e cercare di mantenere i territori acquisiti attrezzandosi anche in ordine alla difesa. E fu qui che lo Stato di Terraferma assunse un peso decisivo, diventando oggetto di un piano unitario di fortificazione che coinvolse i punti nevralgici per il commercio marittimo e terrestre e all’interno del quale la Bergamasca costituiva l’avamposto più occidentale, incuneato fra territori nemici.

La rete difensiva progetta e costruita dalla Serenissima tra il XV e il XVII secolo,  coinvolgeva i punti nevralgici del commercio marittimo e terrestre, snodandosi per oltre 1.000 km, tra lo Stato di Terra (Lombardo-Veneto) e lo Stato di Mare (Croazia-Montenegro). All’interno di tale sistema, in cui ogni singola città-capoluogo giocava un ruolo strategico: mentre, ad esempio, la grande fortezza di confine di Palmanova doveva tenere a bada l’espansionismo dell’Impero Ottomano nei Balcani, la fortificazione di Bergamo costituiva la punta più avanzata ad Occidente dei domini di Terraferma, al confine con il Ducato di Milano. Tutti i centri sono stati iscritti nel Sito culturale seriale transnazionale creato nel 2016: “Le opere di difesa veneziane tra XV e XVII secolo” (in pratica fortezze), che ha visto Bergamo, con le sue Mura, capofila di un percorso per il riconoscimento e l’inserimento nella Lista del Patrimonio dell’Umanità UNESCO

IL RUOLO STRATEGICO DI BERGAMO E L’IDEA DI FORTIFICARLA

Se da una parte, la continua avanzata dei Turchi minacciava seriamente gli interessi marittimi e commerciali veneziani nel Levante, dall’altra, la scoperta di nuove rotte navali verso le Americhe e verso le Indie con la circumnavigazione dell’Africa, aveva spostato il baricentro economico dal bacino del Mediterraneo all’Oceano Atlantico ad esclusivo vantaggio della corona spagnola, decretando per Venezia il declino dei commerci marittimi per la fine del monopolio esercitato fino a quel momento sul commercio del pepe e delle spezie (9) ed imponendo, di conseguenza, una sempre maggiore attenzione ai commerci che avvenivano verso il centro d’Europa.

Alla perdita di competitività commerciale si accompagnerà sempre più la scarsa propensione degli uomini d’affari veneziani a viaggiare (accaparrando le merci attraverso i mercanti, anche bergamaschi) e a dirottare i propri capitali verso investimenti fondiari nell’entroterra.

Dopo la pace di Chateau Cambrésis, l’opportunità di aumentare le difese del territorio di Bergamo, unico varco nell’accerchiamento territoriale messo in atto dagli Spagnoli, doveva quindi costituire un deterrente a scala territoriale e nel contempo fungere da presidio di un territorio strategicamente importante anche dal punto di vista economico, perché il suo territorio consentiva, attraverso i passi delle Api Orobie, uno sbocco commerciale nel cuore stesso dell’Europa e la possibilità di mantenere sul mercato prezzi ancora altamente competitivi, aggirando inoltre ad oriente i territori soggetti ai fortissimi dazi commerciali imposti dagli Spagnoli, di stanza nel Ducato di Milano.

Il territorio di Bergamo è collegato alla Valtellina, terra dei Grigioni, e ai passi che portano in Svizzera e in Germania, attraverso due itinerari: il primo, passando da Lecco, risale il lago nel dominio spagnolo di Milano ed è percorribile solo se lo permettono le condizioni politiche, l’altro raggiunge i passi delle Alpi Orobie attraverso le disagevoli mulattiere della Via Mercatorum: un tortuoso percorso che da Albino o da Nembro, in Valle Seriana, portava a Selvino e da qui a Serina e a Dossena, per poi scendere a Cornello dei Tasso in Val Brembana. Tra il 1592 e il 93 sul fondovalle brembano viene costruita la Strada Priula (dal nome del podestà Alvise Priuli), che supera lo strapiombo del Brembo alla Botta di Sedrina, modificando gli antichi tracciati. Progettata per fini principalmente militari, e cioè per realizzare un collegamento sicuro e veloce con i Grigioni delle Tre Leghe, alleati della Serenissima, la strada diviene un’importante via commerciale, permettendo di fatto ai mercanti bergamaschi di intensificare i commerci con la Valtellina e, per quella via, con l’Europa Centrale (in particolare con Svizzera, bassa Germania e Fiandre), evitando gli ingenti dazi imposti dagli Spagnoli nei loro territori. Si tratta di una mulattiera lunga 35 miglia, in parte scavata nella roccia viva, che, uscendo dalla Porta di S. Lorenzo (per questo detta la “porta della salvezza della Serenissima”) percorre tutta la Valle Brembana fino al passo S. Marco; la sua larghezza è tale da consentire il transito dei carri (10)

Ma la scelta riguardante il miglior modo di organizzare l’assetto difensivo bergamasco giunse dopo un lungo e complesso dibattito, dove i pareri di rettori, capi di guerra, tecnici e rappresentati politici furono spesso portatori di opinioni divergenti sul da farsi.

Z. Da Lezze, carta itineraria lungo la Valle Brembana con segnate la vecchia strada ed il progetto della nuova (Via Priula) verso la Valtellina, 1596

Incaricato dal Senato Veneto (1559) di individuare un luogo adatto alla fortificazione lungo il confine occidentale della Repubblica, il Governatore Generale delle milizie di terraferma, conte Sforza Pallavicino, individuata come idonea la porzione di Bergamo posta sui colli, sia per la facilità di fortificazione secondo le nuove regole dell’arte della guerra e sia per la posizione strategica, propose ed ottenne (1561) di costruire una fortezza in pietra bastionata continua, limitata per estensione alla sola città sul colle senza comprendere i borghi, la parte più viva e produttiva delle città, ed incontrando con ciò lo sfavore degli stessi bergamaschi e di alcuni esperti consultati a suo tempo da Venezia. Lo Sforza escluse anche l’ipotesi di abbracciare la malconcia Cappella con il recinto delle mura, ponendosi in forte contrasto con altri esperti di ingegneria militare del tempo, come l’Orologi, che ne prese decisamente le distanze nella sua circostanziata relazione dell’8 novembre 1561.

Dopo la pace di Chateau Cambrésis Bergamo  rappresentava la punta più avanzata ad Occidente dei domini veneziani di terraferma, al confine con il Ducato di Milano, governato dalla Spagna. Al contempo, dato l’indebolimento della potenza commerciale veneziana nel Mar Mediterraneo, rivestiva un ruolo strategico di primissimo piano per gli scambi commerciali con il centro Europa, trovandosi in comunicazione con tre grandi vie commerciali indispensabili alla vitalità economica della Serenissima: Svizzera, bassa Germania e Fiandre, verso i grandi porti fiamminghi di Ostenda, Brugge, Gent, Anversa e con le provincie olandesi del nord, che nel secolo successivo sarebbero divenuti l’attracco dei mercantili delle Compagnie Olandesi delle Indie Orientali e Occidentali di rientro dall’America, dall’Africa e dall’Asia, carichi di ogni bene (spezie, tessuti, colori, minerali, preziosi, frutta e verdura esotiche (11). Da qui la necessità di porre in condizioni d’avanguardia il delicato sistema territoriale fortificando la parte alta della città con un impianto aggiornato, progettato ex novo secondo le più moderne tecniche militari, considerate ormai inadeguate alla difesa le vecchie mura medioevali

Per contro, nel territorio si individuarono delle località ubicate in posizioni strategiche, da utilizzare per la difesa, sia sul confine meridionale ed occidentale, minacciati dalla presenza spagnola, e sia lungo quello settentrionale, unico sbocco verso i Grigioni (serbatoi di truppe mercenarie donde all’occorrenza potevano giungere soccorsi in caso di assalti degli Spagnoli) e l’Europa centrale (nuovo sbocco commerciale per Venezia): sul confine meridionale, segnato dal Fosso Bergamasco, vennero individuate le località di Brembate, Cividate, Cologno, Spirano, Martinengo e Romano, le due ultime considerate il granaio della bergamasca; sul versante occidentale, lungo il corso del fiume Adda, Calolzio, Cisano e Villa d’Adda; all’estremo nord nella Valle Brembana, arteria delicatissima che collegava alla Valtellina e ai Grigioni Svizzeri, Almenno, Zogno (monte Ubione), Piazza (attuale Piazza Brembana) (12) e, naturalmente, il Passo di S. Marco, porta aperta verso i Grigioni.

Dopo una serie di tentennamenti e cambi di direzione, la costruzione delle nuove ed imponenti Mura urbane, a partire dal 1561, sancì per Bergamo la funzione strategica che il potere centrale aveva assegnato alla città orobica, in linea con gli orientamenti del dominio veneziano nel costituire un sistema difensivo imperniato sulle città-capoluogo, posto al centro di una seconda ”cerchia” di difesa fatta di luoghi fortificati, muniti di uomini e di risorse, distribuiti sia in città che nel territorio annesso (13).

Oltre ai fini già ricordati, v’erano propositi altrettanto importanti che inducevano Venezia a voler fortificare Bergamo alta, che a causa del cattivo stato delle mura medioevali era sottoposta a continui saccheggi e si trovava in perenne stato di insicurezza.

Vi era poi l’esigenza di esercitare un rigido controllo sociale ed economico su una città la cui crescente ricchezza era legata anche, e non marginalmente, a consolidati traffici (spesso illegali) con lo Stato di Milano, favoriti dal cattivo stato delle vecchie mura (14).

Nonostante infatti le restrizioni imposte dal governo veneziano, il rapporto tra Bergamo e Milano, che si era consolidato in quasi un secolo di dominio visconteo, si manteneva vitale: Bergamo continuava a mantenere un forte senso di identità, e a considerare se stessa come “centro”, mal adattandosi alla condizione di subalternità a Venezia.

Queste manifestazioni di autonomia, radicate in un’economia mercantile vitale e in espansione qual era quella di Bergamo, non potevano non preoccupare Venezia e certamente ebbero un certo peso nella decisione di trasformare Bergamo in città-fortezza, nonostante autorevoli pareri contrari (15).

Note

(1) Nel 1409 la Repubblica di Venezia aveva ottenuto da parte di re Ladislao d’Ungheria tutti i diritti sulla Dalmazia; nel 1410 conquistava gran parte dell’odierna regione italiana del Veneto e dieci anni più tardi assoggettava il Friuli, arrivando a comprendere il territorio di quella che era stata la X regione augustea della penisola italica (Venetia et Histria). Nel corso del secolo raggiungerà la sua massima espansione.

(2) Alberto Fumagalli, Bergamo. Origini e vicende storiche del centro antico. 1981, Rusconi Libri S.p.A., Immagini, Milano.

(3) Lelio Pagani, Bergamo. Lineamenti e dinamiche della città. Edizioni Sestante, 2000, Bergamo.

(4) I nobili, chiamati gentiluomini e col tempo cavalieri, nel caso siano iscritti all’estimo e risiedano in città, sono chiamati anche cittadini, status comprovato da una apposita patente (Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso. In: “Bergamo verso l’Unesco – Terra di San Marco. Da frontiera di pietra a ‘paesaggi vivi’ di pace”. Grafica & Arte, 2016).

(5) Crisi dovuta al primo crollo della signoria medicea (1494), alla breve esperienza del governo di Savonarola (1494-1498) e alla ribellione di Pisa, alla quale il governo fiorentino non riusciva a porre rimedio.

(6) La Francia rinunciò alle proprie pretese sui domini Italiani degli Asburgo di Spagna (Napoli, Sicilia, Sardegna, Milano) e sui feudi Imperiali in Italia, dipendenti formalmente dagli Asburgo d’Austria. Questo quadro muterà in parte con le guerre di successione del Settecento, quando l’Austria prenderà il possesso di Milano e insedierà rami cadetti della sua casata negli altri feudi dell’Italia imperiale (mentre il mezzogiorno andrà ad un ramo cadetto dei Borbone di Spagna). Si passerà così, nel quadro della dominazione asburgica, da un primato Spagnolo ad uno Austriaco, cui l’Italia porrà fine solo durante il Risorgimento.

(7) Gli Uscocchi erano una popolazione costituita esclusivamente da cristiani cattolici, originalmente e prevalentemente dei Balcani riversatisi sulle coste del Mare Adriatico per sfuggire all’avanzata dei Turchi. Inizialmente famosi per le loro operazioni di feroce guerriglia contro i turchi, risolsero poi di dedicarsi alla pirateria: dal loro quartier generale a Segna, presso Quarnaro, organizzarono veloci spedizioni di saccheggio sia contro le rotte turche che contro la Repubblica di Venezia.

(8) Nel 1449 i Turchi erano già penetrati fino al fiume Livenza, nel Dogado (nucleo centrale e nativo della Repubblica di S. Marco), inducendo più tardi Venezia a presidiare convenientemente il confine orientale, impiantando sull’Isonzo una grande fortezza di confine a Palma (Palmanova).

(9) Le navi portoghesi trasportavano dalla lontana Insulindia (isole asiatiche sud-orientali, della Sonda, Molucche e Filippine) grosse partite di spezie attraverso gli oceani, che poi la Spagna instradava (insieme a grandi quantità di oro e argento americano) nell’ampio e ricchissimo mercato centro europeo attraverso il porto di Anversa (divenuta nel Cinquecento crocevia dei traffici verso l’Europa centro-settentrionale) e i grandi corsi fluviali navigabili. Dal canto loro, i mercanti veneziani venivano riforniti di spezie attraverso le piste carovaniere che facevano capo agli empori levantini (Alessandria d’Egitto, Damiata, S. Giovanni d’Acri, Tiro, Beirut), da dove, attraverso un percorso via mare di cui Famagosta rappresentava la prima tappa, raggiungevano il porto e i magazzini di Venezia. A questo punto si trattava di introdurre le preziose spezie nel cuore dell’Europa eludendo i pesanti balzelli imperiali imposti lungo tutta la barriera alpina, dalla Carinzia al Tirolo, di dominio Asburgico, e dal Ticino alla valle dell’Adda, di dominio  Spagnolo. Questo unico canale era rappresentato dal territorio bergamasco (Alberto Fumagalli, Bergamo. Origini e vicende storiche del centro antico, Cit.).

(10) Fondazione Bergamo nella Storia, Il Cinquecento – Bergamo e l’età veneta. Sestante Edizioni, Bergamo, 2012.

(11) Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso, Cit.

(12) Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso, Cit.

(13) Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso, Cit.

(14) Fra gli innumerevoli documenti che riferiscono al contrabbando attraverso la frontiera milanese, la relazione (1532) del podestà C. Priuli, attribuisce al cattivo stato di manutenzione delle vecchie mura medioevali, il favorire di un grosso contrabbando di lana spagnola proveniente da Vercelli e introdotta a Bergamo attraverso l’area milanese e Treviglio (Walter Barbero, “Bergamo”. Electa Editrice, Milano, 1985).

(15) Nella relazione del 7 luglio 1570 il Capitano uscente di Bergamo P. Pizzamano insiste sulla maggiore utilità di munire con forti la pianura nei pressi del confine (Walter Barbero, “Bergamo”, Cit.).

Alcuni riferimenti

Nicolò dal Grande, Agnadello o “la rotta della Ghiaradadda”.

Renato Ferlinghetti, Gian Maria Labaa, Monica Resmini, Le Mura da antica fortezza a icona urbana. Bolis Edizioni, 2016.

Fondazione Bergamo nella Storia, Il Cinquecento – Bergamo e l’età veneta. Sestante Edizioni, Bergamo, 2012.

Centro Studi Valle Imagna: Antonio Martinelli, Bergamo. Itinerari nella storia della città e del suo territorio dalle origini al ventesimo secolo. Grafica Monti, Bergamo, 2014.

Tosca Rossi, Società, religiosità e potere: spazi pubblici e privati sacrificati per la ragion di stato, riscattabili con il progetto di un museo diffuso. In: “Bergamo verso l’Unesco – Terra di San Marco. Da frontiera di pietra a ‘paesaggi vivi’ di pace”. Grafica & Arte, 2016

Alberto Fumagalli, Bergamo. Origini e vicende storiche del centro antico. 1981, Rusconi Libri S.p.A., Immagini, Milano.

Andreina Franco Loiri Locatelli, “La città sotto assedio!”. Bergamo Scomparsa (BergamoSera).

Mariana Frigeni, Il condottiero. Vita, battaglie e avventure di Bartolomeo Colleoni. Longanesi, 1985.

Bergamo Romana (excursus storico)

La Città Alta, sul sito della Bergamo antica, formato da numerose emergenze separate da avvallamenti e da depressioni più o meno ravvicinate

DAL CENTRO PROTOURBANO GOLASECCHIANO ALLA CITTA’ ROMANA

Nel I millennio a.C., periodo corrispondente all’età del Ferro, l’Italia settentrionale è un vero e proprio mosaico di culture, e specialmente nella seconda metà del millennio, sul finire della I età del Ferro, il territorio di Bergamo, pur trovandosi in posizione marginale rispetto alle maggiori culture protostoriche, rivela una più precisa fisionomia culturale, suddiviso com’è tra la cultura dei Celti golasecchiani a ovest e la cultura cosiddetta “retica” a nord.

Il quadro etnico dell’Italia settentrionale nel V sec. a.C. Il periodo che corrisponde alla prima età del Ferro in Italia settentrionale (I millennio a.C.) vede il fiorire di differenti entità etniche, espressive di culture regionali, che nonostante la contiguità geografica sono contraddistinte da un diversissimo livello di civiltà e organizzazione socio-politica: i Veneti nell’attuale Veneto, i Liguri nel settore marittimo occidentale, popolazioni di stirpe celto-ligure nell’attuale Piemonte e Lombardia occidentale, mentre popolazioni di stirpe retica abitavano le vallate alpine fino all’alto lago di Como e genti etrusche avevano colonizzato la Pianura Padana sud-orientale

In questo periodo, nel territorio bergamasco infatti troviamo popolazioni diverse: mentre l’area valliva e alpina delle Orobie fino alla conquista romana delle vallate risulta partecipe della cultura centro-alpina cosiddetta “retica”, la fascia collinare e di pianura, più aperta agli influssi padani, rivela l’appartenenza a quel complesso di manifestazioni culturali riconducibile alla cosiddetta “cultura di Golasecca” (che trova in Como il centro di maggior rilievo), cui appartiene anche il vasto abitato protourbano sorto verso il VI-V sec. a.C. sul complesso collinare di Bergamo Alta, sul quale si insedierà la città romana e su cui insisterà la città medioevale e moderna, racchiusa nel perimetro delle cinquecentesche mura veneziane.

Le cinte murarie di Bergamo (da Angelini, 1974)

Bergamo rivela quindi uno sviluppo pressoché ininterrotto sin dalla fase protostorica, quando comincia ad affermarsi come centro economico e sociale di un vasto territorio, che ha conservato nel tempo precise connotazioni storiche e culturali: i reperti rinvenuti in Bergamo Alta, consentono infatti di ipotizzare, già per il VI secolo a.C., la presenza di un insediamento abbastanza consistente, ubicato sul luogo dove nei secoli seguenti si sarebbe consolidata la città: se ne sono scoperti i resti (muri in pietra locale legati in argilla, livelli d’uso, pavimentazioni lastricate, seguiti da strati di crollo e abbandono) in quasi tutti gli scavi aperti dal 1980 in città, al di sotto dei livelli romani che sigillano, bonificando con apporto di argilla sterile, le fasi più antiche.

Cartina di Bergamo alta con ubicazione degli scavi che hanno evidenziato i resti dell’abitato protourbano di Bergamo, sviluppatosi tra il VI e il V secolo a.C., sul finire della I età del Ferro (fase finale della Cultura di Golasecca), occupando un’area di oltre 24 ettari, densamente abitata: 1- Piazza Mascheroni- Giardinetto; 2- Via Vagine 10; 3- Via Vagine 2; 4- Via Salvecchio 12; 5- Via S. Salvatore/Via Arena; 6- Biblioteca Civica; 7- Vicolo Aquila Nera; 8- Piazza Vecchia; 9- Passaggio Cà Longa; 10- Cappella Colleoni; 11- Piazza Rosate; 12- Area a Sud del campanile di S. Maria maggiore; 13- Piazza Reginaldo Giuliani; 14- Via S. Lorenzo- Convento di S. Francesco; 15- Piazza Mercato Fieno; 16- Via Solata 8; 17- Via Rocca alta; 18- Via Rocca 11; 19- Via Donizetti 22; 20- Via Porta Dipinta-Casa Battagion; 21- Vie Osmano-S. Andrea; 22 – Hospitium Comunis Pergami; 23- Cattedrale di S. Alessandro (situazione aggiornata al 2011, tratta da Raffaella Poggiani Keller, Il primo abitato sul colle: il centro protourbano dei Celti golasecchiani, in: Hospitium Comunis Pergami – Scavo archeologico, restauro e valorizzazione di un edificio storico della città, 2012)

 

Il parco archeologico di Parre (Valle Seriana). Come confermato dagli scavi archeologici, durante la prima età del Ferro le vallate prealpine delle Orobie sono occupate da popolazioni di cultura centro-alpina e di stirpe retica, gli Euganei. Soprattutto in Val Seriana, ricca di minerali e di una serie di dossi affacciati sui fiumi, sorgono gli insediamenti più antichi nel territorio di Bergamo (abitati d’altura a Castione della Presolana, Sovere, Casnigo e Parre), che sottolineano l’importanza strategica delle valli e, in particolare, della valle Seriana e dell’area prealpina cui essa appartiene: un’area soggetta sino al VI secolo a.C. a una ricorrente penetrazione di tribù alpine. Gli scavi presso l’insediamento di Parre, identificato come quel Parra Oromobíorum oppidum citato da Plinio (Nat.Hist. III, 17, 125), configurano proprio l’etnia di questi gruppi alpini come retica: è quindi da escludere l’ipotesi pliniana di una derivazione dei Bergomates da Parra

In questo periodo, con intensificarsi in area padana di fiorenti traffici tra gli Etruschi e la cultura di Golasecca, in tutto il territorio dell’Italia settentrionale sorgono una serie di centri protourbani, che si pongono come veri e propri poli di riferimento per un vasto ambito territoriale.

E’ ciò che avviene anche per l’abitato sviluppatosi sul colle di Bergamo, divenuto nel V secolo a.C. snodo viario e commerciale lungo il percorso pedemontano di collegamento dei traffici tra l’Etruria padana e i passi alpini.

Entro la prima metà del primo millennio a.C., nella Bergamasca si consolidarono itinerari commerciali che attraversavano l’intero territorio. Mentre alcuni percorsi volgevano verso la pianura, un percorso seguiva la via pedemontana che collegava il Comasco al Bresciano, passando ai margini dei rilievi: dalla metà del VI secolo a.C. Bergamo viene a trovarsi lungo il percorso pedemontano di collegamento dei traffici tra l’Etruria padana e l’Europa centrale e proprio per questa sua natura di luogo di passaggio, sul colle si insediano i primi abitanti riferibili alla cultura di Golasecca  (immagine da V. Gastaldi Fois, ‘La rete viaria romana nel territorio del Municipium di Bergamo’ in ‘Rendiconti
dell’Istituto Lombardo’, 105, 1971)

E’ questo il momento in cui il territorio orobico accentua il suo ruolo strategico, ma non più prevalentemente nei riguardi della valle Seriana, bensi nel controllo territoriale della pianura attraversata dai traffici, il cui reticolo viario si modella sulle direzioni di Como, Milano e Brescia.

La collocazione del centro protourbano di Bergamo Alta è di tramite tra gli ambienti contigui e complementari della montagna e della pianura: la montagna ricca di boschi e con presenza di minerali metalliferi; la pianura – rivolta all’ambito padano – più idonea alla ruralità.

Al colle di Bergamo, dove oggi è adagiata Città Alta, spettava un ruolo centrale: da sempre ha costituito un naturale baluardo aperto sulla Pianura Padana e uno sbocco delle due maggiori valli delle Prealpi bergamasche. Ponendosi come tramite tra la pianura e la montagna, l’abitato protourbano golasecchiano è quindi sorto laddove si incontravano mondi economici, fungendo da collegamento soprattutto per coloro che, attratti dai giacimenti di minerali che affioravano in superficie, raggiungevano i monti percorrendo sentieri-pista. Nel VI e più intensamente nel V secolo a.C., fu inoltre al centro degli scambi tra gli empori dell’Etruria padana e i paesi transalpini (Pianta di Bergamo e del suo territorio realizzata dopo il 1570

LA CONQUISTA GALLICA DELLA PADANIA

A partire dal IV secolo a. C. (l’invasione è convenzionalmente datata al 388 a.C.) inizia una lenta immigrazione di popolazioni galliche, che diventeranno una presenza forte e culturalmente dominante durante tutto il secolo.

Gli studi elaborati sui rinvenimenti archeologici concordano nell’evidenziare, fra il IV e il II secolo a.C., un forte spopolamento e un parziale abbandono delle aree di pianura e di collina, che fino a quel momento avevano tratto potere e ricchezza dalla loro posizione sul percorso commerciale pedemontano.

L’invasione gallica avrebbe causato il crollo dell’ organizzazione politica e insediativa che controllava il territorio, mettendo in crisi il sistema di scambi e percorsi mercantili che si erano costituiti nell’età precedente. Viene perciò ad interrompersi la corrente commerciale tra area italica e Nord delle Alpi, che aveva fatto fiorire i centri ubicati lungo la pedemontana e determinato lo sviluppo dell’abitato di Bergamo. La cultura di Golasecca decade quindi a favore della cultura gallica o di La Tène.

Diversamente da quanto si osserva per Milano e Como, nell’abitato sul colle la sostanziale assenza di dati significativi per la II età del Ferro fa registrare una contrazione territoriale: l’abitato sembra infatti decadere o comunque ridimensionarsi fortemente: sicuramente per lo spopolamento dell’area, ma in parte forse anche anche a causa della consistente asportazione della stratigrafia preromana di Città Alta, dovuta agli interventi urbanistici di monumentalizzazione della città operati dai Romani a partire dall’età tardorepubblicana.

Per i Galli, guerrieri avvezzi a muoversi con carri da guerra e cavalli, il territorio collinare non favoriva la rapidità e l’agilità degli spostamenti: costituirono quindi i loro insediamenti in pianura (villaggi rurali di cui Ghisalba, Verdello e Treviglio risultano i poli di popolamento più importanti)  e aprirono altre strade, soprattutto a ovest verso la Gallia, direttrice che successivamente anche i romani percorreranno: accrescendo l’importanza dell’utilizzazione agricola della pianura, la presenza gallica crea così le premesse politiche ed economiche, oltre che militari, della penetrazione romana.

L’AVVIO DEL PROCESSO DI ROMANIZZAZIONE

In quel periodo il territorio di Bergamo sorgeva nell’area dominata dalla popolazione gallica degli Insubri, che occupavano la parte occidentale della pianura fino al corso del Serio Morto (con i siti di Arzago d’Adda, Dalmine, Levate, Verdello, Treviglio, Calvenzano, Caravaggio, Misano di Gera d’Adda) e avevano il loro perno in Milano, mentre Brescia era centro dei Cenomani (con i siti di Bolgare, Cavernago, Ghisalba, Gorlago, Telgate).

Attraverso alterne vicende, i Romani sconfissero ad una ad una tutte le tribù galliche stanziate nell’Italia settentrionale, sino alla vittoria definitiva di Mediolanum (194 a.C.). Allo scopo di eliminare la possibilità di nuovi grandi coalizioni antiromane, adottarono un sistema di alleanze, i foedera aequa, che permettevano ai popoli sconfitti di mantenere una certa autonomia.

Iniziò così un “processo di romanizzazione indiretta”, grazie alla libera immigrazione di Romani, Latini e Italici, che portavano con sé abitudini e modi di vita. Un processo che si concluderà con la formazione della provincia della Gallia Cisalpina (nome dato dai romani al territorio che si estendeva dalla pianura del Po sino alle Alpi) e farà maturare una ben definita configurazione giuridico-politica del territorio bergamasco, accanto a territori vicini a loro volta chiaramente configurati.

Territori della Gallia Cisalpina (evidenziati in rosso) tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C.  “Gallia Cisalpina” è il nome conferito dai Romani in età repubblicana ai territori dell’Italia settentrionale compresi tra il fiume Adige a Levante, le Alpi a Ponente e a Settentrione e il Rubicone a Meridione. Il Po divideva la regione in Gallia Transpadana e Gallia Cispadana

Divenuta un distretto posto ai confini dell’impero e assunta una funzione strategico-militare, Bergamo viene rafforzata e riorganizzata come oppidum (città fortificata), in modo da tutelare una cosi vasta area di confine del territorio italico, descritto, ancora nel sec. I d.C. come extrema pars Italiae da Plinio.

Dopo i secoli di decadenza e abbandono di vaste aree, sull’antico tessuto protourbano golasecchiano, l’intervento diretto dei Romani favorisce un nuovo e definitivo fenomeno di aggregazione, che consente a questo oppidum di ricevere nell’89 a.C. il titolo di colonia latina (1) e nel 49 a.C. la cittadinanza romana, con la creazione del Municipium civium romanorum (2), sede prevalentemente politico-amministrativa, religiosa e burocratica, ascritto alla tribù Voturia (3).

Sebbene la maggior parte della popolazione viva nel contado, dove la maggior parte della produzione è destinata al commercio nella città, il centro urbano più importante risulta ovviamente Bergomum, cui vengono attribuiti ruoli di gestione e governo del territorio, confermando la funzione di città e di referente per un ampio territorio (4).

Possiamo quindi far risalire all’età cesariana la conferma e il rafforzamento del centro di gravità su Bergamo.

Nei quattro secoli di dominazione romana, architettura, urbanistica, economia, cultura, nuove concezioni e abitudini e stili di vita si fonderanno in un processo continuo di rinnovamento, di riqualificazione, di evoluzione.

I CONFINI DEL MUNICIPIUM

Il limite dell’agro bergomense correva lungo i fiumi Oglio e Adda, a Oriente e a Occidente; a Nord era costituito dall’area montana fra il Legnone e il Venerocolo, mentre risulta di più problematica definizione la linea di demarcazione meridionale: l’agro bergomense probabilmente comprendeva centri attualmente amministrati dalla Provincia di Cremona; inizialmente venne considerato parte della ‘Regio Transpadana’ (che aveva il suo limite occidentale lungo il fiume Oglio), mentre nel basso impero fu considerato parte della ‘Venetia et Istria’ ( che aveva il suo limite orientale lungo il fiume Adda).

La fissazione dell’area di pertinenza del municipium di Bergamo, sarebbe rimasta in linea di massima largamente orientativa nella successiva storia del territorio bergamasco, che in età romana per la prima volta integrava in un unico ambito politico-culturale le aree montuose, collinari e pianeggianti.

LA SUDDIVISIONE DEL MUNICIPIUM SECONDO IL CRITERIO DELLE CENTURIAZIONI

La necessità di un controllo di un territorio più ampio e l’introduzione di una politica intesa al dominio disciplinato delle popolazioni autoctone, viene attuata dalla repubblica romana mediante una serie di interventi mirati, fra i quali l’applicazione nell’agro bergomense del sistema di centuriazione (frazionamento del territorio in poderi di eguale estensione, disposti a scacchiera): operazione necessaria per ottimizzare le possibilità offerte dal suolo, per assicurare una nuova distribuzione delle terre a un sempre maggior numero di coloni nonché per fini fiscali (5): il pagamento dei tributi infatti, non consisteva in denaro, ma in prodotti freschi o disseccati della terra, soprattutto in granaglie.

Nel contempo, viene ampliata l’area coltivabile con interventi di disboscamento e bonifica di aree improduttive e paludose, realizzati argini e canali, tracciati nuovi assi viari e razionalizzati quelli esistenti, consolidati gli insediamenti preesistenti e fondati nuovi centri.

Il sistema della centuriazione trasponeva lo schema adottato per la fondazione di nuove città disponendo, in base a un reticolo ortogonale, strade, canali e appezzamenti agricoli. Il metodo era quello di inserire una maglia reticolare sopra la quale modulare la distribuzione dei campi, dei canali, delle strade e l’insediamento di abitati (che sorgevano lungo un cardo o un decumano, se non a un incrocio fra i due assi). I riferimenti per i tracciamenti venivano individuati preferenzialmente con riferimento ai grandi assi di comunicazione (ad es. la via Emilia) o seguendo le linee idrografiche del sito. Sul territorio bergamasco la centuriazione venne impostata nel quadro del contesto padano, dall’attuale Cremasco al limite delle colline. La divisione avveniva per moduli quadrati (centuriae) o, in alcuni casi, per linee (strigas et scamna) impostati su assi tendenzialmente orientati verso NO-SE (cardi) e NE-SO (decumani). La regolarità geometrica di queste maglie era la specifica caratteristica: la più usata fu quella composta da un reticolo quadrato di 20X20 actus. Secondo gli studi di P. Tozzi, in territorio bergamasco le centuriazioni vennero applicate orientando i cardini in direzione N-NO e S-SE e i decumani in senso O- SO e E-NE

L’operazione esercita notevoli effetti sul paesaggio agrario e sugli insediamenti, imprimendo al territorio un disegno regolare e un assetto funzionale che spesso è stato confermato nei secoli successivi e che tuttora è parzialmente riconoscibile in alcuni lineamenti dell’assetto della pianura (6).

Allo stesso tempo, tale strutturazione correla più strettamente il territorio piano alla città.

La costituzione del municipium e l’aggregazione allo stesso anche della popolazione delle valli congiungeranno così in unità amministrativa un territorio peraltro ben segnato anche dai contorni fisici.

Dentro le stesse valli, in particolare in quella Seriana, si fissano numerosi “vici” (piccoli insediamenti in cui si aggregava la popolazione), generalmente sul fondovalle, con modificazione evidente del modello insediativo dell’età del Ferro: si verifica così uno ‘spostamento’ piuttosto generalizzato degli abitati di altura e di collina, dall’alta quota e dalla mezza costa (preferite e più difendibili, a partire dall’età preistorica) alla fascia collinare e al fondovalle ed ai terrazzi acclivi (Alzano, Nembro..), dove il terreno a dolce declivio, facilmente coltivabile, garantisce sia una naturale difesa che un facile controllo delle vie di comunicazione tra la pianura e i valichi alpini: la presenza di siti protetti e rifugi naturali non costituisce più il principale fattore di scelta per l’impianto di un sito abitativo.

Le valli e le montagne vengono inoltre nuovamente valorizzate, per la ricchezza di giacimenti minerari e pietre da costruzione.

Mappa storica nella bergamasca: il fondovalle seriano

Ma ciò che è importante sottolineare è che tali interventi incidono positivamente sulla capacità produttiva del territorio incrementando gli scambi commerciali, quindi le ricchezze del municipium, che, raggiunto sotto Augusto uno status di benessere economico, vengono annessi al REGIO XI transpadano (7). Il tenore di vita delle popolazioni mostra di avere raggiunto il massimo livello nel corso del I e del II secolo.

Le regioni dell’Italia al tempo di Augusto

In area lombarda si favoriscono i collegamenti di pianura, privilegiando i percorsi da Milano verso Novara, Pavia, Piacenza, Cremona, Brescia, Como e Bergamo (da tempo posta sulla linea di transito degli scambi con i poli commerciali di Como, Milano e Brescia), dove vengono a crearsi i presupposti per insediamenti sempre più numerosi.

In ogni caso, il processo di romanizzazione e colonizzazione nell’area padana avviene gradualmente, a volte imponendosi e a volte sovrapponendosi alla realtà indigena.

LE STRADE ROMANE E LA VIABILITA’

Con la romanizzazione si consolidarono alcuni percorsi tradizionali e si aprirono nuove vie commerciali, che permettevano di raggiungere i nuovi abitati e i villaggi romanizzati.

La centuriazione romana determinò il costituirsi di una fitta rete di assi viari che spesso si appoggiavano alle linee costituite dal cardo e dal decumano: sentieri e viottoli acciottolati portavano dal “colle” alla campagna, mentre percorsi più importanti collegavano gli abitati di fondazione romana.

A questa armatura si sovrapponevano gli itinerari a lunga percorrenza (fra cui le vie militari), arterie lastricate in pietra che talvolta ricalcarono, e dunque consolidavano, tragitti più antichi.

Lungo le principali vie di transito era prevista la presenza di mutationes (più frequenti) e di mansiones. Le mutationes garantivano la possibilità di un punto di ristoro e fornivano ai messi o ai veicoli che viaggiavano per interessi di Stato, un cambio dei cavalli; nel territorio di Bergamo è stata ipotizzata la presenza di una mutatio a Casazza e a Pontirolo. Le mansiones, disposte a una distanza equivalente a un giornata di viaggio, offrivano la possibilità di ricovero per merci e animali, nonché di pernottamento per i viaggiatori: nel territorio di Bergamo è stata ipotizzata la presenza di una una mansio a Telgate.

Lungo le strade maggiori, a distanza regolare di un miglio, erano poste pietre miliari, che riportavano indicazioni quali la distanza percorsa/da percorrere a partire dal centro più vicino e il nome di colui che si era preso cura del restauro o della realizzazione della strada stessa.

In particolare, a partire dall’89 a.C., vennero tracciate queste importanti arterie stradali di collegamento fra i principali insediamenti romani dell’ltalia settentrionale:

  • la Bergomum-Mediolanum che attraversava il Brembo nei pressi di Marne (dove tuttora esistono i resti di un ponte a due arcate di probabile origine romana) e proseguiva per Verdello (come indica il miliario dedicato dalla Devota Venetia a Costantino), da cui dirigeva in direzione del capoluogo (e dove incrociava la via Mediolanum-Brixia);
  • la Comum-Bergomum-Brixia, che attraversava il Brembo ad Almenno sul Ponte della Regina e l’Oglio a Palazzolo, dove le pile del ponte attuale poggiano su pile più antiche di forma rotonda, o a Cividino, dove sono stati rinvenuti due miliari;
  • la Mediolanum-Brixia che attraversava l’Adda in corrispondenza del Pons Aureoli.

Le grandi strade romane nascevano all’interno di un disegno generale, teso a collegare fra loro i punti più lontani dei territori governati, con percorsi sicuri e lineari e subordinati da un’esigenza di carattere militare a discapito quindi di centri di media importanza: per questo motivo solo alcuni importanti percorsi commerciali raggiungevano direttamente Bergamo: l’importante percorso fra Mediolanum a Brixia, tratto della strada che conduceva fino ad Aquileia e poi a Emona, per esempio, trascurava la città, attraversando l’agro bergomense a Sud dell’abitato, attraversando l’Adda a Pons Aureoli (l’odierna Canonica, dove si trovava una mutatio), l’Oglio a Palazzolo o a Cividino.

Fra gli itinerari a lunga percorrenza, godettero dunque di particolari cure e attenzioni le vie militari: in alcuni casi si realizzarono imponenti strutture documentate dagli “itinerari” del IV secolo d.C. e dalla “Tavola Peutingeriana”, per assicurare agli eserciti rapidità negli spostamenti: così lungo le strade di collegamento tra Bergamo, Milano, Como e Brescia.  La strada per Milano passava l’Adda a Pons Aureoli (Canonica); quella per Como (una via pedemontana di mezza costa), superava il Brembo ad Almenno (Ponte della Regina) per dirigersi verso il ponte romano-medioevale sul torrente Tornago, conosciuto anche con il nome di “ponte del Tarchino”.

La strada per Brescia passava il Serio a Gorle e l’Oglio sotto Cividino. Non restano tracce dei ponti romani di Canonica e di Gorle, sostituiti da successivi manufatti, mentre restano tracce dei piloni dei ponti di Cividino e di Almenno del quale, ancora in funzione nel XV secolo, si conosce l’architettura originaria.

Incisione di Boromèo Gilberto (1815-1885) “Dintorni di Bergamo”: avanzi del ponte di Lemine. Il ponte della Regina (Almenno San Salvatore) venne realizzato probabilmente sotto l’imperatore Traiano, lungo l’importante via Bergomum-Comum; il manufatto, realizzato per la vi militare che portava alla Rezia, rimase in uso fino al XV secolo, fino all’alluvione del 1943. Nella ricostruzione proposta da Elia Fornoni la struttura risulta alta 25 metri e lunga 180 metri
Il ponte sul torrente Tornago. Conserva la struttura di età medioevale, su ricostruzione di un manufatto romano. Attraverso questo ponte la via Bergomum-Comum giungeva nella località attualmente denominata “agro di Almenno”, nei pressi dell’area dell’attuale chiesa di S. Tomè (sorta su un luogo di sepoltura del I sec. d.C.) (foto da Adobati, Lorenzi – a cura di -, ‘Arte romanica tra Italia, Francia e Spagna – Catalogo didattico, 2001)

Quando le sponde risultavano basse sul letto dei fiumi si lasciò che i viaggiatori e i mercanti attraversassero i corsi d’acqua a guado, soprattutto quando l’acqua, scorrendo in un fondo piuttosto largo, si divideva in rami non eccessivamente profondi: è questo il caso dei numerosi guadi del fiume Serio (anche lungo la via Mediolanum-Brixia; la situazione non cambierà in età medievale e gli stessi guadi saranno luogo di attraversamento anche per la strada Francesca, che riprende un tracciato in uso dall’età romana fra Pons Aureoli e Palazzolo).

Un importante percorso portava all’area settentrionale del Sebino e alla Valcamonica, staccandosi dalla Bergomum-Brixia in prossimità della mutatio di Tellegatae, all’altezza di Carobbio (Quadrivium) degli Angeli, dove esisteva un esteso insediamento.

All’area del Sebino settentrionale e della Valcamonica conduceva la via che attraversava la Val Cavallina, superando il vicus di Casazza, dove molto probabilmente si trovava una mutatio. All’area meridionale del Sebino conduceva invece la via che si staccava dalla Bergomum-Brixia per raggiungere Sarnico e poi Predore.

Infine la strada per Cremona passava da Ghisalba e Bolgare.

A partire dal III secolo d.C. l’area della Pianura Padana accentrò attenzioni e acquisì sempre maggiore importanza, in quanto retrovia dell’organizzazione militare stanziata oltralpe (verso la fine del secolo Milano divenne capitale); con la crisi dell’impero, tuttavia le strade vennero gradualmente abbandonate all’incuria e la mancanza di interventi capillari iniziò a compromettere la qualità e la velocità degli spostamenti, fino alla piena decadenza della rete viaria, accentuata dal crollo dell’impero romano.

La sopravvivenza di alcuni luoghi peculiari (siti, incroci, ecc.) determinatisi in epoca romana, si è successivamente materializzata a livello simbolico (ad esempio la sostituzione di un cippo con santelle, croci ed oratori).

LA CITTA’ ROMANA

Complementare all’organizzazione militare romana avvenuta con la costituzione di Bergamo a municipium (I sec. a.C.), si procede quindi alla formazione dell’impianto urbano, con la creazione di infrastrutture e strutture pubbliche in precedenza non esistenti (cinta muraria (8), sistema viario, rete idrica e fognaria, necropoli, area forense, edifici da spettacolo, monumenti pubblici, domus), con le quali si costituisce il centro politico, amministrativo, religioso e residenziale della città romana, secondo un piano architettonico ben definito che verrà perfezionato nel II-III secolo d.C. Tale fase è preceduta da diffusi e poderosi interventi di ristrutturazione urbanistica (spianamento, terrazzamento e livellamento), in vista di una progettazione razionale degli spazi.

Attraverso un excursus perdurato dal I secolo a.C. fino a tutto il IV secolo d.C., architettura, urbanistica, economia, cultura, nuove concezioni e abitudini e stili di vita, si fonderanno in un processo continuo di rinnovamento, di riqualificazione, di evoluzione (9).

ATTIVITA’ PRODUTTIVE E UN PRIMO DELINEARSI DEI BORGHI

Se tutti i dati archeologici ed epigrafici concordano nel definire la funzione urbana della città sul colle (sede prevalentemente politico-amministrativa, burocratica e religiosa), considerati anche i limiti posti dalle condizioni morfologiche e idrografiche, gli impianti produttivi e artigianali dovevano essere dislocati nella fascia suburbana (suburbium), dipendendo probabilmente dal fiume Serio, che, dotato di un regime più regolare e di un regolare raccordo morfologico con la pianura, poteva più facilmente prestarsi a eventuali opere di derivazione e canalizzazione delle acque (10).

Ed è probabilmente in questo modo che si manifestano le prime tendenze di quella zonizzazione altimetrica di funzioni che sarebbe divenuta caratteristica nei tempi successivi, con la fissazione sul piano di alcuni edifici per particolari attività e la probabile dipendenza dal Serio che si prestava per la portata, il dislivello e l’andamento del suolo a captazioni o derivazioni; dipendenza di cui però abbiamo ampie prove solo a partire dal Medioevo (11).

Il suburbio precomunale 

I borghi suburbani, documentati solo a partire dai secoli VIII e IX, sono citati agli inizi del sec. XII da Mosè del Brolo nel “Pergaminus”: si tratta del Fabricianum (Fabriciano),ubicato a N, identificabile nella zona di Valverde esterna alla porta di S. Lorenzo (e comprendente il Castello di Poliacum: attuale casa Cattaneo già Medolago); del Pompilianum (Pompiliano), ad W, comprendente l’area da Borgo Canale a Broseta ed alla Benaglia; a SW della città, del Praetorium (Pretorio), nella zona alta di via S. Alessandro e del Crotacium (Credacio) nella parte bassa di via di S. Alessandro, compresa la chiesa attuale e il territorio circostante; del Palatium, a SE, nella zona di Borgo Palazzo lungo la direttrice di Seriate-Brescia e comprendente la Curtis Regia della Murgula; infine del Plaurianum (Plorzano), a E, corrispondente a Borgo S. Caterina, sulla via che conduce alla Valle Seriana (12).

I MODELLI INSEDIATIVI DEL CONTADO

In età romana, oltre a Bergamo (il centro urbano più importante, avente ruoli di gestione e governo del territorio), un altro centro che richiamava il maggior numero di abitanti fu Fornovo S. Giovanni, importante centro commerciale ed  uno dei punti nodali per la continuità di insediamento fin dall’età del Ferro lungo l’asse di collegamento tra il Po e le Alpi (su cui si colloca anche l’altro importante centro di Cologno al Serio). Fu probabilmente uno degli avamposti nel processo di penetrazione e di conquista romana e centro di rilievo anche nell’alto medioevo, epoca in cui si registra, unica in Italia, una presenza prima alamanna poi longobarda di tutto rispetto.

La maggior parte della popolazione viveva però nel contado (ricco di terreni fertili alluvionali), solitamente aggregata in piccoli insediamenti (i vici; es. quello di Fontanella, nella pianura, e quello di Casazza in area valliva).

Il territorio venne diviso in circoscrizioni rurali (distretti), i pagi, che avevano un centro di riferimento dotato di luoghi per l’amministrazione della giustizia e per la preghiera (per es. il pagus Fortunensis, nell’Isola Brembana, il cui centro amministrativo era ubicato in Terno). Spesso questi nuclei insistevano su abitati più antichi; in età medievale, furono frequentemente questi insediamenti a divenire pievi.

Un altro modello insediativo diffuso sul territorio fu la ‘villa rustica’: struttura insediativa ubicata all’esterno delle mura cittadine, era articolata in edifici per la residenza signorile dei proprietari (pars urbana), che di solito vivevano in città, e ambienti destinati ai contadini e agli schiavi (pars rustica).
Nel territorio bergamasco sono segnalati numerosi resti di ville rustiche, spesso ubicate nei pressi di un corso d’acqua (con cui venivano alimentati gli ambienti termali normalmente connessi alla pars urbana).

La maggior parte della produzione era destinata al commercio nella città, solo una parte del raccolto era finalizzata alla sopravvivenza dei lavoranti.

DALL’ETA’ IMPERIALE ALL’ALTOMEDIOEVO

Nell’età imperiale Bergomum perde parte della sua originaria specificità strategico-militare, potenziando il ruolo di centro politico-amministrativo per un vasto territorio, nel quale coesistono forme complementari di economia forestale-pastorale, tessile, mineraria, edilizia, agricolo-zootecnica. Successivamente la città non viene coinvolta in eventi di particolare rilievo, essendo menzionata solo nelle fonti geografiche e itinerarie (13).

Nell’ambito della riorganizzazione militare e amministrativa del IV secolo attuata da Diocleziano, Bergomum viene attribuita alla X Regio, la Venetia, anziché all’XI, la Transpadana, fatto che può aver consentito il permanere, a differenza di altri centri lombardi, di una vita urbana nei secoli delle invasioni barbariche.

I mutamenti del quadro socio-economico che ne conseguono fanno registrare, tra la prima età imperiale e l’età tardoantica, profonde trasformazioni, sia con ristrutturazioni e rifacimenti di edifici pubblici o privati, sia con modifiche nella ripartizione e nella destinazione d’uso di alcune zone, con nuove soluzioni nell’organizzazione complessiva dello spazio urbano: è ciò che accade non solo nell’area a Nord della Biblioteca Civica, ma anche nell’area del foro, tra via Reginaldo Giuliani (dove tra la seconda metà del III secolo d.C. e il IV secolo d.C. si modifica radicalmente l’impianto urbano), Piazza Mercato del Pesce e nell’area posta inferiormente alla Cattedrale di Sant’Alessandro, dove nel V sec. a.C. viene fondata l’ecclesia della città, una basilica di grandi proporzioni.

Nell’area bergamasca, le prime tracce del Cristianesimo (divenuto con l’editto di Teodosio religione ufficiale dell’impero romano) interessano dapprima l’ambito urbano (III secolo, mentre solo nel IV secolo abbiamo menzione dei primi vescovi della città), mentre l’inizio della conversione nelle aree rurali può essere datato fra i secoli VI e VII, con la fondazione delle prime pievi rurali e dei primi oratori presso le aree sepolcrali.

Nelle campagne infatti, estranee ai circoli culturali e raggiunte con lentezza dalle influenze esterne (e, pertanto, fortemente conservatrici), anche in seguito all’editto di Teodosio i culti pagani, spesso ereditati dalle comunità preistoriche, resistettero ancora a lungo.

Il passaggio tra romanità e Alto Medioevo è comunque difficilmente ricostruibile per scarsità di dati, ma una continuità di vita è percepibile da isolati elementi relativi alle necropoli, che persistono sia in Porta Dipinta che in Borgo Canale (poste secondo l’uso romano immediatamente all’esterno degli abitati, spesso in prossimità delle strade di collegamento più importanti).

Nel 538, durante la guerra gotica, Bergamo venne descritta da Procopio (Bell. Goth., II, 12, 40) come centro fortificato e durante il regno longobardo continuerà ad essere punto strategico (cfr. Paul. Diac., Hist. Lang., passim), apparendo essenzialmente come centro fortificato necessario per il controllo della pianura e delle vie, specie in rapporto al territorio milanese.

Note

(1) Nell’89 a.C. fu promulgata la Lex Pompeia de Transpadanis, con cui veniva concessa alla popolazione della Transpadana, e quindi anche alla popolazione di Bergamo, lo ius Latii, il diritto latino, che prevedeva il diritto di proprietà, di matrimonio, di voto, di cambiamento di residenza: non si trattava ancora di cittadinanza optimo iure, ma garantiva la parità nei diritti civili.

(2) La nascita del municipium è attestata da notazioni epigrafiche per la presenza dei quattuorviri. Il municipium romano era diviso in distretti, a loro volta suddivisi in più piccoli insediamenti, dislocati in particolare lungo le vie romane nei punti strategici e militari. Uno dei distretti amministrativi con cui i romani divisero la bergamasca fu il pagus Lemennis, avente il centro amministrativo in Almenno S. Salvatore, presumibilmente nei pressi della Madonna del Castello.

(3) Nel 58 a.C. Cesare divenne governatore della Cisalpina e, per sua intercessione nel 49 a.C. venne concessa la cittadinanza romana a tutti i Transpadani (Lex Julia). Le colonie furono trasformate in municipia e i cittadini iscritti nelle tribù: quelli di Bergamo furono iscritti nella tribù Voturia, che assume il nome dalla gens Veturia, una delle più antiche famiglie romane. A tale tribù erano ascritti i territori di Ostia, Cere, Piacenza e Bergomum. Le epigrafi militari bergomati della Voturia tribus rinvenute in Pannonia, testimoniano che la popolazione bergamasca fu prevalentemente utilizzata per l’esercito: una scelta/necessità, che resterà poi costante nella storia bergamasca. Agli abitanti di Bergomum veniva offerta la prospettiva della carriera militare e quella dell’acquisizione di magistrature cittadine; carriere prevalentemente perseguite con l’aspettativa di un miglioramento della propria condizione economica e sociale, con la possibilità di accedere alle carriere politiche in ambito locale. […] (R. Poggiani Keller, Bergamo dalle origini all’altomedioevo, Op. cit. in bibliografia).

(4) Tozzi P. L. 1972.

(5) Si tratta delle suddivisioni agrarie ed amministrative delle due successive centuriazioni, la prima, limitata alla fascia dell’alta pianura, è riferibile all’epoca dell’ammissione (89 a.C.). Applicata in un’area di circa 300 chilometri quadrati, presenta una declinazione di 7/8° rispetto ai punti astronomici. Secondo le indicazioni di Tozzi venne orientata secondo l’asse Spirano-Stezzano. In seguito Cantarelli ipotizzò come Cardo massimo, il tracciato di riferimento per la prima centuriazione, l’antica via Bergamo-Crema – anticamente usata per la transumanza – passante per Verdello e identificata dal Tozzi come cardo XX. A distanza di pochi decenni (e comunque entro la fine del I secolo a.C., in una situazione meglio definita militarmente), per permettere la bonifica di tutto il territorio a sud della linea delle risorgive (fino a comprendere anche parte dell’attuale Cremasco), si procedette ad una seconda centuriazione, caratterizzata rispetto alla precedente da un’inclinazione degli assi più marcata (maggiore di 4 gradi, in relazione al Nord astronomico), più efficace in rapporto alle necessità di controllo e scolo delle acque di superficie.

(6) Tozzi P. L., Storia, padana antica, il territorio fra Adda e Mincio, pubbl. Fac. Lettere e Filosofia Univ. Pavia, Milano 1972, pp. 75-97. Sulla persistenza delle tracce della centuriazione nel paesaggio in generale cfr. Sereni E., Storia del paesaggio agrario italiano, Roma-Bari 1974, pp. 50-52.

(7) Durante il principato di Augusto, intorno al 7 d.C., nell’ambito delle 11 regioni con le quali venne organizzata la divisione amministrativa dell’Italia, l’ex Gallia Cisalpina venne divisa in quattro Regiones; il territorio corrispondente all’attuale Lombardia entrò a far parte dell’Impero romano con il nome di Traspadana, l’XI Regio, l’ultima a costituirsi sul suolo italico.

(8) “La sistemazione delle mura, legata allo sviluppo edilizio di Bergamo romana, deve essere avvenuta almeno nella seconda metà del I o nel II sec. d.C., superato il primo periodo di assestamento del municipio, (M. V., in Bergamo dalle origini all’altomedioevo, Op. cit. in bibliografia.

(9) M. Fortunati, L’età del Ferro. Dall’oppidum degli Orobi alla formazione della città sul colle (Op. cit. in bibliografia).

(10) Sergio Chiesa, “Il Sito – Aspetti geologici e geomorfologici del colle di Bergamo”, paragrafo “Pedologia e idrogeologia”, p. 19, in R. Poggiani Keller, Bergamo dalle origini all’altomedioevo, Op. cit. in bibliografia.

(11) Goltara 1960. Lelio Pagani, “Appunti sulla posizione e sul sito di Bergamo antica”, pagg. 20-32, in R. Poggiani Keller, Bergamo dalle origini all’altomedioevo, Op. cit. in bibliografia.

(12) L. Angelini, Il volto di Bergamo nei secoli. Ed. Bolis, 2003 e R. Poggiani Keller, Bergamo dalle origini all’altomedioevo, Op. cit. in bibliografia.

(13) Dall’esame dei materiali sia architettonici sia fittili risulta infine una predominanza di elementi riferibili ai primi secoli dell’impero. In età imperiale si manifestano, accanto ad un’arte colta (ascrivibile ai frammenti di architrave, alle due mensole a protome taurina, ai blocchi di cornice, alla base di colonna e ai capitelli corinzi (esaminati in Aa.Vv. 1986), forme di carattere artigianale spesso dettate da un gusto locale (ad es. le antefisse da piazza Mercato Fieno per le quali cfr. Aa.Vv. 1986, p. 112-113) e italico 48 (ad es., la tipologia tipicamente “italica” del bucranio presente sul fregio della Chiesa di S. Fermo, sulla base proveniente dal Monastero di S. Grata, nonché sulle due aree di S. Michele dell’Arco per i quali cfr. Aa.Vv. 1986, p. 151-152; 117-118; 139-142).

Riferimenti/bibliografia

Bergamo dalle origini all’altomedioevo – Documenti per un’archeologia urbana. A cura di Raffaella Poggiani Keller. Ediz. Panini, Modena, 1986, con particolare riferimento a Lelio Pagani, “Appunti sulla posizione e sul sito di Bergamo antica”, pagg. 20-32 e F. Cantarelli, M. Fortunati Zuccala, L. Pagani, R. Poggiani Keller, “Considerazioni per un profilo storico-archeologico di Bergamo romana”, pagg. 181-183.

Carta Archeologica della Lombardia – II La Provincia di Bergamo – I Il territorio dalle origini all’altomedioevo. A cura di Raffaella Poggiani Keller. Ed. Panini, Modena, 1992.

L’oppidum degli Orobi a Parre (Bg), a cura di Raffaella Poggiani Keller, Edizioni ET, 2006.

L’età del Ferro. Dall’oppidum degli Orobi alla formazione della città sul colle. Raffaella Poggiani Keller. Ed. Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo. Con particolare riferimento a Maria Fortunati, Bergamo romana: appunti per una rilettura dell’assetto urbano alla luce delle nuove scoperte.

Provincia di Bergamo, Piano di settore della rete ecologica provinciale , Documento preliminare di piano – Ottobre 2008. A cura dell’Università degli Studi di Bergamo – Centro Studi sul Territorio.

Bergamo nel Dipartimento del Serio (1797-1814), i cambiamenti nella città e nel territorio e l’introduzione del catasto

Con il trattato di Campoformio, dopo circa tre mesi dal suo stabilimento, la Repubblica Bergamasca (subentrata alla caduta del dominio veneziano su Bergamo) entrava a far parte della Repubblica Cisalpina (promulgata nel luglio del 1797), ponendo fine alla breve esperienza di autogoverno cittadino: Bergamo, in qualità di capoluogo del Dipartimento del Serio, veniva ora a dipendere dal potere centrale milanese assumendo un nuovo ruolo rispetto al passato: da città di confine entrava in diversa relazione con il resto della Lombardia.

La suddivisione politica dell’Italia nel 1796 prima della costituzione della Repubblica Cisalpina

 

Configurazione del Nord e del Centro Italia nel 1799. Con il trattato di Campoformio, dopo circa tre mesi dal suo stabilimento la Repubblica Bergamasca entra a far parte della Repubblica Cisalpina come Dipartimento del Serio, restandovi sino al decadere del Regno d’Italia seguito dall’avvento del Regno Lombardo-Veneto e dell’occupazione austriaca. L’istituzione del dipartimento segna la fine delle articolate autonomie di cui avevano goduto le valli orobiche durante il dominio veneziano

Intanto in Europa si stava preparando la prima coalizione contro la Francia. Mentre Napoleone di trovava in Egitto, nella primavera del 1799 scendevano in Lombardia gli Austro-Russi, comandati da Suvarow.

Ricevuta di pagamento daziario, durante il periodo dell’occupazione austro russa a Bergamo

Il Direttorio bergamasco della Cisalpina si scioglieva e i suoi membri emigravano. I cosacchi entravano in Bergamo da Porta Broseta il 24 aprile spargendo terrore nella città. L’evento è ricordato in due dipinti di Marco Gozzi, collocati in una cappella del Santuario di Borgo Santa Caterina.

Ex-voto di Marco Gozzi (1759-1839) rappresentante un evento miracoloso: il passaggio di truppe francesi ed alemanne in Borgo Santa Caterina, avvenuto senza arrecare danni. Nel dipinto, la Madonna Addolorata venerata nel Santuario proteggere dall’alto i suoi devoti. Il borgo è osservato dal ponte della Morla e in prospettiva è visibile la colonna posta al centro della via

 

Gli Austro Russi in Borgo S. Caterina. Ex voto (1799). Bergamo. Santuario di Borgo S. Caterina. Il dipinto rappresenta l’ingresso nel borgo di S. Caterina, in data 14 aprile 1799, di un distaccamento austro-russo che insegue truppe francesi

Ma questo stato di cose durò breve tempo: nel novembre Bonaparte ritornava dall’Egitto a Parigi, veniva eletto primo console; nella primavera del 1800 piombava nuovamente in Italia; sconfiggeva nel giugno gli austriaci a Marengo e il territorio orobico entrava a far parte della seconda Cisalpina  (1800-1802). Con la Consulta di Lione del 1802 si emanava una nuova costituzione e nasceva così sotto la Vice-Presidenza di Francesco Melzi d’Eril la Repubblica italiana (1802-1805), che alla proclamazione del maggio 1805 di Napoleone Imperatore dei Francesi, doveva divenire Regno d’Italia (1805-1814) sotto il comando del Vice-Re Beauharnais.

Dipartimenti napoleonici italiani. Il Dipartimento del Serio vede definiti i propri confini nel 1801 con l’acquisizione della Valle Camonica, che farà parte della provincia bergamasca fino all’Unità; altra importante rettifica rispetto al periodo veneto era stata nel 1798 l’annessione, a sud, della Gera d’Adda e della Calciana

Se con la prima Cisalpina si era affermata una classe dirigente composta da uomini già politicamente attivi nei mesi della repubblica democratica (con Marco Alessandri e Girolamo Adelasio nel Direttorio), con la proclamazione della Repubblica italiana e quindi del Regno d’Italia venne realizzato un apparato statale fortemente centralizzato, che determinò la fine della autonoma organizzazione della municipalità di Bergamo, tanto che nel 1805 l’albero della libertà scomparve dalle piazze cittadine per decreto sovrano.

Il regime chiedeva ora la collaborazione di notabili più moderati e conservatori, scelti fra i proprietari terrieri, la borghesia ricca dei commerci e delle professioni, gli intellettuali, i gradi alti dell’esercito, a cui concedeva cariche di prestigio, onorificenze e titoli nobiliari, col proposito di allargare le basi del consenso e di ridurre la resistenza al nuovo assetto statuale.

Lettera spedita a Brescia a Bergamo nel 1798, nel periodo della Repubblica Cisalpina

In contrasto con l’atteggiamento personale del vescovo Dolfin, che appoggiava la politica francese, il clero continuava ad opporsi esplicitamente al governo, esercitando una forte influenza su una popolazione saldamente ancorata ai principi religiosi.

Vincenzo Bonomini (1757- 1839), “Il soldato tamburino”, chiesa di S. Grata inter vites, Borgo Canale (Bg). Vestito di verde, bianco e rosso, i colori della bandiera italiana, nata allora in Lombardia come vessillo della Repubblica Cisalpina, e che poi sarà adottata dal nuovo Stato unitario

 

Vincenzo Bonomini (1757- 1839), “Il soldato tamburino” (particolare), chiesa di S. Grata inter vites, Borgo Canale (Bg). Alle spalle del soldato, le truppe napoleoniche

Tale opposizione si era avviata nel periodo “giacobino” (1797), con le soppressioni di conventi e monasteri e relativo incameramento dei beni (nel 1810-1811 si giunse alla soppressione di tutti gli istituti religiosi), la chiusura del seminario, le requisizioni di argenti, le proibizioni di processioni e di altre manifestazioni esteriori di culto, che avevano cominciato ad offendere il sentimento religioso di gran parte del popolo; ma proseguì anche negli anni successivi, quando Napoleone cercò la riconciliazione con la Chiesa quale mezzo indispensabile per la stabilità politico-sociale, nonostante in nome della difesa della laicità dello stato e della razionalizzazione della vita religiosa e della cura pastorale, Napoleone avesse anche decretato la riduzione del numero delle parrocchie, che a Bergamo scesero da 15 a 7.

A tali provocazioni, il clero locale rispose con la scarsa disponibilità a collaborare e con la diffidenza, ma anche con l’opposizione oltranzista di carattere politico operante attraverso l’attività clandestina delle congregazioni di San Luigi o Mariane.

Scorcio del Mercato delle Scarpe e dell’imbocco di via Porta Dipinta verso il 1870, in una litografia di G. Elena (Racc. Vimercati Sozzi, Bibl. Civica)

In quell’epoca contrassegnata, con Bonaparte,  da rivolgimenti sociali, politico-amministrativi e militari, nell’arco di pochi anni non solo mutarono le strutture politiche e si ridefinirono le classi dirigenti, ma si crearono anche istituzioni di gestione dell’economia e del “soddisfacimento del bisogno sociale” che ebbero un valore epocale, e non ultima la nascita del Codice di Commercio e delle Camere di Commercio.  La prima sede della Camera di Commercio a Bergamo, è la “sala maggiore del Palazzo Civico” (attuale sede della Biblioteca A. Mai), dove già aveva esercitato la Camera dei Mercanti.

Con la legge del 26 agosto del 1802, Francesco Melzi d’Eril, vice presidente della neonata Repubblica Italiana, stabilisce che in tutto il territorio ogni Tribunale mercantile debba denominarsi Camera Primaria di Commercio attuando con ciò una rottura con le precedenti istituzioni dell’ancien regime: lo Stato diventa garante del progresso economico e mediatore tra gli interessi economici che esprimono le diverse forme imprenditoriali, dell’artigianato o dell’agricoltura. Anche a Bergamo, il 15 novembre 1802, nasce la Camera di Commercio, i cui membri (appartenenti al mondo imprenditoriale) inizialmente sono di nomina governativa, ma successivamente saranno eletti dagli stessi commercianti sulla base di una nuova forma di verifica delle ricchezze imponibili. La prima sede della Camera di Commercio è la “sala maggiore del Palazzo Civico” (attuale sede della Biblioteca A. Mai), dove già aveva esercitato la Camera dei Mercanti, ma già nel 1803 si comincia a sistemare l’ex Tribunale per offrire alla Camera una sede autonoma. Dapprima si trasferì in un locale in via Aquila Nera dove vi restò dal 1804 al 1809, momento in cui la Camera di Commercio trovò una sistemazione in Città bassa

Cambiò il corpus legislativo e amministrativo; al Comune vennero assegnati compiti nei campi dell’istruzione, dell’assistenza, del controllo anagrafico, che erano prima di quasi esclusiva competenza di organismi caritatevoli ed ecclesiastici. Vennero completamente riorganizzati gli uffici comunali, introdotta la nuova figura del Segretario generale e l’uso del protocollo nella scrittura degli atti comunali.

Venne aggiornata secondo nuovi e più moderni criteri la fiscalità, e con l’introduzione della registrazione catastale delle proprietà immobiliari, venne imposta una perequazione fiscale più razionale ed omogenea (prima di allora la tassazione era basata sulle denunce dirette dei proprietari) (1).

(1) Ispirato al modello Teresiano, il catasto napoleonico  è concepito come strumento di accertamento e perequazione fiscale. Prima di allora la tassazione era basata sulle denunce dirette dei proprietari. Con il catasto, in Provincia di Bergamo, per alcune zone già a partire dalla prima metà del Settecento con il Catasto Teresiano, viene introdotto un criterio razionale di individuazione geometrico-particellare del bene immobile e una meticolosa procedura di determinazione della rendita per il calcolo dell’imposta prediale. Si avviano così le operazioni per la prima catastazione condotta con criteri moderni sul territorio bergamasco, ovvero per tutta quella parte dell’attuale provincia che era sottoposta a Venezia, mentre per i ventiquattro comuni ex milanesi le rilevazioni erano già state fatte al tempo del catasto cosiddetto Teresiano. Nel dipartimento del Serio i lavori iniziano nel 1808 sotto la direzione dell’ingegner Giuseppe Manzini e si concludono nel 1813. In tale occasione viene composta la prima mappa di Bergamo in scala 1:2000; il documento, fonte di straordinaria importanza per la conoscenza del tessuto urbano, è conservato all’Archivio di Stato di Milano (una Pianta di Bergamo dell’ingegner Giuseppe Manzini – Acquaforte – è conservata presso la Biblioteca civica A. Mai).

Si procedette alla realizzazione di un nuovo ordinamento territoriale, strutturato secondo una più ordinata geografia dipartimentale, e in linea con un’ottica tutta urbano-centrica si procedette persino ad una ricognizione urbana ed extraurbana del territorio circostante, con l’evidente finalità di procedere verso la costituzione di un regesto generale dei beni architettonici, archeologici e ambientali di maggiore risonanza popolare.

A tale scopo, il pittore bergamasco Marco Gozzi (1759-1839) ricevette l’incarico, prima dal governo francese e poi da quello austriaco, di fornire annualmente all’amministrazione quadri di paesaggi che rilevassero topograficamente alcuni spazi di vedute e paesaggi del territorio lombardo, e con lui si inaugurò il filone del paesaggio moderno lombardo.

Avviso riguardante le estrazioni del lotto, 1804

I diversi provvedimenti adottati in materia sociale, assistenziale, religiosa, culturale, scolastica, sanitaria (questi ultimi determinando la costruzione di campisanti fuori dall’abitato) e urbanistica, produssero evidenti effetti sulla struttura della città, che subito dopo il passaggio delle truppe francesi si vide cambiare volto attraverso una serie di opere pubbliche, concepite secondo un ottica di decoro cittadino.

Bergamo, Cimitero di Valtesse, soppresso nel 1920. Con l’Editto di Saint-Cloud, emanato in Francia nel 1804 per motivi d’igiene e di salute pubblica, il seppellimento doveva  avvenire non più nelle chiese, nei sagrati o negli spazi ad essi adiacenti (“Coemeterium Plebis”), ma in appositi recinti da collocarsi fuori dalle mura cittadine: nascevano così i moderni cimiteri,  che ancora chiamiamo “campisanti” a ricordo del loro antico uso

 

DUE PAROLE SULLA FIERA

Il periodo della dominazione napoleonica segna l’ampliamento delle dimensioni del commercio fieristico, preparando l’economia bergamasca ad entrare nel più vasto mercato lombardo e a trarne presto vantaggi, per confronto concorrenziale con la dinamica presenza industriale milanese.

Durante il periodo napoleonico, in tempo di fiera si commerciavano panni di lana, ferrarezza, pietre coti, tele bianche (cotone), sete; il tutto rappresentava il sostentamento della città e del suo territorio

Tra i provvedimenti per il miglior funzionamento, l’ordine e l’organizzazione generale della fiera, nel 1809 si provvede a spostare le botteghe del ferro e nel 1810 il mercato dei bovini, trasferito dal Lazzaretto alla fiera.

Insieme agli altri, anche i provvedimenti di decoro pubblico contribuiscono a fare della fiera un luogo d’incontro e di cultura di tutta la popolazione bergamasca.

D’altro canto però le guerre aggravano anzitutto il problema dell’insufficiente produzione di frumento e gli eventi europei incidono negativamente anche sullo scarso sviluppo della rete viaria (il commercio di transito che da Venezia alla Svizzera, Germania e Olanda passava per la dogana di Bergamo, era via via scemato anche a causa della mancata manutenzione della strada della Val S. Martino e della Ca’ S. Marco).

 

LA CITTA’ NEL PERIODO NAPOLEONICO

In seguito alla soppressione di tutti gli istituti religiosi, avviata nel 1797 e portata a termine nel 1810-1811 con relativo incameramento dei beni, nell’ottica della riorganizzazione dei centri di potere i conventi e i monasteri vengono convertiti in caserme, uffici doganali, carceri, case di lavoro, ospedali, ospizi (mentre il previsto nuovo manicomio presso il Convento di Astino non verrà realizzato).

All’architetto viennese Leopoldo Pollack è affidata la risistemazione ad uso di carcere dell’enorme complesso edilizio dell’ex convento di S. Agata, anche se il progetto verrà realizzato solo per piccoli lotti a causa di difficoltà burocratiche e finanziarie.

Bergamo, ex-convento di Sant’Agata, fronte del cortile interno. Il complesso conventuale eretto dai Teatini nella prima metà del Seicento, è stato adibito a carcere dal 1797 al 1977

 

Pianta dell’edificio delle carceri di S. Agata, architetto Pollack (Archivio di Stato di Bergamo, Tribunali Giudiziari, bb 1775 c 1776)

 

Sezioni dell’edificio delle carceri di S. Agata, architetto Pollack (Archivio di Stato di Bergamo, Tribunali Giudiziari, bb 1775 c 1776)

Il principio della concentrazione delle opere di beneficenza nella Congregazione di carità (1807) comporta l’unificazione nella Casa del Conventino dell’Istituto delle orfane.

L’Orfanatrofio femminile presso la Casa del Conventino, nel 1906

Il cosiddetto bando della mendicità (era fatto divieto ai mendicanti di questuare per le strade) determina l’istituzione dell’Ospedale della Maddalena per incurabili ed inabili al lavoro.

Il portone della chiesa della Maddalena, in via S. Alessandro

Il convento dei francescani di S. Maria delle Grazie viene trasformato nel 1811 in Albergo per i poveri (casa di ricovero delle Grazie), fuori delle Muraine.

Il chiostro del convento dei francescani di S. Maria delle Grazie

 

Affacciato sullo slargo di Porta Nuova, l'”Albergo dei poveri” (ex convento francescano di S. Maria delle Grazie), istituito nel 1811

La legislazione scolastica, che prevede tra l’altro l’apertura di scuole pubbliche presso ogni sede parrocchiale (1801), porta con la riforma del nuovo liceo dipartimentale all’acquisto dell’ex convento di Rosate (1803) e alla fondazione dell’Istituto musicale (1805).

Il colle di Rosate, culminante in corrispondenza del Liceo Sarpi (Ph Walter Barbero, da “Bergamo”)

 

Parte della Città col convento di S. Grata, gli archi della cinta medioevale, il convento a destra di S. Maria di Rosate e il Palazzo a sinistra dei Sozzi (sec. XVI) ora Seminario (Raccolta Conte Piccinelli)

Sull’onda rivoluzionaria che diffondeva certo aggiornamento ad una modernità con opere utilmente pubbliche, entro il primo decennio dell’Ottocento si eressero una serie di edifici, che rientravano in quel processo di espansione delle infrastrutture e dei servizi che è proprio della politica urbanistica napoleonica.

Si completava così il maggior teatro della città in piano, il teatro Riccardi, ricostruito da Bortolo Riccardi dopo un terribile incendio e riaperto al pubblico nel 1799.

Il Teatro Riccardi sul Sentierone, in seguito riadattato e intitolato a Gaetano Donizetti

Nel 1797, mentre cadeva la repubblica di Venezia era in corso di costruzione del grande Palazzo Grumelli-Pedrocca (lungo l’attuale via S. Salvatore) su progetto di L. Pollack: un estremo aggiornamento stilistico in una Bergamo alta che aveva ormai perso la funzione di centro cittadino e dove – ironia della sorte – i  nobili che in gran parte la occupavano si riconoscevano nelle colte intuizioni linguistiche dell’architetto viennese.

Palazzo Grumelli Pedrocca (1797), in via S. Salvatore, progettato dal Pollack (Ph Walter Barbero, da “Bergamo”)

 

L’ingresso di Palazzo Grumelli Pedrocca (1797), in via S. Salvatore, progettato dal Pollack (Ph Walter Barbero, da “Bergamo”)

Ed è proprio alla presenza dell’aristocrazia che si deve il più importante intervento architettonico realizzato in Bergamo alta nei quindici anni della presenza napoleonica, quando, nel 1803, una società di nobili appositamente formatasi, commissiona al Pollack il progetto di un teatro (teatro della Società o dei Nobili, oggi noto come Teatro Sociale) che sostituisca la poco dignitosa sistemazione provvisoria (dal 1797) di un teatro nel Palazzo della Ragione e faccia concorrenza all’unico vero teatro della città (esistente dal 1770 davanti alla fiera).

Sezione del Teatro Sociale, disegnata dall’architetto viennese Leopold Pollack

 

Il Teatro Sociale, realizzato tra il 1806 e il 1809 su disegno dell’architetto Pollack, prende corpo all’interno di una delle più complesse operazioni edilizie sperimentate nel cuore della città antica. Pur non rinunciando a un disegno rigorosamente neoclassico, la Pollack usa accortamente i materiali per armonizzare il grande edificio al contesto medievale, cosciente della funzione di recupero della storia

L’area prescelta, alle spalle dell’ex Palazzo del Podestà e affacciata sulla via principale (attuale via B. Colleoni), è significativa della volontà di rilanciare la “centralità” (se non altro mondana) di Bergamo alta; e in effetti, con la restaurazione austriaca sul Lombardo-Veneto Bergamo alta verrà ad essere interessata da una serie di interventi che la riproporranno, se non come unico polo della centralità urbana, come uno dei luoghi di più alto interesse della vita cittadina, il primo dei quali, nel 1818, sarà la sistemazione a sede dell’“Ateneo di Scienze, Lettere e Arti”, laddove il portico, costruito nel 1759 sul fontanone visconteo (a est di S. Maria Maggiore), sembra voler indicare nelle sedi istituzionali della cultura uno degli strumenti per la rivitalizzazione della città alta: una tendenza che persisterà nel successivo periodo austriaco (2).

(2) A questi interventi seguirà infatti l’’apertura del Conservatorio musicale, la sistemazione a biblioteca del Palazzo della Ragione, la costruzione della grande sede del liceo-ginnasio sul sito dell’appositamente demolito convento di S. Maria di Rosate,  oltre che la nuova sede del Seminario vescovile e gli  interventi volti a restituire il circuito delle mura veneziane all’uso civile.

Particolare del portico, costruito nel 1759 sul fontanone visconteo, ad est di S. Maria Maggiore, laddove nel 1818 avverrà la sistemazione a sede dell’“Ateneo di Scienze, Lettere e Arti”, istituito con decreto napoleonico il 25 dicembre 1810 allo scopo di fondere in un unico organismo l’Accademia degli Eccitati e quella degli Arvali, secondo la tendenza illuminista volta a riformare e unificare gli istituti culturali.  Ma sarà solo nel 1818 che l’Imperial Regia Delegazione Provinciale disporrà di dare come sede definitiva il pubblico locale del Civico Museo, sopra il Fontanone in Piazza Duomo

 

Si collocano nel quadro delle avanguardie culturali europee eminenti figure di bergamaschi come Lorenzo Mascheroni, letterato e scienziato. Patrimonio di pochi singolari personaggi sono i fermenti di studiosi solitari o riuniti in associazioni, opere di scienziati, atti munifici dettati da un nuovo e più aperto concetto di cultura, estesa all’intera comunità (nell’immagine, l’inaugurazione del monumento a Lorenzo Mascheroni, il 5 settembre 1897, nel Boschetto di Santa Marta)

Ai margini della città antica, nello storico borgo San Tomaso, l’Accademia, voluta dal conte Giacomo Carrara, assume più nobile forma su disegno di Simone Elia, concludendosi nel 1810.

L’Accademia, fondata nel 1780 dal conte Giacomo Carrara, comprende una scuola di disegno secondo il gusto del tempo orientata al recupero della misurra classica, ed una galleria di 1500 dipinti aperta al pubblico con “chiara e antiveggente liberalità”

 

La chiesetta di S. Tomaso, demolita nel 1868 per la sistemazione della nuova piazza dell’Accademia

Da leggere invece nell’ottica nella celebrazione del potere sono i progetti che si susseguono per la trasformazione dell’Obelisco di Prato, che viene dedicato a Napoleone…

L’obelisco dedicato a Napoleone Bonaparte. L’obelisco era stato eretto in realtà in onore del podestà e vice capitano della Repubblica Veneta  Gianfranco Correr per essersi tanto prodigato durante la grave carestia del 1775. A seguito dell’invasione francese del 1797, venne dedicato a Napoleone, ma nel 1801, con l’occupazione austro-russa della città, l’intestazione venne rimossa. Con il ritorno delle truppe francesi in Bergamo, si riportò il nome di Napoleone sull’obelisco, dal quale peraltro venne cancellato intorno al 1815. Ma le peripezie dell’intitolazione non finiscono qui

…nonché i diversi monumenti di architettura effimera che nel periodo vengono eretti in città e l’abbellimento di porta Osio, all’incrocio tra via Moroni e via Palma il Vecchio, che ora rappresenta la nuova direttrice principale verso Milano.

Costantino Rosa, La diligenza per Milano a Porta Osio, 1850

 

Porta Osio, la porta aperta nelle muraine sulla direttrice per Milano. Di questa porta oggi resta una costruzione che si pensa possa essere stato il casello del dazio

Si fa progettare dall’architetto G. Quarenghi un disegno per costruire fuori Porta Osio un arco di trionfo da erigere per l’arrivo imminente a Bergamo di Napoleone Bonaparte. Il progetto non fu mai realizzato.

Progetto di G. Quarenghi per un arco trionfale da erigersi a Porta Osio (Bergamo) in onore di Napoleone Bonaparte (B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, ed. Bolis, Bergamo, 1989)

Si provvede all’edificazione della strada di Circonvallazione fuori delle Muraine.

 

Via Pitentino, oggi Frizzoni, nel 1916. La cosiddetta Strada di Circonvallazione lambiva esternamente gran parte del tracciato delle Muraine – a sua volta costeggiato dalla Roggia Serio – che racchiudevano i Borghi della Città Bassa e si raccordavano alle Mura veneziane di Città Alta nei pressi di Porta Sant’Agostino da una parte e di Porta San Giacomo dall’altra

Con la caduta di Venezia e la conquista napoleonica, perduto il ruolo di città di frontiera Bergamo vede ulteriormente indebolito il ruolo strategico-militare della cinta murata cinquecentesca; venute meno tutte le preoccupazioni di carattere difensivo, la poderosa macchina bellica abbandona la funzione di struttura militare e a poco a poco prende a trasformarsi in un privilegiato luogo di passeggio, affacciato sulla città e la pianura.

Nelle vedute settecentesche come quella di Fossati, riprese dal Fortino presso la chiesa di S. Maria del Giglio, cogliamo la perdita ormai imminente della funzione militare delle Mura: benché ancora dotate di un forte risalto protettivo, le vedute ci restituiscono un’atmosfera serena, con figure che passeggiano e cavalieri.

Bergamo Alta vista da Porta S. Giacomo – Giorgio Fossati (1704 – 1785). Con la fine della dominazione veneta e l’ingresso dei Francesi in città, la vita civile prende il sopravvento sui vincoli militari, la città comincia progressivamente a riappropriarsi dei suoi spazi e a  fiorire

Sulla scia di una tendenza ormai in atto, nel 1781 il podestà Alvise Contarini propone di trasformare in passeggiata le Mura da S. Giacomo a S. Agostino, tratto che doveva essere molto frequentato se nel 1795 si doveva già provvedere al restauro dei “divisati deliziosi passeggi e giardini pubblici”, e all’abbassamento del tratto di vecchie mura pericolanti fuori Porta S. Giacomo, lungo la strada che porta a Borgo S. Leonardo (3).

(3) Monica Resmini, Le Mura, cit. in bibliografia.

F.B. Werner, Veduta prospettica di Bergamo, Ausburg, 1740 (Archivio Storico A. Mai, Bergamo)

Scompaiono i cannoni, vengono tolte le garitte e demoliti i terrapieni. I ponti lignei di accesso alle porte delle Mura vengono sostituiti da ponti in muratura, e le porte definitivamente aperte.

Porta S. Giacomo – Ex voto – Anonimo, 1727. Il dipinto, con lo stemma dei Tasso e la carrozza della contessa M. Tasso, mostra ancora le garitte sullo spalto e la struttura in legno con il ponte levatoio, che nel 1780 verrà sostituito con archi in pietra dal Podestà veneto Alvise Contarini  (Bergamo, proprietà S. Angelini)

 

Scorcio su Porta S. Giacomo con la rampa di raccordo in muratura, in una xilografia settecentesca

Le idee illuministiche di decoro urbano, legate a uno sfruttamento più razionale degli spazi, portano con sé nuovi canoni estetici che impongono l’ampio utilizzo del viale alberato.

Porta S. Giacomo e il viale alberato fino a S. Agostino, in una ripresa datata 1903

Lungo la cinta bastionata, il primo ad essere piantumato, a ippocastani e platani, è il tratto tra Porta S. Agostino e Porta S. Giacomo; resi più accessibili e “alla moda”, i baluardi cominciano ad animarsi di cittadini a passeggio.

Dopo la piantumazione di questo primo tratto, viene sistemata a verde l’area nei pressi della Porta di S. Alessandro. Il modello del viale alberato sperimentato sulle Mura verrà adottato anche nei nuovi rettifili realizzati in città.

Pietro Ronzoni, Complesso di Sant’Agostino: veduta meridionale dal Baluardo di San Michele, 1837 (Milano, Quadreria dell’800). Nell’agosto del 1837 viene aperto al pubblico passagio la barriera delle Grazie di Porta Nuova dove erano stati costruiti i Propilei; poi nel settembre dell’anno successivo, a Bergamo, avviene la storica visita dell’imperatore Ferdinando I d’Austria. Il grande evento favorisce la costruzione della strada che unisce i Propilei di Porta Nuova alla Porta Sant’Agostino, denominata Ferdinandea, appunto, in onore dell’Imperatore. Il tracciato del viale (oggi intitolato a Vittorio Emanuele II) è costeggiato dagli alberi e nella parte finale incontra l’antica porta Sant’Agostino

Acquisiti da parte dell’amministrazione comunale i terreni degli spalti, si provvederà a piantumare il tratto da Porta S. Giacomo a Porta S. Alessandro.

Verranno effettuati degli imponenti interventi neoclassici, in linea con la tendenza che per tutto il Settecento vedrà l’apertura, nella città sul colle, di cantieri privati per la trasformazione o l’edificazione di palazzi signorili.

Palazzo Medolago Albani, costruito dal 1873 al 1891 dall’Arch. Simone Cantoni. Caratteristico il lampione a gas (ripresa del 1910 circa)

Con il tempo, anche il colle di S. Vigilio, posto al culmine della città, si ricoprirà di una folta cortina alberata e di una serie di ville di delizia, sorte per godere dell’invidiabile posizione panoramica.

Nelle aree poste ai piedi delle Mura, orti e vigneti si riappropriano dei pendii collinari, assediandoli con le loro volute e tappezzandoli di calde policrome: svanito il timore che eventuali nemici possano mimetizzarsi nella macchia e avvicinarsi senza essere visti, la severa e fredda cinta di pietra si trasforma in un bucolico giardino pensile.

In dipinto ottocentesco, di cui non si conosce l’autore, è ambientato sullo spalto del convento di S. Agostino, dove alcuni uomini sono intenti nel gioco delle bocce (Bergamo, proprietà S. Angelini)

La Pianta della città e del territorio di Bergamo, realizzata da Stefano Scolari nel 1680, mostra la doppia cortina presente nella città: le mura venete, che circondano l’abitato sul colle, e la barriera daziaria delle Muraine, che dalle Mura scende a contenere i borghi come abbracciandoli.

Planimetria prospettica di Bergamo Alta e dei Borghi – Incisione veneta stamp. da Stefano Scolari, Venezia, metà secolo XVII (uff. Tecnico Comune di Bergamo)

Quasi due secoli dopo, le mappe ad opera dell’ingegner Manzini, realizzate a cinquant’anni di distanza l’una dall’altra (1816 e 1863), rifletteranno i mutamenti avvenuti per le infrastrutture e l’estensione dell’edificato nella parte centrale dell’Ottocento, mutamenti che hanno seguito i vincoli imposti dalle cinte murarie ma hanno anche sottolineato la necessità e la possibilità di un loro superamento.

Pianta della Città di Bergamo e dei Borghi esterni redatta nel 1816 dall’ingegnere e architetto Giuseppe Manzini

L’EVOLUZIONE DEI CONFINI DELLA CITTA’ IN UN ARTICOLO

Nonostante la vicenda territoriale del Comune di Bergamo suggerisca l’immagine di un nucleo che si allarga o si ritrae senza spostare il suo centro né il suo asse, soprattutto negli ultimi due secoli la storia dei confini del Comune di Bergamo è abbastanza tormentata.
“Il tramonto del XIV secolo coglieva Bergamo nel pieno della signoria viscontea, dopo aver sostanzialmente esaurito un’esperienza municipale durata oltre due secoli.
Negli statuti cittadini – che ancora si emanavano nonostante le mutate condizioni politiche – le comunità di Colognola, Daste, Dalcio, Palazzo, Grumello e Calvi erano invece riportate come Comuni autonomi.
Anche la descrizione confinaria del 1392 escludeva la maggior parte di queste entità – dai limiti non sempre ben precisati – mentre comprendeva i territori di Torre Boldone e di Rosciano, ora frazione di Ponteranica. Colognola e le altre comunità citate, insieme con Lallio e Curnasco, sarebbero comunque state presto annesse al territorio di Bergamo, che sotto il dominio veneziano non subì cambiamenti di rilievo.

Le «grandi manovre» iniziarono nel 1797 quando Valtesse, Redona, Torre Boldone, Colognola, Grumello del Piano, Curnasco e Lallio si costituirono in Comuni autonomi.
Il decreto del 1805, che favoriva – ma sarebbe meglio dire imponeva – l’accorpamento dei piccoli municipi, avrebbe ispirato però una decisa inversione di tendenza.
Fu infatti il periodo napoleonico a segnare, per pochi anni soltanto, la nascita di una «grande Bergamo» che aveva accorpato ben 28 comuni della cintura (compresi Ponteranica, Seriate e Stezzano) e vedeva la circoscrizione cittadina confinare direttamente con Nembro, Zanica e Zogno.
Si era creato un maxi distretto amministrativo- dove il Comune coincideva con il cantone bergamasco – che era anche il simbolo del ruolo preminente affidato al capoluogo.

I provvedimenti legislativi seguiti alla Restaurazione si preoccuparono di restituire a tutti i Comuni della cintura la loro autonomia.
Intorno al Comune cittadino, ora confinato territorialmente al centro città, si costituiva in municipio il Circondario dei Corpi Santi, corrispondente ai Comuni censuari di Valle d’Astino, Boccaleone e Castagneta.
La nuova entità amministrativa – che riesumava una partizione territoriale del periodo veneziano – ebbe però vita brevissima perché nel 1818 fu di nuovo incorporata alla città.

L’inizio del ’900 vide il riproporsi dei tentativi di aggregazione dei Comuni finitimi. Nel 1918 il Municipio di Bergamo deliberò la richiesta di annettere a sé i territori di Valtesse, Redona, Colognola, Grumello del Piano e in parte di Ponteranica, incontrando l’ovvia opposizione dei Comuni interessati.

Non se ne parlò più fino al 1927, quando la commissione reale incaricata della riorganizzazione municipale diede parere favorevole a tutte le richieste d’annessione, eccezion fatta per quella del Comune di Seriate.

Nemmeno il dopoguerra vi operò modifiche importanti, eccezion fatta per una permuta del 1954 con Orio al Serio, necessaria alla ricostruzione del cimitero distrutto per far posto al campo di aviazione, e per una rettifica di confine con Ponteranica nel 1969.

L’ultima variazione in ordine di tempo risale al 1983, con l’annessione della borgata di Nuova Curnasco e di alcune aree appartenenti a Treviolo. Da quel momento Bergamo raggiunse l’attuale estensione di 3960 ettari” (4).

(4) Prove tecniche di “Grande Bergamo” – Paolo Oscar. L’Eco di Bergamo, 8 ottobre 2000.

Riferimenti

Da: Fondazione Bergamo nella Storia (riferimento essenziale)

Walter Barbero, Bergamo, Electa, 1985.

A cura di Paolo Cesaretti, Le Mura. Da Antica Fortezza a Icona Urbana. Testi di Monica Resmini, Renato Ferlinghetti e Gianmaria Labaa. Bolis, 2016.

La breve esperienza della Repubblica Bergamasca (marzo-luglio 1797)

L’avvento di una Repubblica di ispirazione giacobina ha una preparazione negli anni che la precedono; la posizione strategica del territorio bergamasco, crocevia tra l’Alta Italia, la Svizzera e l’Austria, favoriva il passaggio di “stampe massoniche eterodosse ed antiautoritarie” che, attraverso le valli, si insinuavano nello Stato Veneto. Agitazioni tra il popolo cominciavano a registrarsi a Nese e alla Ranica fin dal 1793; l’anno successivo, c’è una ribellione a Sarnico contro l’operato delle guardie daziarie.

Vincenzo Bonomini (1757- 1839) – Pantalone e due nobili veneziani discutono la situazione politica (da una stampa satirica)

La penetrazione delle nuove massime rivoluzionarie provenienti dalla Francia si accompagnava a rilevanti problemi in campo economico e fiscale.

Vincenzo Bonomini – Allegoria della Pace

Ma saranno soprattutto gli sviluppi della guerra che i Francesi stanno conducendo contro gli Austriaci a coinvolgere Venezia, accusata di appoggiare indirettamente l’Austria permettendo il passaggio delle truppe austriache nel suo territorio.

Bergamo, la città più lontana e più esposta della Repubblica Veneta, era il punto in cui l’esercito francese poteva inserirsi sulla strada per Venezia.

La suddivisione politica dell’Italia nel 1796 prima della costituzione della Repubblica Cisalpina

Napoleone stava concludendo la sua prima campagna d’Italia (1796-1797) che terminerà con la proclamazione della Repubblica Cispadana (Bologna, Ferrara, Modena, Reggio E.) del 29 giugno 1797.

Gli eventi vennero annotati dal campanaro del Campanone, Michele Bigoni, morto in tarda età, nel 1871 (sei quaderni in totale, oggi custoditi nella Biblioteca Civica “Angelo Mai”) e illustrati dall’amico-pittore Vincenzo Bonomini (1757- 1839), lasciandoci una preziosa testimonianza degli avvenimenti convulsi che accompagnano e seguono la proclamazione della Repubblica Bergamasca, travolgendo gli antichi equilibri: dalla Serenissima ai “giacobini”, dagli Austro‑russi alla grandeur napoleonica, fino al lungo sonno austriaco. Vista dal Campanone, la vita della città è un andirivieni quasi impazzito di nobili e funzionari, muratori e facchini, musicisti e musicanti, canonici e vescovi, spesso in scene notturne, con le fiaccole dei servi che illuminano le arcate del Palazzo della Ragione e gli androni nobiliari, disegnando, negli ultimi periodi, ombre improvvise e inquietanti. Mentre scrive, con la sua scrittura incerta e faticosa, Bigoni non resiste alla tentazione di descrivere e di giudicare, a volte con acidità, piú spesso con bonarietà popolare, le vicende del suo tempo.

L’arrivo dei Francesi avvenne al suono di un’armonica banda militare” composta fra gli altri da Michele Bigoni , che nel 1820 fonderà la Banda Civica di Bergamo (nota come Banda Bigoni) con Francesco Donizetti, fratello del grande Gaetano (Vincenzo Bonomini – Lo spirito della Libertà repubblicana)

A Bergamo i Francesi arrivarono alla fine del ‘96; il 25 Dicembre occuparono i locali della Fiera e il Castello di S. Vigilio, punto militarmente strategico e la guarnigione veneta venne ritirata dalla Rocca, in attesa di occupare ufficialmente la città.

Marco Sebastiano Giampiccoli (1706-1782), “La piazza maggiore di Bergamo” (Bergamo, Biblioteca Civica). “Adí 12 marzo 1797 – Per aver sonate le canppane cumunale nel’ocazione che si è canbiato il Governo Veneto e meso la Republica Bergamasca. Questa fu ordinato dal conte Pietro Pesenti che in quel giorno credeva di esere generale di Bergamo. Questo giorno fu poi messo due cannoni sula Piaza Vechia dalle truppe francesi e poi si sono portati prepotentamente in Citadella alla casa dell’Ecelenza Otolini e hanno spoliato tutta la propria casa e hanno mese li propri mobilli alla asta pubIlicha nonché hanno ordinata la pronta partenza della città, come fose un malfatore. Fu poì messo alla testa moltì sìgnori che hanno meso molta gente su armi per fare la rivolisione alla città di Bresia. Questa gente fu paghata col dìnaro della città. In quel tenpo fu disffatto tutti li corpi echleziasteci e Capíttolo, fu sopresso molte chiese e reguesito messo argento delle chiese, e dopo tenpo fu reguesito anche l’altro, fu sospeso tutte le monache e i frati, la egregia chiesa di Santa Grata fu fatto ospitale mìlìtare e ì morti francesi fu sepoltì sulle mure di S. Gratta. in conpenso poi per il sono delle canppane hanno corisposto L. 30″ (Michele Bigoni, il campanaro del Campanone)

All’assedio, il Capitano e il Vicepodestà di Bergamo Alessandro Ottolini non furono in grado di opporre una risposta militare ai Francesi: vi fu un periodo di estenuante attesa tra le parti. L’Ottolini fece chiudere il Teatro della Cittadella, per impedire l’ingresso dei soldati Francesi nel suo palazzo come spettatori, e spostò la stagione teatrale invernale al teatro Riccardi. Cinque giorni dopo, un incendio distrusse completamente il teatro. “Per non restare senza teatrale spettacolo nel Carnevale si combinò di aprire nel giorno tredici di gennaio il Teatro Riccardi posto in Prato, ora Campo di Marte; ma nel giorno tredici del Teatro Riccardi non erano che nude muraglie”, annota nelle sule Memorie storiche lo Zuccala (1).

Responsabile dell’incendio, considerato doloso, fu immediatamente ritenuto l’Ottolini. Ma gli avvenimenti incalzavano.

Il 12 marzo i rivoluzionari (esponenti della nobiltà locale, intellettuali e uomini dei ceti medi) imposero ai deputati del Consiglio minore di sottoscrivere il voto per la libertà e l’annessione alla repubblica Cispadana (2); nella notte tra il 12 e il 13 in una sala di Palazzo Roncalli venne ufficialmente proclamata la Repubblica Bergamasca (3) e nominata la nuova Municipalità; la mattina seguente il podestà Ottolini, ultimo rappresentante veneto a Bergamo, venne allontanato dalla città senza spargimento di sangue. Anche il vescovo Dolfin sancì con il suo voto la legittimità del nuovo governo, divenendo poi, con il clero cittadino, agguerrito sostenitore della Repubblica.

L’Albero della Libertà in Piazza Vecchia – 13 marzo 1797 (Bergamo, Pr. dr. A. Pellegrini). E’ il giorno che segna la fine del dominio di Venezia, presente a Bergamo dal 1428. Arlecchino, simboleggiando il popolo bergamasco scaccia Venezia prendendo a calci il vecchio Pantalone, che si allontana piegato in due: “L’è pur vegnuda l’ora: va via Galioto!”

Nell’arco di poche ore, si erano consumati in modo irreversibile tre secoli e mezzo di storia che avevano legato Bergamo a Venezia: vennero cambiate leggi e strutture amministrative e fiscali, sconvolti gli ordinamenti politici, le categorie sociali, le consuetudini quotidiane e culturali.

Bergamo era la prima delle città venete di terraferma a ribellarsi a Venezia e la prima a costituirsi in repubblica autonoma.

“La Libertà di Bergamo”, stampa allegorica

Per i borghi e per le vie della città un asino trasportò le parrucche requisite ai nobili filoveneziani e alla sera vennero bruciate insieme con le bandiere veneziane.

Giuseppe Rudelli, Il Vescovo Conte Dolfin che dal Vescovado si reca in S. Maria Maggiore, attraverso la porta ora murata (Bergamo, propr. L. Angelini). “Adì 14 marzo 1797 – Per aver sonato le canppane cumunale per aver brusate le peruche dei nobili signori che son state requesite e portate per tutta la città a cavallo ad un asino che sopra questo cavalcava un regaso miserabille che sopra la testa aveva la peruca delli magiori che comandava la città e fu portate per la città e borghì per tutto fl giorno. A sera poi fu poste sul’angolo della Piazza Vechia sopra una catasta di legna e fu brusate unitamente a tutte le bandiere di S. Marco che erano bordate d’oro macicio, le qualle bandiere si esponeva le solenità magiore sopra il pogiolo del Palazzo Vechio nele prencipale solenità. Questo giorno fu di grande allegria a motivo che fu dispensat­to del vino in quantità nel prato vescoville e fu dìspensato anche del panne che era dì ragione della Misericordia di Bergamo. Fu fatta poi alla sera grande inlummazione per tutta la Città e torri cumunali con grandi sinfonie di maggiori proffesori della città. In conpenzo poi del sono delle publliche canppane, che fu ordinato dal conte Pietro Pesenti e conte Roncalli che erano presidenti in quel’epoca, L. 30” (Michele Bigoni, il campanaro del Campanone)

Vennero atterrati i simboli del passato regime: statue, iscrizioni, medaglie di Guglie, etc. Il leone alato di S. Marco fu scalpellato dalle porte e da sopra il balcone del Palazzo comunale, i simboli araldici tolti dagli antichi palazzi nobiliari. Il 16 marzo si trovarono spezzate e travolte le statue dei Rettori veneti innalzate sull’area di Prato.

Si salvò  la piramide dirimpetto a Santa Marta, cui venne posto in capo il berretto frigio.

Il 17 marzo venne innalzato in Piazza Vecchia il primo albero della libertà (4), un’aristocratico pino prelevato dai rivoltosi dal giardino dei conti Benaglio in San Matteo. Venne innalzato con il popolo in festa, al suono del Campanone e con qualche dispensa pubblica di pane, vino e denaro. Simbolo stesso della Rivoluzione, il palo fu dipinto di bianco, rosso e verde e adornato con nastri tricolori e la gente si riunì attorno ad esso per festeggiare la fine del passato.

Albero della Libertà, xilografia da I. Cantù, “Bergamo e il suo territorio”. In una Piazza Vecchia in festa, luci, musica, cibo e vino a volontà segnano l’inizio di una nuova situazione politica e sociale, in cui predominano libertà e diritti civili. “Adí 17 marzo 1797 – Per aver sonate le canppane cumunale della città per aver piantato l’albero della Libertà nela Piazza Vechia. Questo albero fu piantato nela Piazza nel messo e fu bianco e roso e verde. Fu poi quarciato di setta che in poco tenpo fu meso a binde [nastri]. Questo albero fu piantato con grande solennità e grande sinfonie nonché fu fatto un grande palco nel’arco di messo del Palaso Vechio, che esisteva sopra questo palco la Dona della Libertà e fu poi prezenti alla piantasione dell’albero il monsignore Giovani Paolo Delfino, vescovo di Bergamo, nonché tutta la nobiltà di Bergamo che in quel tenpo aveva persa la nobiltà e erano tutti cittadini. Durante la giornata, verso sera, fu piantato e dopo fu poi ballato dintorno tutti li patriotti e militare nazionali, conposti della cittadinanza di Bergamo. Alla sera poi fu fatta grande inluminazione di tutta la città e borghi nonché di tutte le tori cumunali e di chiese e piazze. Durante la sera fu fatto una grande orchestra sotto le logie del Valger al fianco ala piaza e durò questo sono tutta la sera. In conpenzo poi del sono delle canppane fu corisposto dal signor Pesenti e Roncalli, presidenti in quel tenpo, L. 60” (Michele Bigoni, il campanaro del Campanone)
Narrano le cronache del tempo che le danze furono aperte dalla caffetteria Sanà a cui subito fece seguito la cittadina ex Marchesa Terzi col macellaio Alebardi e col crescente ritmo di coreografico tripudio durò la festa fino alle ore tarde della notte alla luce delle candele e delle torce.

Vincenzo Bonomini – Allegoria di una monarchia che si accompagna alla Guerra e alla Morte

Alberi della libertà furono eretti in molte piazze dei paesi e della provincia. Ovunque vennero abbattuti stemmi, statue e simboli veneziani. I bergamaschi, attraverso la festa, esprimevano la loro gioia per un lungo e desiderato cambiamento sociale, la conseguente riforma della struttura politica, il livello di coinvolgimento che le varie classi sociali ebbero nel determinare la ribellione al regime veneziano, durato a Bergamo quasi 400 anni.

Nella stampa satirica, celebrativa della Rivoluzione bergamasca del 1797 (Bergamo, Biblioteca Civica), la maschera di Arlecchino compare in Piazza Vecchia contrapposta a quella di Pantalone, rappresentando lo scontro tra la tirannide e la libertà, tra l’Antico Regime e la rivoluzione. Arlecchino si improvvisa venditore ambulante di tutto il vecchiume veneziano. “Ordini e straordini”, ossia medaglie e insegne, cariche e decorazioni sotto l’insegna di San Marco che non avevano ormai più nessun valore. Arlecchino ne organizza la vendita davanti al vecchio Pantalone che stenta a credere a quanto avviene, tanto d’essere costretto a ricorrere agli occhiali per metterne a fuoco l’incredibile scena

L’imposizione dei nuovi emblemi risignificarono politicamente la città. In quei giorni, Vincenzo Bonomini fu sistematicamente chiamato a sovrapporre nuovi emblemi politici a quelli da lui stesso dipinti pochi anni prima

Lo stemma dell’ultimo rettore veneto Alessandro Ottolini e quello di Bergamo
Vincenzo Bonomini – L’emblema di S. Marco
Vincenzo Bonomini – Allegoria dell’età nuova

Nei mesi successivi alla proclamazione della Repubblica Bergamasca, venne attuata una vera e propria campagna di propaganda rivoluzionaria (feste civiche, pranzi patriottici, catechismi, opuscoli di pedagogia politica, stampe satiriche, queste ultime mezzo di comunicazione di immediata comprensione anche per le masse analfabete), al fine di radicare la nuova realtà e il suo portato ideologico nella popolazione, che soprattutto in provincia si era opposta violentemente all’avvenuto cambiamento di governo.

Dopo la proclamazione delle Repubblica Bergamasca infatti, aumentò l’opposizione delle popolazioni del territorio, soprattutto delle valli, dove il basso clero diffondeva le idee controrivoluzionarie dei nobili filo-veneti.

La città si sentì presto assediata dai valleriani o marcolini, soprattutto attivi nelle valli Brembana e Imagna, la Valle Santa, e nella valle San Martino. Questi non accettavano il cambiamento di governo della città, operato soprattutto da alcuni nobili e da elementi progressisti del clero come il Mascheroni, e favorito, di fatto, dall’attendismo del vescovo mons. Dolfin. Dietro premevano anche gli interessi dell’aristocrazia terriera tradizionale, da sempre favorita dal Governo Veneto nel territorio.

Così, se almeno in città la rivoluzione avvenne senza spargimento di sangue, fuori città i rivoltosi presero a fucilate i “cittadini” che cercavano invano di fermarli e ferirono Gerolamo Adelasio, uno dei protagonisti nelle vicende bergamasche nei decenni successivi.

Da tutte le valli i valleriani, con l’effigie di S. Marco nel cappello e col Crocefisso sul petto, erano scesi minacciosi fino alle porte della città e presso Longuelo, alla confluenza tra le attuali Strada Vecchia e via San Martino della Pigrizia, vi fu uno scontro a fuoco tra repubblicani-cittadini e pro-veneziani valligiani, questi ultimi ridotti alla sottomissione solo dal pesante intervento delle truppe francesi.

Via Strada Vecchia, a Longuelo (Archivio Storylab)

I morti furono una decina: tre di loro esposti per un giorno intero, dalla sera del 30 marzo stesso, in piazza della Legna, accanto all’albero della libertà, fra canti, balli e fiaccolate.

La festa per la vittoria fu ricordata in una stampa che esaltava il coraggio del popolo di Bergamo il quale, “assaltato da turba infame accorsa dalle valli….andò ad incontrarla, la vinse, la disperse”.

Stampa rappresentante un episodio della rivolta dei valligiani rimasti fedeli alla Repubblica di Venezia contro la municipalità aderente alle idee rivoluzionarie. Viene qui consacrata la vittoria cittadina contro la rivolta di Longuelo, avvenuta il 30 marzo 1797

Il fatto di Longuelo segnò l’inizio del declino della resistenza delle valli e del territorio contro la Repubblica Giacobina della città; i valdimagnini, Lovere, la Val Cavallina, soprattutto la Val Seriana, con Clusone e Gandino, cedettero progressivamente ai Francesi. Intanto venivano liberati, in aprile, i contadini fatti prigionieri a Longuelo. La dominazione veneta era finita.

La controrivoluzione, sedata dalle truppe francesi, è emblematica del dissisio esistente tra città e campagna verso la Repubblica Bergamasca, determinato dall’irreligiosità della rivoluzione, ma anche da profonde divergenze di cultura, tradizioni, interessi, sentimenti.

Chi era la nuova classe dirigente? Esponenti della borghesia, sostenuta da mercanti sempre più dediti al contrabbando e oppressi dall’aumento delle tasse imposte da Venezia su molti prodotti (lana, seta, pane, vino); una parte della nobiltà, appartenente a famiglie che avevano acquisito il titolo tra la fine del 600 ed il 700, interessata allo sviluppo degli interessi economici legati al settore della seta; infine artigiani.

I religiosi vennero costretti a donare alla Municipalità metà degli argenti presenti nelle chiese, nei monasteri e negli oratori. Vennero quasi totalmente soppressi i monasteri e i conventi (in città ricordiamo S. Marta, S. Benedetto, Matris Domini, S. Leonardo..); i beni di S. Paolo d’Argon e Astino passarono nel 1797 all’Ospedale, quelli di Pontida finirono l’anno successivo ai privati. Seguì la cancellazione delle confraternite e delle processioni e l’introduzione del divorzio, atti che contribuirono a rendere insanabile il conflitto tra le popolazioni e l’autorità politica (e che si accrebbe durante il periodo napoleonico con la coscrizione obbligatoria).

In questo momento di grande cambiamento nacquero i ‘circoli culturali’, formati da esponenti della borghesia e della nobiltà ‘illuminata’, che si ritrovavano nei caffè a discutere i valori rivoluzionari; contemporaneamente, venne pubblicato (1797) il primo giornale locale, “Il patriota bergamasco”, seguito da “Il giornale degli Uomini Liberi” e, l’anno seguente, da “Il Foglio Periodico del Dipartimento del Serio”.

Testata dei primi numeri de “Il Patriota Bergamasco” (Bergamo, Biblioteca Civica)
Frontespizio dei primi numeri del “Foglio periodico del Dipartimento del Serio” (Bergamo, Biblioteca Civica)

Attraverso i confini territoriali (Passo San Marco) ci fu una vera e propria circolazione di nuove idee (ad es. la vendita dei libri provenienti dalla Francia operata dagli editori bergamaschi massoni come l’Ambrosioni e l’Antoine), particolarmente sensibili al tema della progressiva alfabetizzazione culturale delle masse, pubblicando a tale scopo l’almanacco popolare (brevi articoli su vari argomenti), che ebbe un ruolo di primo piano nell’educazione delle classi meno agiate.

In pieno periodo repubblicano il Piano generale di pubblica istruzione (di cui era componente anche Lorenzo Mascheroni) produsse una riforma anche nella scuola, sostenendo che l’istruzione pubblica fosse la base di tutte le democrazie.

Da qui l’esigenza di istituire, con le lezioni caritatevoli, scuole elementari serali e festive per i ceti più bassi (sostenute dagli istituti religiosi e dalla Società Industriale Bergamasca per quanto riguardava la parte laica).

Questo complesso di elementi politici, sociali e culturali, impensabili solo fino a pochi anni prima, permise al musicista bergamasco Gaetano Donizetti, figlio di semplici tessitori, di essere ammesso alle lezioni di musica tenute da J. S. Mayer, maestro di cappella.

Con la Repubblica venne proclamato il libero esercizio delle arti e dei mestieri, si abolirono alcuni dazi e si stabilirono nuove imposte per la lavorazione della seta, sulla quale era basata l’intera economia locale.

Con la promulgazione nel luglio del 1797 della costituzione della prima Repubblica Cisalpina terminava l’esperienza di autogoverno cittadino (Repubblica Bergamasca) e Bergamo, in qualità di capoluogo del Dipartimento del Serio, veniva a dipendere dal potere centrale milanese. Con la Rivoluzione Bergamasca si erano poste comunque le premesse, sia sul piano ideologico sia su quello politico-istituzionale, delle successive lotte per l’indipendenza e per l’unificazione nazionale.

Pochi anni dopo, nel periodo napoleonico, le gravi congiunture politiche ed economiche, il continuo regime di guerra, il peso della tassazione e l’introduzione nel 1802 della coscrizione (leva) obbligatoria, fecero precipitare il conflitto tra le popolazioni e l’autorità politica, costringendo tanti uomini alla diserzione, alla clandestinità e al Brigantaggio: e non si può parlare di briganti senza pensare all’inafferrabile Vincenzo Pacchiana, detto Pacì Paciana.

Note

(1) G. Battista Locatelli Zuccala, Memorie storiche di Bergamo dal 1796 al 1813.

(2) Il 12 marzo 1797, settecento persone, tra nobili e non, firmarono la loro adesione per la cacciata del conte Ottolini. M. Gelfi, Tra la fine dell’età moderna e l’inizio dell’età contemporanea: la Repubblica bergamasca, in “Atti dell’Ateneo di scienze, lettere e arti di Bergamo”, 1996-1997, vol. LX.

(3) La Rivoluzione bergamasca si ispirava ai principi della Rivoluzione francese. La costituzione (approvata il 24 marzo), ossia la legge fondamentale dello Stato, scritta dai bergamaschi giacobini, si rifaceva ai valori espressi dalla Dichiarazione dei Diritti Universali (1789), con cui i francesi riconoscevano la libertà di parola e di religione e l’uguaglianza degli uomini di fronte alla legge, invitando tutti gli uomini ad una fraternità universale. Dopo aver esautorato l’ultimo rettore veneto Alessandro Ottolini, un gruppo di giacobini della città di Bergamo e proclamata la Repubblica Bergamasca il 13 marzo 1797, “istituisce un governo provvisorio, composto da una municipalità da 24 membri. I primi atti della nuova amministrazione riguardano la modifica dell’assetto amministrativo ed economico dell’ex provincia veneta, la ripartizione del territorio in 14 cantoni, l’abolizione dei privilegi giurisdizionali e fiscali, la costituzione di comitati per alcune materie (polizia, finanza, sicurezza, sanità, vettovaglie, commercio, milizie). Nei mesi successivi viene reclutata una guardia repubblicana e si estende il controllo politico al territorio orobico” (Archivio di Stato di Bergamo – DIPARTIMENTO DEL SERIO 1797-1814  Introduzione generale al fondo archivistico).

(4) Usato come simbolo di libertà durante la Rivoluzione francese, simbolo pagano adottato come segno di rinascita, di vita nuova e di felicità, l’albero della libertà era un lungo palo ricavato da un grande albero; alla sua sommità veniva posto un berretto frigio (a cono floscio) con la punta ricadente in avanti, di origine anatolica (Asia Minore) utilizzato dagli schiavi liberati dell’antica Roma (gli antichi Frigi).

Riferimenti

Fondazione Bergamo nella Storia

Bruno Brolis, Tullio Pizzigalli (coordinatori), Corso di aggiornamento anno 2000. La Repubblica bergamasca 1797.

Centro Studi Valle Imagna – Antonio Martinelli, Bergamo. Itinerari nella Storia della città e del suo territorio dalle origini al ventesimo secolo. Bergamo, Grafica Monti, aprile 2014.

Sant’Alessandro martire. Tra storia, mito e agiografia

La vicenda di Sant’Alessandro (?, III secolo d.C.), cui si fa risalire la prima evangelizzazione di Bergamo, rimane alquanto oscura e mal documentata, non perché manchino elementi biografici coevi, quanto invece perchè gli atti del suo martirio sono  posteriori di quasi cinque secoli rispetto all’epoca effettiva del martirio. Le notizie relative a Sant’Alessandro risalgono dunque all’VIII secolo.

Gli elementi biografici sono legati a scritture apografe, cioè copie di originali andati perduti in particolar modo durante la persecuzione di Diocleziano, che ordinò la distruzione degli archivi ecclesiastici.

L’appartenenza stessa di Alessandro alla leggendaria legione tebea contribuisce infatti a rendere ancor più oscura la sua storia. La legione tebea o legione tebana, infatti, è una leggendaria legione romana della letteratura agiografica cristiana (1).

La vicenda s’inquadra nell’epoca dell’imperatore Diocleziano (III sec. d.C.), durante la quale Alessandro era il vessillifero della leggendaria legione Tebea (la mitica Fulminante, composta prevalentemente da soldati cristiani, provenienti dalle terre precocemente evangelizzate della Tebaide, della Nubia, dell’Etiopia) e comandata da Massimiano (Marco Aurelio Massimiano Erculeo), Imperatore Augusto per l’occidente, dall’oscura fama di persecutore (l’esistenza di una Legio I Maximiana, anche nota come Maximiana Thebaeorum è riportata nella Notitia Dignitatum) (2).

Nell’anno 301 Massimiano condusse la Legione, normalmente stanziata ai confini meridionali dell’impero, verso le Alpi, dove tra Gallia e Italia premevano le incursioni delle tribù celtiche.
Forse perché rifiutarono di offrire sacrifici agli dei, o forse perché non vollero combattere le popolazioni cristiane che vivevano sulle Alpi, i soldati guidati dal Primicerio Maurizio (comandante in capo) lasciarono le schiere dell’imperatore e si rifugiarono ad Agaunum (l’odierna Saint Maurice-en-Valais, nel cantone Vallese, in Svizzera) (3), cercando di evitare la vendetta di Massimiano che, a capo di truppe fedeli, li raggiunse e ne ordinò lo sterminio. All’uccisione di un uomo su dieci seguiva la proposta dell’abiura; al perdurare del rifiuto seguì il massacro.

Il fatto è ricordato da uno scritto di Eucherio di Lione (sec. V); risulta peraltro che dopo l’editto di Costantino il vescovo Teodoto di Octodurum recuperò le spoglie dei martiri facendole trasportare nella cattedrale di Agaunum.
Pochi furono i superstiti: Cassio, Severino, Secondo e Licinio che ripararono in Italia, trovando scampo a Milano, con loro il Primipilo, il vessillifero Alessandro, colui che aveva in custodia l’aquila, l’insegna della legione che sventolava in battaglia guidando i movimenti dei soldati (Alessandro viene infatti raffigurato con lo stendardo bianco, crociato).

Narra la tradizione che con gli scampati al massacro il Primipilo, Alessandro, riparò in Italia, a Milano (4), dove fu riconosciuto e imprigionato nel luogo dove oggi sorge la basilica di Sant’Alessandro in Zebedia, in piazza di Sant’Alessandro) e qui si rifiutò di abiurare alla fede cristiana come ordinatogli dall’imperatore Massimiano.

Milano, chiesa di S. Alessandro in Zebedea (o Zebedia), nella prima metà dell’Ottocento

Fuggito dalla prigione grazie all’aiuto di Fedele di Como e del vescovo Materno, sulla strada verso Como, secondo la leggenda compì il miracolo di risuscitare un defunto.

Dopo essere stato riconosciuto, catturato e riportato a Milano davanti a Massimiano, costui gli impose allora di sacrificare agli dèi pagani, ma Alessandro abbatté l’ara preparata per il sacrificio agli dei romani, facendo infuriare l’imperatore che lo condannò a morte per decapitazione; la leggenda vuole che il carnefice, il soldato Marziano, non osasse colpirlo poiché Alessandro gli appariva ‘come un monte’ e, per lo spavento, gli si sarebbero irrigidite le braccia: la stessa sorte sarebbe toccata ad altri soldati chiamati ad eseguire la condanna; pertanto fu rimesso in carcere, a morire di stenti, ma riuscì nuovamente a fuggire.

Alessandro passò l’Adda “pedibus siccis”, all’asciutto (passò per Fara Gera D’Adda e Capriate) Alessandro strumento di vittoria sulla persecuzione, “miles strenuus”, atleta della fede, giunse nella località Pretorio della città di Bergamo.

I cristiani in città a quel tempo erano pochi, e per paura di Massimiano si nascondevano; il venerabile cavaliere Alessandro, rifugiatosi in una zona oltre il torrente Morla, nel Borgo chiamato Palazzo, visse in preghiera attirando proseliti e iniziando un’opera di conversione alla fede cristiana degli abitanti della città, tra cui i futuri martiri Fermo e Rustico, parenti di Crotacio.

Lì, secondo tradizione, fu catturato dai miliziani dell’imperatore Massimiano che erano stati sguinzagliati come cani inferociti sulle sue tracce. Gli sgherri dalle mani grondanti sangue, attraverso la bassa città lo trascinarono nel vico intitolato all’antico duca di bergamo: Crotacio (5) dove si ergeva una colonna con la sua statua, e intorno alla quale si diceva nascessero fiori il cui odore risanava gli infermi.

Al Vico Pretorio, ai piedi della statua di Crotacio, era stata allestita un’ara per il sacrificio o per l’esecuzione della condanna a morte (la tradizione vuole che in quell’area si trovasse il giardino di Crotacio, in cui sorgeva un tempio pagano). Alla morte di Crotacio il figlio Lupo vi aveva innalzato due colonne, con la sua statua sull’una ed un’ara per i sacrifici sull’altra.

Davanti alla statua era stata imbandita la mensa coperta di idoli; ad Alessandro fu rivolta l’ennesima richiesta di sacrificare agli dei pagani, pena la morte. Seguì l’ennesimo fermo rifiuto.

Alessandro fu quindi condannato alla decapitazione. La fine, attesa, sperata, salvifica era giunta: egli chiese dell’acqua, si lavò le mani, si inginocchiò e si raccolse in preghiera, infine ringraziò Dio e reclinò il capo offrendolo al boia. Era il 26 agosto 303 d.C.

Nei dì seguenti il martirio, la nobile Grata (6) trovato il corpo di Alessandro raccolse pietosa il capo reciso adagiandolo tra le sue vesti.

La tradizione vuole che infuriata per l’assassinio del giusto distrusse la colonna di Crotacio e insieme ogni segno di idolatria. Al suo posto fece costruire una chiesa (Sant’Alessandro in Colonna).

Con la compagna Esteria e con i suoi servi volle dare sepoltura al martire in un suo podere posto sull’alto dei colli, fuori le mura della città.

Sul luogo del martirio del Santo, Grata fece costruire la Chiesa di Sant’Alessandro in Colonna, la cui denominazione, estesa al borgo confinante con quello di San Leonardo, è fatta risalire al 1133

La strada era faticosa e impervia, il mesto corteo aggirò la salita attraversando il prato disteso ai piedi di Città Alta, dirigendosi verso est.

Fermatosi il gruppo a un crocevia per darsi il cambio , videro stillare dal capo mozzato del martire gocce di prezioso sangue che si trasformavano in fiori al contatto colla terra. Quel luogo prese il nome di Borgo Mugazzone (della Mutazione) e Grata vi costruì una chiesa (S. Alessandro della Croce).

Giunti al podere disteso tra le vigne, all’inizio di Borgo Canale, la nobile Grata dette sepoltura ai resti del Santo, laddove fu eretta la basilica a lui intitolata  (7).

Da quel momento il glorioso martire risplendette come una lucerna sopra un candelabro e coi suoi miracoli illuminò il popolo bergamasco.

Note

(1) “L’uso liturgico delle testimonianze tramandate oralmente venne ripreso da papa Adriano I (772-795). E con inequivocabile fondamento per quanto riguarda sant’Alessandro: infatti, quattro secoli prima ad Agaunum, l’attuale Saint Maurice, nel Vallese, Teodoro (o Teodulo), vescovo di Octodurum, l’attuale Martigny, morto nel 381, individuò il luogo di sepoltura dei martiri Maurizio (assunto nel giugno 1941 a protettore del Corpo degli Alpini da papa Pio XII), Esuperio, Candido e Vittore ed eresse una basilica la cui pianta è stata portata alla luce nel corso di scavi condotti dal 1990 al 1993 sotto la chiesa parrocchiale di Martigny, unitamente a resti romani del II e III secolo e paleocristiani del V secolo. Fu Eucherio, vescovo di Lione dal 432 al 450, a colmare il vuoto storiografico con la sua Passio martyrum Acaunensium, la passione dei martiri acaunensi, un’opera scritta sulla base delle informazioni fornitegli dal vescovo di Sion, Teodoro, e dal vescovo di Ginevra, Isacco. È il più antico documento sul martirio della Legione Tebea guidata da Maurizio del quale Alessandro, secondo Il grande libro dei santi (Vol. I, 1998), era il primipilarius sanctae legionis, il primo centurione (della santa legione Tebea), ovvero il capo della prima centuria e di tutti i centurioni, secondo solo a Maurizio. C’è di più. Già dal IV secolo c’è testimonianza della devozione dei bergamaschi con la costruzione di una chiesa dedicata al martire, fuori dalla cinta muraria dove esisteva una necropoli del municipium romano. Alessandro, patrono di Bergamo, è dunque senza alcun dubbio un martire cristiano della Legione Tebea”.

(2) “L’esistenza di una Legio I Maximiana, anche nota come Maximiana Thebaeorum è riportata nella Notitia Dignitatum. Denis Van Bercham, della università di Ginevra, ha messo in dubbio la veridicità della leggenda della legione Tebea (Van Bercham, Denis, The Martyrdom of the Theban Legion, Basilea, 1956). Questo studioso fece notare che la decimazione era un anacronismo e che il servizio di cristiani in una legione prima di Costantino I era abbastanza raro. Secondo David Woods, professore alla University College Cork, i racconti di Eucherio di Lione sono una completa finzione (Woods, David, The Origin of the Legend of Maurice and the Theban Legion, in Journal of Ecclesiastical History 45 (1994), pp. 385-95). Una nuova ipotesi tende quindi ad identificare il martire Alessandro di Bergamo con uno dei martiri dell’Anaunia (Val di Non). Si tratterebbe quindi di Alessandro compagno di Sisinnio e Martirio, tre chierici originari della Cappadocia inviati dal vescovo Ambrogio da Milano ad evangelizzare la regione dell’Anaunia, su richiesta del vescovo di Trento, Vigilio. I tre furono brutalmente uccisi dai pagani locali e sono per questo venerati come santi e   martiri dalla Chiesa cattolica. Questo collegamento tra il sant’Alessandro di Bergamo e quello dell’Anaunia spiegherebbe inoltre la presenza, tra i colli che costituiscono l’attuale Bergamo alta, di un colle detto di San Vigilio vescovo e di una omonima chiesa a lui dedicata”. Ma Giangaspare Basile, controbatte: “Per dovere di cronaca riportiamo anche le fantasiose teorie di alcuni storici che hanno tentato una agiografia in versione molto ideologica, o identificando il santo con uno dei tre martiri Sisinio, Martirio e, appunto, Alessandro, inviati a canonizzare l’Anaunia (oggi Val di Non) dal vescovo di Trento Vigilio; o addirittura, (come lo storico svizzero Denis Van Bercham e l’inglese David Woods, dell’University College Cork), mettendo in dubbio l’esistenza stessa del martirio della legione Tebea e soprattutto i fatti storici riferibili a sant’Alessandro, definiti “pura fantasia”.

(3) “Secondo Eucherio, vescovo di Lione (c. 434 – 450), questa legione era composta interamente da cristiani e venne spostata da Tebe alla Gallia per assistere l’imperatore Massimiano. Quando Massimiano ordinò di reprimere alcuni galli cristiani la legione si rifiutò e venne decimata (venne ucciso un legionario su dieci). Seguirono altri ordini che la legione rifiutò ancora di  eseguire, sotto l’incoraggiamento di san Maurizio che ne era il comandante; venne quindi ordinata una seconda decimazione ed infine l’intera legione venne sterminata (6600 uomini). Il luogo del massacro fu Agaunum oggi San Maurizio in Vallese, sede dell’omonima abbazia”.

(4) Secondo la sua Passio (BHL, Bibliotheca Hagiographica Latina 275-276-277), Alessandro si rifugiò a Milano.

(5) “I primi secoli del’Era Cristiana quanto alla storia nostra politica sono ancora più d’ogni altro antecedente avvolti nella incertezza, e in una invincibile oscurità. In que’ tempi alcuni nostri scrittori assegnarono alla patria un governo di duchi, de’ quali Crotacio il primo, investito dall’imperator probo, e s. Lupo l’ultimo, che fu padre della beatissima Grata curatrice del corpo di S. Alessandro. Ma sulla erroneità di siffatta opinione, e sulla incompetenza di un tal titolo ai governanti in quell’epoca convien leggere il precitato Codice del canonico Lupo capo IV. e § V.,e altrove.”

(6) “Secondo una tradizione, collegata alla passio leggendaria del vescovo Alessandro, sarebbe vissuta tra il IV e il VI sec.; un’altra tradizione invece afferma che ella visse tra l’VIII e il IX sec. e sarebbe stata figlia di un certo Lupo, duca di Bergamo, vinto e convertito alla fede cattolica da Carlo Magno. La prima G. avrebbe edificato tre chiese in onore di s. Alessandro (S. Alessandro in Colonna, S. Alessandro della Croce e l’altra sul sepolcro del santo) la seconda invece, con l’aiuto della sua potente famiglia e di altri nobili di Bergamo, avrebbe edificato una chiesa su ognuno dei tre colli della città e cioè: S. Eufemia, S. Giovanni e S. Stefano ossia del S. Salvatore (così dice una glossa di un antico codice del]a Biblioteca civica di Bergamo che contiene il Pergaminus di Mosè del Brolo). I Bollandisti del sec. XVIII accettarono la distinzione delle due sante e pubblicarono per primi (Anversa 1748) la Vita Sanctae Gratae, composta tra il 1230 e il 1240 dal b. Pinamonte Pellegrino da Brembate, domenicano, su invito di Grazia d’Azargo badessa del monastero di S. Grata”. Ma la Vita del b. Pinamonte è considerata poco attendibile.
Si legge inoltre : “Per alcuni secoli il corpo di Grata rimase sepolto fuori le mura in Borgo Canale, nella chiesa dell’ospedale a lei stessa attribuito (detta di S. Grata) sulla quale doveva sorgerne un’altra nel sec. XVIII, con il nome di S. Grata inter vites. Il 9 agosto 1027, per opera del vescovo Ambrogio II (alcuni pensano ad Ambrogio III) le spoglie vennero solennemente traslate entro le mura, nella chiesa di S. Maria Vecchia, che fu poi detta di S. Grata alle Colonnette. La traslazione è confermata da alcuni versi incisi sul sepolcro del vescovo Ambrogio: “Praesul Ambrosius meritis et nomine dignus corpus Matronae iusto sepelivit honore Digna fuit coelis Domino Matrona fidelis semper apostolico fungitur et solio”; e anche da un antico martirologio ms. del monastero di S. Grata. Inoltre si rileva che il vescovo Ambrogio (I o III?) la domenica delle Palme. dopo aver benedetto i rami d’ulivo nella cattedrale di S. Alessandro, si portava alla cattedrale di S. Vincenzo e di qui, a ricordo della traslazione di G., anche alla chiesa della santa dove distribuiva un ramo d’olivo benedetto a ciascuna monaca e terminava la funzione”.

(7) La santa, alcuni giorni dopo l’esecuzione, avrebbe trovato le spoglie di Sant’Alessandro, la cui presenza era segnalata da gigli, cresciuti in corrispondenza di alcune gocce del sangue del martire, le avrebbe raccolte e fatte seppellire in un orto della sua famiglia, fuori della città, là dove sarebbe sorta la grande basilica di Sant’Alessandro, poi abbattuta durante la costruzione delle mura venete di Bergamo.

Documenti
Passio Sancti Alexandri Ex manuscripto a Bonino Mombritio publicis juris facto – Da: AA.VV., Exite flores inclyti. Antologia Alessandrina. Testimonianze a s. Alessandro dalle “passiones” ai giorni nostri, Bergamo, 1998, p. 33-36.

Su Crotacio, la colonna e le origini della chiesa sorta successivamente :
Historia Quadripartita di Bergamo Et Suo Territorio, vol. 1, di Celestino Colleoni.

Bortolo Belotti : “Storia di Bergamo e dei Bergamaschi”.

Tradizione apostolica e coscienza cittadina a Milano nel medioevo
e più in generale :
http://www.google.com/search?tbs=bks%3A1&tbo=p&hl=it&q=crotacio

Un libro
Martiri Tebei – Storia e antropologia di un mito alpino, di Massimo Centini.